CENTRO EDITORIALE TOSCANO
Nicoletta Stradaioli è dottore di ricerca in Storia del pensiero politico europeo moderno e contemporaneo
presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Perugia. Ha trascorso vari periodi
di studio negli Stati Uniti, in particolare all’Eric Voegelin Institute della Louisiana State University e
partecipato ai convegni annuali dell’American Political Science Association-Eric Voegelin Society. È
inoltre membro della redazione della rivista “Il Pensiero Politico”. Autrice di molti saggi su Eric Voegelin
e sulla cultura politica del Novecento, ha pubblicato, tra l’altro, i volumi Il potere della povertà. Eric
Voegelin interprete di Francesco d’Assisi (Carocci, 2014), Europa e Stati Uniti: Eric Voegelin e la storia
delle idee politiche (CET, 2011).
A 23,00
ERIC VOEGELIN E ISAIAH BERLIN STORICI DELLE IDEE
UNA RIFLESSIONE SUL MONISMO
Sara Lagi insegna Storia del pensiero politico all’Università di Torino. È stata docente a contratto di
Storia dell’Unione europea presso Middlebury College (sede di Firenze) e Visiting Scholar presso la sede
americana del medesimo college. Si occupa di storia del pensiero liberal-democratico e ha pubblicato
lavori di carattere monograico su El pensamiento politico de Hans Kelsen. Los origines de De la Esencia
y valor de la democracia (Biblioteca Nueva, 2007), Adolf Fischhof e Karl Renner. La questione nazionale
austriaca (1869-1917) (CET, 2011), Georg Jellinek. Scritti di Filosoia, Politica e Diritto (Rubbettino,
2015). È membro della redazione della rivista “Il Pensiero Politico” e ha pubblicato saggi per riviste
internazionali quali “Res Publica”, “Hungarian Historical Review”, “Araucaria. Revista Iberamericana de
Filosoia, Politica y Humanidades”.
S. LAGI - N. STRADAIOLI
Quali sono le idee, le convinzioni, le visioni che hanno alimentato i sistemi totalitari del primo
dopoguerra? Con questo enorme problema si sono confrontati numerosi intellettuali del secolo passato,
fra i quali due pensatori fino ad ora mai posti in diretto raffronto l’uno con l’altro e anzi considerati
profondamente distanti tra loro, ossia Eric Voegelin e Isaiah Berlin. Indubbiamente diversi per
formazione e idealità politica, i due intraprendono però un percorso di ricerca molto simile, quello della
storia delle idee, intesa come strumento per indagare le origini ideali del totalitarismo; origini che i due
pensatori riconducono ad alcune grandi correnti di pensiero quali, ad esempio, lo scientismo illuminista
e positivista, che sono per loro rappresentative di una Weltanschauung monistica. Quest’ultima,
interpretata da entrambi come il “cuore” ideologico di ogni concezione liberticida, è la convinzione che
sia possibile trovare una spiegazione univoca e definitiva alla complessità (sociale, politica, etica) del
reale. Dalla certezza di possedere l’unica comprensione corretta della realtà scaturisce, ai loro occhi,
la certezza ben più sinistra e pericolosa di poter controllare (e manipolare) tutto e tutti. Voegelin e
Berlin si interrogano a lungo proprio su questo concetto con l’obiettivo, rispettivamente, di rivendicare
la centralità della dimensione spirituale e trascendente per “sane” istituzioni democratico-liberali e di
affermare il valore della libertà e della responsabilità individuali quali antidoti contro il conformismo
e l’omologazione sociale. Nelle loro opere, la storia delle idee diventa quindi un mezzo di indagine
attorno alle radici ideali del fenomeno totalitario e, al contempo, un mezzo di elaborazione teoricopolitica.
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Sara Lagi - Nicoletta Stradaioli
ERIC VOEGELIN E ISAIAH BERLIN
STORICI DELLE IDEE
UNA RIFLESSIONE SUL MONISMO
CENTRO EDITORIALE TOSCANO
POLITEIA
Scienza e Pensiero
74
In copertina: Eric Voegelin e Isaiah Berlin.
POLITEIA
Scienza e Pensiero
Collana fondata da Salvo Mastellone
COMITATO SCIENTIFICO
Anna Maria Lazzarino Del Grosso (Coordinatrice), Sergio Amato, Lea Campos Boralevi,
Carlo Carini, Zeffiro Ciuffoletti, Vittor Ivo Comparato, Jean-Yves Frétigné,
Paschalis Kitromilides, Cornel Zwierlein
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CENTRO EDITORIALE TOSCANO
2017
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Scienza e Pensiero
74
Sara Lagi - Nicoletta Stradaioli
ERIC VOEGELIN E ISAIAH BERLIN
STORICI DELLE IDEE
UNA RIFLESSIONE SUL MONISMO
CENTRO EDITORIALE TOSCANO
ISBN 978-88-7957-371-9
Il volume è stato sottoposto a doppia peer-review.
Sara Lagi, Università degli Studi di Torino; Nicoletta Stradaioli, Università degli
Studi di Perugia. Nella stesura del volume il lavoro è stato così ripartito: Sara Lagi
ha elaborato il saggio introduttivo (Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee:
considerazioni introduttive) e i capitoli IV, V, VI e VII; Nicoletta Stradaioli ha scritto
i capitoli I, II, III e ha curato l’apparato bibliografico del volume.
Introduzione
INDICE
Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee:
considerazioni introduttive
pag.
Cap. I.
Eric Voegelin e la storia delle idee
“
19
Cap. II.
Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
“
49
Cap. III.
Monismo e scienza politica
“
85
Cap. IV.
Isaiah Berlin e la storia delle idee
“
101
Cap. V.
Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
“
129
Cap. VI.
Monismo e libertà positiva
“
161
Cap. VII.
Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il “riccio” e la “volpe”
“
179
Bibliograia
“
197
Indice dei nomi
“
209
9
7
Introduzione
ERIC VOEGELIN E ISAIAH BERLIN STORICI DELLE IDEE
CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE1
Il primo dopoguerra in Europa si era caratterizzato per un attacco sempre più aspro nei confronti della democrazia parlamentare e liberale, criticata
da una varietà impressionante di movimenti anti-sistema che, pur nella
loro immensa diversità politico-ideologica, erano concordi nel ritenere che
proprio quella particolare forma di governo era ormai obsoleta, inefficace,
paralizzata dinanzi alla crisi morale, economica e politica di quel periodo.
Le critiche alla democrazia, ai partiti tradizionali, la denuncia del carattere
fittizio del governo democratico quale governo del popolo – brillantemente
condotta prima della grande guerra da parte degli elitisti italiani (Mosca,
Pareto, Michels) – si accompagnavano ad una altrettanto spietata analisi
delle falle e delle debolezze del liberalismo e dello Stato di diritto liberale.2
Gli attacchi di Carl Schmitt al formalismo giuridico di Hans Kelsen e allo
Stato di diritto liberale bene rappresentavano, a nostro giudizio, l’atmosfera
di quel periodo.3
Il successivo avvento del Fascismo, del Nazismo e dello Stalinismo
stava lì da ammonimento, a ricordare che una certa epoca era finita e che
ad essa ne era subentrata un’altra, quella totalitaria. Tuttavia, già durante
gli anni della guerra e ancora più dopo la sua fine, non pochi furono gli intellettuali che, da posizioni ideologiche e politiche differenti, cominciarono
a interrogarsi sul perché del totalitarismo, sulle sue radici più profonde, su
1
Il titolo del nostro lavoro è stato ripreso da un articolo che abbiamo pubblicato recentemente
per la rivista “Storia e Politica”. Alcune delle osservazioni che abbiamo sviluppato in questa
Introduzione si ispirano, sebbene in una forma molto più ampliata e articolata, al primo paragrafo di quello stesso articolo: N. STRADAIOLI – S. LAGI, Eric Voegelin e Isaiah Berlin
storici delle idee: una riflessione sul monismo, “Storia e Politica”, 8 (2016), pp. 608-648.
2
S. MASTELLONE, Storia delle democrazia in Europa dal XVIII al XX secolo, Torino, UTET
Libreria, 2004, pp. 264 ss; ID., Storia del pensiero politico europeo. Dal XIX al XX secolo,
Torino, UTET Libreria, 1993, pp. 209 ss.
3
Si veda a proposito G. BONVECCHIO, Decisionismo: la dottrina politica di Carl Schmitt,
Milano, UNICOPLI, 1984; e il fondamentale D. DYZENHAUS, Legality and Legitimacy:
Carl Schmitt, Hans Kelsen and Hermann Heller in Weimar, Oxford, Clarendon Press, 1997.
9
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
quali fossero stati i fattori, le cause e le condizioni storiche, politiche, ideali
che avevano contribuito alla sua nascita e al suo trionfo.4 Gli esempi sono
numerosi: da Jacques Maritain che in Christianisme et Démocratie (1943)5
vedeva nelle ideologie totalitarie l’espressione di un Occidente che aveva
smarrito la sua identità cristiana ed evangelica ad Hannah Arendt con il suo
celebre ed emblematico The Origins of Totalitarianism (1951);6 dal sacerdote
cattolico Romano Guardini che nel suo Welt und Person (1939)7 rifletteva
in chiave anti-nazista sul significato di persona e poneva il problema dei
limiti al potere (dello Stato) che, a suo giudizio, era stato del tutto rimosso
dalla modernità, fino a Leo Strauss che nell’opera Natural Right and History (1953)8 si soffermava sulla deriva relativistica e storicistica che aveva
condotto al nichilismo e, appunto, ai regimi totalitari.
Nel variegato gruppo di intellettuali, impegnati in vario modo a riflettere sul totalitarismo, un ruolo significativo fu sicuramente rivestito da
Eric Voegelin (1901-1985) e Isaiah Berlin (1909-1997). La ricerca che qui
proponiamo, centrata sulla giustapposizione e comparazione tra il pensiero
dei due autori, potrebbe sollevare alcune (lecite) perplessità e quindi ci
sembra opportuno esplicitare le ragioni che ci hanno condotte ad accostare
due nomi e due figure non solo fino ad ora mai posti in diretto raffronto,
ma soprattutto molto diversi l’uno dall’altro: diversi per formazione, per
idealità politica, per interessi, perfino per stile di scrittura e argomentazione.9
4
S. FORTI, Totalitarismo, Roma-Bari, Laterza, 2001; H. FRENSKE, Il pensiero politico
contemporaneo, tr. it. Bologna, Il Mulino, 2001; R. MOLINELLI, Sui totalitarismo del
Ventesimo secolo, Padova, Marsilio, 2005; E. Traverso, Totalitarismo. Storia di un dibattito,
Verona, Ombre Corte, 2015.
5
J. MARITAIN, Christianisme et Démocratie, Paris, Hartmann, 1943.
6
H. ARENDT, The Origins of Totalitarianism, 2nd enlarged ed., Cleveland, New York, The
World publishing company, 1958.
7
R. GUARDINI, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre von Menschen, Würzburg,
Wekbund, 1939. Per una ricostruzione sistematica del pensiero politico di Guardini cfr. C.
MORGANTI, Comunità e stato. Europa e occidente. La politica secondo Guardini, Firenze,
CET, 2016.
8
L. STRAUSS, Natural Right and History, Chicago and London, University of Chicago
Press, 1953.
9
Per i profili biografici e intellettuali dei due pensatori rimandiamo, rispettivamente, alla
prima e alla seconda parte del nostro libro.
10
Introduzione
Si potrebbero sollevare altrettanti dubbi sulla scelta di tipo comparatistico
che abbiamo intrapreso. Non si rischia forse di cadere in quelle sorti di
‘trappole’ intellettuali che, ignorando il ‘peso’ dei contesti storici e delle
specificità storico-intellettuali, inducono a porre in comparazione pensatori
altresì profondamente differenti e distanti, in nome di una qualche (magari
non molto ben precisata) forma di affinità ideale? Inoltre, ogni tentativo di
comparazione comporta e implica la capacità di individuare punti di contatto
tra due autori, tra due pensieri, tra più opere, ma quali punti ed elementi
di contatto potrebbero condividere l’autore di Two Concepts of Liberty10
con lo scienziato politico tedesco naturalizzato americano? Su quali basi
avvicinare le opere di due intellettuali che non hanno mai fatto alcun riferimento l’uno all’altro? Come misurarsi con la loro originale produzione
intellettuale? E soprattutto quale contributo questo tipo di indagine può
(potrebbe) dare in termini di storia del pensiero politico? Queste sono le
domande che ci siamo poste e alle quali proveremo a dare una risposta nelle
nostre Considerazioni introduttive con l’intento di spiegare così il senso e
la struttura del nostro lavoro.
Innanzitutto, pur nella loro diversità e specificità, è indubbio che
Voegelin e Berlin si interroghino a lungo sul totalitarismo. A differenza di
Voegelin, Berlin non si riferisce mai esplicitamente al fenomeno totalitario,
eppure, come sottolinea C. Hatier, egli può essere annoverato tra i grandi
esponenti dell’“anti-totalitarian camp”, perché impegnato a elaborare una
“insight into totalitarian mind”, dal carattere più precisamente anti-sovietico
e anti-stalinista.11
Al di là di questo rilevante e comune impegno, la riflessione di Voegelin
e Berlin sembra però articolarsi secondo percorsi differenti: Voegelin è soprattutto interessato a ri-pensare e ri-fondare la scienza politica per renderla
10
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, in ID., Four Essays on Liberty, Oxford, Oxford
University Press,1969.
11
C. HATIER, Isaiah Berlin and the Totalitarian Mind, “The European Legacy”, 9 (2004),
p. 768. Basti qui ricordare la lunga intervista che Berlin rilasciò negli anni ‘90 a Steven
Lukes, nella quale il pensatore inglese dichiarava che la sua opera più celebre e discussa, Two
Concepts of Liberty del 1958, aveva una forte connotazione anti-sovietica e anti-stalinista.
I. BERLIN, Tra Filosofia e storia delle idee. La società pluralista e i suoi nemici. Intervista
autobiografica e filosofica, a cura di S. Lukes, con Introduzione di S. Lukes, tr. it. Firenze,
Ponte alle Grazie, 1994, p. 62.
11
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
all’altezza della nuova epoca post-totalitaria,12 laddove Berlin non elabora
mai, né cerca in alcun modo di farlo, una costruzione dottrinaria, bensì
sembra molto più interessato a “sharpen a sensibility” di carattere liberale,
profondamente refrattaria verso qualsiasi forma di estremismo e fanatismo;
una ‘sensibilità’ nella quale egli sembra vedere un antidoto potente contro
qualsiasi deriva e nuova minaccia liberticida.13
Al contempo, in Voegelin appare altresì centrale il problema del totalitarismo quale degenerazione di un certo tipo di modernità,14 mentre tale
problematica è sostanzialmente assente nel pensiero di Berlin. Agli occhi
del pensatore inglese è piuttosto fondamentale interrogarsi sul significato di
libertà e di libertà individuale, negata nella maniera più estrema e radicale
dalle ideologie e dai sistemi totalitari; questione, invece, che appare infinitamente più sfumata nell’opera di Voegelin,15 proiettata sostanzialmente
ad indagare “the principal types of order of human existence in society and
history as well as the corresponding symbolic forms”16 e quindi a leggere
il concetto di libertà diluito nella complessa vicenda di una storia delle
esperienze di ordine e disordine delle società umane.
Da un lato, abbiamo Eric Voegelin il quale è stato a più riprese definito
12
La ‘restaurazione’ voegeliniana della scienza politica è affrontata nel Cap. I (par. 1.2) e nel
Cap. II (par. 2.1) di questo volume. Basti qui ricordare, ad esempio, E. VOEGELIN, Political
Theory and the Pattern of General History, in ID., Published Essays 1940-1952, Columbia and
London, University of Missouri Press, 2000, pp. 157-167; ID., The New Science of Politics, in
ID., Modernity without Restraint, Columbia and London, University of Missouri Press, 2000;
B. COOPER, Eric Voegelin and the Foundation of Modern Political Science, Columbia and
London, University of Missouri Press, 1999.
13
Questa è la linea interpretativa, largamente condivisibile, che troviamo in T. NARDIN,
Micheal Oakeshott’s Cold War Liberalism, New York, Palgrave Macmillan, 2015, p. 1 ss.
14
Questo aspetto del pensiero voegeliniano è analizzato nel Cap. II. Parti consistenti della
History of Political Ideas di Voegelin sono dedicate alla critica della “logica del moderno”,
ovvero alla messa in discussione del razionalismo scientista-positivista e delle filosofie universalistiche. È poi in particolare in The New Science of Politics che la critica alla modernità
trova la sua teorizzazione compiuta. Cfr. ad esempio, E. VOEGELIN, The New Science of
Politics, cit.; ID., Wissenschaft, Politik und Gnosis, München, Kosel, 1959; tr. ingl. ID.,
Science, Politics, and Gnosticism, in ID., Modernity without Restraint, cit.
15
Entrambi questi aspetti del pensiero voegeliniano e berliniano verranno evidenziati nel
corso della nostra analisi.
16
E. VOEGELIN, Order and History, vol. III, Plato and Aristotle, Columbia and London,
University of Missouri Press, 2000, p. 43.
12
Introduzione
un pensatore conservatore, sebbene – e ci preme sottolinearlo – afferente
ad un conservatorismo molto particolare, distante da fantasie o rimpianti
reazionari e da nostalgie per vecchi equilibri istituzionali, che mette piuttosto
in discussione una certa forma di modernità, ossia un preciso modello di
razionalità, per ‘restaurare’ i principi della filosofia classica e della filosofia
cristiana.17 Dall’altro abbiamo Isaiah Berlin, uno schietto intellettuale liberale, che vede nel liberalismo non una dottrina politica bensì un modo di
intendere la vita e i rapporti tra le persone, fondato sul rispetto delle libertà
e della dignità individuali, sulla libertà di scelta e di pensiero.18
Se ci fermassimo a queste considerazioni non avremmo però neppure
cominciato a rispondere alle perplessità e alle questioni prima sollevate. Ci
dovremmo semplicemente limitare ad osservare che, in un certo momento
storico, Eric Voegelin e Isaiah Berlin – come molti altri intellettuali – si
sono misurati con un fenomeno ideologico e politico dalle conseguenze ed
effetti devastati e che lo hanno fatto dimostrando però una sensibilità e una
forma mentis sostanzialmente differenti e con obiettivi in parte differenti.
Il nostro libro nasce invece dalla convinzione che ci sia molto di più. In
uno suo studio recente Jan Werner Müller osserva, in maniera quasi distratta
eppure per noi molto significativa, come “Voegelin’s epichistorical diagnosis of modernity in certain respects runs parallel to some of the narratives
and psychological diagnosis offered by the liberals”.19 I “liberals” ai quali
egli fa riferimento sono gli esponenti del cosiddetto Cold War Liberalism,
ossia di quella corrente di pensiero che, nel secondo dopoguerra, rielabora
il pensiero liberale in termini fortemente anti-dogmatici, “epistemologicamente scettici” e con una evidente carica di critica verso il modello
politico sovietico.20 A quel gruppo viene normalmente ricondotto lo stesso
Berlin (insieme ad Aron, Popper, Oakeshott), ma certamente non ne fa parte
17
Cfr. E. SANDOZ, The Politics of Truth and Other Untimely Essays. The Crisis of Civic
Consciousness, Columbia and London, University of Missouri Press, 1999, pp. 139-143.
18
Cfr. C.J. GALIPEAU, Isaiah Berlin’s Liberalism, Oxford, Clarendon Press, 1994. Sul
significato di liberalismo in una prospettiva di storia del pensiero politico: G. BEDESCHI,
Storia del pensiero liberale, Soveria-Mannelli, Rubbettino, 2015.
19
J.W. MÜLLER, Fear and Freedom: on Cold War Liberalism, “European Journal of Political
Theory”, 7 (2008), p. 60.
20
Cfr. T. NARDIN, op. cit., pp. 1 ss.
13
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
Voegelin.21 La osservazione di Müller è per noi molto interessante perché,
a nostro giudizio, quel “running parallel” riguarda, in particolare, proprio
Voegelin e Berlin. Pur nelle loro peculiarità e originalità, i due pensatori
non solo “corrono parallelamente” ma finiscono per ‘incontrarsi’ proprio su
di un terreno di indagine ben preciso, che è quello della storia delle idee,
e condividono, come testimoniato dalla loro produzione intellettuale, una
necessità intellettuale ben precisa, ossia quella di ricercare e individuare,
nello specifico, le radici ideali e intellettuali profonde del totalitarismo.
È la condivisione di questi due aspetti, di queste due esigenze che, a
nostro giudizio, permette di spiegare perché – richiamandosi ancora una
volta a Müller – una parte della riflessione di Voegelin sembri svilupparsi
“parallelamente” ad una certa “narrativa liberale” di quel Cold War Liberalism al quale Berlin viene ricondotto. È a partire da queste considerazioni
che abbiamo deciso innanzitutto di delimitare chiaramente il contenuto del
nostro studio: abbiamo elaborato un confronto tra Voegelin e Berlin come
storici delle idee che, in quanto tali, cercano di comprendere la genealogia
di idee che ha condotto nel corso della storia alla nascita e alla affermazione
di sistemi e ideologie liberticide. Nel fare ciò non abbiamo potuto evitare
di confrontarci direttamente con un termine ed un concetto (epistemico,
filosofico e politico) di grande rilevanza per chi si avvicini a Berlin quale
storico delle idee – e come abbiamo cercato di dimostrare anche allo stesso
Voegelin – ossia il concetto di monismo che immediatamente – così come
pluralismo – evoca il nome del pensatore inglese, in particolare la sua celebre
21
Voegelin difficilmente può essere ricondotto a uno specifico filone di liberalismo, in quanto
egli stesso è fortemente critico verso certi aspetti del modello liberale. In tale senso, l’intellettuale tedesco contrappone alla debolezza della democrazia liberale un ordine politico (e
una scienza politica) ancorati alle radici classiche e cristiane. Cfr. J.W. MÜLLER, Fear and
Freedom: on Cold War Liberalism, cit., pp. 20 ss; ID., Value Pluralism in Twentieth-Century
Anglo-American Thought, in M. BEVIR (edited by), Modern Pluralism. Anglo-American
Debates Since 1880, Cambridge, Cambridge University Press, 2011, pp. 81-104; J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation, Chicago
and London, The University of Chicago Press, 1993, p. 155; ID., Reading Max Weber: Leo
Strauss and Eric Voegelin, “European Journal of Political Theory”, 3 (2004), pp. 151-166;
T. MCALLISTER, Revolt Against Modernity. Leo Strauss, Eric Voegelin, and the Search for
a Postliberal Order, Lawrence, University Press of Kansas, 1996; J.H. HALLOWELL, The
Decline of Liberalism as an Ideology with Particular Reference to German Politico-Legal
Theorists, Berkeley, University of California Press, 1943.
14
Introduzione
Prolusione Two Concepts of Liberty del 1958.22
Se è indubbio che il termine di monismo e pluralismo sia utilizzato
trasversalmente in più ambiti disciplinari, dalla filosofia alla sociologia fino
alla scienza politica,23 è altrettanto innegabile che esso sia diventato celebre
e si sia durevolmente impresso nell’immaginario collettivo grazie al saggio
berliniano. Nell’ultimo capitolo di Two Concepts of Liberty leggiamo:
One belief, more than any other, is responsible for the slaughter of individuals on
the altars of the great historical ideals – justice or progress or the happiness of future
generations, or the sacred mission or emancipation of a nation or race or class, or even
liberty itself, which demands the sacrifice of individuals for the freedom of society.
This is the belief that somewhere, in the past or in the future, in the divine revelation
or in the mind of an individual thinker, in the pronouncements of history or science,
or in the simple heart of an uncorrupted good man, there is a final solution.24
Per Berlin la convinzione di trovare una soluzione finale ai problemi
della realtà umana, di individuare e applicare alla società e alla politica “a
single criterion”, una formula in grado di ridurre la complessità dell’esistente
ad un principio onniesplicativo, di unificare tutti i possibili valori e scopi,
22
Ci occuperemo nello specifico del concetto di monismo in Berlin, così come esso emerge
da Two Concepts of Liberty, nel Cap. VI.
23
In ambito strettamente filosofico, potremmo ricordare uno dei padri del giusnaturalismo
moderno, Christian Wolff (1679-1754), che conia e usa il termine monismo per riferirsi ad un
unico principio (materiale o spirituale) al quale dovrebbero essere ricondotti tutti gli esseri
viventi. Altrettanto significativo potrebbe essere il richiamo al “monismo sociologico” teorizzato da Emile Durkheim (1858-1971), secondo il quale i rapporti tra gli individui e lo Stato
dovrebbero essere sostanzialmente assimilati a quelli esistenti tra gli uomini e Dio, ossia tra
gli uomini e una entità “monistica” ad essi superiore. Lo stesso concetto di pluralismo, che
Berlin comincia a definire in Two Concepts of Liberty, e sul quale si concentrerà fortemente in
molte sue opere successive al ‘58, ritorna e riemerge in più ambiti disciplinari e scientifici, con
significati e implicazioni particolari e diversi da quelli individuati dal filosofo inglese: basti
pensare alla scienza politica e a pensatori come Maitland e Laski che parlano di pluralità di
centri, organizzazioni e gruppi fra i quali disperdere e diffondere il potere per evitare che esso
si concentri nelle mani di un ristretto manipolo di persone. Sul piano strettamente sociologico,
potremmo ricordare i numerosi studi dedicati all’analisi del pluralismo, inteso come quella
particolare forma di organizzazione sociale nella quale differenti e piccoli gruppi riescono
a preservare la loro specificità culturale. Si veda a proposito cfr. C. PERELMAN, The New
Rethoric and the Humanities, Dortrecht: Holland, Boston: U.S.A, London: England, D. Reidel
Publishing Company, 1979; G. PASQUINO, Nuovo corso di scienza politica, Bologna, Il Mulino, 2009; L. DIOTALLEVI, L’ordine imperfetto. Stato, modernità, secolarizzazione, Bologna,
Il Mulino, 2015; U. HANNERZ, La complessità culturale, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1998.
24
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 167.
15
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
di realizzare la perfezione, l’armonia e la vera pace o la vera libertà qui
ed ora, ossia di poter “racchiudere” la vita umana, sociale, politica, etica
entro uno schema, un modello o una serie di leggi ritenute universalmente
valide, ha caratterizzato quelle ideologie e sistemi politici che hanno fatto
scempio della libertà e della dignità personali.25 Tale certezza è tipica di una
Weltanschauung monistica e quest’ultima è, nell’ottica berliniana, parte
integrante ed essenziale dei grandi regimi totalitari.26
Riteniamo che, per una serie di ragioni che discuteremo e argomenteremo nel corso della nostra analisi, la concezione di monismo, intesa in senso
berliniano, possa essere estesa all’opera voegeliniana. Come cercheremo
di mostrare nella prima parte del nostro lavoro, anche in Voegelin sembra
prendere forma una riflessione filosofica e politica sulla natura monistica
di quelle idee, visioni e concezioni che costituiscono le origini profonde
del totalitarismo e che vengono indagate dai due pensatori attraverso la
storia delle idee. Al loro modo di concepire e declinare questa particolare
disciplina abbiamo dedicato ampio spazio nella nostra ricerca, per due
ragioni fondamentali: primo, perché sia per Voegelin, sia per Berlin essere
storici delle idee e “fare” storia delle idee significano, più concretamente,
“fare” filosofia e pensiero politico, semplicemente “con altri strumenti”;27
secondo, perché per entrambi le idee hanno un potere straordinario sulla
vita degli uomini.
Nel nostro studio su Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee:
una riflessione sul monismo, ci siamo dovute anche porre un ulteriore
problema, non indifferente per chi si occupa di storia del pensiero politico,
ossia su quale periodo della loro produzione intellettuale (peraltro ampia e
variegata) concentrarci. Abbiamo quindi scelto di limitare la nostra ricerca
25
Ivi, pp. 167-171.
26
Su questo aspetto cfr. Cap. VI.
27
È M. Bode a sottolineare opportunamente questo aspetto in rapporto all’opera berliniana;
più precisamente egli afferma che “l’approccio” di Berlin alla storia delle idee è un modo di
fare filosofia “by other means”. Ci soffermeremo nel dettaglio sulla concezione berliniana
e voegeliniana della history of ideas: prendendo spunto dalla interpretazione di Bode, che
estendiamo anche a Voegelin, cercheremo di mostrare come e in quale misura la storia delle
idee offra ad entrambi i pensatori una opportunità unica di elaborare una loro particolare
visione filosofico-politica. Nell’ultimo capitolo della prima parte e nel penultimo capitolo
della seconda parte (Cap. III e Cap. VI) prenderemo in esame proprio tali questioni. M.
BODE, Isaiah Berlin and the Problem of Counter-Enlightenment Liberalism, B.A. (Hons),
Thesis submitted in the School of History and Politics, University of Adelaide, 2011, p. 72.
16
Introduzione
ad un lasso di tempo ben preciso, compreso tra la metà degli anni ‘30 e la
fine degli anni ‘50, quando cioè Voegelin e Berlin si misurano con il tema
delle radici ideali e intellettuali del totalitarismo come storici delle idee e
cercano, rispettivamente, di definire il significato di scienza politica e di
ricerca storica, distinguendole (con tutta una serie di implicazioni per noi
rilevanti sia sul piano epistemologico, sia sul piano teorico-politico) dalla
conoscenza di tipo scientifico.
Nel particolare periodo storico da noi preso in esame, Voegelin e Berlin
emergono come due pensatori che individuano una serie di correnti di pensiero e concezioni sia epistemiche, sia filosofiche e filosofico-politiche dal
carattere monistico. L’aspetto interessante è che, pur nelle loro diversità e
nella specificità dei loro percorsi biografici e intellettuali dei quali daremo
debitamente conto, entrambi rintracciano in una certa parte della tradizione
illuminista e razionalista, nello scientismo, nel positivismo, nel materialismo
storico alcune di quelle concezioni, idee, visioni che avrebbero contribuito
a preparare nel corso della storia il ‘terreno’ ai sistemi liberticidi del ‘900.
Relativamente a Berlin è stato spesso sollevato il problema di come
conciliare la sua idealità liberale con la sua critica ad una parte dell’illuminismo, ossia di quella corrente di pensiero dalla quale si suole far derivare
il liberalismo moderno.28 In questa sede, si è deciso di ‘accantonare’ tale
problematica per soffermarci invece su come una simile critica sembri avvicinare il pensatore inglese a Voegelin, così come ad altri intellettuali che
nel secondo dopoguerra si misurano in maniera decisamente polemica nei
confronti della temperie razionalista e illuminista.29
28
Sulla controversa questione nell’opera di Berlin sul rapporto fra la sua attitudine sostanzialmente critica nei confronti di una certa parte della tradizione illuminista – altresì essenziale per
comprendere la sua riflessione sulle radici intellettuali del totalitarismo – e la sua anima liberale
rimandiamo a R. HAUSHEER, Enlightening the Enlightenment, in J. MALI - R. WOLKER
(edited by), Isaiah Berlin’s Enlightenment and Counter-Enlightenment, Philadelphia, American Philosophical Society, 2003 e G. GARRARD, The Counter-Enlightenment Liberalism
of Isaiah Berlin, “Journal of Political Ideologies”, 3 (1997), pp. 281-296. Il primo tende a
smorzare la carica di critica che Berlin rivolge ad alcuni aspetti e componenti della tradizione
illuminista, mentre il secondo tende a enfatizzarla. In generale, è da sottolineare come Berlin
sia tutt’altro che anti-illuminista. Egli riconosce nel Secolo dei Lumi un momento essenziale
e imprescindibile nello sviluppo del concetto di libertà e dei diritti di libertà all’interno della
cultura occidentale ma ciò non gli impedisce, appunto, di sottolinearne aspetti, per lui, problematici e controversi. È proprio su ‘questo’ Berlin che ci soffermeremo in rapporto a Voegelin.
29
Per un inquadramento generale di questo tema si veda D.C. RASMUSSEN, Contempo-
17
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
Portando la nostra attenzione proprio su Voegelin, più volte la letteratura specialistica ha messo in rilevo come la sua presa di distanza dal pensiero
settecentesco consista nel rifiuto di determinate idee del Secolo dei Lumi,
idee che, per lo studioso tedesco, sono la premessa di una ragione e di una
scienza “scientista”, con finalità utopistiche, che recide ogni legame con
la trascendenza. Non si tratta perciò di un rifiuto incondizionato, ma che
ha ben presente come all’interno dell’illuminismo esistano più correnti,
sebbene, come vedremo, appaia molto più intenso e netto della critica che
anche Berlin muove ad alcuni aspetti del pensiero illuminista.30
Il risultato, come abbiamo infine cercato di sintetizzare nel capitolo
finale del nostro lavoro, è la elaborazione, da parte di entrambi i pensatori, di
una riflessione sul monismo – condotta attraverso la storia delle idee – che
appare anzitutto, sul piano prettamente teorico-politico, un ripensamento
critico di una parte di quella tradizione intellettuale europea e occidentale
che, a loro giudizio e per dirla con Berlin, avrebbe finito per contribuire ad
alimentare e rafforzare tutte quelle ideologie e quei regimi che sono riusciti
nell’intento di “deprive men, in the name of some remote, or incoherent,
ideal of much that they have found to be indispensable to their life as unpredictably self-transforming human-beings”.31
rary Political Theory as an Anti-Enlightenment Project, pp. 1-45, disponibile sul sito della
Brown University: www.brown.edu/Research/ppw/files/Rasmussen_PPW.pdf. In generale,
per una presentazione e un inquadramento efficaci di quei pensatori che dal XVIII in avanti
si sono confrontati criticamente con l’illuminismo rimandiamo a G. GARRARD, CounterEnlightenments. From the Eighteenth Century to the Present, New York, Routledge, 2006
e da segnalare anche Z. STERNHELL, Contro l’Illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra
fredda, tr. it. Roma, Baldini Castoldi Dalai, 2007.
30
In particolare, alla critica di Voegelin nei confronti dell’illuminismo francese fa da contraltare
il rilievo che egli stesso dà allo Scottish Enlightenment e, nello specifico, alla tradizione dello
Scottish Common Sense. Cfr. E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, Columbia and
London, University of Missouri Press, pp. 56-61: 56-57; ID., Anamnesis. On the Theory of
History and Politics, Columbia and London, University of Missouri Press, 2002.
31
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 171.
18
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
CAPITOLO I
ERIC VOEGELIN E LA STORIA DELLE IDEE
1.1 Eric Voegelin: storia, uomo e idee politiche
Eric Voegelin32 è noto al grande pubblico per essere indiscutibilmente
uno dei grandi filosofi politici del XX secolo che, confrontandosi con la
scienza politica a lui coeva, ha elaborato una originale critica della modernità
32
Eric Voegelin nacque a Colonia da modesti genitori di religione protestante; dopo avere
dimorato a Colonia e a Königswinter (Renania), la famiglia Voegelin si trasferì, nel 1910, in
Austria, a Vienna, dove Voegelin compì l’intero ciclo di studi inferiori e superiori. Nel 1919
si iscrisse alla facoltà di legge dell’Università della capitale e nel 1922 conseguì, con Kelsen
e Spann, il dottorato in scienze politiche. Il fermento culturale di Vienna e l’ambiente accademico esercitarono sul giovane Voegelin un influsso decisivo. L’università era animata da
personalità quali Hans Kelsen, Alfred Verdross, Adolf Merkl, per il diritto, da Friedrich Wieser, Ludwig von Mises e Joseph Schumpeter, per l’economia, Moritz Schlick, per la filosofia
della scienza; inoltre, l’istituto austriaco per gli studi storici annoverava tra i suoi membri
Alfons Dopsch, che aveva raggiunto fama internazionale grazie ai suoi studi sulla storia
economica del periodo carolingio, e Otto Brunner, che sarebbe diventato famoso per le sue
ricerche sul feudalesimo medievale. Voegelin, inoltre, non poté fare a meno di essere colpito
dalla scuola psicanalitica di Freud, anche se non conobbe mai il grande psicologo. Studiò,
però, con Hermann Swoboda, entrando in contatto con il lavoro del fondatore della teoria
psicanalitica e con Otto Weininger; conobbe, poi, alcuni degli allievi di Freud, come: Heinz
Hartmann, Robert Waelder e Ernst Kries. Nel 1929 divenne libero docente di Dottrina dello
Stato e Sociologia, presso la facoltà di legge; nel 1936, dopo essere stato nominato professore
straordinario, subì una progressiva emarginazione accademica per essersi dichiarato nemico
del nazismo, vedendosi alla fine costretto ad abbandonare l’incarico universitario e l’Europa.
Nel 1938 emigrò negli Stati Uniti in seguito all’Anschluss. Nel 1958 fu chiamato in Germania,
all’università di Monaco a dirigere l’Institut für politische Wissenschaft. Nel 1969, divenne
professore emerito di scienze politiche all’Università di Monaco e ritornò negli Stati Uniti
presso la Hoover Institution della Stanford University, dove lavorò come Research Fellow.
Qui rimase fino al giorno della morte. Cfr. E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections,
Columbia and London, University of Missouri Press, 2006. Inoltre, tra le biografie intellettuali
più note su Voegelin: M.P. FEDERICI, Eric Voegelin. The Restoration of Order, Wilmington,
ISI Books, 2002; E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution. A Biographical Introduction, New
Brunswick-London, 2000; B. COOPER, op. cit.; S. CHIGNOLA, Pratica del limite. Saggio
sulla filosofia politica di Eric Voegelin, Padova, Unipress, 1998; G.F. LAMI, Introduzione
a Eric Voegelin. Dal mito teo-cosmogonico al sensorio della trascendenza: la ragione degli
antichi e la ragione dei moderni, Milano, Giuffrè, 1993; G. ZANETTI, La trascendenza e
l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, Bologna, Clueb, 1989.
19
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
secondo il paradigma dello gnosticismo. Eppure non si deve dimenticare
che gran parte della produzione teorico-scientifica voegeliniana mostra il
grande interesse del pensatore tedesco per le idee e la loro storia, ovvero
per una storiografia delle idee che riveli il rapporto tra storia politica e
teoria politica. Certamente, parlare di Voegelin quale historian of ideas è
‘insolito’, perché egli non può essere definito propriamente uno storico,
così come propriamente storici non possono essere definiti i suoi scritti.
Eppure, tra gli anni ‘30 e gli anni ‘50 del Novecento si aprì per Voegelin un
percorso di ricerca che rappresenta un momento centrale per comprendere la
genesi delle ricerche voegeliniane oltre che alcuni nodi problematici delle
sue future pubblicazioni. Il Voegelin storico delle idee sviluppa un’analisi
che si misura a fondo con eventi, vicende storiche, uomini, autori e con
idee e teorie che ad essi sono intrecciate e ne costituiscono il fondamento.
Si tratta di uno studio che prende in esame le teorie sul potere, la dottrina
dello Stato, la sfera dei sentimenti religiosi e degli elementi più irrazionali
del vivere politico e si confronta, da un punto di vista metodologico, con
la relazione tra storia e filosofia. Entro questo grande schema d’indagine
prevale poi un tema che caratterizza la sua intera biografia intellettuale: il
totalitarismo, declinato anche come monismo nelle sue varie dimensioni
(epistemologica, ontologica, filosofica, politica e morale), quale elemento
del totalitarismo stesso. Per mezzo della storia delle idee Voegelin affronta
così una grande sfida: rintracciare le radici storiche, culturali, intellettuali
del monismo totalitario.
È importante fare qui alcune precisazioni; in primo luogo, a differenza
di Berlin, Voegelin raramente usa in modo esplicito il termine ‘monismo’,
eppure questo caratterizza grande parte della produzione scientifica voegeliniana. Emblematico è uno dei primi scritti dello studioso tedesco, Über
die Form des amerikanischen Geistes (1928),33 frutto di due anni di studio
trascorsi negli Stati Uniti d’America, nel quale emerge fin da subito l’av33
E. VOEGELIN, Über die Form des amerikanischen Geistes, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1928;
tr. ingl. ID., On the Form of the American Mind, Baton Rouge and London, Louisiana State
University Press, 1995. Il contenuto del volume è piuttosto eterogeneo, prendendo in esame
autori come John R. Commons, George Santayana, Charles S. Peirce, William James, Husserl
e Brentano (solo per citarne alcuni) e temi quali tempo e esistenza, mistica puritana e dottrina
calvinista, problematiche teorico-giuridiche-economiche della dottrina politica americana,
oltre che la questione delle classi sociali e del movimento sindacale in America.
20
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
versione a qualsiasi impostazione monistica o dogmatica. Per Voegelin il
monismo obbliga, sia a livello filosofico sia politico, a sottomettersi a una
“absolute mind”, la quale impone modelli di pensiero (e modelli politici)
schematicamente costruiti in base a principi aprioristicamente determinati.
La pluralità e articolazione della realtà, compresa l’esistenza socio-politica,
è così ridotta a un sistema chiuso, che si pretende di dominare come un dato
sensibile (“an all-encompassing datum”).34 Nel nostro volume vedremo
quanto vicina sia la concezione voegeliniana di monismo a quella di Berlin
e soprattutto quanto essa sia centrale nella loro opera di storici delle idee.
È altresì opportuno sottolineare che la riflessione voegelinina sulle radici
ideali del totalitarismo non può essere completamente ricondotta entro
l’alveo della storia delle idee, ma essa ne costituisce l’incipit, mostrando
quei contenuti, temi, filoni discorsivi che contraddistinguono il pensiero
maturo dello studioso.
Stando così le cose, c’è da chiedersi come questa storiografia delle idee
venga da Voegelin concepita e come si rapporti con altre discipline, quali:
political theory e political science. L’indagine che si propone presuppone,
perciò, anche un’analisi attenta su questioni di metodo, oltre che tematicocontenutistiche, che investono la storia delle idee nel suo complesso e
che definiscono l’originalità dell’elaborazione speculativa dello studioso
tedesco attorno alle idee politiche. In tal senso, il caratteristico approccio
voegeliniano alla storia delle idee mette in luce strumenti teorici e temi al
centro del percorso interpretativo che egli sviluppa nei confronti delle visioni
totalitarie della realtà. Non si potrà allora non riflettere sulle influenze, sulle
correnti, sui ‘maestri’ che determinano l’ambito speculativo della storia delle
idee voegeliniana. Mostrando l’identità di Voegelin quale storico delle idee,
emergono continuità, affinità (e differenze) con l’altro grande intellettuale
oggetto del nostro studio: Berlin. Questi ha infatti apportato un contributo
vitale alla storia delle idee e alla conoscenza di questioni e problemi relativi
al carattere della ricerca storica e al suo significato; inoltre, si è confrontato
con le radici culturali e ideologiche dei moderni totalitarismi. Nella seconda
parte del volume il pensiero del filosofo inglese riguardo a queste tematiche
verrà affrontato approfonditamente.
34
Cfr. E. VOEGELIN, On the Form of the American Mind, cit., pp. 57-63.
21
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
L’attenzione di Voegelin per le idee e per le idee politiche in particolare
può essere cronologicamente suddivisa in due momenti: a) gli anni Trenta,
ovvero la prima produzione scientifica voegeliniana in cui si evidenzia il
problematico rapporto che egli intrattiene con la dottrina dello Stato tedesca
ed in cui esamina le idee di razza e le teorie della razza; b) gli anni Quaranta
e Cinquanta, in cui, emigrato negli Stati Uniti d’America, si confronta con
l’ambiente intellettuale statunitense, con la scienza politica americana, e si
impegna a redigere un manuale universitario, la History of Political Ideas,
che avrebbe dovuto competere, da un punto di vista commerciale e intellettuale, con opere quali la History of Political Theory (1937) di George
H. Sabine. Affronteremo in dettaglio nelle pagine successive il contesto
disciplinare e professionale americano e la History nei suoi elementi portanti; veniamo invece adesso a definire come Voegelin impieghi, sin dai
primi scritti, le idee quale strumento idoneo per interpretare storicamente la
realtà politica e per cogliere l’ispirazione monistica di alcuni metodi logicoscientifici legati alla comprensione della realtà politico-statale.
A cominciare dagli anni Trenta del Novecento Voegelin è interessato
a elaborare una Staatslehre che, in netta contrapposizione al sistema kelseniano della Normlogik, tenga conto dei fenomeni politici contingenti e
delle idee politiche quale fulcro del fenomeno associativo statale.35 In tale
contesto, i due volumi sull’idea di razza, Rasse und Staat e Die Rassenidee
in der Geistesgeschichte von Ray bis Carus, pubblicati entrambi nel 1933,
insieme a Der autoritäre Staat, del 1936, costituiscono il primo concreto
tentativo di costruire su nuove basi la dottrina dello Stato, sganciandosi
35
Voegelin fu allievo e assistente di Kelsen negli anni universitari viennesi. Riguardo al
complesso rapporto intellettuale tra il pensatore tedesco e il giurista austriaco è di grande
interesse la corrispondenza tra i due autori, dal 1939 al 1954. Cfr. E. VOEGELIN, Selected
Correspondence 1950-1984, Columbia and London, University of Missouri Press, 2007, pp.
206-209 e 214-218. Significativi sono poi i seguenti lavori voegeliniani: Reine Rechtslehre
und Staatslehre, “Zeitschrift für öffentliches Recht”, IV (1924), pp. 80-131; Kelsen’s Pure
Theory of Law, “Political Science Quarterly”, XLII (1927), pp. 268-276; Zur Lehre von der
Staatsform, “Zeitschrift für öffentliches Recht”, VI (1927), pp. 572-608; Die Souveranitätstheorie
Dickinsons und die Reine Rechtslehre, “Zeitschrift für öffentliches Recht”, VIII (1929), pp.
413-434; Die Einheit des Rechtes und das soziale Sinngebilde Staat, “Internationale Zeitschrift
für Theorie des Rechtes”, 1/2 (1930), pp. 58-89; Die österreichische Verfassungsreform von
1929, “Zeitschrift für Politik”, XIX, (1930), pp. 585-615.
22
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
dalla metodologia della scienza politico-giuridica a lui coeva.36 Secondo la
prospettiva voegeliniana, la “dottrina pura del diritto” (Reine Rechtslehre)
di Hans Kelsen eliminava dall’ordinamento giuridico qualsiasi condizionamento fenomenico e umano, escludendo così la possibilità di indagare
e di confrontarsi con la dimensione sociale ed antropologica della realtà.
Lo Stato era, per Kelsen, l’unico vero oggetto della scienza giuridica e non
era necessario chiedersi da quali idee e da quali esperienze umane traesse
origine. Era pertanto racchiuso entro un sistema logico di norme, costruito
sull’autonomia della legge e trasformato in semplice macchina di produzione normativa. Il giurista austriaco respingeva ogni possibilità di spiegare
il legame della società indipendentemente dalla positivizzazione giuridica.
L’attenzione di Voegelin è invece rivolta agli elementi concretamente politici a fondamento della costruzione “dell’esperienza politica
comunitaria”:37 lo studio della dinamica (extra-giuridica) della costruzione
della comunità politica impone, perciò, una scelta metodologica differente
da quella kelseniana. Senza entrare nel merito dello scontro speculativo tra
Voegelin e Kelsen, che la letteratura critica ha studiato a fondo,38 si vuole qui
sottolineare come la polemica di Voegelin nei confronti della metodologia
kelseniana implichi una netta presa di posizione contro il ‘monismo metodologico’ del giurista austriaco. Un monismo metodologico che, a parere di
36
E. VOEGELIN, Rasse und Staat, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1933; tr. ingl. ID., Race and State,
Baton Rouge and London, Louisiana State University Press, 1997; ID., Die Rassenidee in der
Geistesgeschichte von Ray bis Carus, Berlin, Junker und Dünnhaupt Verlag, 1933; tr. it. ID.,
Razza. Storia di un’idea, traduzione e cura G. Rossi, Milano, Edizioni Medusa, 2006; ID.,
Der autoritäre Staat. Ein Versuch über das österreichische Staatsproblem, Wien, Springer,
1926; tr. ingl. ID., The Authoritarian State. An Essay on the Problem of the Austrian State,
Columbia and London, University of Missouri Press, 1999. Nei due volumi sull’idea di razza
Voegelin attacca frontalmente la supposta scientificità del biologismo razzista e nazista. È
chiaro l’impegno scientifico, politico e civile del pensatore tedesco. Oltre a questi due volumi
è significativo il saggio The Growth of the Race Idea, pubblicato nel 1940 in “The Review
of Politics”, nel quale Voegelin sintetizza, per il pubblico statunitense, alcuni dei principi
chiave della sua analisi sull’idea e le teorie della razza. Cfr. E. VOEGELIN, The Growth of
the Race Idea, “The Review of Politics”, 2 (1940), pp. 283-317; ora anche in ID., Published
Essays 1940-1952, Columbia and London, University of Missouri Press, 2000, pp. 27-61.
37
S. CHIGNOLA, Pratica del limite. Saggio sulla filosofia politica di Eric Voegelin, cit.,
pp. 9, 7-12.
38
Ivi, cit., pp. 30-40, 54-67; S. CHIGNOLA, “Fetishism with the Norm” and Symbols of
Politics: Eric Voegelin between Sociology and “Rechtswissenschaft” (1924-1938), 10, Eric
Voegelin-Archiv, Ludwig-Maximilians-Universität München, Occasional papers, 1999, pp. 5-70.
23
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
Voegelin, non solo fa dell’approccio logico-categoriale al fenomeno statale
l’unico metodo valido, ma per di più subordina l’oggetto studiato, lo Stato,
al metodo della Normlogik e alle sue categorie. Nel contesto della Reine
Rechtslehre ciò implica, quindi, che lo Stato venga disegnato dal metodo
stesso della Normlogik e la sua unità assicurata dalle categorie della procedura logico-normativa. Lo Stato si dissolve pertanto nel diritto e il diritto
si riduce esclusivamente ad un sistema logico di norme. Seguendo questo
tragitto, Kelsen mette al bando la dimensione umana, socio-culturale e storica dell’ordinamento statale e fa della Normlogik un dogma, una tecnica
normativa che ambisce a costruire un modello generale valido per tutti gli
ordinamenti giuridici.39
Evidenziando i limiti dell’approccio metodologico kelseniano, Voegelin
afferma la necessità di una diversa costruzione della dottrina dello Stato
che non guardi solo ai principi logico-giuridici formali, ma riveli la natura
storica, sociologica, antropologica dell’ordine statale. È infatti l’uomo che
organizza e realizza lo Stato: “the roots of the State must be sought in the
nature of man”.40 La comunità politica va studiata a partire dall’uomo e
dalle strutture di senso, dagli elementi essenziali, quali appunto le idee, che
spiegano il vincolo tra individuo e società. Per superare il giusformalismo
kelseniano, Voegelin ha di conseguenza in mente “a system of Staatslehre”
che si articola in tre parti: a) theory of law, b) theory of power e c) political ideas.41 Rispetto, però, a queste ultime egli ammette di non avere una
conoscenza sufficiente, “I knew nothing whatsoever about political ideas”,
e dunque inizia a colmare tale lacuna “acquiring knowledge on specific
ideas”.42 I risultati di questa ricerca furono i due volumi sulla razza: una
prima analisi sistematica intorno alle idee politiche che, focalizzandosi sul
39
Secondo Voegelin, la metodologia kelseniana è caratterizzata da un’impostazione positivistica di matrice neokantiana. Sulla questione cfr.: E. VOEGELIN, The Authoritarian State,
cit., pp. 163-212: 165-174; ID., Autobiographical Reflections, cit., pp. 48-51. Inoltre, cfr.
E. KAUFMANN, Critica della filosofia neokantiana del diritto, Napoli, ESI, 1992, pp. 107118; G. CALABRÒ, Kelsen e il neokantismo, in C. ROEHRSSEN (a cura di), Hans Kelsen
nella cultura filosofico giuridica del Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana,
1983, pp. 87-92.
40
E. VOEGELIN, Race and State, cit, p. 2.
41
E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, cit., p. 66.
42
Ibidem.
24
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
ruolo dell’idea di razza (come mito, simbolo politico dotato di capacità coesiva) e sulle teorie della razza, ne chiarisce l’uso politico-ideologico. Nel
tentativo di capire il ruolo delle Rassenideen nel processo di costruzione
dell’ordinamento statale Voegelin divide le “idee di Stato” in tre categorie:
Personenideen, Gemeinschafstideen e Leibideen; le prime sono quelle che
realizzano la realtà politica a partire da personalità che incarnano l’idea di
potere (idea di imperatore, di dittatore, di re, di sacerdote-re…); le seconde
sono quelle che ricavano dall’esperienza della comunità la concretezza della
realtà dello Stato (idea di comunità cristiana, etnica, federale…) e le ultime
sono le “idee di corpo” o metafore corporali (dinastia, parentela di sangue,
corpus mysticum, razza) che contribuiscono a realizzare la comunità, lo
Stato stesso.43
The ideas of the state do not rise in a vacuum; instead, they are linked to
«fundamental experiences» that form the actual foundations of the state. The
ideas of persons [Personenideen] (such as the ideas of monarchy, empire, and
the leader [Führeridee]) are associated with the experience of person, while
the ideas of community [Gemeinschaftsideen] (Christian, ethnic, and federalist
ideas) are associated with the real experiences of the community; body ideas
[Leibideen] (which include the idea of race) are in turn associated with corporeal experiences [Leiberlebnisse] (especially with the experience of race).44
Esula dallo scopo di questo lavoro esaminare l’analisi voegeliniana
delle idee e delle teorie della razza,45 come non è qui possibile dar conto
dettagliatamente del progetto di rifondazione metodologica della dottrina
dello Stato,46 ma è significativo mettere in evidenza come il pensatore te43
E. VOEGELIN, Nochmals, Rasse und Staat in der Staatslehre: Erwiderung, “Reichsverwaltungsblatt und Preußisches Verwaltungsblatt”, 55 (1934), pp. 202-203; tr. ingl. ID., One More
“Race and State” in Political Science. A Rebuttal, in ID., Published Essays 1934-1939, Columbia and London, University of Missouri Press, 2001, p. 18. Inoltre, ID., Race and State,
cit., pp. 4-5.
44
E. VOEGELIN, One More “Race and State” in Political Science. A Rebuttal, cit., p. 18.
45
Cfr. T.W. HEILKE, Voegelin on the Idea of Race. An Analysis of Modern European Racism,
Baton Rouge and London, Louisiana State University Press, 1990; D.J. LEVY, Ethos and
Ethnos. An Introduction to Eric Voegelin’s Critique of European Racism, in R. BERNASCONI – S. COOK (edited by), Race and Racism in Continental Philosophy, Bloomington &
Indianapolis, Indiana University Press, 2003, pp. 98-114.
46
Siamo di fronte ad uno studio che collega lo Stato alle forme culturali e ai fenomeni di vita
collettiva il quale mostra un’impostazione che si riallaccia a temi e scelte metodologiche
25
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
desco si avviasse sin dai primi scritti ad impiegare l’idea quale paradigma
interpretativo per lo studio della realtà politica, indicandone la valenza
simbolica, antropologica e il ruolo da questa assunto nella costruzione della
società politica.
Le considerazioni critiche di Voegelin sul tema della razza sono anche
l’occasione per schierarsi contro l’orientamento dogmatico e il monopolio
metodologico delle scienze naturali. Queste ultime adottano un modello
epistemologico definito da Voegelin “the dogma system of natural science
superstition”47 che, come ricorda opportunamente Ellis Sandoz, si fonda su
due postulati: a) l’unico metodo veramente scientifico è quello delle scienze
naturali, il quale, forte della sua esaustività, è in grado di risolvere “all problems encountered in the human horizon”; b) la scienza avanza lungo una
linea di progresso continuo, togliendo legittimità a qualsiasi affermazione
e idea del passato, che viene considerata datata, superata. Ne consegue, da
un lato, che gli altri metodi, specialmente quelli delle ‘scienze dello spirito’, “are merely vestiges of a useless past «metaphysical» period of human
intellectual development now overcome” e, dall’altro, che “any problems
that cannot be mastered through application of the scientific method are
vicini al complesso dibattito giuspubblicistico e politico di Weimar. Da questo punto di vista,
nonostante gli esiti speculativi differenti, autori che mostrano una sensibilità teorica simile
a quella di Voegelin sono, per esempio, Rudolf Smend, Carl Schmitt, Gerhard Leibholz e
Theodor Litt. Per quanto riguarda Rudolf Smend, Voegelin, ritiene che questi abbia compiuto,
attraverso la teoria dell’integrazione, un primo passo importante nel tentativo di fondare una
dottrina dello Stato che vada al di là di una mera costruzione giuridica; Leibholz, invece, sembra
essere entrato nell’universo teorico di Voegelin per il tramite della riflessione sulla nozione
di rappresentanza, oltre che attraverso la distinzione tra Stato totale e Stato autoritario. È poi
significativo che Voegelin, come Smend e Leibholz, prendendo le distanze da una sociologia
orientata in senso meccanicistico-causale, sia stato positivamente colpito dalle questioni poste
da Theodor Litt. Cfr. E. VOEGELIN, Race and State, cit., p. 7; ID., Zu Sanders Allgemeiner
Staatslehre, “Österreichische Zeitschrift für öffentliches Recht”, 1 (1946), pp. 106-135; tr.
ingl. ID., On Sander’s General Political Science, in ID., Published Essays 1934-1939, cit.,
pp. 126-160; ID., Interaction and Spiritual Community: A Methodological Investigation, in
ID., The Theory of Governance and Other Miscellaneous Papers 1921-1938, Columbia and
London, University of Missouri Press, pp. 19-140: 122-140; ID., The Authoritarian State,
cit.; C. GALLI, Strategie della totalità. Stato autoritario, Stato totale, totalitarismo nella
Germania degli anni Trenta, “Filosofia politica”, XII (1997), pp. 28-62.
47
E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution. A Biographical Introduction, cit., pp. 54-55; E.
VOEGELIN, Race and State, cit., pp. 9, 13.
26
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
illusory problems that can be disregard”.48
Con la pretesa di conseguire un sistema analitico stabile e fruibile,
oltre che universalmente valido e oggettivo, le scienze naturali danno vita
a una definizione razzista dell’idea di razza, in cui la natura umana viene
indebitamente semplificata e descritta esclusivamente secondo connotati
biologici, genetici e fisici. Voegelin mette però ben a fuoco come l’uomo
nel suo insieme sia Leib (corpo), Seele (anima) e Geist (mente, spirito) e
tale complesso unitario non può essere oggetto di una scienza positiva, né
tanto meno essere ridotto al solo contenuto corporeo. In questo senso, egli
rifiuta le teorie scientifiche da lui chiamate “superpower construction”
(Übermacht-Konstruktion), cioè strutture mentali in cui, prese due variabili
dipendenti, l’una determina l’altra e nella fattispecie la sfera della natura (il
corpo) determina la sfera dell’anima, dello spirito. La sfera determinante
priva così di autonomia qualsiasi altro regno dell’essere e tutto viene risolto e deciso dalla “super potenza” di un’unica classe, in questo caso quella
della natura corporea.
Voegelin dunque evidenzia come una parte non possa essere presa
come il tutto, perché l’immagine dell’uomo non è ricostruibile sulla sola
base degli aspetti biologico-fisici: l’uomo è un’unità inscindibile che
appartiene a tutti i regni dell’essere e la sua complessità e ricchezza non
può e non deve essere ridotta ad un singolo aspetto della sua esistenza.
Nell’argomentazione voegeliniana questo significa prendere le distanze
dal ‘monismo scientifico’ del nazionalsocialismo, perché le teorie razziste
del nazismo sono l’estrema espressione di un uomo plasmato unicamente
secondo categorie animali per mezzo di un “ars combinatoria genetica”;49 ma
anche rilevare l’inconcludenza di tutte le teorie che, in base a impostazioni
metodologiche che pretendono di ridisegnare in via ‘scientifica’ e assoluta
la realtà, rivendicano la possibilità di spiegare e decifrare l’individuo e la
totalità delle sue relazioni facendo riferimento, di volta in volta, a un singolo,
parziale elemento della sua vita. Da questo punto di vista, è interessante
sottolineare come Voegelin tracci un parallelismo tra teorie biologiche della
razza, marxismo e liberalismo. In primo luogo, queste sono accomunate dalla
48
E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution. A Biographical Introduction, cit., pp. 54-55.
49
G. ZANETTI, op. cit., pp. 18-19.
27
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
volontà di destituire la storia, consegnandola alle masse, con l’intento di
rendere l’individuo stesso astorico.50 Oltre a ciò anche marxismo e liberalismo sono superpower construction: se il marxismo ha assunto le categorie
economico-materiali quale fattore esclusivo nel definire l’uomo e la forma
della società, il liberalismo ha dato luogo a una dottrina dell’uguaglianza
che, di fatto, riconduce a caratteristiche fisiche l’unica uguaglianza possibile,
perseguendo una visione economica individualista ovvero un’idea esclusivamente utilitaristica del vivere civile.51 Nello specifico, nel disegnare il
paragone tra teorie della razza e marxismo l’intenzione di Voegelin è sia
rimarcare la fallacia logica di qualsiasi conoscenza scientifica monistica,
fatta in nome della razza o della classe, sia polemizzare vivacemente con i
teorici della razza nazionalsocialisti che si vantavano di essere antimarxisti.
Più problematico, invece, appare il parallelismo tra le teorie della
razza e il liberalismo. Ha ragione Gianfrancesco Zanetti nel ricordare che
Voegelin cade nella tentazione di semplificare “i fenomeni storici moderni
attraverso troppo immediati comuni denominatori o brutali sussunzioni in
categorie così ampie da risultare inefficaci”;52 eppure, al di là della validità
o meno dell’interpretazione voegeliniana, ci preme notare come il giudizio
sulla corrente di pensiero liberale sia legata al convincimento che il liberalismo dimostra i suoi limiti (politici e morali) nella incapacità di opporre
resistenza alla minaccia sempre più concreta di regimi liberticidi. L’adesione
voegeliniana al sistema liberal-democratico non è, pertanto, acritica e mira
a rivelare i principi (in questo caso la nozione monistica di conoscenza) che
possono indurre una degenerazione della sua forma politica. Come vedremo
nelle pagine successive, anche Berlin riflette sul liberalismo senza però mai
mettere in discussione il suo sostegno alla democrazia liberale.
Dalle osservazioni fatte emerge chiaramente come, per Voegelin, vi sia
una relazione strettissima tra monismo epistemologico-metodologico e monismo politico: il primo è infatti alla base dell’intera tradizione di pensiero
occidentale del totalitarismo. Tornando al problema della Staatslehre, lo
studioso tedesco evidenzia un altro punto cruciale: l’indagine dei fenomeni
50
E. VOEGELIN, The History of the Race Idea from Ray to Carus, cit., p. 23.
51
Ivi, pp. 23-24.
52
G. ZANETTI, op. cit., p. 19.
28
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
politici per mezzo della capacità interpretativa delle idee politiche deve
accompagnarsi ad un’antropologia filosofica, una conoscenza della natura
dell’uomo e delle sue condizioni essenziali che ermeneuticamente colga
l’uomo stesso nella sua interezza, armonizzando i molteplici aspetti che lo
compongono (fisici, psichici, intellettuali, culturali e storici). La storiografia
delle idee voegeliniana perciò rielabora due tradizioni di pensiero: la dottrina
dello Stato tedesca e la scienza della antropologia filosofica.
In questa prima fase, emerge un tracciato teorico-metodologico originale in cui la realtà politica, e lo Stato in particolare, sono indagati a partire
dall’intreccio storia-idee, uomo-idee. Nella prospettiva voegeliniana studiare
le idee significa obbligatoriamente allargare lo sguardo sulla storia e tenere
presente che le idee stesse sono legate all’uomo: le idee non solo appartengono alla realtà socio-politica, ma sono prima di tutto fenomeni umani,
connesse all’ambito delle esperienze umane. Non sono perciò un concetto
astratto, ma qualcosa di reale che si oggettivizza realizzandosi nella storia.
Per Voegelin, la conoscenza della realtà politica (e dello Stato) implica, di
conseguenza, andare oltre l’ordinamento statico e formale dell’organizzazione statale per afferrare le diverse componenti della realtà sociale, le quali
per loro natura si svincolano da qualsiasi astrazione positiva. Il contenuto
dell’idea di Stato non si esaurisce nella nozione di diritto o di legge, ma mira
ad indagare il vincolo coesivo dello Stato stesso: è importante stabilire quale
sia l’idea fondativa e formativa della realtà politico-sociale, ovvero il suo
contenuto, che si concretizza attraverso le azioni degli individui (governanti
e governati). Voegelin indaga, quindi, l’esistenza politica delle idee nel continuo processo di articolazione delle comunità politiche, perché per mezzo
dell’idea (politica) la società raggiunge un’unità, cioè una struttura ordinata:
A political idea does not attempt to describe social reality as it is, but it sets up
symbols, be they single language units or more elaborate dogmas, that have the
function of creating the image of a group as unit. […] What welds the diffuse
mass of individual life into a group unit are the symbolic beliefs entertained
by the members of a group.53
Si rivela pertanto un’impostazione originale dell’indagine storiografica
delle political ideas, volta ad oltrepassare la dimensione giuridico-istituzio53
E. VOEGELIN, The Growth of the Race Idea, cit., pp. 283-284.
29
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
nale (quella inerente alle forme di governo, alle istituzioni politiche, al diritto
statuale interno e internazionale), per mostrare, da un lato, quelle idee (e le
complesse logiche di tipo simbolico) che danno vita al ‘legame politico’ e,
dall’altro, il contesto in cui le idee stesse si sviluppano, comprendendone la
funzione e la transizione da un complesso di idee a un altro. Dunque, nella
versione voegeliniana, la storia delle idee si pone al di fuori di qualsiasi
impostazione idealistica, la quale asserisce l’assoluta indipendenza delle idee
stesse dai contesti nei quali vengono generate, perché le idee non si possono
considerare svincolate dalla storia e dalla loro storicità; ed emerge, inoltre,
la centralità di una antropologia filosofica che non può non tenere conto
della “sphere of sentiments and attitudes”,54 ovvero del complesso di quei
fattori esperienziali e ‘meno razionali’ che aiutano a chiarire il contenuto
di un’epoca e di una corrente di pensiero. Attraverso il connubio tra storia
delle idee e antropologia filosofica Voegelin sviluppa i principi fondamentali
dell’analisi critica verso sistemi ideologici, ovvero verso visioni del mondo
monistiche che esaminano solo parametri naturalistico-quantitativi, i quali
pretendono di raggiungere certezze assolute e definitive.
L’attenzione per il dato storico, per la sua peculiarità ed unicità, così
come per la componente umana che a tale dato dà vita, rivela quanto nella
ricerca storica voegeliniana abbia lasciato un segno importante l’ambiente
culturale tedesco. In particolare, Voegelin segue un metodo di ricerca che, al
di là delle differenze, è in parte debitore della Geistesgeschichte di Wilhelm
Dilthey.55 Nel tentativo di rinvenire le fondamenta del sapere storico, Dil54
E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. II, The Middle Ages to Aquinas, Columbia
and London, University of Missouri Press, 1998, p. 108.
55
Tra le opere principali di Dilthey ricordiamo: Introduzione alle scienze dello spirito (1883);
L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII (1891-1904);
Studi per la fondazione delle scienze dello spirito (1905-1910); L’essenza della filosofia
(1907); La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910). Si rimanda inoltre
a: G. CACCIATORE – G. CANTILLO (a cura di), Wilhelm Dilthey: critica della metafisica
e ragione storica, Bologna, Il Mulino, 1985; F. BIANCO (a cura di), Dilthey e il pensiero
del Novecento, Milano, Angeli, 1988; F. BIANCO, Dilthey e la genesi della critica storica
della ragione, Milano, Marzorati, 1971; P. ROSSI, Lo storicismo tedesco contemporaneo,
Torino, Einaudi, 1971; F.K. RINGER, The Decline of the German Mandarins. The German
Academic Community 1890-1933, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press,
1969; C. VICENTINI, Studio su Dilthey, Milano, Mursia, 1974; I.N. BULHOF, Structure and
Change in Wilhelm Dilthey’s Philosophy of History, “History and Theory”, 15 (1976), pp. 2132; G.G. IGGERS, The German conception of History. The National Tradition of Historical
30
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
they elaborò una ‘critica della ragione storica’, una forma di conoscenza
ermeneutica, il cui nucleo strutturale risiedeva nella distinzione tra ‘scienze
della natura’ (Naturwissenschaften) e ‘scienze dello spirito’ (Geisteswissenschaften), le prime basate su una spiegazione (Erklären) di tipo causale, le
seconde, invece, su una comprensione (Verstehen) che si desumeva dalla
vita, nella sua unicità e irripetibilità. L’obiettivo metodologico, per Dilthey,
era sottolineare come mondo storico e mondo naturale avessero criteri di
indagine diversi, perché la conoscenza storica non poteva (e non doveva)
formulare leggi universali e necessarie. Il suo materiale (l’oggetto spirituale) non era omogeneo e non sottostava, perciò, a nessuna generalizzazione
normologica.
Ne consegue che, nell’accezione diltheyana, la storia delle idee è la
storia della mente umana e tenta di afferrare le relazioni tra una determinata
Weltanschauung e le idee, i fatti politici, economici, sociali, religiosi e le
attività dell’uomo che danno vita e sono contemporaneamente determinate
dalla visione del mondo di riferimento. Quella di Dilthey è una narrazione
della storia che non si sofferma sugli elementi esteriori ed apparenti del
movimento storico, ma punta a comprendere la vita dell’uomo soprattutto
nei suoi aspetti interiori, partendo dalla convinzione che questi non è solo
pura ragione, ma un essere senziente fatto di sentimenti, desideri e volontà.
La storia è, allora, necessaria sia per capire l’uomo, perché questo è essenzialmente un essere storico, sia in quanto campo di manifestazione degli
eventi umani, unici ed irripetibili. Questa ricostruzione del mondo storico,
per cui, da un lato, storia e vita umana sono una complementare all’altra
e, dall’altro, le manifestazioni della vita umana sono oggettivazioni dello
spirito, che si materializzano nella storia, produce una ricerca orientata
a investigare e comunicare le proiezioni della vita dello spirito, ovvero i
fenomeni storici nella loro fluidità e dinamicità, oltre che nel loro essere
vissuti. Dilthey elabora una ‘storia spirituale’, o ‘storia dello spirito’, in
cui la storia stessa è fatta di insiemi di significato: famiglia, società civile,
Stato, diritto, religione vengono compresi nella loro complessità e nelle loro
relazioni strutturali e culturali. Siamo di fronte a un sapere storico inteso
Thought from Herder to the Present, Hanover, New Hampshire, Wesleyan University Press,
1983; J. RÜSEN, Theory of History in the Development of West German Historical Studies:
A Reconstruction and Outlook, “German Studies Review”, VII (1984), pp. 11-26.
31
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
come sistema di strutture culturali tra loro interconnesse.
Voegelin richiama e rielabora proprio il ragionamento metodologico
di Dilthey sulla Geistesgeschichte-Geisteswissenschaft: come ha osservato
Jürgen Gebhardt,56 l’influenza diltheyana si rivela in quegli aspetti della
lettura storiografica di Voegelin in cui quest’ultimo è attento, da un lato,
a addentrarsi nell’ethos di un’epoca attraverso la caratterizzazione storica
delle idee e, dall’altro, a sottolineare come le idee stesse siano inscindibili
dalla storia e dall’uomo, il quale produce la storia stessa. L’aspetto antropologico, cioè la descrizione dell’uomo come essere storico, è centrale
nella scienza storica di Voegelin, tesa sempre ad afferrare i meccanismi
socio-antropologici espressi dalle idee e che alle idee stesse danno vita.
Non solo, Voegelin si avvicina a Dilthey anche nel tratteggiare una storia
cultural-intellettuale delle idee politiche che mira a scandagliare in profondità il corso degli eventi, per penetrare nel carattere più intimo, non
esteriore e meno apparente, delle epoche storiche, per spiegare il perché di
determinate idee e la loro influenza sul sorgere e sul declino di una civiltà,
di una società politica. Egli non cade, però, nello storicismo dell’analisi
diltheyana: la ratio storicistica sostiene che ogni singolo avvenimento deve
essere valutato in base al contesto, all’ambiente e al tempo storico; il legame
tra manifestazione umana dell’idea e momento storico di tale manifestazione
viene frantumato in un’estrema varietà di particolari e di valori, negando
sia una qualsiasi visione d’insieme della storia sia un qualsiasi riferimento
ad una verità che trascenda l’agire dell’uomo. Il risultato è una prospettiva
relativistica che appiattisce paradossalmente la complessità dell’idea quale
forma storica.
Per Voegelin, fare storia delle idee significa inoltrarsi nelle sue trame nascoste per estrarre quelle idee che si sono rivelate decisive perché,
da un lato, hanno prodotto ordine politico e, dall’altro, hanno originato il
disgregarsi dell’ordine stesso. Egli suggerisce un approccio ermeneutico
che rifiuta lo storicismo relativistico e, con ancor più enfasi, lo storicismo
56
J. GEBHARDT, Hermeneutics and Political Theory, “Interpretation. A Journal of Political
Philosophy”, 40 (2013), pp. 283-303. Cfr. anche ID., Offene Horizonte – offene Fragen. Eric
Voegelins hermeneutisches Experiment der universalhistorischen Vermessung des menschlichen
Ordnungsdenkens, in H.J. SIGWART (edited by), Staaten und Ordnungen. Die politische und
Staatstheorie von Eric Voegelin, Baden, Nomos, 2016, pp. 175-194.
32
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
‘finalistico’, che vede nella storia umana uno sviluppo necessario e pensa
di prevederne il tragitto. Inoltre, secondo Joachim Fischer, Voegelin dà
rilievo ad un altro aspetto a cui le Geisteswissenschaften guardavano solo
indirettamente, senza esserne particolarmente interessate: l’ambito politico,
un campo di primaria importanza per comprendere il mondo socio-storico
ed i suoi protagonisti.57 Abbiamo quindi una Geisteswissenschaft of politics,
che compone antropologia, filosofia e storia nell’esplorazione del politico
ed in cui è marcata la componente teorica e filosofica.
Il nuovo orientamento dato da Voegelin alla scienza ermeneutica di
Dilthey si inserisce in una temperie culturale in cui anche altri studiosi
furono intenti a rimodulare e riconcettualizzare le modalità di conoscenza
e comprensione del ricco tessuto socio-storico e socio-politico e ad esaminarne le sue forme simboliche e le sue idee. Max Scheler, Helmuth Plessner,
Bernhard Groethuysen, Georg Misch, Karl Jaspers sono solo alcuni degli
autori che fornirono a Voegelin gli stimoli speculativi per impostare e perfezionare la svolta metodologica che aveva in mente: una scienza politica che
fosse “a noetic interpretation of man, society and history that confronts the
conceptions of order prevalent in its sourrounding society with the criteria
of the critical knowledge of order”.58 È questo un traguardo che raggiungerà
negli anni a venire, proprio ridefinendo e precisando, negli anni Trenta, il
57
J. FISCHER, Philosophische Anthropologie. Eine Denkrichtung des 20. Jahrhunderts,
Freiburg-München, Verlag Karl Alber, 2008, pp. 124-126.
58
E. VOEGELIN, Anamnesis. On the Theory of History and Politics, Columbia and London,
University of Missouri Press, 2002, pp. 342-343. Cfr. anche J. GEBHARDT, Hermeneutics
and Political Theory, cit., pp. 300-301. Per quanto riguarda il rapporto tra Max Scheler ed
Eric Voegelin, è importante ricordare che, proprio a partire dagli anni Trenta, Voegelin iniziò
a elaborare una propria antropologia filosofica che divenne uno degli strumenti concettuali
per mettere in discussione il logos giuridico kelseniano. L’opera scheleriana di riferimento
è Die Stellung des Menschen im Kosmos (1928). Tra le letture che in questi anni influirono
in modo decisivo sul modo di studiare e fare storia politica-storia del pensiero politico e che
determinarono anche la caratteristica analisi voegeliniana del politico in base a una nuova
filosofia antropologica si deve includere anche Helmuth Plessner. Su questo punto si veda la
recensione di Voegelin all’opera di Plessner, Macht un menschliche Natur: Fachschriften zur
Politik und staatsbürgerlichen Erziehung (1931), in E. VOEGELIN, Selected Book Reviews,
Columbia and London, University of Missouri Press, 2001, pp. 38-41. Cfr. inoltre, la recensione di Plessner a Rasse und Staat di Voegelin: H. PLESSNER, Besprechung: E. Voegelin,
Rasse und Staat, in “Zeitschrift für öffentliches Recht”, XIV (1934), pp. 407-414; vedi anche
E. VOEGELIN, Race and State, cit., pp. 27-28; ID., Selected Correspondence 1924-1949,
Columbia and London, University of Missouri Press, 2009, pp. 293-296: 295.
33
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
metodo, l’orientamento e le discipline complementari alla storiografia delle
idee. Un storiografia delle idee, quindi, che già da ora appare insolita, non
tradizionale e che ambisce a configurarsi come uno studio storico-critico
con una forte impostazione teorico-filosofica.
1.2 Storia delle idee: ricerca storica e scienza politica secondo Eric
Voegelin (1942-1952)
Lo spessore filosofico e teoretico della historiography of ideas voegeliniana aumentò di densità quando Voegelin giunse negli Stati Uniti
d’America. L’emigrazione oltreoceano, nel 1938, a causa dell’Anschluss
tedesco, accrebbe in Voegelin il desiderio di reagire a qualsiasi schematismo
dottrinario, che egli aveva già rinvenuto, come è stato detto, nella dottrina
dello Stato tedesca, e lo spronò a confrontarsi scientificamente con un nuovo
ambiente intellettuale. Dopo avere trascorso un anno ad Harvard, accolto
dagli amici Haberler e Schumpeter, e un breve periodo presso il Bennington
College del Vermont, Voegelin si trasferì in Alabama a Tuscaloosa. Qui cominciò ad addentrarsi nello studio dell’American Government, della costituzione e del diritto amministrativo americano ed ebbe la possibilità di tenere
un corso in storia delle idee politiche. Nel 1942, si spostò ancora, questa
volta a Baton Rouge, per insegnare presso il Department of Government
della Louisiana State University, dove rimase fino al 1958, quando tornò
in Germania, presso l’università di Monaco.
Gli anni trascorsi negli Stati Uniti ed in particolare i circa sedici (19421958) vissuti in Louisiana furono fondamentali sotto almeno tre punti di
vista. In primo luogo, Voegelin precisò la procedura metodologica della sua
storia intellettuale o del pensiero (filosofico, religioso, politico), prendendo
sempre più le distanze dalla tipica storiografia delle idee che produceva analisi dettagliate di testi o monografie su singoli pensatori. Inoltre, ribadendo
la peculiarità del proprio metodo, si misurò non solo con gli studi storici di
sintesi in voga, ma soprattutto con la disciplina nel suo insieme, la history of
political theory, quale parte del più ampio campo disciplinare della political
science. In terzo luogo, è in questo periodo che Voegelin iniziò a redigere
la History of Political Ideas, un’opera che da semplice testo universitario,
34
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
assunse dimensioni monumentali, senza mai essere portata a termine: per
quindici anni, dal 1938 al 1954, la History fu la principale preoccupazione
dello studioso tedesco e il maggiore lavoro a cui si dedicò. Il trattato ebbe
origine tra l’autunno e l’inverno del 1938-1939, quando Voegelin prese
l’impegno editoriale con la McGraw-Hill Book Company di redigere un
college text-book, della lunghezza di circa 200 pagine, che doveva competere
con opere quali la History of Political Theory (1937) di George H. Sabine.
Il testo avrebbe dovuto farlo conoscere al pubblico americano e costituire, perciò, un tassello fondamentale per la sua reputazione accademica;
ma non andò esattamente così. Il manuale che, secondo gli accordi, doveva
essere consegnato all’editore nel settembre del 1940, subì numerose interruzioni e fu infine abbandonato. La quantità di materiale da prendere in
considerazione, per redigere una storia delle idee politiche che analizzasse
le varie fasi in cui la società politica si evolve nel corso del tempo, era
enorme; per di più, secondo Voegelin, era necessario un aggiornamento
importante delle fonti (primarie e secondarie), per dare conto criticamente
del contesto in cui veniva a collocarsi ogni singolo autore e ogni idea politica. Aumentando la conoscenza e la consapevolezza rispetto al materiale
storico che Voegelin analizzava, la History of Political Ideas non solo
crebbe quantitativamente, divenendo un trattato sempre più voluminoso,
ma si andò ispessendo anche il contenuto teorico dell’opera, trasformando
di fatto il trattato stesso. La History da semplice libro di testo di storia del
pensiero politico progressivamente divenne un’opera di vaste dimensioni,
di otto volumi circa, che usciva dagli schemi tradizionali, e in cui l’idea
(l’idea politica) appariva a Voegelin inadeguata quale strumento analitico
per esaminare il mondo socio-storico e i fenomeni politici moderni.59
Comunque, in questi anni, nel programma di ricerca di Voegelin prevale
59
La History of Political Ideas consta di otto volumi, pubblicati tutti postumi: vol. I, Hellenism,
Rome, and Early Christianity, Columbia and London, University of Missouri Press, 1997;
vol. II, The Middle Ages to Aquinas, Columbia and London, University of Missouri Press,
1997; vol. III, The Later Middle Ages, Columbia and London, University of Missouri Press,
1998; vol. IV, Renaissance and Reformation, Columbia and London, University of Missouri
Press, 1998; vol. V, Religion and the Rise of Modernity, Columbia and London, University
of Missouri Press, 1998; vol. VI, Revolution and the New Science, Columbia and London,
University of Missouri Press, 1998; vol. VII, The New Order and Last Orientation, Columbia
and London, University of Missouri Press, 1999; vol. VIII, Crisis and The Apocalypse of Man,
Columbia and London, University of Missouri Press, 1999.
35
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
una continuità tematica importante che lega la sua speculazione ‘continentale’ a quella ‘statunitense’: lo studioso tedesco è sempre attento a rintracciare
i fondamenti ideologici delle tradizioni di pensiero occidentali. L’attenzione
si concentra così sempre più sull’esame critico della civiltà occidentale,
guardando alle idee, alle forze motrici che ne hanno determinato l’assetto
sociale-religioso-politico e la sua crisi. L’intento di Voegelin è duplice: da
un lato, individuare le radici intellettuali del totalitarismo per comprendere
il deragliamento ideologico dell’età contemporanea e, dall’altro, superare
il disordine politico proprio di questa epoca, forgiando una scienza politica
che vada oltre qualsiasi presunzione di dogmaticità che possa penetrare il
significato profondo della storia, aderendo alla realtà antropologica della
politica stessa.
Andiamo, però, con ordine e consideriamo innanzitutto l’incontro
voegeliniano con la history of political theory statunitense, prendendo in
esame il contesto metodologico all’interno del quale si situa la disciplina
‘storia delle idee’. È qui centrale ribadire che nel mondo accademico nordamericano questa, in senso ampio, rimanda a discipline quali la political
theory, la history of political theory e la history of political thought ed è,
inoltre, una componente del più ampio campo disciplinare della political
science. È questo un punto essenziale ai fini della riflessione che qui si
propone. Infatti, “the subfield of political theory”, identificandosi con la
‘scienza politica’, è lo spazio scientifico-disciplinare in cui prende forma,
dalla fine del XIX secolo fino a tutti gli anni Sessanta del Novecento, un
dibattito particolarmente intenso che riguarda l’identità della teoria politica
stessa e il ruolo che questa ha all’interno della political science. Un dibattito
che, soprattutto negli anni ‘40 e ‘50 del Novecento, si sofferma sullo stato
della scienza politica, sul suo passato e, specialmente, sulle sue prospettive future.60 In questa discussione si inserisce anche Voegelin, avanzando
60
J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation,
Chicago and London, The University of Chicago Press, 1993, p. 1. Per quanto riguarda la
storia della political science americana da un punto di vista metodologico, etico e politico vedi
anche: R. SEIDELMAN, Disenchanted Realists. Political Science and the American Crisis,
1884-1984, Albany, SUNY, 1985; J.G. GUNNELL, Between Philosophy and Politics. The
Alienation of Political Theory, Amherst, University of Massachusetts Press, 1986; J. FAR –
R. SEIDELMAN (edited by), Discipline and History. Political Science in the United States,
Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1993.
36
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
riflessioni che investono la storia del pensiero politico, la teoria politica e
non da ultima la scienza politica; riflessioni nelle quali si profila una forte
critica ai dogmi delle scienze naturali, al monismo epistemologico e politico, al totalitarismo.
Voegelin era ben consapevole che “the general history of political ideas
[…] is almost an American monopoly from its beginnings”.61 I contributi
storiografici più rilevanti erano quelli di William Dunning (1857-1922),
Charles McIlwain (1871-1968), George Sabine (1880-1961) e Thomas
Cook (1907-1976);62 tra questi, per Voegelin, i punti di riferimento furono le
opere manualistiche di Dunning e Sabine. Come mette ben in evidenza John
Gunnell, la pubblicazione dei tre volumi di A History of Political Theories
(1902, 1905, 1920) di Dunning rappresentò di fatto un momento importante
nell’ambito accademico della ‘teoria politica’, gettando le basi per fare della
“political theory a distinct genere” e dettando i principi che la stessa doveva
seguire nell’insegnare le idee del pensiero politico moderno. Nello specifico,
per Dunning, si trattava, da un lato, di saldare le idee al contesto storico, per
rinvenire nel corso progressivo della storia stessa quegli avvenimenti e quelle idee che avevano lasciato un’impronta indelebile sull’uomo e, dall’altro,
di determinare il nesso causale che legava fatti e idee, per ricostruire una
storia delle idee politiche che tracciasse origine e sviluppo delle idee politiche stesse.63 Il modello elaborato dallo storico americano era, perciò, una
indagine sulla evoluzione della “political consciuosness of men […] from
early antiquity to modern times” e una “interpretation of the development
of political theory in its relation to political fact”, avente per oggetto “the
current of institutional development”.64 Una storia delle idee ancorata alla
61
E. VOEGELIN, Political Theory and the Pattern of General History, in ID., Published Essays
1940-1952, Columbia and London, University of Missouri Press, 2000, p. 157. Il saggio fu
pubblicato originalmente nella “American Political Science Review”, 38 (1944), pp. 746-754.
62
W. DUNNING, History of Political Theories, 3 voll., New York, Macmillan, 1902-1920; C.H.
MCILWAIN, The Growth of the Political Thought in the West, New York, Mcmillan, 1932;
T.I. COOK, History of Political Philosophy: from Plato to Burke, New York, Prentice Hall
Inc., 1936; G.H. SABINE, History of Political Theory, New York, Henry Holt Company, 1937.
63
J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation,
cit., pp. 61-65.
64
W. DUNNING, A History of Political Theories. Ancient and Medieval, cit., pp. VII, XIX,
XXV. Cfr. anche J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an
37
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
storia politico-istituzionale e che, quindi, era una storia del potere e delle
sue manifestazioni, vale a dire una storia delle teorie del potere.
Sabine aveva compiuto un passo ulteriore, dando luogo a una sintesi in
cui autori e teorie politiche erano sì calati nella realtà storica di riferimento,
ma veniva dato principalmente rilievo ai momenti cruciali nella storia europea, presupposto di idee e di teorie di valore e forza particolari. In questo
modo, Sabine collocava le teorie politiche di maggiore importanza proprio
“in the interstices of political and social crisis”.65 La political theory era
subordinata alla struttura della political history senza che ciò desse luogo a
una mera cronaca descrittiva: se fatti ed idee erano criticamente esaminati in
un contesto di tempo, spazio e circostanze, quali fattori determinanti nella
produzione teorica di un autore ed elementi importanti per comprendere
il suo pensiero, “the historical occasion” non era l’unico metro di studio.
Ogni teoria politica doveva essere letta anche come risposta ad uno specifico stato di cose che si voleva modificare ed era perciò proiettata anche
verso il futuro.66
Nel 1943, Voegelin si misurò metodologicamente proprio con queste
opere di sintesi. L’occasione fu la ricostituzione della political theory research committee, da parte della American Political Science Association, e
un convegno organizzato dalla stessa associazione, eventi nei quali venne
affrontato lo stato della American political theory, nel tentativo di ridefinire
la disciplina alla luce di nuovi aspetti e nuove questioni emerse.67
Al seminario, presieduto da Francis G. Wilson, parteciparono, oltre
a Voegelin, anche B.F. Wright e E.S. Griffith.68 Il resoconto di Wilson sul
American Vocation, cit., p. 64.
65
G.H. SABINE, What is a Political Theory?, “Journal of Politics”, 1 (1939), p. 3.
66
Ivi, p. 4 .
67
J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation,
cit., p. 205.
68
Cfr. F.G. WILSON – B.F. WRIGHT – E.S. GRIFFITH – E. VOEGELIN, Research in Political Theory: A Symposium, “American Political Science Review”, 38 (1944), pp. 726-754.
Tre anni dopo, nel 1946, il meeting annuale dell’American Political Science Association fornì
ancora l’opportunità di discutere sullo stato della political theory. L’émigré scholars Arnold
Brecht organizzò, infatti, una tavola rotonda sul tema, Beyond Relativism in Political Theory.
Alla discussione fu invitato a partecipare anche Voegelin; gli altri relatori furono: J. Ronald
Pennock, Francis G. Wilson, Gabriel Almond, Francis W. Coker, John H. Hallowell, Hans
38
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
lavoro della commissione è rilevante, offrendo una sintesi preziosa dei nuclei
problematici di una materia complessa che doveva fondere insieme filosofia,
storia e politica. Lo scienziato politico statunitense affermava appunto che
la “political theory was in part a philosophical consideration of political
science”, che analizzava “metaphysical principles embedded in the works
of those who study primarily political instituions and processes”; il compito
che doveva assolvere era poi quello di esporre “the concepts of political
science” e di fornire “usable definition of politcal terms”.69 Se tale era la
funzione della teoria politica, si presentavano difficoltà rispetto al modo di
praticarla; le divisioni maggiori all’interno della disciplina riguradavano
“those who took metaphysics seriously […] and those who believed that
metaphysics was «little more than the name given to logical thought»” e
anche chi “embraced «theological approach», and believed that there was
more to study of politics than «clinical observation», and those who pursued
the «method of positivist», and accepted the empirical or «now traditional
positivistic scientific or liberal technique of social study»”.70 A queste questioni si aggiungeva poi un’ulteriore ragione di conflitto, che aveva come
oggetto il significato da dare alla storia. Alcuni professionisti della materia
sostenevano che “America needed a consciousness of history”, ovvero
una “philosophy of history”, e altri desideravano, invece, concentrarsi “on
pragmatic social choice and the «ends-means relationship»”.71 Su almeno
un punto, però, c’era accordo, ossia sulla esigenza di dare maggiore spazio
ai testi dei grandi autori, dei classici, perché, a parere di Wright, lo studio
della storia del pensiero politico occidentale “can […] make great contri-
Kelsen (il quale fu poi impossibilitato a prendere parte al convegno), Benjamin Lippincott
e Benjamin Wright. Per quanto riguarda la posizione di Voegelin e la sua valutazione sul
relativismo cfr. A. BRECHT, Beyond Relativism in Political Theory, “The American Political Science Review”, 41 (1947), pp. 477-488; vedi anche la lettera di Voegelin a Brecht e a
Wilson in E. VOEGELIN, Selected Correspondence 1924-1949, cit., pp. 486-493. Inoltre,
A. BRECHT, Political Theory: The Foundations of Twentieth-Century Political Thought,
Princeton, Princeton University Press, 1959, pp. 17, 261-301: 263-264 e 272-274, 277, 319.
69
La citazione è in J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an
American Vocation, cit., p. 205.
70
Ivi, pp. 205-206.
71
Ivi, p. 206.
39
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
butions to the future course of American democracy”.72 Secondo Griffith,
tuttavia, una indagine (storica) sull’origine, lo sviluppo e il declino delle
idee e delle dottrine non doveva essere invece all’ordine del giorno, perché
così al massimo si potevano recuperare concetti il cui valore era “historically
relative”, in quanto rimandavano a “various institutional arrangements”.
Non era possibile risalire a “«timeless» concepts” all’interno del mondo
della politica e dello Stato. Concetti eternamente validi provenivano da
altri settori di ricerca come la psicologia, la sociologia o l’antropologia.73
Il rapporto della commissione, qui riportato nelle sue parti più rilevanti, ben rivela come la scienza politica americana, e con essa la political
theory, si trovassero a un momento di svolta. Doveva essere stabilita con
esattezza e rigore la natura della teoria politica e, in riferimento a questa,
come si configurassero ricerca storica e ricerca scientifica. Era in gioco
il significato e la peculiarità della ricerca storica stessa in rapporto (e in
contrapposizione) al modello esplicativo dettato dalle scienze esatte. Non
bisogna, inoltre, dimenticare che tra gli anni ‘40 e ‘50 del Novecento la
scienza politica statunitense stava vivendo un periodo di crisi e rivoluzione,
in cui si andava affermando il comportamentismo. La behavioral revolution
credeva in una struttura metodologica del tutto simile a quella delle scienze
naturali e matematiche che, per mezzo di una ricerca esclusivamente empirica, giungeva a formulare leggi generali, strategie e approcci d’indagine
per spiegare e prevedere perché l’uomo agisse in un determinato modo. Lo
scopo era fornire una cornice analitica certa che grazie ad analisi quantitative potesse contribuire al rafforzamento e al successo della pratica politica
democratica.
Si profilava pertanto all’orizzonte uno scontro tra ‘scienza’ e ‘storia’,
tra una scienza politica di matrice scientista-positivista e una scienza politica
radicata nella storia e con una forte valenza teorico-filosofica. Tornando al
simposio di studio organizzato dall’American Political Science Association,
Voegelin individua precisamente i contorni della propria ricerca storica,
72
Ibidem. Sull’importanza di testi di pensiero politico vedi anche la lettera di Eric Voegelin a
Talcott Parsons, 2 dicembre 1943, in E. VOEGELIN, Selected Correspondence 1924-1949,
cit., pp. 383-385.
73
J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation,
cit., p. 207.
40
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
indicando anche il contesto metodologico all’interno del quale doveva
situarsi la disciplina storia delle idee. Nel saggio presentato al convegno,
intitolato Political Theory and the Pattern of General History, il filosofo
tedesco esamina i nuclei problematici di una materia che fonde assieme
storia, filosofia e politica, vagliando anche i principi di metodo delle opere
di Dunning e Sabine.74 Voegelin è convinto che sia necessario ripensare la
history of political ideas, approfondendo la relazione tra political ideas e
political history, ovvero tra history of theory e political history, tenendo
presente le più recenti fonti storiografiche e non tralasciando l’importanza
del modello storiografico che si adotta. Secondo la storiografia voegeliniana,
una storia delle idee politiche, perché sia veramente tale, non può essere
semplicemente una registrazione di “ideas concerning political problems
in their chronological order”, bensì deve essere una narrazione critica che
segue “a pattern of meaning in time”.75
In tal senso, The History of Political Theories di Dunning aveva, per
Voegelin, un impianto solido e tradizionale, attenta come era ai risvolti
giuridico-istituzionali, per rivelare l’origine, la natura e lo scopo delle idee
di potere, di sovranità e di Stato. Protagonista era la storia politica, analizzata prendendo in considerazione “the theoretical content of institutions”.76
La speculazione dello storico americano aveva, però, secondo Voegelin,
un punto debole: Dunning assumeva una sequenza temporale lineare e
progressiva dello sviluppo storico, con il risultato che “political theory
is largely an account of this progress” e “when such progress ceases, the
history of political theory ceases”.77 Un simile procedimento imponeva di
prendere in esame un’area geografica e temporale ristretta, identificata con
il mondo occidentale dall’età classica all’età moderna. Dallo studio erano
eliminate “non-Western mankind” e “pre-classic civilizations”, sottraendo
validità alla comprensione dell’Occidente, perché per Voegelin “good deal
of Western political thought is deeply rooted in Mesopotamia, Persian, and
74
E. VOEGELIN, Political Theory and the Pattern of General History, cit., pp. 157-167.
75
Ivi, pp. 159-160.
76
Ivi, p. 161.
77
Ibidem.
41
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
Israelitic pre-history”.78 Fatto ancor più grave, per il filosofo tedesco, era
che Dunning non analizzava con il rigore dovuto nemmeno l’età medievale,
da lui ritenuta sostanzialmente apolitica, perché, al di là della separazione
Stato-Chiesa, non aveva raggiunto altro ‘progresso’ politico.
Quanto a Sabine, invece, la sua History of Political Theory (1937) si
presentava, a parere di Voegelin, come una sintesi più solida e completa
rispetto al lavoro di Dunning. La ricostruzione dello storico delle dottrine
politiche seguiva, come in Dunning, il principio secondo cui “political
theory is a function of politics and that, therefore, the pattern of a history
of theory has to follow the pattern of political history”, ma escludeva una
visione progressiva della storia. Sabine riusciva a presentare un’equilibrata
visione d’insieme, raggiungendo un rilevante traguardo scientifico: “the
historian has to follow with impartial loyalty the structure of theory as it
reveals itself in history, whether it reflects the problems of a differentiated
sphere of politics, or whether it reflects an undifferentiated complex of
community order”.79
Stando in questi termini gli studi di storia del pensiero politico, Voegelin sottolinea come fosse indispensabile rinunciare alla convenzionale
struttura lineare della storia che parte dall’antichità classica e conduce,
passando per il Medioevo, all’età moderna e all’età contemporanea. Questa
forma temporale non è più sufficiente per afferrare nella sua complessità la
combinazione armonica tra storia politica e storia delle idee, perché ignora
“Near Eastern pre-classic civilizations”, le cui idee hanno influenzato lo
sviluppo dell’Occidente stesso. Era necessario allargare l’orizzonte storico
d’indagine: “Mesopotamian, Persian, and Egyptian theory would have to
be accepted as a body of thought on an equal footing with Hellenic, and it
would have to be treated with equal thoroughness”.80 Allargando la visuale
sul corso degli eventi, si rivelava un tracciato né lineare né unico, composto di diversi piani, tra loro paralleli, ma collegati dalle idee politiche, dal
materiale simbolico dei diversi contesti storici.
Ciò imponeva anche di superare “the widely accepted conception of
78
Ivi, pp. 158, 161-162.
79
Ivi, p. 162.
80
Ivi, pp. 163-164.
42
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
political theory as a theory concerned with the explanation of governmental
authority”. La storia delle idee nella prospettiva interpretativa voegeliniana
è rivolta non tanto alle idee politiche che riguardano il governo dello Stato,
gli elementi strutturali del potere politico o il rapporto governanti-governati,
ma alle idee “concerned with the mythical creation of communities” e “the
so-called nonpolitical ideas”, ossia sentimenti escatologici, idee politicoreligiose quali fonti principali “of political fermentation and revolution
throughout Western history”.81 Per questo motivo, integrare la storia delle
idee con la storia politica significa, per Voegelin, concentrarsi sulle fasi di
passaggio da un’epoca a un’altra e particolarmente sui momenti di crisi che
caratterizzano il transito da un vecchio assetto socio-culturale e politico a
uno nuovo. Procedere lungo questo tragitto scientifico, implica una storia
delle idee declinata in modo originale, per costruire una visione d’insieme
che, abbattendo anche steccati disciplinari, illumini zone ancora in ombra
dei fenomeni politici.
Rispetto alle considerazioni sin qui svolte, e avendo preso in esame il
rapporto tra Voegelin e l’ambiente intellettuale americano, non può passare
in secondo piano il programma di ricerca svolto da Arthur Ocken Lovejoy
(1873-1962) e dal gruppo di storici che si raccolsero intorno a lui. Il filosofo
statunitense di origine tedesca, insieme ai colleghi George Boas (1891-1980)
e Gilbert Chinard (1881-1972) fondò, nei primi anni ’20 del Novecento
presso la Johns Hopkins University, un circolo di storia delle idee (History
of Ideas Club), al quale seguì nel 1940 la rivista “Journal of the History
of Ideas”, fondando di fatto questa disciplina nella sua accezione (anche
metodologica) più stretta. Anche se Voegelin non conobbe mai direttamente
Lovejoy (né entrò mai in contatto con gli storici delle idee propriamente
detti) è interessante notare come questi fosse da lui conosciuto e stimato.
In una lettera del primo febbraio del 1943 all’amico Engel-Janosi Voegelin
valutava positivamente l’opera principale del filosofo statunitense, The
Great Chain of Being: A Study of the History of Ideas (1936); in questa,
secondo lui, si evidenziavano le eccellenti conoscenze storiche di Lovejoy
e un approccio scientifico che, seppur non sistematico, riusciva a cogliere
81
Ivi, pp. 164, 165.
43
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
ampiamente la problematica dell’essere.82 Qualche anno più tardi Lovejoy
veniva citato tra coloro che, secondo il filosofo tedesco, erano i rappresentanti di una “new science of politics and history” che tentava di rifondare
una filosofia e una scienza della politica “on the basis of either a Christian
or a Platonic-Aristotelian anthropology, or a combination of the two”.83
Ciò che incuriosisce Voegelin nell’approccio lovejoyiano non è l’individuazione di unità elementari (unit-ideas), componenti invarianti e persistenti
di dottrine, di sistemi di pensiero o di ideologie. Come gran parte della
critica storiografica ha messo in risalto, in questo modo Lovejoy atomizza
la realtà culturale, sociale e politica, trascurando le continue trasformazioni a cui le idee stesse andavano incontro. Per di più, isolando l’idea-unità
e seguendola attraverso le diverse sfere della storia in cui si presenta, il
filosofo statunitense toglie dinamicità alla storia stessa rischiando, da un
lato, di personificare le idee, di considerarle come entità che si muovono
in un vuoto e, dall’altro, di non studiarle sufficientemente nello specifico
dei singoli fatti storici o nella specificità del pensiero dei singoli autori.
Il modello di storia delle idee di Lovejoy viene letto da Voegelin in prima istanza come un progetto volto a dare rilievo al substrato non razionale,
al ‘pathos metafisico’ (come è definito dallo stesso filosofo statunitense)
esercitato da determinate idee sulla vita storica dell’uomo. In questo senso,
Voegelin enfatizza la forza esercitata da un’idea. Allora, nella history of
ideas di Lovejoy prevarrebbe, come ha messo ben in evidenza parte della
letteratura specialistica, una doctrine of forces che analizza le idee dando
spazio alle esperienze, ai sentimenti e alle rappresentazioni mentali e che
mostra il processo di mutamento che coinvolge le idee stesse.84 Rilevando
82
E. VOEGELIN, Selected Correspondence 1924-1949, cit., p. 354.
83
Ivi, p. 574. Gli altri autori citati da Voegelin sono: Max Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos; Erich Przywara, Religionsphilosophie; Nikolaj Berdyaev, Destiny of Man;
Reinhold Niebuhr, [The Nature and] Destiny of Man; Johan Huizinga, Homo Ludens; Hans
Urs von Balthasar, Apokalypse der deutschen Seele; Henri Gouhier, Jeunesse de Comte;
Jacques Maritain, Trois réformateurs; Henri de Lubac, Drame de l’humanisme athée; Aldo
Garosci, Bodin; Arnold Joseph Toynbee, A Study of History; John Wild, [George] Berkeley;
Fritz Lieb, Russland Unterwegs; Alois Dempf, Sacrum Imperium; Werner Jaeger, Paideia;
Karl Jaspers, Die geistige Situation der Zeit; Gilbert Murray, Aeschylus; Francis MacDonald
Cornford, Timaeus Commentary, Erwin R. Goodenough, Hellenistic Kingship.
84
L. MINK, Change and Causality in the History of Ideas, “Eighteenth-Century Studies”, 2
(1968), pp. 7-25: 9, 15-16, 19; D.J. WILSON, Lovejoy’s The Great Chain of Being after Fifty
44
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
i motivi non solo razionali che attuano una sorta di pressione dinamica
sulla realtà, emerge come la stessa storia delle idee non sia “a chronology
of things, but the story of the development of consciousness”.85 L’idea
lovejoyiana appare, perciò, molto meno statica e astorica del previsto e al
contrario immersa nell’insieme di emozioni, di esperienze, di azioni, di
modi d’espressione e di comportamento che chiariscono il significato di
un’epoca o di una corrente di pensiero. La storia appare allora tutt’altro che
irrilevante per Lovejoy, nonostante in sede di analisi prevalga una tendenza
a schedare, a classificare, per mettere a fuoco i nuclei concettuali che resistono nel corso del tempo.86
Senza subire il fascino della storia delle idee lovejoyiana, Voegelin
riceve una notevole impressione dal risalto dato dal filosofo americano
proprio all’‘irrazionale’ (da non intendersi come astrazione speculativa), e al
gioco tra fattori razionali e irrazionali nella storia del pensiero. Una ricerca
storica vista quindi nella sua varietà di rapporti e che ha di conseguenza una
tendenza interdisciplinare, aperta all’interazione tra diversi piani (politico,
giuridico, economico, filosofico, letterario, artistico, religioso, teologico,
scientifico…). È questa una linea d’indagine che, secondo Voegelin, dà
nuova profondità all’interpretazione del mondo storico (al di là della mera
rassegna cronologica) e che è basilare anche per rinnovare la visione scientifica della political theory-political science.
Certamente si può discutere sulla validità dell’interpretazione voegeliniana della storia delle idee di Lovejoy, ma in questa sede preme sottolineare,
da un lato, il significato che Voegelin dà alla storia, alla ricerca storica e,
dall’altro, la connotazione assunta dalla storia delle idee. In primo luogo,
per il pensatore tedesco la storia rinvia inevitabilmente all’uomo e alle
esperienze da questo vissute; a sua volta l’idea è inscindibile dalla storia e
dall’uomo stesso. Le idee non rappresentano alcun riduzionismo concettuale
Years, “Journal of the History of Ideas”, 48 (1987), pp. 199-201.
85
L. MINK, Change and Causality in the History of Ideas, cit., p. 25.
86
Sulla storia delle idee lovejoyiana cfr. M. MANDELBAUM, The History of Ideas. Intellectual History and The History of Philosophy, “History and Theory”, 5 (1965), pp. 33-66; M.
RICHTER, Begriffsgeschichte and the History of ideas, “Journal of the History of Ideas”, 48
(1987), pp. 247-262; R. KELLY, What is happening to the History of Ideas?, “Journal of the
History of Ideas”, 51 (1990), pp. 3-25.
45
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
e, pur essendo collegate a uno specifico contesto storico, comune può essere
l’universo esperienziale d’origine che porta le idee stesse ad avere anche un
contenuto ‘metastorico’; infatti, certe esperienze e le risposte esperienziali
dell’uomo a determinate questioni politiche ritornano e si ripresentano nel
corso del tempo. Così autori e filosofi che non appartengono allo stesso
tempo storico e alla stessa scuola di pensiero possono sviluppare risposte
simili, vale a dire idee, concetti che presentano sostanzialmente affinità, somiglianze. La critica voegelininana al monismo riduzionistico non è, perciò,
una ricerca storica storicista in cui le idee, essendo storicamente determinate,
sono puramente relative, ma un’indagine che mira a ricostruire un quadro
esplicativo sul perché di certe idee e sulla loro genesi. Voegelin imposta
così una storiografia delle idee rivolta a rintracciare le fonti dell’ordine e
del disordine politico; ed in tale lettura della storia si fa strada la volontà di
catturare proprio quelle idee che hanno causato il deragliamento ideologico
dell’età moderna e contemporanea. L’intento è quello di spiegare la deriva
ideologica dell’Occidente, risalendo alle radici politico-intellettuali che
costituiscono la linfa dei totalitarismi del XX secolo.
Nell’assetto speculativo voegeliniano ciò comporta anche una riflessione sulle istanze monistiche della scienza politica moderna; questa, infatti, con il suo metodo era coinvolta nell’ascesa e nella logica stessa delle
concezioni monistiche del mondo. Dal confronto critico con idee, ideologie
e rappresentazioni politiche che presumono di formulare un sistema da
cui derivare un unico modello di vita, una società perfetta (e che di fatto
preludono e sostengono il totalitarismo), nasce di conseguenza in Voegelin
anche l’esigenza urgente di ripensare la scienza politica.
Quanto sin qui detto ha fatto emergere una serie di aspetti sul modo
di fare ricerca storica (in contrapposizione ai metodi e alle categorie delle
scienze naturali) e sul modo di intendere la storia delle idee che, come vedremo, ritornano anche nell’opera di Berlin. La convinzione voegeliniana
che non sia possibile separare il piano storico dal piano ideologico porta ad
una storia delle idee originale, non convenzionale e ‘atipica’, il cui valore
peculiare non risiede in ambizioni unitarie o pretese sistematiche, ma in
temi particolari che danno coerenza alla elaborazione storiografica. Uno
di questi temi, riguarda proprio la necessità di fare i conti con il monismo
(epistemologico e politico) quale minaccia (passata e presente) che incom46
Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee
be sulla democrazia e sulla libertà. Una linea interpretativa che, come sarà
poi messo in evidenza, lega Voegelin a Berlin, soprattutto nella misura in
cui entrambi si confronteranno con le origini intellettuali del totalitarismo.
47
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
CAPITOLO II
ERIC VOEGELIN E LA RIFLESSIONE SUL MONISMO
2.1 Scienza politica, émigré scholars e critica al liberalismo
È stato detto come l’identità della storiografia delle idee di Voegelin
venga definendosi nell’ambito del confronto metodologico all’interno della
disciplina history of political theory-political science americana. In tal senso,
negli anni ‘40, le analisi teorico-speculative del filosofo tedesco rientrano
nel tentativo di rifondare la scienza politica. Questo obiettivo viene inseguito
attraverso lo studio della storia del pensiero politico, dimostrando come la
disciplina non sia un’elaborazione sterile su grandi autori o sull’origine e
sviluppo dello Stato moderno nelle sue diverse componenti, ma una forma
d’indagine politica. Così, la ricerca storica e lo studio delle idee politiche
del passato dà luogo a due livelli di analisi tra loro reciprocamente connessi:
da un lato, l’esame delle fonti intellettuali che hanno prodotto la politica
ideologica moderna; dall’altro, la restaurazione di una nuova scienza politica
che chiama in causa ‘il potenziale totalitario’ di una certa forma di ricerca
scientifica, la quale ha la pretesa di imporre un criterio d’indagine unico
per comprendere la realtà.
Da questo punto di vista, nel decennio degli anni ‘40, il trattato History
of Political Ideas rappresenta uno snodo fondamentale nel piano di lavoro
voegeliniano. Formalmente la History è un testo (universitario) con lo scopo
di ricostruire complessivamente la storia del pensiero (filosofico, politico,
religioso) della civiltà occidentale, affrontandone la formazione, l’ascesa, il
declino e la crisi. L’opera mira a essere un grande affresco storico-politico
in cui in primo piano vi sono le idee, il ruolo da queste svolto nelle vicende
umane e nella costruzione dell’ordine politico. Tra le idee politiche è dato
risalto particolare a quelle che hanno prodotto la politica ideologica moderna
e contemporanea, ovvero sistemi concettuali di dominio totale del mondo.
In questo senso, il trattato rappresenta di fatto anche una storia delle fonti
intellettuali che hanno condotto agli esiti totalitari del XX secolo. Un testo
49
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
allora non convenzionale che sviluppa un’analisi della crisi del mondo politico moderno e contemporaneo; una crisi che, per Voegelin, si caratterizza
essenzialmente come religiosa e logico-razionale assieme. L’opera è pertanto
il crocevia di numerose ricerche e filoni interpretativi che consentono di
ricostruire i tratti caratteristici della riflessione voegeliniana intorno alle
dottrine e alle concezioni metodologiche con un contenuto monistico.
Lo scritto pubblicato postumo mostra, perciò, anche se ancora in modo
provvisorio, le linee guida da seguire per rifondare la scienza politica, esponendo i tratti distintivi della crisi scientifica dello studio del politico. Come
ha osservato Barry Cooper, “the foundations [of Eric Voegelin’s political
science] are found chiefly in […] [the] History of Political Ideas. […] The
History of Political Ideas was more than a livre de circonstance, as were the
books of his predecessors. It was […] the solid empirical foundations for
Voegelin’s restoration of political science to a genuine science of order in
politics, consciousness and history”.87 Naturalmente, la struttura speculativa
definitiva della scienza politica di Voegelin va ben oltre le riflessioni svolte
nella Storia delle Idee Politiche, ma il materiale empirico-storico raccolto e
studiato per la stesura dell’opera, oltre che la scelta di alcuni autori e principi
guida alla base della ricerca sviluppata, fornisce la possibilità di chiarire e
vedere sotto nuova luce la produzione intellettuale voegeliniana più matura.
Prima di procedere all’esame delle idee, delle correnti di pensiero, dei
sistemi filosofici e delle personalità che, secondo Voegelin, chiariscono la
specificità dell’esperienza totalitaria, ovvero le condizioni da cui il totalitarismo ha avuto luogo, è necessario prendere in considerazione l’analisi critica
di Voegelin riguardo alla struttura logica della scienza politica moderna.
Un’analisi che si colloca, come è stato più volte ricordato, all’interno del
dibattito complessivo sul ruolo della political theory nel contesto disciplinare della political science statunitense e che investe la natura e il significato
della scienza politica stessa.
La critica voegeliniana al metodo della scienza politica moderna deve
essere ricondotta ad un panorama culturale ed accademico preciso: tra gli
anni ‘40 e ‘50 del Novecento, il confronto dialettico sulla disciplina coinvolse numerosi studiosi e tra questi si ritagliarono un ruolo da protagonista
87
B. COOPER, op. cit, pp. XI, XII.
50
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
numerosi intellettuali europei che, come Voegelin, fuggiti dagli orrori del
secondo conflitto mondiale, trovarono rifugio proprio negli Stati Uniti d’America. L’impatto degli émigré scholars sulla scienza politica americana
fu particolarmente profondo, introducendo diverse prospettive, fondate
sul convincimento che la conoscenza del politico fosse entrata in una fase
di inesorabile declino. Tale convinzione era legata a un forte attacco alla
scienza e ad una altrettanto aspra critica al liberalismo: se la scienza andava
criticata per la sua pretesa di voler sistematizzare ogni aspetto della vita
individuale su basi matematico-quantitative e naturalistiche, il liberalismo
era interpretato come un credo politico decadente, che era stato incapace
di resistere alla catastrofe totalitaria.
Come puntualizza John Gunnell, studiosi europei come Eric Voegelin,
Leo Strauss, Hannah Arendt, Theodor Adorno, Franz Neumann, Arnold
Brecht, Herbert Marcuse e Max Horkheimer, solo per citarne alcuni, formati
nel contesto filosofico tedesco e segnati dall’esperienza negativa della Repubblica di Weimar, “in varying ways and degrees but inexorably, reshaped
the discourse of political theory”.88 E, nonostante le profonde differenze
dottrinali e filosofiche che li separano, “they […] challenged the liberal,
scientific, relativistic, historicist perspective that dominated political theory
and political science”.89 Per questi intellettuali, si rendeva necessaria una
nuova impostazione della teoria politica e della scienza politica, al fine di
contrastare ogni deriva relativistica e storicista e, soprattutto per alcuni di
essi (Voegelin, Strauss, Arendt), si imponeva una riflessione in cui l’aspetto
storico, filosofico e teorico-speculativo prevalesse su quello empiricoquantitativo-fattuale. Non si trattava di formulare sistematicamente leggi
oggettive generali o principi per dedurre e descrivere in via puramente
logica la realtà politica, ma di ripensare la natura, il carattere e lo scopo
stesso della scienza politica e della history of political theory. Quest’ultima
diviene quindi un mezzo per interpretare la crisi dell’Occidente, una crisi
88
J.G. GUNNELL, American Political Science, Liberalism, and the Invention of Political
Theory, “The American Political Science Review”, 82 (1988), p. 73. Cfr. anche ID., Between
Philosophy and Politics. The Alienation of Political Theory, cit., pp. 13-15.
89
J.G. GUNNELL, American Political Science, Liberalism, and the Invention of Political
Theory, cit., p. 73. Cfr. anche ID., The Descent of Political Theory. The Genealogy of an
American Vocation, cit., pp. 178-179.
51
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
ritenuta al medesimo tempo politica e morale, e le cui origini andavano
ricercate anche nella modalità di comprensione del reale e, in particolare,
del mondo socio-politico.
Il metodo della scienza politica americana seguiva, infatti, le tracce
delle scienze naturali ed era schiavo di uno statuto scientifico che, mirando
a leggi di previsione universali, accettava in via assoluta spiegazioni causali,
la verificabilità empirica, la quantificazione, la misurazione e l’avalutatività.
In un campo come quello della political theory (e del politico in generale)
ciò implicava l’impossibilità di produrre teoria politica, di fornire un punto
di vista teorico che desse profondità e creatività all’analisi empirica. La
scienza politica ‘scientifica’, cioè la scienza politica che voleva procedere
secondo il modello delle scienze naturali, aveva di conseguenza cancellato
ogni possibilità di dialogo tra scienza, filosofia e storia e, nei suoi limiti
estremi, aveva reciso ogni legame, da un lato, con la filosofia (eliminando
la filosofia politica) e, dall’altro, con la dimensione storica della scienza e
della teoria politica stessa.
Nella prospettiva degli émigré scholars, il processo di ‘guarigione’
della scienza politica si realizzava tramite un’indagine che si focalizzava
su alcuni temi fondamentali quali: “the critique of modernity (and the
domination of technology and the growth of mass society), the attack on
neo-Kantian doctrines, the reading of images of historical decline into liberal society, […] the fusing of history and philosophy and the project of
deconstructing the Western tradition, the cult of antiquity and the return to
Greek philosophy and the transcendental emphasis on heroic action and
‘the political’ as exemplified in the polis, the hermeneutical emphasis on
texts and language, the return to ontology, the celebration of the vocation of
philosophy as standing above the specialized natural sciences, the antipathy
toward pluralist politics and the support of the state”.90 La risposta alla crisi logico-razionale della scienza politica segue, dunque, tragitti personali
con diversi obiettivi che, in questa sede, non possono essere approfonditi.
Qui, attenendoci all’argomento del nostro lavoro, entriamo nel merito della
diagnosi della crisi della scienza e della politica formulata da Voegelin,
chiedendoci quale sia la condizione della scienza politica moderna per il
90
J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation,
cit., p. 173.
52
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
pensatore tedesco.
La riflessione metodologica sulla scienza politica è centrale nella lettura che egli dà del monismo, perché nel pensiero di Voegelin il monismo
epistemologico conduce inevitabilmente al monismo politico, cioè al totalitarismo. Viene così alla luce una linea interpretativa che si collega proprio
a un certo modo di intendere la scienza; precisamente, nella prospettiva
voegeliniana, la scienza politica moderna aveva fatto propria una metodologia del tutto simile a quelle delle scienze naturali e matematiche, convinta
che i metodi delle scienze esatte fornissero un criterio di validità teorica
generale. Centrata sull’auto-fondazione della ragione, riteneva possibile
un controllo razionale della realtà sociale e politica, in quanto quest’ultima
coincideva con un insieme anonimo di ‘cose’, disponibili a manipolazioni
concettuali e delle quali si poteva dare conto in via assoluta ed univoca.
Con questo modo di operare, la scienza politica moderna era scaduta a dogmatismo, a schema anticipatorio e descrittivo della realtà politica e della
prassi politica, perdendo di vista l’uomo (la sua esistenza politica, il suo
agire politico) quale attore principale. Inoltre, restando priva di autonomia
e del fondamento antropologico del proprio studio, si era ridotta a vuoto
“esercizio retorico” su problemi che non era più in grado di comprendere e
dominare e, nel peggiore dei casi, era divenuta strumento di legittimazione
di brutali esperimenti totalitari.91
Per Voegelin, ciò che è in discussione è il metodo stesso della scienza
politica moderna, indiscutibilmente coinvolta nell’ascesa del totalitarismo:
è necessario abbandonare il monismo epistemologico di una disciplina
scientifica che pretende di voler tutto comprendere per via dell’uso esclusivo
di una ragione razionalista, la quale viene assunta quale principio di ogni
conoscenza. In definitiva, nell’ottica voegeliniana, il razionalismo moderno
si fonda su un metodo specifico (quello delle scienze naturali) che dà vita
ad esercizi speculativi i quali, distorcendo la realtà, affermano una visione
immutabile e onnicomprensiva del politico. La scienza politica ha quindi
bisogno di un deciso rinnovamento per superare la rigidità del metodo e
delle categorie adottate. Nel progetto voegeliniano di rigenerare e restaurare
la scienza politica americana la History of Political Ideas costituisce un
91
S. CHIGNOLA, Pratica del limite. Saggio sulla filosofia politica di Eric Voegelin, cit., p. 90.
53
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
banco di prova. Nell’opera l’obiettivo viene inseguito dando spazio ad una
ricerca storica che lasci da parte “the submissive descriptive treatment of
political problems” ed introduca, invece, “an analysis of the more essential
determining factors”.92 Nella Storia delle Idee Politiche l’autore traccia,
perciò, i contorni di una nuova scienza politica che sia anche una scienza
storica (o meglio una filosofia della storia) dal momento che è la storia a
fornire gli strumenti concreti per interrogarsi sulla matrice delle ideologie
totali e totalitarie e sulla crisi della modernità.93
Addentrandosi nella ricostruzione storico-culturale della History,
emergono tre correnti di pensiero ritenute centrali per spiegare le costruzioni razionali e politiche che desiderano strutturare il mondo per mezzo
di un modello perfetto al servizio di un’unica idea. Voegelin si riferisce a
scientismo, positivismo e fenomenismo, modelli di pensiero a loro volta
coinvolti in una più profonda tendenza del pensiero occidentale: il processo
di progressiva secolarizzazione, ossia di negazione della trascendenza, che
caratterizza l’età moderna e contemporanea. Guardando alle pagine degli
otto volumi del trattato, vi sono paragrafi specifici che offrono le coordinate
precise dell’interpretazione voegeliniana del monismo epistemologico e
totalitario: The English Quest for the Concrete, nel VI volume (Revolution
and the New Science), Phenomenalism nel VII volume (The New Order and
Last Orientation) e gran parte dell’VIII volume, Crisis and The Apocalypse
of Man, in particolare le sezioni dedicate all’illuminismo, al positivismo,
a Comte e a Marx. Oltre a ciò, si deve tenere presente che parti consistenti
del VI e dell’VIII libro della History furono pubblicate, nel 1975, da John
Hallowell con il titolo From Enlightenment to Revolution, perché sezioni
considerate a sé stanti, nelle quali emergono gli aspetti del pensiero politico
occidentale che preludono alla sua crisi scientifica, culturale, morale e politica.94 Inoltre, anche altre sezioni della History trovarono, nel corso degli
92
Eric Voegelin a Benjamin Lippincott, 19 maggio 1940, in E. VOEGELIN, Selected Correspondence 1924-1949, cit., p. 247.
93
Cfr. B. COOPER, op. cit., pp. XII, 433.
94
J.H. HALLOWELL (edited by), From Enlightenment to Revolution, Durham, North Carolina,
Duke University Press, 1975; tr. it. DARIO CARONITI (a cura di), Dall’Illuminismo alla
Rivoluzione, Roma, Gangemi Editore, 2004. John Hallowell, professore di scienza politica
alla Duke University per circa trentanove anni, seguì un percorso di ricerca per certi versi
simile a quello di Voegelin, affrontando nelle sue opere la crisi della civiltà occidentale e
54
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
anni, una sede editoriale alternativa rispetto a un’opera che nella sua vastità
e complessità non giunse a una conclusione. Riguardo alla vocazione monistica del totalitarismo ci interessa sottolineare la pubblicazione in riviste
specialistiche dei seguenti articoli: Siger de Brabant, Bakunin’s Confession,
The Origin of Scientism, The Formation of the Marxian Revolutionary Idea.95
L’insieme di questa produzione scientifica sta ancora una volta a dimostrare
come la History of Political Ideas sia un ‘laboratorio filosofico’ nel quale
prende forma l’analisi e la rifondazione della scienza politica, da un lato, e
la riflessione sul fenomeno monistico-totalitario, dall’altro.
Secondo Voegelin, i prodromi delle dottrine monistiche vanno ricercati
nella seconda metà del XIII secolo, con i commenti alle dottrine averroisticoaristoteliche; nel XVI secolo, età in cui nascono la matematica e la fisica
modernamente intese; nel XVII secolo con l’avanzamento delle conoscenze
scientifiche ed, infine, nel XVIII e XIX secolo, dove le possibilità della
ragione umana sembrano non avere limiti. Il XIII secolo rappresenta il
primo snodo importante nell’analisi voegeliniana: il mondo medievale si
sta rapidamente disgregando, un crollo graduale ma integrale che si manifesta in special modo nello scontro (politico e logico) tra autorità della
fede rivelata e autorità e facoltà della ragione. Questo processo di scissione
tra fede e ragione si palesa in tutta la sua portata con Sigieri di Brabante,
che sostiene in modo risoluto la separazione tra l’ambito dell’indagine
filosofico-scientifica da quello proprio della teologia e dell’esegesi della
verità rivelata. Del filosofo brabantino, Voegelin evidenzia quei passaggi
dei suoi scritti e del suo insegnamento nei quali si rintracciano elementi
proponendo come chiave di lettura del suo declino il positivismo, lo storicismo e il relativismo. In particolare, Hallowell si concentrò sull’impatto, a suo parere devastante, che le idee
positivistico-scientiste ebbero sul liberalismo. Queste avevano fatto perdere alla cultura occidentale ogni attenzione verso i problemi metafisici e i valori cristiani. Cfr. J.H. HALLOWELL,
The Decline of Liberalism as an Ideology, Berkeley, University of California Press, 1943;
ID., Politics and Ethics, “American Political Science Review”, 38 (1944), pp. 639-655; ID.,
Modern Liberalism: An Invitation to Suicide, “South Atlantic Quarterly”, 46 (1947), pp. 453466; ID., Main Currents in Modern Political Thought, New York, Henry Holt and Company,
1950; ID., The Moral Foundation of Democracy, Chicago, Chicago University Press, 1954.
95
E. VOEGELIN, Siger de Brabant, “Philosophy and Phenomenological Research”, 4 (1944),
pp. 507-526; ID., Bakunin’s Confession, “The Journal of Politics”, 8 (1946), pp. 24-43; ID.,
The Origin of Scientism, “Social Research”, 4 (1948), pp. 462-494; ID., The Formation of
the Marxian Revolutionary Idea, “Review of Politics”, 12 (1950), pp. 275-302. Il saggio The
Origin of Scientism ora anche in ID., Published Essays 1940-1952, cit., pp. 168-196.
55
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
propri di un’attività intellettuale concepita come “an intramundane force
trying, as an absolute, to determine the standards of human existence”.96 La
configurazione di una ragione che comincia ad imporsi come potere assoluto
in grado di stabilire verità assolute (e che perciò recide ogni legame con il
trascendente), si accompagna a una concezione intramondana dell’uomo e
della sua esistenza, in cui “the life of the intellect” permette di raggiungere
in terra il summum bonum.97
Se la filosofia di Sigieri è, per Voegelin, una delle prime chiare
espressioni dell’ascesa del potere dell’intelletto, di una ragione autonoma
e indipendente, che desidera plasmare il mondo e la vita dell’uomo nei
suoi principi costitutivi, è con il XVI secolo che si inaugura una ‘nuova
epoca’ in cui la fiducia nelle capacità e possibilità umane raggiunge una più
sicura consapevolezza. Una consapevolezza tutta moderna il cui comune
denominatore consiste in un uomo inteso come l’origine del significato
dell’intero universo, il quale “owes its meaning to the fact that it has been
evoked by the mind of man”.98 È nella seconda metà del Cinquecento che
s’impone infatti il ‘credo scientista’ e, successivamente, nel XVII secolo,
i sorprendenti traguardi raggiunti dalla rivoluzione scientifica nella spiegazione del funzionamento del mondo naturale fanno sostenere all’uomo
che i metodi delle scienze naturali sono applicabili e produttivi anche per
il mondo sociale e politico.
Con l’illuminismo settecentesco si rivela, poi, il nucleo essenziale di
una ragione autosufficiente. La riflessione voegeliniana sul XVIII secolo
sottolinea come i philosophes rivendicassero la verità assoluta della scienza
e sostenessero l’idea di perfettibilità dell’uomo e delle sue conoscenze; una
perfettibilità umana illimitata, perché ragione e scienza sono, per il credo
illuminista, dotate di capacità infinite. Questa concezione del mondo si
basa sul dogma del progresso, da intendersi sia come progresso razionalescientifico sia sociale: l’uomo è capace, guidato dalla ragione e dalla scienza,
di cambiare la realtà sociale, di renderla sempre più perfetta. Un’evoluzione
96
E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. II, The Middle Ages to Aquinas, cit., p. 190.
97
Ivi, p. 191.
98
E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. V., Religion and the Rise of Modernity,
cit., p. 136.
56
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
progressiva che, per il tramite di un disegno generale, si avvicina a un ordine
sociale ideale e completo. Nell’opinione di Voegelin, l’interesse primario
degli illuministi razionalisti è, perciò, cambiare la società in conformità
con i loro principi, calando in terra la Città di Dio di Agostino. La dottrina
del progresso si accompagna, quindi, a una visione della storia in cui il
processo storico è guidato dalla scienza empirico-naturale e dalla volontà
umana guidata dalla ragione. La dinamica storica, seguendo una tragitto
progressivo, può essere costruita a priori e, sempre in astratto, può essere
fissato il punto di arrivo di tale cammino: la condizione di perfezione futura
dell’umanità è prodotta dall’uomo stesso e la storia si secolarizza. L’uomo
è così il padrone del proprio destino e ha il futuro nelle sue mani.
Da storico delle idee, Voegelin considera Voltaire uno dei primi filosofi ad avere realizzato una ricostruzione della storia dell’uomo universale
nella quale al centro del processo storico è posto l’intramondano esprit
humain. L’Essai sur les mœurs et l’esprit des nations, non solo racconta del
progresso dello spirito umano, ma mostra una storia secolarizzata, senza
irruzioni trascendenti, tutta orientata a celebrare “an image of man in the
cosmos under the guidance of innerwordly reason”.99 A governare il processo
storico è l’idea di una ragione universale ed immanente, che prende il posto
di qualsiasi riferimento spirituale-provvidenzialistico; inoltre, il cammino
progressivo della storia stessa si rivela in tre stadi evolutivi: estinzione,
rinascita e progresso dello spirito umano, dove l’ultimo stadio corrisponde
al Terzo Regno di perfezione spirituale, di una ragione autonoma, onnicomprensiva e onnipotente. Tale impostazione storiografica preannuncia,
secondo Voegelin, le filosofie della storia di Comte e di Marx e non solo:
“[…] from Voltaire’s esprit to Comte’s faith in the organizing and engineering intellect, to the Marxian faith in the proletarian as the true man and
the proletariat as the chosen people, and further on to the various beliefs in
chosen nations and a chosen race”.100
Il carattere antimetafisico dell’illuminismo che glorifica la ragione
umana e ritiene possibile un mondo nel quale tutto è naturale e nulla sovrannaturale raggiunge conseguenze ancora più estreme nel XIX secolo. La
99
E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VI, Revolution and the New Science, cit., p. 57.
100
Ivi, p. 44.
57
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
svolta monistica della scienza e della politica è nell’Ottocento visibile in
tutta la sua radicalità: da un lato, la dimensione ideologica del razionalismo
moderno trova espressione nel positivismo scientista e, dall’altro, prorompono sulla scena i movimenti di massa rivoluzionari moderni che con i loro
leader annunciano progetti universali di palingenesi terrena. Tuttavia, per
Voegelin, la cifra dell’epoca sta nell’auto-trasformazione dell’uomo in super
uomo; una trasformazione interiore e spirituale in cui l’uomo è per l’uomo
stesso l’essere supremo. Auto-divinizzandosi egli è così in grado di compiere
la sua stessa salvazione e di cancellare Dio dal mondo. In questo senso, nel
rintracciare le fonti intellettuali del totalitarismo Voegelin identifica anche
le componenti religiose delle ideologie totalizzanti che non permettono la
salvezza individuale e trascendente, ma impongono una salvezza collettiva
e immanente. L’ideologia positivista-scientista si salda all’idea escatologica
di un’apocalisse umana intramondana.
L’interesse principale di Voegelin si rivolge a Comte e Marx quali
pensatori che più di altri rivelano il cuore del positivismo ottocentesco e
della crisi spirituale che travolge la modernità intera. Nelle pagine seguenti
esamineremo la lettura voegeliniana delle concezioni filosofiche comtiana
e marxiana, anticipando però che questi paragrafi della History of Political
Ideas (nello specifico l’ottavo volume) costituiscono lo sfondo del tragitto
teorico seguito da Voegelin nelle opere successive e, in particolare, nel
saggio The New Science of Politics, in cui viene presentato il canone metodologico che la nuova scienza politica deve seguire.
In queste sezioni della History si precisa, perciò, l’interpretazione
voegeliniana del monismo epistemologico-metodologico e, non da ultimo,
si evidenziano alcune analogie con il pensiero di Berlin. Una convergenza
di vedute quella tra i due autori che emerge in riferimento allo scientismo
illuminista. Pur in un assetto speculativo differente (per esempio, come si
vedrà, la critica di Berlin alla tradizione illuminista è orientata, differentemente da Voegelin, in senso antimetafisico), entrambi guardano con sospetto
a quelle elaborazioni basate sul monopolio della ragione e delle scienze
naturali, le quali affermano la validità di un’unica ‘idea’ e di un metodo
esclusivo per comprendere la realtà e realizzare un ordine politico perfetto.
Problematizzando, dunque, le affinità tra Voegelin e Berlin, è necessario
qui richiamare l’interpretazione che Voegelin dà dello scientismo, tenendo
58
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
presente che nella seconda parte di questo lavoro verrà esaminata proprio la
polemica antiscientista del filosofo inglese. “By scientism – afferma Voegelin – we shall understand an intellectual movement of which the beginnings
could be discerned as early as the second half of the sixteenth century”,101 e
che consiste in una teoria scientifica riduzionista che poggia su due postulati;
in primo luogo, assume come modello metodologico quello delle scienze
naturali-matematiche, a cui tutte le scienze, anche quelle storiche e sociali,
devono conformarsi, e, secondariamente, circoscrive la sua stessa indagine
al solo mondo sensibile e fenomenico. Tre sono i dogmi a cui si appella:
(1) the assumption that the mathematized science of natural phenomena is a model
of science to which all other sciences ought to conform; (2) that all realms of being
are accessible to the methods of sciences of phenomena; and (3) that all reality that
is not accessible to the sciences of phenomena is either irrelevant or, in the more
radical form of the dogma, illusionary.102
Questa impostazione conoscitiva porta con sé due forzature metodologiche: da un alto, viene esaltata la scienza fenomenica (science of phenomenon) a scapito della scienza della sostanza/essenza (science of substance),
dall’altro, viene negato “the concern for experiences of the spirit”.103 Il punto
cruciale è, per Voegelin, che lo scientismo, sostituendo la realtà sostanziale
con quella fenomenica, riduce la complessa realtà individuale e sociale ai
soli elementi immanenti, privando di validità quel tipo di conoscenza che
esamini anche la dimensione metafisica e spirituale del mondo. L’esito di
una ragione così modulata è disastroso, sia epistemologicamente sia politicamente: questo tipo di razionalismo monistico monopolizza la comprensione
della realtà, presupponendo di possedere un’intelligenza superiore in grado
di conoscere in via assoluta e definitiva la totalità delle cose esistenti. Ne
consegue che, per mezzo di un atteggiamento mentale onnipotente e totale,
tenta di porre ordine nel mondo, forgiandone uno nuovo in dettaglio e imponendo un’unica ragione sulla realtà politica. Il progetto del razionalismo
scientista è, perciò, per Voegelin, delirante in quanto produce una ‘nuova
scienza’ che, esplorando solo il mondo fenomenico e le relazioni tra fenome101
E. VOEGELIN, The Origin of Scientism, in ID., Published Essays 1940-1952, cit., p. 168.
102
Ivi, pp. 168-169.
103
Ibidem.
59
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
ni sensibili, pretende, da un lato, di conoscere “the «real» order of nature”,
ovvero le leggi universali della realtà naturale, sociale e politica, e, dall’altro,
di fondare una conoscenza dell’uomo e dell’universo “that is supposed to
replace the knowledge of substance originating in spiritual experience”.104
Una scienza politica, quindi, che non può che sostenere il totalitarismo,
formulando sistemi logici che presumono di ridisegnare ‘scientificamente’
una società scevra da difetti.
Il pensatore tedesco pone particolare enfasi nel sottolineare come questa impostazione intellettuale neghi, innanzitutto, “questions of metaphysical
nature”,105 perché “[the] attribution of «absoluteness» to the new science
expresses the will of finding an absolute orientation of human existence
through intramundane experience; and the correlate to this new will is the
unwillingness to orient existence through openness toward transcendental
reality”.106 Nessun mistero viene così lasciato irrisolto e nessuna domanda
è senza risposta, perché ogni affermazione inerente alla realtà non empirica
è considerata accessoria, superflua e priva di fondamento. Dando risalto al
carattere empirico-immanentistico dell’assolutismo monistico scientista,
Voegelin evidenzia anche un altro dato essenziale: “the advancement of
science after 1700 is the most important single factor in changing the structure of power and wealth on the global scene”:107 il progresso delle scienze
modifica la relazione tra società politica e potere in senso razionalisticoutilitaristico, trasformando la struttura sociale ed economica del mondo
Occidentale.
Voegelin elenca alcuni aspetti fondamentali di tale cambiamento:
the ramification of science into technology; the industrialization of production; the
increase of population; the higher population capacity of an industrialized economy;
the transformation of an agricultural into an urban society; the rise of new social
groups – the industrial proletariat, the white-collar employees, and an intellectual
proletariat; the concentration of wealth and the rise of managerial class; the everincreasing numbers of men who depend for their economic existence on decisions
104
E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VII, The New Order and Last Orientation,
cit., p. 184.
105
E. VOEGELIN, The Origin of Scientism, in ID., Published Essays 1940-1952, cit., p. 168.
106
Ivi, p. 192.
107
Ivi, p. 188.
60
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
beyond their influence; the dependence of national power on a highly developed
industrial apparatus; the dependence of the industrial apparatus on the political accessibility of markets of raw material; […].108
La ‘società scientista’ tende, pertanto, a diventare, con tinte sempre più
marcate, razionalistica, utilitaristica e calcolatrice ed il senso di ogni situazione è ridotto a relazioni causali, relazioni mezzi-fine, in cui, possedendo
il mezzo (la scienza), il fine è logicamente e facilmente raggiungibile. È
evidente come per il tramite di un procedimento strutturato “science become an idol that will magically cure the evils of existence and transform the
nature of man”.109
Per Voegelin l’‘ossessione scientista’ include perciò il dominio della
scienza sulla natura, dell’uomo sulla natura e, infine, dell’uomo sull’uomo,
manifestandosi emblematicamente nei movimenti totalitari del XX secolo.
Tuttavia, anche i movimenti liberali e progressisti mostrano di essere affetti
da “the pathos of autonomy and self-reliance of science”.110 In questi casi,
trova espressione la convinzione che le calamità piuttosto evidenti che il
progresso tecnico-scientifico porta con sé possano essere corrette per mezzo
della scienza stessa: “we have gained the dominion over nature through
science; in order to avoid a misuse of this power, runs the argument, we
must now gain control over our social environment through a corresponding
advancement of social science”.111 Per padroneggiare la storia e per migliorare la società, è necessario che anche le scienze politiche e sociali emulino
la metodologia delle scienze naturali, così da programmare e realizzare un
ordine socio-politico compiuto in tutte le sue parti.
La condanna di Voegelin al razionalismo scientista quale premessa
alla moderna politica ideologico-totalitaria, è anche critica del positivismo;
un fenomeno storico-culturale che assume nella speculazione voegeliniana
un significato ampio, avendo assorbito “a rich tradition of sentiments and
ideas”,112 e la cui analisi si sovrappone allo studio critico dello scientismo.
108
Ibidem.
109
Ivi, p. 190.
110
Ivi, p. 192.
111
Ibidem.
112
E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VIII, Crisis and The Apocalypse of Man,
61
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
In effetti, è importante avere presente che il discorso del filosofo tedesco
intorno alla dottrina positivista, condotto in Crisis and The Apocalypse of
Man, ottava e ultima parte della History of Political Ideas, è legato all’opera
più famosa di Voegelin, The New Science of Politics, del 1952. Il volume
finale del trattato non costituisce, perciò, una vera e propria conclusione
dell’opera, ma piuttosto un ponte verso ricerche e riflessioni svolte negli
anni ‘50.
Fatta questa precisazione, il positivismo è per Voegelin in prima
istanza una perversione della scienza che contraddistingue la modernità
intera, in modo marcato dalla seconda metà del XIX secolo.113 Si tratta di
una forma particolare di perversione metodologica che snatura il concetto
stesso di scienza, subordinandone la validità teorica al metodo. Il modello
metodologico di riferimento è, come è stato più volte sottolineato, quello
delle scienze naturali le quali determinano lo status e gli standard della
scienza politica stessa: osservazione diretta della realtà, verifica sperimentale, certezza e prevedibilità matematica e, infine, formulazione di leggi
generali indubitabili sono, quindi, gli obiettivi obbligatori che anche la
scienza politica deve perseguire. Da questo presupposto discendono due
corollari: in primo luogo, la delegittimazione di tutte le problematiche che
non ammettono una risposta “by the methods of the sciences of phenomena”,
ovvero l’eliminazione della dimensione metafisica della natura dell’uomo;
in secondo luogo, la presunzione di pervenire in tale maniera ad una scienza
oggettiva, perché solo le asserzioni “concerning facts of the phenomenal
world [are] «objective», while judgments concerning the right order of soul
and society [are] «subjective»”.114 Il mondo socio-politico è dunque inteso
come speculare a quello fisico, ovvero è visto come una realtà uniforme
e omogenea; ne consegue che gli aspetti biologico-fisici dell’individuo
prendono il posto della singolarità della persona umana: l’uomo è un dato
che non subisce cambiamenti e in questo modo è semplice pianificare e
controllare lo sviluppo della società e pervenire ad una legge empirica della
storia e dei fenomeni politico-sociali.
Ciò che Voegelin mette in discussione è l’idea di rendere ‘scientificit., p. 88.
113
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., pp. 90, 92-93.
114
Ivi, p. 96.
62
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
ca’ la scienza politica con l’impiego di metodi d’indagine il più possibile
riconducibili a quelli delle scienze della natura; ciò degrada dal punto di
vista teorico la scienza politica e confina la disciplina stessa ad essere una
descrizione conformistica e sterile del politico e del comportamento politico.
Il dibattito disciplinare statunitense del quale Voegelin è uno dei protagonisti
riguarda una crisi metodologico-teorica; una crisi, dunque, della ragione,
della cultura e, non da ultimo, della politica, che coinvolge il destino del
liberalismo, inteso non solo come dottrina politica, ma come complesso
valoriale (etico e spirituale) che abbraccia una tradizione culturale e teoretica precisa. Voegelin (e come lui altri émigré scholars) si confronta con
il liberalismo delle democrazie occidentali, cogliendone le aporie logicoepistemologiche, metodologiche, politiche e spirituali che, a suo parere, lo
hanno condotto verso il totalitarismo.
Le democrazie liberali contemporanee si erano dimostrate fragili ed
incapaci di resistere a governi che avevano soppresso la libertà civile e
politica; un avvenimento traumatico che, per Voegelin, incombe ancora sul
presente e sul futuro della liberal-democrazia: l’esperienza della Repubblica
di Weimar, repentinamente collassata sotto i colpi del nascente nazionalsocialismo, obbligava ad una riflessione (anche in terra americana) che non
poteva fare a meno di riflettere sulle radici di una crisi che aveva ben presto
investito tutto l’Occidente. Al termine della Seconda guerra mondiale e con
il profilarsi all’orizzonte della Guerra Fredda, la civiltà occidentale appare
al pensatore tedesco ancora incapace di recuperare l’idea di un ordine politico articolato e complesso; se, da un lato, l’organizzazione democratica è
ridotta a regole tecniche che riguardano procedure e competenze, dall’altro,
il progresso tecnico-scientifico senza pari (a spese di un regresso spiritualreligioso) è sinonimo di potere e onnipotenza. Accanto a ciò, si esaltano
gli interessi individuali e cresce la difficoltà di trovare uno spazio comune,
condiviso per la dialettica politica, progressivamente ridotta a scontro ultimativo su un’idea di unità politica monolitica.
L’indagine voegeliniana sulle radici intellettuali dei moderni totalitarismi va inserita in questo contesto e in questo sentire, tenendo presente che
l’involuzione della democrazia liberale è anche un problema che riguarda
la logica stessa della modernità, legata al razionalismo scientifico astratto
e a filosofie della storia radicalmente immanentistiche. Ecco dunque che le
63
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
fonti storiche, intellettuali e spirituali della svolta ideologica della politica
occidentale vanno ricercate nei secoli XVI, XVII, XVIII e XIX, perché in
queste fasi della storia è racchiuso il progetto del razionalismo moderno:
“realizzare una comunità politica «sotto il segno dell’Uno»”115 grazie alle
illimitate possibilità umane. Scientismo e positivismo rivelano il potenziale totalitario di quelle modalità di comprensione che neutralizzano i vari
aspetti dell’esistenza; e, affermando l’egemonia metodologica universale
delle scienze della natura, pervengono ad una scienza politica che accumula
fatti, sopprimendo la riflessione teorica e riducendosi così a doxa.
Voegelin sostiene che una scienza politica modulata secondo i dettami
scientisti-positivisti, che si basa su un procedimento scientifico matematicoquantitativo-avalutativo e utilitaristico-strumentale, rifiuta la funzione di
analisi critica, che essa invece deve avere. Indagando il mondo socio-storico
da una prospettiva puramente empirica, espelle dal proprio studio i dati
dell’esperienza non riconducibili al mondo fenomenico e confina l’esperienza umana alla sola sfera mondana. Così operando, perde la percezione
dei propri limiti e tende a ricostruire il mondo al servizio di un’unica idea:
ecco il pericolo della degenerazione epistemologica monistico-scientista
subito dalla scienza politica moderna. Un pericolo sperimentato nella sua
ferocia nei regimi totalitari, nel momento in cui, per esempio, l’idea di razza,
di classe, di partito assurgono ad astrazioni scientifiche tutte immanenti.
Stando così le cose, secondo Voegelin è indispensabile rifondare, ‘restaurare’ la scienza politica; ma cosa intende il pensatore tedesco quando
parla di “restoration of political science”?116 Non è possibile in questa sede
affrontare in dettaglio il progetto voegeliniano di ri-teorizzazione della
scienza politica, è tuttavia necessario richiamare alcuni aspetti centrali del
nuovo registro metodologico che Voegelin elabora, perché questi sono collegati allo statuto accademico della disciplina, alla riflessione sul monismo
e al futuro stesso della democrazia liberale. Un futuro quello dell’epoca
democratica che, seguendo il ragionamento di Voegelin, dipende anche dal
modo di intendere la scienza.117
115
S. FORTI, op. cit., p. IX.
116
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 89.
117
Sulla ‘nuova scienza politica’ voegeliniana si veda in particolare oltre alle già citate mo-
64
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
È negli anni ‘50 che l’opera voegeliniana di ricostruzione della political science trova una prima sistematizzazione. Se per Voegelin fino alla
metà del Novecento la storiografia delle idee fu lo strumento cardine per
esaminare l’affermarsi delle ideologie monistico-totalitarie, individuando
idee, correnti di pensiero e autori che avevano lasciato un segno importante nella storia della civiltà occidentale, proprio a metà del XX secolo egli
abbandonò (per circa un anno) la stesura della History of Political Ideas,
dedicandosi alla elaborazione di The New Science of Politics. L’opera fu il
frutto delle Walgreen Lectures, ovvero della conferenza tenuta a Chicago,
nel ‘51, dal titolo Truth and Representation, e segnò un passaggio fondamentale nel pensiero voegeliniano. In essa vengono affrontati temi rilevanti (il
problema della rappresentanza politica, l’interpretazione storica per grandi
scansioni epocali, la condanna della modernità secondo il principio dello
gnosticismo) che ruotano attorno alla critica al positivismo e alla battaglia
metodologica da intraprendere nei confronti dell’assolutezza della scienza
politica di matrice positivista. Da un lato, è la storia delle idee a fornire
gradualmente a Voegelin materiali e strumenti per il nuovo modello di
scienza politica; dall’altro, la stessa historiography of political ideas pur
seguendo una ricerca storica non tradizionale, sembra a Voegelin insufficiente per raggiungere un livello ancor più profondo di comprensione. Ciò
implica uno strappo con l’approccio interpretativo che governa la History
e l’adozione di strumenti concettuali-analitici alternativi all’idea. Voegelin
non rinnega gli anni di studio che lo hanno visto impegnato come storico
delle idee, ma ridefinisce la propria analisi del mondo storico e dei complessi di ordine politico-spirituale. Vedremo in seguito cosa ciò comporti,
ora vogliamo piuttosto concentrarci su alcuni punti essenziali del piano di
‘restaurazione-rinnovamento’ della scienza politica avanzato dal filosofo
politico tedesco, proprio perché questo stabilisce alcuni principi basilari per
uscire dal disordine logico-scientifico contemporaneo.
Per prima cosa, ciò che Voegelin chiede alla scienza politica è di riappropriarsi di una ragione che riconosca “the structure of reality in all its strata
from matter to spirit without attempts at reducing causally the phenomena
nografie di Sandoz e Cooper, P.J. OPITZ, «La nuova scienza politica»: lo sfondo biografico
e teorico di un classico, “Filosofia politica”, VI (1992), pp. 67-77.
65
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
of one realm of being to those of another”.118 Superando la rigidità logica
dello scientismo e del positivismo e ripristinando l’importanza vitale delle
problematiche metafisiche, cioè di tutte quelle questioni che non possono
essere risolte con l’osservazione e la deduzione, si riconquista una scienza
politica che sia una theory of politics in grado di interrogarsi criticamente
sulla condizione umana dal punto di vista politico e sociale. Questa teoria
della politica deve prendere in esame l’esistenza storica dell’uomo ed essere,
pertanto, una teoria della storia; ciò implica l’adozione di una filosofia della
storia che non miri a “dare un senso complessivo e definitivo alla storia
umana”,119 come, per esempio, le costruzioni di Hegel e Marx, ma che vada al
di là delle regolarità del mondo fenomenico, per cogliere le forme simboliche
attraverso cui l’ordine della società si rivela. Non è quindi sostenibile, per
Voegelin, pretendere di conoscere il nucleo intellegibile della storia: “The
course of history as a whole is not an object of experience; history has no
eidos, because the course of history extends into the unknown future. The
meaning of history, thus, is an illusion”.120
Voegelin prende, quindi, le distanze dalle illusorie ambizioni di dare
una spiegazione assolutamente certa, vera, esaustiva e scientifica del corso
della storia umana. Questo tipo di interpretazioni sono, per di più, monisticamente impostate, seguendo un principio unico per il quale gli eventi
storici e le loro conseguenze vengono posti in connessione e riferiti ad un
significato ultimo. Un significato, inoltre, immanente, secondo cui la storia
stessa viene letta come un’evoluzione progressiva dell’umanità e realizzazione dell’eschaton cristiano in terra. “[T]his illusionary eidos – Voegelin
prosegue – is created by treating the symbol of faith [l’eschaton cristiano
che assicura il compimento trascendente ovvero trans-storico del destino
ultimo dell’essere umano] as if it were a proposition concerning an object
of immanent experience”.121
118
E. VOEGELIN, The History of Political Ideas, vol. VII, The New Order and Last Orientation, cit., p. 195.
119
G. CAMMAROTA, La scienza politica come scienza teorica. La teoria della rappresentanza in Eric Voegelin, in R. RACINARO (a cura di), Ordine e Storia in Eric Voegelin,
Napoli, ESI, 1988, p. 95.
120
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 185.
121
Ivi, pp. 185-186. Vedi anche D. GERMINO, Eric Voegelin’s Contribution to Contemporary
66
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
La restaurazione della scienza politica dipende, dunque, dal recupero
di una theory of politics che sia anche una theory of history, un recupero
che non deve perdere di vista le sue radici classiche e cristiane (ossia la
metafisica classica e cristiana). È questo un altro elemento essenziale per
comprendere la riflessione voegeliniana sul monismo, e il rapporto tra
scienza politica e verità. La politike episteme platonico-aristotelica e la successiva radicalizzazione teoretica raggiunta con il cristianesimo attingono
ad una dimensione del pensiero in cui è messa in discussione la pretesa di
possedere in via assoluta la verità intorno ai vari aspetti dell’esistenza (politica e sociale) e dell’essere. Come ricorda Giuseppe Duso, il richiamo alla
filosofia politica dei Greci non è una semplice riproposizione della filosofia
antica, ma si configura come un “gesto di pensiero”, “un’arma critica”122 nei
confronti delle aporie delle costruzioni teoriche del moderno.
Quando Voegelin parla di Greek philosophy fa riferimento al principio
antropologico platonico (o verità antropologica), il quale afferma che la
società politica debba sì essere un mondo ordinato, ma non a prezzo dell’uomo; questa non deve soltanto essere un microcosmos, ma anche un macroanthropos.123 Da tale principio discende il fatto che l’ordine della società
dipende dall’ordine dell’uomo; e, a sua volta, l’ordine dell’uomo dipende
dalla costituzione della sua anima. L’ordine (o il disordine) di quest’ultima
trae origine dalla ricerca compiuta dall’uomo della saggezza divina – la
filosofia nel senso platonico del termine – e si concreta nelle diverse simbolizzazioni della ricerca stessa. Per Voegelin, da questo momento (con la
filosofia della Grecia classica e prima ancora con la tragedia di Eschilo) ciò
che è decisivo è che “Dio è la misura”, in opposizione all’affermazione di
Protagora secondo il quale “l’uomo è la misura”:124 l’apertura dell’anima
Political Theory, “The Review of Politics”, 23 (1964), pp. 394-395.
122
G. DUSO, Introduzione, in ID. (a cura di), Filosofia Politica e Pratica del Pensiero. Eric
Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Milano, FrancoAngeli, 1988, pp. 20-21: 21.
123
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 136
124
Ivi, p. 142. Voegelin aggiunge: “The truth of man and the truth of God are inseparably one.
Man will be in truth of his existence when he has opened his psyche to the truth of God; and
the truth of God will become manifest in history when it has formed the psyche of man into
the receptivity for the unseen measure. This is the great subject of the Republic; at the center
of the dialogue Plato placed the parable of the Cave, with its description of the periagoge,
the conversion, the turning around from the untruth of human existence as it prevail in the
67
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
alla complessità dell’Essere non obbedisce a nessuna legge di sviluppo
immanente della storia e il suo andamento non può, quindi, essere previsto.
Né tanto meno può fondarsi la polis perfetta.
Il principio antropologico platonico viene completato dalla verità
soteriologica del cristianesimo. Questa emerge con l’allargamento delle
esperienze platonico-aristoteliche e viene spiegata da Voegelin con il contrasto tra philia aristotelica e amicitia tomistica. La prima è possibile solo
tra eguali e questo sbarra la strada ad una amicizia tra uomo e Dio, così che
l’amore del filosofo per il divino è un protendersi verso qualcosa, nella non
reciprocità. Proprio l’assenza di mutualità caratterizza la verità antropologica; invece, “the experience of mutuality in the relation with God, of the
amicitia in the Thomistic sense, of the grace that imposes a supernatural
form on the nature of man” è la caratteristica specifica della verità cristiana.125 La verità soteriologica è l’espressione dell’anima umana che si apre
a un Dio che, facendosi Uomo, è presente nel mondo e poi nuovamente
assente, ma rappresentato dalla Chiesa. La nuova relazione tra uomo e Dio
non deve provocare un’esaltazione dell’essere umano; al contrario, è propria del cristianesimo una de-divinizzazione del mondo: Dio rappresenta la
salvezza, deve essere conosciuto e amato, ma non può essere direttamente
presente, tanto meno politicamente. Sulla base di quanto detto, si genera,
per Voegelin, una specifica tensione tra verità dell’anima e verità politica
(tra trascendenza e immanenza) che non deve sfociare nell’eliminazione di
nessuno dei due estremi, perché è proprio questa tensione costante e irrisolta
a garantire un ordine politico non monolitico, non ipostatizzato in un’idea
conclusiva della realtà.
Allontanarsi dall’orizzonte (e dal limite) teorico raggiunto dalla filosofia greca e dal cristianesimo equivale ad una “theoretical regression”
che causa “the various types of derailment that Plato has characterized as
doxa”.126 In epoca moderna ciò equivale ad una vera e propria ‘rivolta’ esistenziale il cui risultato è “the fall into anti-Christian nihilism, into the idea
of the superman in one or the other of its variants – be it the progressive
Athenian sophistic society to the truth of the Idea” (Ivi, p. 143).
125
Ivi, p. 150.
126
Ivi, p. 152.
68
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
superman of Condorcet, the positivistic superman of Comte, the materialistic
superman of Marx, or the Dionysiac superman of Nietzsche”.127 Pertanto,
nell’ottica di Voegelin, la nuova scienza politica è “a work of theorization
that starts from the concrete, historical situation of the age” che va oltre la
descrizione delle istituzioni politiche esistenti e la giustificazione logica dei
principi che sorreggono l’organizzazione politica, perché altrimenti la scienza politica si ridurrebbe a servire le forze al potere. È, come sottolinea Dante
Germino, una “rational science of politics” sui principi originari dell’ordine
umano e socio-politico; una scienza “open and necessarily incomplete” in
quanto conoscenza dei limiti della comprensione del mondo reale, che si
contrappone alle impostazioni ideologiche scientiste e positivistiche che
ambiscono a rendere certo e vero ciò che è “uncertain” e “untruth”.128 Per
questo motivo, “the theoretical analysis of politics” di Voegelin include
l’esame critico delle radici intellettuali e spirituali del totalitarismo e di
quelle speculazioni pseudo-scientifiche che abbattono i limiti della natura
umana, cancellando le incertezze dell’esistenza e creando una ‘seconda
realtà’distorta che detiene in via assoluta la pratica della verità e la realizzazione del giusto ordine politico.129 Il totalitarismo distrugge, per il filosofo
tedesco, il criterio stesso della verità: questa cambia a seconda dei bisogni
del potere e diventa, perciò, impossibile distinguere tra ciò che è vero e ciò
che è falso. Si costruisce così a tavolino un sistema politico ‘immaginario’
che manipola la conoscenza attraverso un razionalismo mistificatore che
istituzionalizza la menzogna.
Il contributo voegeliniano alla political science-political theory statunitense è notevole; al di là di condividere o meno il modello prospettato,
è fondamentale notare come storia delle idee e nuova scienza politica si
integrino a vicenda nella riflessione critica sul monismo. Ripercorrendo la
storia intellettuale dell’Occidente, Voegelin arriva ad elaborare una solida
alternativa filosofica ad un’indagine del politico che aveva la pretesa di
voler sistemare ogni aspetto della vita individuale su basi matematiche e
naturalistiche. In questo senso, Voegelin non solo si muove sulla scia di altri
127
Ibidem.
128
D. GERMINO, op. cit., pp. 381-382.
129
Ivi, pp. 378, 382.
69
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
studiosi europei emigrati in terra americana, che desiderano contrastare le
derive totalitarie manifestatesi in Europa, per il tramite di una nuova impostazione della scienza politica che contrasti relativismo e storicismo; ma
chiarisce anche le analogie con Berlin. Pur profondamente diversi in ragione
dei rispettivi contesti politici e filosofici, entrambi sono accomunati da un
profonda avversione verso un sapere scientifico monisticamente inteso che
di fatto diventa strumento di oppressione politica; entrambi appartengono
ad un movimento (ideale) di intellettuali che oppongono resistenza alla
possibilità di determinare univocamente e dall’alto che cosa sia vero, che
cosa si possa domandare, fare o non fare. Se l’avversione per il monismo si
traduce in Berlin, come vedremo nella seconda parte, in un discorso sulla
libertà individuale (positiva e negativa), mentre in Voegelin prende la forma
di un discorso sull’ordine e sul disordine spirituale dell’uomo, ovvero sull’espulsione del divino dal mondo, entrambi però contribuiscono ad enfatizzare
il ruolo dominante di correnti di pensiero (illuminismo e positivismo) e di
determinati autori (per esempio Marx) quali cifre della illusoria credenza
in un unico fine a cui tutto deve essere subordinato.
2.2 Il monismo nella storia delle idee
Nell’ambito della storia delle idee Voegelin evidenzia alcune figure
chiave che mettono in risalto i caratteri e le tendenze monistiche del mondo
moderno. Si tratta di Comte e Marx, le cui concezioni scientifiche, storiche,
politiche e sociali tratteggiano un senso complessivo e conclusivo della storia, individuando un fine dominante e delegittimando le radici metafisiche
dell’esistenza umana. Da un simile punto di vista, autori di questo genere
aiutano, per Voegelin, a fare chiarezza su “the totalitarian practice of our
time”.130
Quanto a Comte, Voegelin ritiene che nella sua opera trovino compimento una serie di idee nate nel Secolo dei Lumi e durante la Rivoluzione
francese. In particolare, due sono gli aspetti del pensiero comtiano che
egli mette in risalto, perché in questi trova espressione l’idea moderna di
130
E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VIII, Crisis and The Apocalypse of Man,
cit., p. 162.
70
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
rigenerare socialmente e politicamente l’umanità intera: la filosofia positiva della storia e la religione positiva dell’umanità. Entrambi qualificano
il padre della sociologia come “an astute and perspicacious philosopher
of history” e “a spiritual dictator of mankind”.131 La teoria comtiana della
legge dei tre stadi (teologico, metafisico e scientifico) da un lato interpreta
la storia come un’evoluzione progressiva, determinata da leggi elaborate
attraverso l’osservazione dei fatti e sotto il controllo della ragione umana e,
dall’altro, identifica lo stadio scientifico come lo stato di perfezione finale
dell’umanità, ovvero quella condizione ultima, fondata sulla verità della
scienza empirica, sulla spiegazione positiva dei fenomeni naturali per mezzo
di leggi generali. Il compimento dell’età scientifica è, poi, caratterizzato
dalla “Religion of Humanity”, una religione positiva motore dell’esistenza
individuale e collettiva, della quale il pontefice massimo è lo stesso Comte.
Voegelin prende una chiara posizione contro questa fede immanente con i
propri santi, geni e scienziati, che guidano l’evoluzione del genere umano,
la quale predica dogmi dimostrabili e dimostrati attraverso le verità della
scienza.
Il pensatore tedesco riconosce nel connubio tra scienza positivisticofenomenica e “Religione dell’Umanità” il fondamento dottrinale e religioso
di quelle visioni del mondo che inseguono obiettivi esplicativi unitari,
immutabili e globali. L’idea comtiana di un ordinamento etico-politico e
scientifico-secolare perfetto in cui tutte le parti convergono verso una verità
ultima, comune a tutti gli uomini, imprigiona la storia obbligandola a seguire
un’evoluzione immanente. Oltre a ciò, l’esistenza individuale è obbligata a
una Frageverbot, a un ‘divieto di porre domande’ (tipico anche della concezione marxista), cioè un rifiuto radicale rispetto a qualsiasi interrogativo che
trascenda il regno della conoscenza empirica e razionale. La fede positiva
nelle verità della scienza, nelle leggi della natura fenomenica, conosciute
per il tramite della scienza stessa, considera insensato e inaccessibile chiedersi quale sia l’origine dell’uomo e la sua natura, perché – come mette in
luce Voegelin in Crisis and The Apocalypse of Man, riferendosi al pensiero
di Comte – “Our intellectual activity is sufficiently excited by the hope of
discovering the laws of phenomena, by the simple desire of confirming or
131
Ibidem.
71
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
invalidating a theory”.132 Secondo Voegelin, la rimozione di ogni interrogativo metafisico-teologico denota come la filosofia positiva comtiana esorti a
dimenticarsi “the problem of the spirit” e “the interpretation of the universe
through a metaphysical system”: teologia e metafisica sono operazioni del
pensiero difettose, spiegazioni di eventi incorrette e astratte e, inoltre, del
tutto inutili in un’organizzazione sociale che non deve andare oltre gli elementi contingenti dell’esperienza sensibile.
Per il filosofo tedesco, la concezione dell’interpretazione della storia
secondo la legge dei tre stadi, l’istituzione di un potere spirituale positivo
ed immanente e, pertanto, la convinzione che si possa imporre un significato all’esistenza umana, rimuovendo “the tension between the historical
existence of man and his transcendental destination”,133 fa di Comte “[an]
intramundane eschatologist”.134 Il messianismo moderno del perfezionamento progressivo dell’umanità nel suo stadio positivo lo colloca tra i grandi
demiurghi di nuove religioni e di nuovi mondi, i quali hanno la convinzione
di salvare l’umanità (e loro stessi) “by divinizing their particular existence
and imposing its laws as the new order of society”.135
Il tratto definitorio della concezione comtiana è, per Voegelin, l’instaurazione di un’‘apocalisse dell’uomo’, cioè di una rivelazione del destino
ultimo dell’umanità e del mondo, scritta e diretta dall’uomo stesso. Ideologia
scientista-positivista, da un lato, e escatologia rivoluzionaria, dall’altro,
costituiscono nel caso comtiano (ma non solo) i filoni principali attraverso
cui prende forma “the deification of intramundane society”: il tema del
totalitarismo è ora sviluppato da Voegelin prendendo in esame la tendenza,
tutta moderna, di recidere ogni legame con il trascendente; da ciò discende
che, nella prospettiva voegeliniana, il monismo moderno dipende, a livello
profondo, da una crisi spirituale che è “the signature of the Western crisis”.136
A questo punto del discorso, è rilevante ribadire che il materiale raccolto per stendere la History of Political Ideas è continuamente sottoposto
132
Ivi, p. 200.
133
Ivi, p. 194.
134
Ivi, p. 174.
135
Ivi, p. 185.
136
Ivi, pp. 213, 185.
72
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
da Voegelin a nuove interpretazioni; negli anni ‘50, la lettura delle fonti
intellettuali e religiose delle ideologie totalitarie si arricchisce di un nuovo
paradigma analitico, lo gnosticismo: scientismo, positivismo, movimenti
ideologici di massa, escatologia intramondana vengono riletti ed approfonditi proprio alla luce del principio gnostico. Se Comte è, quindi, tra i primi
filosofi a dare voce in maniera sistematica ad un’ideologia escatologica di
salvezza collettiva, differita nel futuro, ma realizzabile in terra; per Voegelin,
è Marx il grande ‘messia secolare’ della modernità. E tale caratterizzazione
di Marx dipende anche dalla tesi gnostica.
Marx è considerato da Voegelin tra i grandi fondatori di ideologie di
palingenesi terrena, le quali pretendono di liberare l’uomo da ogni limite
e il mondo da ogni male attraverso esperimenti rivoluzionari nei quali il
vecchio mondo verrà sostituito da una nuova creazione. Nella concezione del
filosofo di Treviri si presentano, pertanto, nella loro interezza le dinamiche
di secolarizzazione che interessano l’uomo e l’Occidente. Come nel caso
di Comte, l’esame voegeliniano del pensiero di Marx rivela alcune idee
specifiche che segnano l’intero sistema marxiano, ovvero il materialismo
storico e l’idea di rivoluzione, alle quali si accompagna un’attività conoscitiva impostata secondo una ‘distorsione-falsificazione anti-filosofica’.
Anche per Marx la storia ha uno sviluppo intellegibile e segue un’evoluzione progressiva che punta al raggiungimento della salvezza (la
società senza classi) tramite l’azione degli uomini, armati degli strumenti
della ragione e della scienza. Il linguaggio storico è quello dell’economia,
della struttura e della sovrastruttura economica, delle forze produttive e
dei rapporti di produzione, che svelano i nessi causali della realtà sociale.
All’idea marxiana del cammino dell’uomo verso una futura società perfetta
e completamente libera è sottesa l’idea di rivoluzione: è l’azione rivoluzionaria a trasformare la realtà, conducendola alla società comunista, all’emancipazione dal capitalismo. Per Voegelin, è quindi l’idea di rivoluzione
a mostrare in toto l’obiettivo marxiano: per mezzo di un atto violento che
non si arresta di fronte a nessun ostacolo pur di conseguire “the realm of
freedom”, si raggiunge la liberazione dall’oppressione e dalle iniquità dei
gioghi istituzionali e sociali del presente. L’esperienza di una rivoluzione
permanente e con essa la tensione escatologica verso un paradiso terreno
senza classi sono gli obiettivi immediati per forgiare uno Stato nuovo, i cui
73
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
dettagli non sono previsti da Marx, ma la cui realizzazione finale è garantita
dalle leggi della storia. La dinamica incessante del progresso non potrà che
portare a un futuro migliore, completamente scevro da difetti, nel quale le
potenzialità umane siano interamente realizzate.
Il Marx così descritto da Voegelin nella History of Political Ideas si
avvicina non poco alla lettura berliniana del marxismo quale pericolosa
combinazione di determinismo e di scientismo. Occorre tuttavia notare che
Voegelin inserisce la concezione di Marx nel processo di disintegrazione spirituale dell’Occidente, sottolineando come il filosofo di Treviri circoscriva
il senso ultimo della storia divinizzando l’uomo e proclamando una redenzione attivistica dell’uomo stesso e della società. Il nuovo mondo evocato
da Marx si costruisce per mezzo di una rigenerazione tutta immanente: Marx
stabilisce un regno della verità in terra con una rivelazione completamente
umana; è l’uomo, senza alcun intervento esterno trascendente, soprannaturale, a compiere la sua stessa salvezza. Viene sancita la morte di Dio, l’uomo
è trasformato in essere supremo, in ‘superuomo’: sono così rovesciati tutti i
rapporti nei quali l’individuo è un essere degradato e assoggettato; e inoltre
l’intera classe proletaria è redenta per mezzo del proprio lavoro, ottenendo
così l’emancipazione di tutta la società.
Tale logos della storia presuppone una “antiphilosophical distortion”;
Voegelin definisce questa impostazione marxiana nel modo seguente:
“[Marx] has in this act abolished the philosophical approach to the problem
of reality on principle. […] he refuses to theorize”;137 il sistema scientifico
di Marx rifiuta l’attività conoscitiva critico-filosofica a favore di un sapere
che, appellandosi alla stessa presunzione positivistica comtiana, rimpiazza le
incertezze delle analisi teoretiche e delle domande metafisiche a favore delle
certezze delle scienze empirico-naturali. Tale patologia prende anche il nome
di “idophobia”, i quali sintomi sono, appunto, “fear of critical concepts and
of philosophy in general”.138 Nell’interpretazione voegeliniana, il marxismo
riproduce con tinte ancor più marcate la Frageverbot già incontrata con
Comte: il divieto di porre interrogativi filosofici, domande che rimandino
a speculazioni metafisiche, include anche la resistenza all’analisi critica del
137
Ivi, p. 322.
138
Ivi, p. 325.
74
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
proprio sistema, che potrebbe altrimenti entrare in crisi. Ne consegue che
ogni idea del marxismo è fatta salva come se fosse un dogma. Chi professa
‘il divieto di fare domande’ sa benissimo che le proprie affermazioni non
reggerebbero la pressione di un esame filosofico e di un’indagine seriamente
analitico-scientifica e, quindi, fa del divieto stesso la parte essenziale dei
dogmi che professa, la logica del suo stesso sistema. Per Voegelin, Marx
consapevolmente ha perciò elaborato un sistema che pretende di essere
scienza quando non lo è; e utilizza questa ‘scienza non scienza’ per mantenere viva la convinzione che sia l’uomo e l’uomo (socialista) soltanto la
fonte dell’ordine politico e della sua libertà.
Si possono naturalmente avere riserve e avanzare serie obiezioni agli
argomenti voegeliniani che qualificano Marx come un attivista mistico
rivoluzionario artefice di un homo novus che si fa Dio, ma qui interessa
soprattutto richiamare quegli aspetti del ragionamento di Voegelin riconducibili alla critica del totalitarismo e al significato che questo assume.
L’analisi svolta dal pensatore tedesco intende mostrare come la rimozione
di ogni alternativa speculativa, di domande e di problemi originari conduca
a un monismo che è conformismo dittatoriale sul modo di pensare, che si
traduce anche in un monismo totalitario antireligioso. Il principale problema con Marx non si esaurisce, secondo Voegelin, nella omissione del
linguaggio teorico-filosofico, perché dietro a questo inganno intenzionale
del suo pensiero sta una “spiritual disease” che è il vero fulcro della logica
del materialismo storico: “What appeared on the level of symptoms as antiphilosophism and idophobia must aetiologically be understood as the revolt
of immanent consciousness against the spiritual order of the world”.139 Alla
radice delle idee marxiane si trova perciò una “revolt against religion”, o
“antitheistic revolt”, che qualifica il marxismo stesso come “gnostic revolt”
o gnosticismo attivistico.140
Nella riflessione di Voegelin sulle esperienze monistiche che si sono
presentate nella storia si inserisce, dunque, la speculazione gnostica. Come
osserva giustamente David Walsh nell’introduzione a Crisis and The Apo139
Ivi, pp. 326, 343.
140
Ivi, pp. 340-341, 368. Sul tema della ‘malattia-rivolta spirituale’ che caratterizza la modernità cfr. M. FRANZ, Eric Voegelin and the Politics of Spiritual Revolt: The Roots of Modern
Ideology, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1992.
75
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
calypse of Man, VIII e ultimo volume della History, il filosofo politico
tedesco non fornisce ancora una disamina dettagliata del fenomeno gnostico
e dello gnosticismo attivistico e rivoluzionario: l’applicazione della tesi
gnostica all’analisi del pensiero di Marx è ancora imprecisa, perché ancora
egli non ha raggiunto una conoscenza completa relativamente al carattere
gnostico insito in molti movimenti ideologici di massa moderni.141 È, infatti,
negli anni ‘50 e negli scritti di questo periodo, in particolare in The New
Science of Politics del ‘52 e in Wissenschaft, Politik und Gnosis del ‘59,
che il discorso sullo gnosticismo viene da Voegelin approfondito e portato
a termine.142 In questo lasso di tempo la storia delle idee voegeliniana si trasforma e diviene sempre più un mezzo per fare pensiero politico e filosofia
politica; e lo stesso Voegelin è sempre più un filosofo politico (e un filosofo
della storia) piuttosto che uno storico del pensiero. Muta di conseguenza
anche l’approccio metodologico teso alla ricerca delle radici intellettuali dei
movimenti ideologici del nostro tempo. Tra la fine degli anni ‘40 e negli anni
‘50 la storiografia delle idee lascia il passo a una scienza politica declinata
come scienza dell’ordine politico e in questa nuova ottica lo studio dei progetti di dominio totale del mondo, volti a superare ogni confine, anche quello
tra ciò che è conoscibile e ciò che non lo è, termina in una elaborazione
teoretica che svela le radici del disordine politico dell’età contemporanea,
ovvero le radici della crisi spirituale-metafisica del mondo occidentale, culminante nei regimi totalitari del XX secolo. L’accento dell’interrogazione
voegeliniana è ora posto sul complesso rapporto tra secolarizzazione e crisi
della modernità, da un lato, e secolarizzazione e totalitarismo, dall’altro;
un rapporto che viene esplorato per mezzo dello strumento analitico dello
gnosticismo, quale lente attraverso cui reinterpretare le radici immanentistiche delle ideologie politiche del XIX e XX secolo.143
141
D. WALSH, Editor’s Introduction, in E. VOEGELIN, Crisis and The Apocalypse of Man,
cit., p. 18.
142
E. VOEGELIN, Wissenschaft, Politik und Gnosis, München, Kosel, 1959; tr. ingl. ID.,
Science, Politics, and Gnosticism, in ID., Modernity without Restraint, cit.
143
Non è possibile fornire una trattazione esauriente e conclusiva sullo gnosticismo. Della
speculazione gnostica si danno qui alcune informazioni che aiutano a comprendere l’uso voegeliniano della categoria dello gnosticismo. Utili per avvicinarsi alla problematica gnostica
sono i volumi: Histoire des Religions, sous la direction d’Henri Charles Puech, vol. II, La
formation des religions universelles et les religions de salut dans le monde méditerranéen et le
76
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
Lo gnosticismo è un movimento eretico sorto nell’ambito del cristianesimo a partire dal II secolo dopo Cristo nel quale Voegelin scorge i presupposti di quelle concezioni che, dall’umanesimo passando per il XVIII secolo e
transitando poi nel XIX, secolarizzano il mondo moderno. Se la gnosi antica
rifiutava il mondo materiale nella sua interezza, perché tenebroso, ostile e
perciò destinato alla distruzione, e professava una forma di conoscenza (la
gnosi) ad appannaggio di pochi eletti, la quale rendeva possibile la salvezza
attraverso un’evasione trascendente dal mondo, la gnosi moderna si libera
dell’imperfetta e maligna realtà terrestre, eliminando ogni riferimento trascendente a favore di un rigoroso immanentismo e progettando di costruire
una realtà rinnovata e purificata attraverso l’azione umana. Lo gnosticismo
moderno dà un nuovo significato all’esistenza umana, esaltando il potere
assoluto della forza creatrice dell’uomo: l’ordine dell’essere (e con esso
l’ordine politico) è sotto il controllo dell’uomo e quindi può essere ricreato a suo piacimento. Tale radicale ‘monismo dell’uomo’ per cui, secondo
Voegelin, Dio viene assassinato e sostituito dalla divinizzazione dell’uomo
stesso (e di idee e di progetti politici), costituisce la massima espressione
di una gnosi secolarizzata. Quest’ultima a sua volta rappresenta il carattere
distintivo della modernità: la speculazione gnostica moderna pretende di
possedere la conoscenza assoluta del corso dei tempi, di indicarne il fine e
di interpretare alla luce di esso i singoli eventi.
Il concetto di gnosticismo, quale paradigma di analisi per l’esame del
processo di ideologizzazione e secolarizzazione che investe la modernità
occidentale, è una delle sezioni più discusse dell’opera di Voegelin. La
letteratura critica ha messo in evidenza come il principale rischio nell’uso
della categoria di gnosi per comprendere le ideologie politiche moderne
e contemporanee sia quello di semplificare eccessivamente un fenomeno
assai complesso, che non può essere ricondotto ad un’unica spiegazione;
inoltre, il pensatore tedesco presume, di fatto, una continuità tra gnosi
antica e gnosi moderna, che appare in verità molto problematica. Augusto
Del Noce nell’introduzione all’edizione italiana della New Science of PoProche-Orient, les religions constituées en Occident et leurs contre-courants, Paris, Gallimard,
1972, tr. it. J. DORESSE – K. RUDOLPH – H.-CH. PUECH, Gnosticismo e manicheismo,
Roma-Bari, Laterza, 1988; H.-CH. PUECH, En quête de la Gnose, 2 voll., Paris, Gallimard,
1978; tr. it. ID., Sulla tracce della gnosi, a cura di Francesco Zambon, Milano, Adelphi, 1985;
G. FILORAMO, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Roma-Bari, Laterza, 1983.
77
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
litics fa notare che tale continuità di fatto non esiste. In alcune importanti
osservazioni precisa, infatti, le caratteristiche divergenti tra le due forme
di gnosi. Entrambe le forme di gnosi ateizzano il mondo, ma secondo
modalità differenti: l’una, la gnosi antica, nega il divino nel mondo terrestre per accentuarne la trascendenza; l’altra, la gnosi moderna cancella,
al contrario, ogni aspetto soprannaturale, per esaltare l’immanenza quale
dimensione unica dell’uomo. Del Noce continua ritenendo come la gnosi
antica fosse a sfondo pessimistico, mentre la gnosi moderna, che nel XVIII
secolo concepisce l’idea di progresso, fosse prevalentemente ottimistica; e
mette poi in evidenza come la conoscenza delle antiche dottrine dei settari
fosse aristocratica, ovvero pochi uomini eletti ne erano dotati, al contrario
della gnosi moderna che si rivolge alle masse. È proprio tale appello alle
masse a qualificare lo gnosticismo moderno come attivistico-rivoluzionario
e, perciò, come un fenomeno del tutto differente dalla forma contemplativa
della gnosi antica.144
D’altro canto, se non si può parlare di continuità tra i due movimenti
gnostici è pur vero, come nota Zanetti, “che la trattazione voegeliniana
della gnosi […] ha alle spalle una tradizione cospicua”,145 prevalentemente
di origine tedesca, che inquadra proprio l’idealismo tedesco nell’ambito del
movimento gnostico. Voegelin cita a proposito l’opera del 1835 di Ferdinand
Christian Baur, Die christliche Gnosis, oder die Religionsphilosophie in
ihrer geschichtlichen Entwicklung, in cui, nell’ultima parte, l’autore pone
in rilievo come la storia dello gnosticismo si dispieghi dall’antichità al
medioevo fino alle filosofie della religione di Jakob Boehme, F.W.J. von
Schelling, F.E.D. Schleiermacher e Hegel.146 L’opera di Baur non fu un
144
Cfr. A. DEL NOCE, Eric Voegelin e la critica dell’idea di modernità, in E. VOEGELIN,
La Nuova Scienza Politica, Roma, Borla, 1999, pp. 7-28, in particolare pp. 15-18.
145
G. ZANETTI, op. cit., p. 100. Si tenga presente che lo stesso Voegelin in parte rivide la
tesi da lui elaborata dello gnosticismo; se infatti quest’ultimo rimane una componente centrale
nella teoria della crisi della modernità, il pensatore tedesco sottolinea che ci sono anche altri
fattori rilevanti nel processo di immanentizzazione, come la tradizione apocalittica, quella
neoplatonica ed ermetica. Sugli sviluppi della riflessione voegeliniana sulla gnosi cfr. P.J.
OPITZ, La tesi sullo gnosticismo. Osservazioni sull’interpretazione della modernità del mondo
occidentale in Eric Voegelin, “Filosofia politica”, XIII (1999), pp. 225-244.
146
E. VOEGELIN, Science, Politics, and Gnosticism, cit., pp. 251-252. Cfr. anche G. ZANETTI, op. cit., pp. 94-95; E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution, cit., pp. 17-18. Per quanto
concerne l’opera di Baur: F.C. BAUR, Die christliche Gnosis, oder die Religionsphilosophie
78
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
episodio isolato, ma si inseriva anch’essa in un filone di studi sulla storia
dell’eresia, iniziato nell’illuminismo e proseguito nel XIX secolo.147 La tesi
gnostica quindi non era affatto nuova; non solo, numerosi erano anche gli
specialisti contemporanei ai quali lo stesso pensatore tedesco sottopose la
sua ricerca. Lui stesso afferma che:
I want to stress that Gnosticism, as well as its history from antiquity to the present, is
the subject of a vastly developed science, and that the idea of interpreting contemporary phenomena as gnostic is not as original as it may look to the ignoramuses who
have criticized me for it. Generally I should like to remark that if I had discovered
for myself all the historical and philosophical problems for which I am criticized
by intellectuals, I would be without a doubt the greatest philosopher in the history
of mankind. Before publishing anything on the applicability categories to modern
ideologies, I consulted with our contemporary authorities on Gnosticism, especially
with Henri Charles Puech in Paris and Gilles Quispel in Utrecht. Puech considered it a
matter of course that modern ideologies are gnostic speculations; and Quispel brought
the Gnosticism of Jung, in which he was especially interested, to my attention.148
Va poi inoltre ricordato che Voegelin aveva ben chiaro come la
speculazione gnostica non fosse un fenomeno rigido e monolitico, bensì
multiforme nel sistema di simboli impiegati.149 Nella molteplicità di tipoin ihrer geschichtlichen Entwicklung, Tübingen, C.F. Osiander, 1835.
147
Quale antecedente settecentesco allo studio critico di Baur sulla gnosi Voegelin ricorda
l’opera di Johann Lorenz Mosheim, Versuch einer unparteiischen und gründlichen Ketzergeschichte, (1748); quali studi contemporanei a quelli di Baur vengono, invece, citate le opere
di Johann August Neander, Genetischen Entwicklung der vornehmsten gnostischen Systeme
(1818) e di Jacques Matter, Histoire critique du Gnosticisme et de son influence sur les sectes
religieuses et philosophiques des six premiers siècles de l’ère chrétienne (1828). Sul rapporto
gnosticismo-idealismo tedesco cfr. anche G. FILORAMO, op. cit., pp. XII-XV.
148
E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, cit., p. 93. Agli studi di Puech, già citati,
e a quelli di Quispel, quale in particolare Gnosis als Waltreligion (1951), Voegelin aggiunge
quali fonti importanti per l’interpretazione della politica moderna e della storia intellettuale
europea secondo la tesi gnostica: H. JONAS, Gnosis und spätantiker Geist, voll. I-II, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1934-1954; H.U. VON BALTHASAR, Apocalypse der
deutschen Seele, Salzburg, Pustets, 1937-1939; H. DE LUBAC, Le drame de l’humanisme
athée, Paris, Spes, 1945; J. TAUBES, Abendländische Eschatologie, Bern, Francke, 1947; A.
CAMUS, L’homme révolté, Paris, Gallimard, 1951; H. JONAS, The Gnostic Religion. The
Message of the Alien God and the Beginning of Christianity, Boston, Beacon Press, 1958. Cfr.
E. VOEGELIN, Science, Politics, and Gnosticism, cit., p. 253; Eric Voegelin a Hans Jonas
(11 giugno 1953), in ID., Selected Correspondence 1950-1984, cit., pp. 167-168.
149
Il ruolo di Gioacchino da Fiore e della sua teologia della storia è, per Voegelin, d’importanza
79
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
logie di gnosticismo e nella varietà di comportamenti gnostici c’è, però, la
tendenza a immanentizzare e razionalizzare l’idea di perfezione cristiana
nella sua componente teleologica (l’idea di un movimento verso un fine) e
assiologica (il fine, il valore da raggiungere, lo stato di perfezione).150 Da
questo punto di vista, le varianti dello gnosticismo moderno, ideologico e
liberticida, possono essere tre, a seconda di quale fattore subisca il processo
di immanentizzazione. Se l’accento è posto sulla componente teleologica
del movimento verso un non ancora intellegibile futuro di perfezione, ne
consegue un’interpretazione progressista come in Diderot e D’Alembert, o
come nelle idee di progresso di Kant e di Condorcet; se l’accento cade sulla
componente assiologica di perfezione finale, senza chiarezza circa i mezzi
per raggiungere tale stato, ci troviamo di fronte a risultati utopistici, come
quelli di Tommaso Moro o dei più recenti utopismi sociali; qualora, invece,
il movimento progressivo e l’obiettivo finale siano entrambi chiaramente
messi in luce e, quindi, il processo d’immanentizzazione si estenda al
simbolismo cristiano nel suo complesso, ne risulta il misticismo attivistico di uno stato di perfezione “to be achieved through a revolutionary
transfiguration of the nature of man, as, for instance, in Marxism”.151
L’orizzonte della riflessione voegeliniana è a questo punto delineato e
dovrebbe essere chiaro come, per Voegelin, si configuri la gnosi di Marx.
Marx eredita l’impostazione gnostica hegeliana, sviluppando un sistema di
ragionamento su basi razionali immanenti, gestite direttamente dall’uomo.
Questa spiegazione puramente mondana dell’esistenza individuale e dell’ordine politico è una speculazione attivistico-rivoluzionaria in cui l’uomo si
trasfigura in superuomo, prendendo coscienza di essere egli stesso Dio. In
cruciale. Non è questo il luogo per analizzare dettagliatamente la speculazione gioachimita, né
si può entrare nel merito della complessa lettura che Voegelin fa del pensiero di Gioacchino.
Ci limitiamo a richiamare che il monaco cistercense elabora, secondo la prospettiva d’indagine
voegeliniana, il complesso di simboli che caratterizza l’intera modernità gnostica. Si tratta
di quattro simboli: 1) la concezione della storia come sequenza di tre età, la terza delle quali
raggiungerebbe un completamento finale; 2) il simbolo del leader che introduce ogni nuova
epoca; 3) il simbolo del profeta che annuncia la venuta del nuovo regno; 4) la realizzazione
della nuova comunità di perfezione.
150
Voegelin fa qui riferimento a Ernst Troeltsch; cfr. E. VOEGELIN, Science, Politics, and
Gnosticism, cit., p. 299.
151
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 186.
80
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
questo sforzo di autosalvazione e autoredenzione, che l’uomo accorda a se
stesso attraverso l’azione rivoluzionaria, si realizza in terra il ‘millennio
comunista’, forma conclusiva del corso della storia. Il sistema gnostico
marxiano ripiega dalla trascendenza e conferisce all’uomo e alla sua azione
intramondana un significato di compimento escatologico. Il filosofo di Treviri agisce quindi su due piani, quello della filosofia della storia e dell’essere: da un lato, il significato del corso degli eventi è immanente e, perciò,
conoscibile nel suo fine; dall’altro, conoscendo il traguardo da raggiungere,
cambia l’ordine stesso dell’essere e dell’esistenza umana, rescindendo ogni
legame con la trascendenza e realizzando in terra il piano salvifico.
Oltre a Voegelin anche altri autori hanno qualificato il marxismo come
gnosticismo mistico e hanno visto in esso il prototipo della gnosi della
modernità, cogliendone le implicazioni teologico-religiose. Pensatori del
calibro di Hans Jonas, Jacob Taubes, Raymond Aron e Ernst Topitsch (solo
per citarne alcuni) hanno riconosciuto, come Voegelin, elementi gnosticoapocalittici nella filosofia materialistico-attivista nel marxismo:152 siamo
perciò di fronte a un filone di studi che, pur con le differenze che contraddistinguono le diverse ricerche, mette in luce le radici mitico-religiose e
gnostico-immanentistiche del pensiero di Marx. Nel caso di Voegelin, la
dinamica dell’atteggiamento gnostico che egli è interessato ad enfatizzare
è la perdita del principio trascendente dell’ordine: senza un senso della
trascendenza è impossibile avere una comunità politica ben organizzata e,
nei casi più estremi, il risultato finale è, infatti, un immanentismo gnostico
totalitario, distruttore della realtà in ogni suo aspetto. Tutti i movimenti
gnostici intellettuali e di massa (scientismo, progressismo, positivismo,
marxismo, comunismo, fascismo e nazionalsocialismo) mirano, secondo il
pensatore tedesco, a recidere i legami dell’esistenza (individuale, sociale e
politica) con l’origine, cioè con l’essere divino e trascendente, per costruire
un’immagine dell’uomo, della società e della storia immanente e conforme
152
H. JONAS, Gnosis und spätantiker Geist, cit.; tr. it. ID., Gnosi e spirito tardo antico, Milano, Bompiani, 2010, pp. 1084-1110; J. TAUBES, Abendländische Eschatologie, cit.; tr. it.
ID., Escatologia occidentale, Milano, Garzanti, 1997; E. TOPITSCH, Marxismus und Gnosis,
in ID., Sozialphilosophie zwischen Mythos und Wissenschaft, Neuwied-Berlin, Luchterland,
1961; tr. it. ID., Marxismo e gnosi, in ID., Per una critica del marxismo, Roma, Bulzoni, 1977,
pp. 27-67; R. ARON, Remarques sur la Gnose Léniniste, in P.J. OPITZ – G. SEBBA (edited
by), The Philosophy of Order, Stuttgard, Klett-Cotta, 1981, pp. 263-274;
81
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
ai desideri dell’uomo stesso e alla portata della sua stessa azione. Ciò si
traduce in uno sforzo attivistico verso la perfezione nel mondo e del mondo
talmente radicale da erigere una realtà totalmente nuova, surrogato della
perfezione divina.
L’interpretazione voegeliniana del fenomeno gnostico in relazione
alla riflessione sul monismo totalitario che qui ci interessa chiarisce alcuni
aspetti essenziali delle concezioni ideologiche. Se la gnosi antica è sostanzialmente dualistica, contrapponendo al mondo terreno di tenebra un mondo
trascendente di luce, la gnosi moderna sviluppa da tale schema dualistico
risultati monistici: la contrapposizione tra “the world of light and the world
of darkness, the worlds of God and of Satan, the worlds of Spirit and of
Matter”153 è superata in via definitiva, realizzando un paradiso terreno, un
perfetto ordine socio-politico, trionfo definitivo dell’unità, della totalità
e dell’unilateralità. Nel caso di Marx, lo stadio finale è il prodotto di un
monismo materialistico (storico e scientifico) in cui la perfezione celeste
è fabbricata in terra volontaristicamente attraverso l’azione rivoluzionaria
del proletariato, da un lato, e la trasformazione dell’uomo nel superuomo
comunista, dall’altro. La società senza classi è stabilita rigorosamente da
leggi scientifiche e in essa non vi è alcun posto per Dio: è un compimento
sensibile e immanente, una teleologia escatologica laica della quale Marx
conosce la formula storica per mutare strutturalmente il mondo e salvarlo
insieme all’uomo.
Le ideologie monistiche designano pertanto, per Voegelin, un complesso di idee che rivendicano di conoscere e di spiegare la realtà in ogni singolo
aspetto; l’ordine politico è così compreso in termini puramente mondani
per mezzo di sistemi scientifici e politici che dominano in via assoluta
l’esistenza individuale e collettiva. Negli anni ‘50, il monismo ideologico
nella sua variante gnostica appare allo studioso tedesco particolarmente
pericoloso, perché in esso si mostrano con più evidenza gli accenti violenti
della pretesa, tutta moderna, di sconfiggere le incertezze della condizione
umana. La volontà intima di tale progetto è rendere tutto pensabile e possibile in base a un unico principio, a un’unica idea; in concreto, in nome di
idee assolute viene realizzata una immaginaria ‘seconda realtà’ (ideologica)
153
E. VOEGELIN, History of Political ideas, vol. IV, Renaissance and Reformation, cit., p. 165.
82
Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo
e conquistata un’apparente verità che svela (fittiziamente) ogni mistero.154
Un mondo irreale costruito con forza violenta e volontaristica dai diversi
leader totalitari di turno si sostituisce in via definitiva alla realtà esistente.
La distanza tra sogno e realtà si perde e si impone ‘magicamente’ un ordine
perfetto che, in quanto tale, non può che essere, assurdo e distorto.
Le ideologie gnostico-monistico-liberticide del XIX e XX secolo si
radicano, perciò, nel rifiuto del reale e aggrediscono ragione e religione,
dando vita ad una mentalità definita da Voegelin “parusistica”, una mentalità che “expects deliverance from the evils of the time through the advent,
the coming in all its fullness, of being construed as immanent”.155 Questa
è l’estrema manifestazione di una “disease of the spirit”, un disordine intellettuale e spirituale che Voegelin definisce con diversi termini, nosos,
morbus animi, aspernatio rationis, appellandosi di volta in volta a Eraclito,
Eschilo, Platone e Cicerone.156 È proprio il rilievo dato a questa ‘malattia
dello spirito’ a chiarire, da un lato, le radici del totalitarismo novecentesco
e a definire, dall’altro, la crisi della modernità: entrambi si situano al culmine di un processo intellettuale che ha imposto il monismo epistemologico
delle scienze naturali, un razionalismo scientifico tecnico-strumentale che
circoscrive l’esplorazione del mondo ai fenomeni empirici, escludendo il
fondamento trascendente dell’esistenza umana, della realtà e della verità.
A ciò poi si accompagnano filosofie della storia teleologiche, che hanno
l’illusoria ambizione di dare una spiegazione aprioristica ed esaustiva del
corso e del significato della storia stessa. Ne consegue una “revolt against
reality”, cioè la pretesa di dominare la realtà e di poter instaurare un ordine
socio-politico giusto, perfetto e, in quanto tale, finale. Desideroso di lasciarsi
definitivamente alla spalle ogni insicurezza, ansia, timore e imperfezione
della propria condizione di vita, l’uomo si consegna alla certezza di una
‘magica deformazione della realtà’, istituita in base alla hybris dell’attivi154
Voegelin prende il termine “second reality” da Robert Musil, dall’opera L’uomo senza
qualità (1930-1942). Cfr. E. VOEGELIN, Hitler and the Germans, Columbia and London,
University of Missouri Press, 1999, pp. 108, 244-245, 252-256.
155
E. VOEGELIN, Science, Politics, and Gnosticism, cit., p. 276.
156
Cfr. E. VOEGELIN, Order and History, vol. I, Israel and Revelation, Columbia and
London, University of Missouri Press, 2001, p. 24; ID., Wisdom and the Magic of Extreme,
in ID., Published Essays 1966-1985, Baton Rouge and London, Louisiana University Press,
1990, p. 322.
83
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
sta radicale. Si ritrova – come dimostrano per Voegelin “the dream worlds
[…] be they progressivist, positivist, behaviorist, Marxist, or Fascist” –
prigioniero di un incubo, perché – continua lo studioso – “the […] activist
dreamers […] want to liberate us from our imperfections by locking us up
in the perfect prison of their phantasy”.157
157
E. VOEGELIN, Wisdom and the Magic of Extreme, cit., pp. 321, 315.
84
Cap. III - Monismo e scienza politica
CAPITOLO III
MONISMO E SCIENZA POLITICA
3.1 Oltre la storia delle idee
Voegelin coglie le aporie intellettuali e spirituali che hanno condotto
al totalitarismo e nel fare ciò ne analizza in profondità le radici e la natura
epistemologica e politica. Per Voegelin, come per Berlin, a fondamento del
fenomeno totalitario vi sono istanze monistiche di dominio totale e, come per
il filosofo inglese, anche per il pensatore tedesco la storia delle idee diviene
un mezzo per indagare le origini della deriva ideologica dell’Occidente e
per elaborarne una particolare interpretazione. Anche se, come è stato detto,
nel vocabolario politico voegeliniano raramente ricorre il termine monismo,
questo è a tutti gli effetti uno dei presupposti speculativi da cui muove l’analisi voegeliniana delle forme di schiavitù politica e della degenerazione
della modernità. In questo senso, Voegelin e Berlin, pur presentando diversi
percorsi metodologici, culturali e politici, mostrano assonanze interpretative
nel comprendere la natura delle ideologie politiche totalitarie. Tra queste,
poi, per entrambi, il marxismo sembra essere la variante più pericolosa.
Il percorso ermeneutico sviluppato da Voegelin è complesso e articolato, sia dal punto di vista metodologico sia contenutistico: la storia delle
idee voegeliniana non si struttura come semplice contestualizzazione di
eventi e di concetti, né è una rassegna del pensiero di diversi autori, ma descrive, coniugando storia politica e teoria politica, una vasta trama di attori,
di discorsi culturali, politici e sociali dai quali emerge una specifica linea
d’indagine. L’indagine al centro della storiografia delle idee di Voegelin
è – come ritiene Walsh – “the analysis of the larger movements of order
and disorder”, e quindi delle idee che rivelano “the crucial emergence or
decline of order”.158 In questo contesto, egli produce un esame penetrante
dei movimenti ideologici di massa, moderni e contemporanei, e individua
158
D. WALSH, Editor’s Introduction, in E. VOEGELIN, Crisis and The Apocalypse of Man,
cit., p. 2.
85
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
tre principali nodi teorico-storici alla base della crisi ideologica della
modernità: scientismo, secolarizzazione e gnosticismo. Questi modelli di
pensiero sono reciprocamente coinvolti nella “crisis of the spirit” che ha
investito l’Occidente e della quale gli esperimenti totalitari del XX secolo
sono la manifestazione più feroce e brutale.159
Obiettivo della riflessione voegeliniana sul totalitarismo ideologico è
anche la critica alla modernità: la logica del moderno, legata al razionalismo
scientifico astratto e a filosofie universalistiche, ha prodotto, da un lato,
un’assoluta immanenza, cancellando la metafisica classica e cristiana e,
dall’altro, una ragione che non tiene conto della dimensione divina, quale
polo dell’ordine politico. L’uomo è così imprigionato nella sua dimensione
mondana-materiale, ridotto a tassello di una totalità indivisa, omogenea,
non curante della pluralità delle dimensioni dell’essere. L’essere umano è
pertanto vittima di visioni riduzionistiche “which hypostatize society and
history as an absolute, eclipsing personal existence and its meaning”.160
Nell’interpretazione di Voegelin è, poi, la vasta famiglia delle dottrine gnostiche a rappresentare la caratteristica principale della modernità e,
quindi, il disordine politico (e esistenziale) che la pervade e la domina. La
logica gnostica si fonda, infatti, su un rigoroso immanentismo, sul rifiuto
da parte dell’essere umano di vivere in tensione con il fondamento della
realtà e sulla pretesa di possedere la conoscenza perfetta, per edificare un
ordine politico definitivo. La gnosi moderna costruisce un ‘mondo di sogno’,
una ‘seconda realtà’ dove tutto è possibile e in cui l’uomo e la società sono
rappresentati come onnipotenti e capaci di autoredenzione. Nella diagnosi
voegeliniana della crisi di civiltà del moderno lo gnosticismo è, pertanto,
l’assolutizzazione della libido dominandi umana: affermando di poter controllare il destino dell’uomo, si rende schiavo l’uomo stesso di sistemi di
pensiero, politici e sociali, per mezzo dei quali tiranni e dittatori impongono
la propria autorità sul destino dell’umanità intera.
La lettura voegeliniana dei movimenti ideologici moderni e contem159
E. VOEGELIN, Crisis and The Apocalypse of Man, cit., p. 162.
160
E. VOEGELIN, Reason: The Classic Experience, in ID., Publishes Essays 1966-1985, cit.,
p. 290. Sul tema della crisi della modernità la bibliografia è assai imponente; si rimanda qui
a due importanti volume: C. GALLI (a cura di), Logiche e crisi della modernità, Bologna, Il
Mulino, 1991; ID., Modernità. Categorie e Profili Critici, Bologna, Il Mulino, 1988.
86
Cap. III - Monismo e scienza politica
poranei e del totalitarismo si snoda attraverso due passaggi cruciali: gli
anni ‘40, incentrati sulla storiografia delle idee e sull’elaborazione della
History of Political Ideas, e gli anni ‘50, che vedono la pubblicazione di
The New Science of Politics (1952). In queste due fasi della sua produzione
scientifica, Voegelin guadagna l’accesso teorico e metodologico a questioni
che dominano il discorso sull’ordine politico moderno, quali: la razionalità (scientista-positivista) che connota la modernità, la rilevanza di leggi
di sviluppo immanente della storia nella chiusura monistico-totalitaria, il
processo di secolarizzazione quale tratto peculiare della crisi del moderno, il
rapporto tra trascendenza e immanenza quale nucleo della storia dell’uomo
e quindi delle condizioni di ordine o disordine della stessa.
Negli anni ‘40, la pur originale storia delle idee voegeliniana è ancorata
ad una ricostruzione genealogica delle idee e delle mentalità che avevano
contributo al sorgere del totalitarismo: in una successione temporale, non
sempre lineare, il pensatore tedesco mette in evidenza, da un lato, diverse
situazioni tipiche, che permettono di risalire alle diverse idee politiche,
e, dall’altro, fa di alcuni uomini di pensiero i tipi ideali di tutta un’epoca.
Da questo punto di vista, pur cogliendo il nesso profondo tra eventi della
storia, idee e personalità, Voegelin talvolta sembra cedere all’elencazione
degli ideologists o spiritual activists che esprimono la decadenza spirituale
e intellettuale della civiltà occidentale. Tuttavia, questo indirizzo di ricerca
viene ‘abbandonato’ negli anni ’50; Voegelin stesso ammette: “I had to give
up «ideas» as objects of a history and establish the experience of reality
– personal, social, historical, cosmic – as the reality to be explored historically. These experiences, however, one could explore only by exploring
their articulation through symbols”.161
Cosa realmente significa questa affermazione? Più che di vero e proprio abbandono è più opportuno parlare di un ispessimento filosofico subito
dall’indagine voegeliniana nel corso delle ricerche condotte. Voegelin è
sempre più incline a uno studio che fondi antropologia filosofica e filosofia
della storia e, così procedendo, gli è sempre più chiaro come le idee politiche
nascano dal modo in cui l’uomo reagisce a determinate esperienze che si
presentano nel corso della vita umana. Al linguaggio delle idee si sostituisce
161
E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, cit., pp. 105-106.
87
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
così quello delle ‘esperienze’ in grado di fornire una risposta più dettagliata
agli interrogativi radicali che l’uomo costantemente si pone. Oltre a ciò, l’analisi critica delle esperienze è svolta esaminando i diversi depositi simbolici
(per esempio, proprio le idee o le istituzioni politiche, sociali, religiose…)
presenti nel corso della storia ed espressione dell’esperienze stesse. I simboli comunicano le esperienze d’ordine (e di disordine) vissute dall’uomo,
ovvero il modo in cui gli esseri umani hanno organizzato le proprie esistenze sociali e politiche. A questo punto, la storia non è esclusivamente
storia delle idee, ma anche history of experiences and symbolizations: una
storia fatta di esperienze e simboli che si interroga anche sul senso della
realtà e dell’agire umano. Voegelin si allontana, perciò, dall’ambito della
storia delle idee per abbracciare una ricerca filosofico-politica più radicale
che lo porta a rivedere l’assetto metodologico e i contenuti della History
of Political Ideas. Il risultato di tale nuova prospettiva d’indagine è Order
and History, un altro monumentale trattato che rappresenta a tutti gli effetti
l’opus magnum di Voegelin: lo scopo è “a philosophical inquiry concerning
the order of human existence in society and history”, ovvero tracciare la
storia dell’ordine della società umana, dal suo emergere nell’antico oriente
fino al periodo presente.162
Il piano inziale di quest’opera della maturità prevedeva lo studio delle
organizzazioni imperiali del vicino oriente e la loro esistenza nella forma
del mito cosmologico, l’indagine circa il popolo eletto e la sue esperienze
d’ordine nella storia, la ricerca riguardante la polis, il suo mito e lo sviluppo
della filosofia come forma simbolica del suo ordine, l’analisi degli imperi
a multiciviltà e della nascita della cristianità, e infine l’esame del moderno
Stato nazionale e della gnosi. Tali temi si sarebbero dovuti distribuire in sei
volumi (Israel and Revelation, The World of the Polis, Plato and Aristotle,
Empire and Christianity, The Protestant Centuries, The Crisis of Western
Civilization), che riorganizzavano gli studi storico-filosofici compiuti per
la stesura della History of Political Ideas. I primi tre volumi uscirono tra
il 1956 e il 1957, ma poi il progetto voegeliniano andò incontro ad alcuni
cambiamenti. Il lavoro si arenò, da un lato, a causa della mole che avrebbe
raggiunto, perché, come dimostra la stessa History, era costume di Voegelin
162
E. VOEGELIN, Order and History, vol. I, Israel and Revelation, cit., p. 24.
88
Cap. III - Monismo e scienza politica
non presentare soltanto le formulazioni teoriche, ma anche i materiali sui
quali le stesse si basavano;163 dall’altro, le assunzioni teoretiche dalle quali
era partito avevano subito un ulteriore sviluppo. Nel 1958 Voegelin fu poi
chiamato all’Università di Monaco, a occupare la cattedra che era stata di
Max Weber e a dirigere l’Institut für politische Wissenschaft, Istituto che
diresse fino al 1969.164
Al di là del tracciato teorico-filosofico seguito, l’impalcatura portante
dell’opera era lo studio della storia: perennemente proteso ad interrogare la
storia e a ridefinire i caratteri della propria ricerca storica, Voegelin desidera
discernere nel corso del suo fluire le forme simboliche attraverso le quali gli
esseri umani hanno organizzato le loro esistenze socio-politiche. La storia
è ora per Voegelin – ed è questo il passaggio che segna l’‘abbandono’ della
History of Political Ideas – storia di sistemi di simboli che ordinano di
volta in volta, attraverso sedimentazioni più o meno compatte, più o meno
differenziate, l’esistenza umana. In questo senso, costante è per l’uomo il
pericolo di considerare i simboli trovati come definitivi, unici e assoluti,
sottratti alla loro temporalità e contingenza storica e perciò di generare
‘mostri politici’ tirannici, dispotici o totalitari, che tentano di esaurire la
questione dell’ordine politico, ovvero di rimuovere la questione del fondamento trascendente dello stesso.
Al centro della riforma metodologica di Order and History c’è, ancora
una volta, l’affermazione forte che non si può dare un significato alla storia,
così come avevano tentato di darlo le filosofie finalistiche del XVIII e XIX
secolo, ma ci si deve perennemente interrogare sul suo significato. Questa
è la conseguenza di un movimento della storia definito ora dal filosofo te163
“If I went through with the program, the sequel to the first three volumes would have been
not another three volumes as planned but perhaps six or seven volumes more. The general
public was unfamiliar with the sources that led to certain theoretical insights, so the theoretical insights could not be presented without the sources” (E. VOEGELIN, Autobiographical
Reflections, cit., p. 107).
164
Il quarto volume, The Ecumenic Age, fu pubblicato nel 1974; mentre l’ultimo volume, In
Search of Order, uscì postumo nel 1987. Negli anni in cui la stesura del trattato fu interrotta,
Voegelin sviluppò e precisò la filosofia della coscienza, che in parte già faceva da sottofondo
a The New Science of Politics e al primo impianto di Order and History. In The Ecumenic
Age venivano spiegate le difficoltà incontrate nell’impresa ed i motivi del cambiamento
metodologico-strutturale. Il quinto volume, In Search of Order, doveva costituire la summa
della nuova prospettiva teorica, ma fu interrotto dalla morte dell’autore.
89
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
desco come esodo, perché scandito da fratture epocali, frutto del passaggio
da forme più compatte a forme più differenziate di esistenza individuale e
collettiva165 e di un ordine (politico ed esistenziale) generato dalla tensione
verso il fondamento divino della realtà.166
Non è questa la sede per entrare nei dettagli dello studio voegeliniano
sui fenomeni d’ordine del corso storico e sui vari simboli che gli uomini
usano per interpretare l’ordine stesso, ma se è vero che Voegelin sposta il
centro della propria ricerca dalle idee alle esperienze della realtà, che per articolarsi generano una varietà di simboli, è anche fuori di dubbio che costante
è l’interesse per il processo di secolarizzazione che investe l’Occidente:
dalla History of Political Ideas, passando per The New Science of Politics
(1952) e poi per scritti successivi quali Wissenschaft, Politik und Gnosis
(1959), fino ai primi volumi di Order and History (Israel and Revelation,
The World of the Polis e Plato and Aristotle) Voegelin non perde di vista
quanto sia pericoloso perdersi in “modes of existence in untruth”,167 ovvero
incorrere in progetti di unità politica monolitica che eliminano il rapporto
con la dimensione divina e conducono alla illusoria costruzione di uno
Stato perfetto.168 Per il pensatore tedesco, e ciò può piacere o non piacere,
soluzioni politiche che escludono, rimuovono, dimenticano o occultano
il riferimento ad un fondamento trascendente sono sintomo di disordine
politico, sono esperimenti gnostici, prodotti arbitrari della ragione umana,
come dimostrano i moderni movimenti rivoluzionari di massa.
Quella di Voegelin è certamente una ‘scienza politica-scienza dell’ordine’ densa e fatta di tematiche complesse, nella quale l’indagine storiografica,
165
Afferma Voegelin: “When a society gains a new insight into the true order of personal and
social existence, and when it will abandoned the larger society of which it is a part when it
gains this new insight, this constitutes an exodus” (E. VOEGELIN, Configurations of History,
in ID., Published Essays 1966-1985, cit., p. 104).
166
Sul concetto di esodo in Voegelin cfr. S. CHIGNOLA, Pratica del limite. Saggio sulla
filosofia politica di Eric Voegelin, cit., pp. 99-116; G. ZANETTI, op. cit., pp. 71-79.
167
E. VOEGELIN, On Debate and Existence, in ID., Published Essays 1966-1985, cit., pp. 36-51.
168
Come osserva Sandoz: “It is worth stressing that no dislocating break in Voegelin’s thought
occurred after the publication of The New Science of Politics in 1952; that work signaled the
watershed in the philosopher’s thinking. The meditative horizon opening there is explored,
amplified, refined, and productive of major new insights, to be sure […].” (E. SANDOZ,
Editor’s Introduction, in E. VOEGELIN, Published Essays 1966-1985, cit., p. XIV).
90
Cap. III - Monismo e scienza politica
prima, e filosofica poi, sull’origine intellettuale del totalitarismo, è anche il
rifiuto perentorio di qualsiasi dogmatismo e, perciò, uno studio antidogmatico e anti-ideologico del reale, volto a recuperare “the philospoher’s freedom
of reason”169 e a superare uno studio della società e del politico inquinato da
progressismi, positivismi, ideologie scientiste e metodologie neokantiane.
3.2 Il problema della rappresentanza nell’indagine voegeliniana sul
monismo totalitario
In questo contesto, la riflessione di Voegelin sulla rappresentanza170
esposta in The New Science of Politics segna un momento importante nell’in169
E. VOEGELIN, Wisdom and the Magic of Extreme, cit., p. 316.
170
Sulla rappresentanza in Voegelin, cfr. G. DUSO, La Rappresentanza: un Problema di
Filosofia Politica, Milano, FrancoAngeli, 1988, pp. 156-161; C. GALLI, Eric Voegelin: la
rappresentanza, la trascendenza, la storia, in C. CARINI (a cura di), Aspetti e problemi della
rappresentanza politica dopo il 1945, Firenze, CET, 1998, pp. 73-107; il saggio è stato ripubblicato nel volume ID., Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Roma-Bari,
Laterza, 2009, pp. 209-236; ID., Immagine e rappresentanza politica, “Filosofia politica”, I
(1987), pp. 9-30. Nello sviluppare il tema della rappresentanza Voegelin ha ben presente la
riflessione di Hans Kelsen, del quale fu allievo a Vienna. Il rapporto tra i due autori come già
detto è complesso e caratterizzato da numerosi ‘scontri’ sotto il profilo metodologico e teorico.
Il giurista austriaco mette in discussione proprio la nozione di rappresentanza elaborata da
Voegelin, dal momento che per il filosofo tedesco la rappresentanza elementare (“esitenza
esterna della società”) – rappresentanza mediante organi eletti – deve dare per scontata l’esistenza di una “struttura esistenziale” (di una “struttura interna della societa”). Per Kelsen,
qui Voegelin sbaglia: denunciando l’insufficiente profondità ontologica della rappresentanza
elementare, egli finisce per perdere di vista in che cosa realmente consista la rappresentanza
democratica, se questa realmente assicuri una forma di governo democratico eletto dal popolo
sulla base del suffragio universale. Cfr. H. KELSEN, Una Nuova Scienza Politica, a cura
di Federico Lijoi, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 27-91: 36-50. Si vedano anche le lettere
che Kelsen e Voegelin si scambiarono durante il 1954; queste infatti hanno come oggetto
proprio il concetto di rappresentanza. Cfr. E. VOEGELIN, Selected Correspondence 19501984, Columbia and London, University of Missouri Press, 2007, pp. 206-209, 214-218. Sul
rapporto tra rappresentanza democratica di un popolo e sistema parlamentare e sul carattere
della democrazia kelseniana cfr.: R. RACINARO, Hans Kelsen e il dibattito su democrazia
e parlamentarismo negli anni Venti e Trenta, in H. KELSEN, Socialismo e Stato, Bari, De
Donato, 1978, pp. IX-CLV; G. PECORA, La democrazia di Hans Kelsen. Un’analisi critica,
Napoli, ESI, 1992; S. LAGI, La «Democrazia» di Hans Kelsen: tra procedura ed etica, “Il
pensiero politico”, XXXVI (2003), pp. 239-272; ID., La prima edizione di Essenza e valore
della democrazia. Temi e problemi, “Il pensiero politico”, XXXVII (2005), pp. 439-448; ID.,
Il pensiero politico di Hans Kelsen (1911-1920). Le origini di Essenza e valore della democrazia, Genova, Name, 2008; ID., La forma di governo meno imperfetta: la democrazia di
Hans Kelsen, “Il pensiero politico”, XLVIII (2015), pp. 248-260; H. KELSEN, La democrazia,
Bologna, Il Mulino, 2013.
91
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
terpretazione che egli dà della chiusura totalitaria della società moderna.
Attraverso il concetto di rappresentanza lo studioso tedesco argomenta una
riflessione filosofica rivolta sia al passato, alle origini dei tratti costituitivi
del pensiero politico totalitario, sia al presente, alla società del suo tempo,
interrogandosi sull’ordine politico della democrazia liberale.
Per Voegelin, la rappresentanza comprende tre livelli di significato:
quello elementare o giuridico-politico formale, quello esistenziale e quello
trascendente. La rappresentanza elementare è quella tipica delle istituzioni
rappresentative liberaldemocratiche e garantisce “the external existence of
a society”.171 È la delega di opinioni e d’interessi a un rappresentante che
agisce in nome di altri individui e costituisce il primo tassello formaleprocedurale e funzionale alla convivenza sociale; da sola, però, non è sufficiente a garantire l’ordine politico. Per Voegelin, accanto alla dimensione
empirica della delega degli interessi, cioè alla dimensione costituzionale
dell’organizzazione del potere e alla sua legittimazione popolare, deve esserci una rappresentanza esistenziale: ogni società per esistere deve esprimere
una rappresentanza esistenziale, perché attraverso questa l’ordinamento
positivo dà attuazione a un contenuto, a un’idea la quale mantiene in vita
la società stessa e dà efficacia all’agire politico della società nella storia. A
questo livello il quadro della situazione si complica: se ogni rappresentanza
è sempre, oltre che elementare anche esistenziale, vi è il rischio che l’idea
(la forma ideale dell’esistenza della società), resa viva ed effettiva dalla
rappresentanza, venga realizzata in modo assoluto, fondando un ordine
politico monolitico, ovvero totalitario. Voegelin qui chiama in causa la
rappresentanza della “Verità”, che consiste proprio in una rappresentanza
esistenziale compatta, nella quale identità e unità sono indissociabili. Nella
storia molteplici sono stati i tentativi di realizzarla, basti pensare, secondo
Voegelin, alla logica hobbesiana e hegeliana dello Stato moderno, in cui
lo Stato stesso, pur con le dovute differenze, si pone come inizio e come
fine dell’esistenza dell’uomo e, più recentemente, a comunismo e nazismo,
chiari esempi di rappresentanza unilaterale, negli intenti e nell’azione, ed
immanente della Verità.172 Siamo al cospetto di esperienze che configurano
171
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit, p. 113.
172
S. CHIGNOLA, Pratica del limite. Saggio sulla filosofia politica di Eric Voegelin, cit.,
pp. 113-119.
92
Cap. III - Monismo e scienza politica
un ordine socio-politico vissuto come acquisito una volta per tutte, nel quale
la storia è un vettore lineare con un tragitto progressivo verso un termine
ultimo.
Per evitare la pretesa che una società politica possa esprimere l’universalità della verità, al significato esistenziale della rappresentanza “must
be added the sense in which society is the representative of a transcendent
truth”.173 “Representation in transcendental sense” è un tipo di rappresentanza per lo più non compatta, perché si articola in soggettività aperte alla
trascendenza: la società diventa rappresentante di qualcosa che va oltre se
stessa, verso una realtà trascendente a cui si tende, ma che non si può mai
raggiungere e perciò non si consolida mai in una verità ultima. Affinché
infatti la rappresentanza trascendentale sia tale, non può ridurre la verità
trascendente alla sua rappresentazione storica finita. Se ciò accadesse, “la
verità diventerebbe immanente” e l’esperienza umana si chiuderebbe ancora
una volta alla sola dimensione terrena, con il pericolo di scivolare verso
progetti politici al servizio di ideologie esclusive.174
L’allargamento del contenuto elementare ed esistenziale della rappresentanza all’esperienza della trascendenza è centrale nell’impostazione
teorica voegeliniana: la rappresentanza nella sua forma completa chiede
non solo un metodo democratico a livello procedurale, ovvero un insieme
di regole che riguardano competenze e procedure rispetto al processo di
decisone politica, ma anche un’attenzione particolare a ‘che cosa’ dirige lo
Stato, a quale sia l’idea attiva operante nella società. Specialmente a livello
politico è rilevante l’apertura costante e inesauribile verso il fondamento
dell’esistenza: è questa ‘apertura’ che dà luogo ad un ordine non ‘unico’,
ipostatizzato, ma articolato. Di conseguenza, è il rapporto tra rappresentanza
e verità, tra immanenza e trascendenza (e tra politica e rappresentazione
dell’idea) a segnare la distanza tra un assetto politico monistico-totalitario
e un’ organizzazione politico-istituzionale non liberticida.
Con la teoria della rappresentanza Voegelin individua un campo
prettamente politico, più che giuridico, indicando come l’ordine della vita
pubblica dipenda dall’equilibrio armonico tra trascendenza e immanenza,
173
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 147.
174
G. CAMMAROTA, La scienza politica come scienza teorica. La teoria della rappresentanza in Eric Voegelin, cit., p. 104.
93
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
tra dimensione spirituale e temporale, tra verità dell’anima e verità della
società. L’ordine politico si raggiunge perciò tramite la dedivinizzazione
di ogni forma di potere temporale, così da evitare la sacralizzazione di
entità politiche intramondane, e mantenendo vivo il dialogo della società e
dell’uomo con il divino.
A rendere fragili le democrazie liberali contemporanee è perciò, a
parere di Voegelin, la convivenza difficile tra immanenza e trascendenza,
soprattutto in un’epoca caratterizzata dall’estrema secolarizzazione. Lo
stesso fondamentalismo religioso è una manifestazione di questa involuzione, in quanto esprime la volontà di fare coincidere Dio, Chiesa e politica,
tentando di dare presenza storica alla trascendenza stessa.175 Il pensatore
tedesco è, dunque, perplesso circa il futuro della democrazia liberale: il
pericolo di scivolare lungo il crinale del totalitarismo non è scomparso,
perché la possibilità di eliminare lo scarto tra cielo e terra, come hanno fatto le moderne ideologie immanentiste, è sempre presente. L’Occidente sta
perdendo, agli occhi di Voegelin, l’idea di ordine complesso e articolato:176
la politica presente si limita a ridurre al minimo la tensione tra trascendenza
e immanenza, circoscrivendo la propria forma politica alla rappresentanza
elementare, relegando alla sola sfera privata il rapporto con il trascendente,
concentrandosi su regole tecniche che riguardano procedure e competenze
e che finiscono per esaltare diritti individuali e interessi particolari. Eppure “a glimmer of hope” è ancora accesa: la società occidentale non è tutta
‘moderna’, perché ancora in essa è viva la tradizione classica e cristiana.
Se così non fosse, già da molto tempo avrebbero trionfato ancora una volta
le rivoluzioni più radicali e ‘mondi di sogno’ (gnostici) che perpetuano una
distorsione della realtà, in cui ogni forma di dibattito razionale è bandita in
virtù di un’unica visione che non ammette opposizione.177 Voegelin fa così
notare che all’interno della tradizione occidentale
the American and English democracies […] most solidly in their institutions represent
the truth of the soul [and] are, at the same time, existentially the strongest powers.
175
C. GALLI, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, cit., p. 215.
176
Ivi, pp. 224, 236.
177
E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution, cit., pp. 113-114; E. VOEGELIN, The New
Science of Politics, cit., pp. 226-227, 241.
94
Cap. III - Monismo e scienza politica
But it will require all our efforts to kindle this glimmer into a flame by repressing
gnostic corruption and restoring the forces of civilization.178
L’interrogazione voegeliniana sul totalitarismo e la scienza politica
da lui elaborata non detta, però, né un progetto politico né principi per un
nuovo ordine politico; egli non è interessato a fornire proposte risolutive
per le sfide che il mondo occidentale (e con esso la democrazia liberale) si
trova costantemente ad affrontare. La ricerca storica e la riflessione filosofica
del pensatore tedesco, e lo stesso si può dire per quelle di Berlin, nasce da
uno stimolo contingente, da una partecipazione lucida ma appassionata ai
problemi del presente: la crisi che nel XX secolo attraversa l’Europa, scossa
da due conflitti mondiali, dalla catastrofe del totalitarismo e dal profilarsi
della Guerra Fredda. Per rispondere al delirio politico di questo periodo
storico e per resistere a nuove derive totalitarie, sia Voegelin sia Berlin
riflettono su idee e concezioni ideologiche che, a loro giudizio, avevano
contribuito al sorgere di forme di governo liberticide e totalitarie. Sotto il
profilo filosofico-politico, l’indagine sulla rappresentanza di Voegelin e
quella sulla libertà positiva-libertà negativa di Berlin, sono una risposta
(non definitiva) a stimoli politici solo apparentemente contingenti, perché
destinati a durare nel tempo. Nel caso di Voegelin, a partire dalla messa
in discussione della scienza politica positivista, egli desidera rifondare lo
studio del politico, attraverso una ‘restaurazione della scienza politica’.
Una scienza politica quella formulata da Voegelin che, come giustamente
evidenzia Zanetti, è “ben strana”, ed “ha ben poco a che fare con la disciplina che normalmente si intende sotto questo nome”.179 La presa di distanza
dalla scienza politica moderna implica una contrapposizione radicale con
la neutralità dell’impostazione weberiana, ossia con la distinzione del sociologo tedesco tra fatti e valori.180 L’analisi critica della realtà politica, del
178
E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 241.
179
G. ZANETTI, op. cit., pp. 63, 47.
180
La riflessione di Voegelin su Weber è particolarmente articolata, qui si rinvia ai saggi
giovanili del 1925 e del 1930, nei quali Voegelin affronta il carattere problematico della razionalità moderna in Weber, e alla critica dell’impostazione weberiana ne La Nuova Scienza
Politica (1952). Cfr. E. VOEGELIN, Über Max Weber, “Deutsche Vierteljahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte”, III (1925), pp. 177-193; tr. ingl. in ID., Published
Essays 1922-1928, Columbia and London, University of Missouri Press, 2003, pp. 100-117.
ID., Max Weber, “Kölner Vierteljahrshefte für Soziologie”, IX (1930), pp. 1-16; tr. ingl. ID.,
95
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
conflitto tra ‘bene’ e ‘male’, nel modo in cui questo è emerso tragicamente
e violentemente nel XX secolo, impone, per Voegelin, una reintroduzione
dell’etica, tramite l’ontologia (dell’essere e dei valori); una reintroduzione
che viene compiuta richiamandosi alla metafisica classica e cristiana, alla
filosofia della Grecia classica (e in particolare al pensiero di Platone), da
un lato, e alla verità soteriologica del cristianesimo, dall’altro.181 Lo studio
del politico viene perciò rifondato attraverso una ricostruzione della scienza
politica che sia, come commenta Sandoz, “a restoration of the classical and
Judaeo-Christian philosophy of man and human affairs […]”, senza scadere
banalmente “[in] the recovery of a tradition in the spirit of the antiquary or
the disinterested historicist”.182
Sulla base di quanto detto, è importante ricordare la critica antimetafisica che muove Kelsen all’impostazione metodologica voegeliniana, perché
richiama la distanza di metodo che pur si riscontra nell’affinità intellettuale
che lega Voegelin a Berlin. L’esame approfondito di Berlin storico delle
idee affrontato nella seconda parte del volume metterà in risalto come il
pensatore tedesco e il filosofo inglese siano collegati da un filo rosso, cioè
da un atteggiamento profondamente critico verso quelle ideologie totalitarie o visioni del mondo monistiche che pretendono di autogiustificarsi per
mezzo di un sapere superiore. Entrambi gli studiosi criticano lo scientismo
illuminista e positivista, il materialismo storico e in generale quelle forme
di conoscenza che presumono di spiegare in via assoluta la vita umana,
sociale e politica, fornendo la certezza di realizzare un regno di libertà e di
pace. Proclami che si rivelano però utopici e si risolvono in un mondo dalle
caratteristiche reali esattamente opposte. Questa assonanza tra Voegelin e
Published Essays 1929-1933, cit., pp. 130-147; ID., The New Science of Politics, cit., pp.
98-105; ID., Hitler and the Germans, cit., pp. 257-273. Inoltre, nell’affrontare il rapporto
Voegelin-Weber cfr. L. FRANCO, Voegelin e Weber: ambiguità e trasparenza, “Il Mulino”,
XXXV (1986), pp. 775-797; P.J. OPITZ, Max Weber e Eric Voegelin, “Filosofia Politica”,
VII (1993), pp. 109-127.
181
Cfr. Cap. II, par. 1.1, pp. 67-68. Da questo punto di vista, Voegelin presume di poter conferire
alla storia la forma di un grande arco, la cui fase ascendente è data dall’episteme platonicoaristotelica, mentre il cristianesimo viene a fissare l’acme del ciclo, confermando la verità
ordinante dell’anima nella sua apertura verso la trascendenza. Ai margini del Cristianesimo
ha inizio un terzo momento discendente, quello gnostico.
182
E. SANDOZ, Editor’s Introduction, in E. VOEGELIN, Published Essays 1966-1985, cit.,
p. XVIII; E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 89.
96
Cap. III - Monismo e scienza politica
Berlin va inquadrata tenendo tuttavia presente come la critica berliniana alle
ideologie del XX secolo e alla Weltanschauung monistica muova da una
prospettiva antimetafisica; al contrario della riflessione critica voegeliniana,
che si fonda su presupposti ontologico-metafisici.
Sono proprio questi ultimi presupposti che Kelsen contesta, confrontandosi con la nozione di scienza voegeliniana:183 a parere del giurista, la realtà
deve essere descritta e resa comprensibile su base rigorosamente empirica,
senza ricorrere a valori morali metafisici. Kelsen sostiene che:
[l]a scienza può solo descrivere e spiegare; non può giustificare la realtà. La scienza
ha la tendenza intrinseca a essere indipendente dalla politica e, in quanto conoscenza
razionale ed obiettiva della realtà, non può presupporre, nella descrizione e nella
spiegazione del proprio oggetto, l’esistenza di un’autorità trascendente, che sia al di
là di ogni possibile umana esperienza.184
Secondo Kelsen, richiamarsi ad una sfera trascendente, così come faceva l’allievo Voegelin, rende vano lo sforzo weberiano dell’avalutatività
della scienza, proiettando lo sguardo al di là dell’esperienza strettamente
‘scientifica’: la scienza politica viene posta nuovamente sotto il giogo della
teologia e della speculazione metafisica e, quindi, resa nuovamente schiava
di valori assoluti.185
Si può naturalmente essere d’accordo o no con l’obiezione kelseniana,
ma più che entrare nel merito della complessa controversia tra maestro e
allievo, ci interessa sottolineare l’aspetto filosofico-politico dell’impresa
speculativa del pensatore tedesco. Voegelin analizza il ruolo più squisitamente filosofico della scienza politica (“a philosophically astute and a
highly original renovation of the spirit of philosophizing”),186 caratterizzata
da una ragione non astratta ed esatta, in cui la tensione verso il trascendente
183
Per quanto riguarda la riflessione kelseniana sulla nuova scienza politica di Voegelin cfr.
H. KELSEN, Una Nuova Scienza Politica, cit.
184
H. KELSEN, Religione secolare. Una polemica contro l’errata interpretazione della
filosofia sociale, della scienza e della politica moderne come “nuove religioni”, Milano,
Raffaello Cortina Editore, 2014, p. 364.
185
Cfr. H. KELSEN, Una Nuova Scienza Politica, cit., pp. 1-2; P. DI LUCIA - L. PASSERINI
GLAZEL, Prefazione all’edizione italiana. Religione senza un Dio?, in H. KELSEN, Religione
secolare, cit., pp. XI-XII.
186
E. SANDOZ, Editor’s Introduction, in E. VOEGELIN, Published Essays 1966-1985, cit.,
p. XVIII.
97
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
implica per sua stessa natura un’idea di ‘verità’ che non si lasci piegare a
definizioni assolute. Sotto il profilo della conoscenza del politico, significa
anche prendere consapevolezza dei valori e dei limiti a cui la facoltà stessa
del conoscere è sottoposta. Non esiste un punto di vista privilegiato dal
quale si possa afferrare con orgogliosa certezza l’ordine politico perfetto,
perché l’uomo vive immerso, a livello politico-sociale, in una realtà che
non è un oggetto, ma qualcosa di mutevole, che non si dà mai una volta
per tutte, aprendosi a Dio.187 L’ordine politico non può essere racchiuso in
un concetto, in un’idea, bloccato in un risultato immutabile, ma consiste
proprio nell’apertura dell’anima alla realtà trascendente; un’apertura che
non si consolida mai in una conoscenza piena dell’uomo e della società in
cui vive e che non obbedisce a nessuna legge di sviluppo immanente. Il
richiamo religioso-metafisico voegeliniano che pure denuncia l’inefficacia,
l’insufficienza e la pericolosità di qualsiasi monismo, decreta però anche
una prospettiva metodologica differente rispetto a quella di Berlin, perché si
riferisce ad un universo concettuale distante da quello del filosofo inglese.
La necessità di una rappresentanza trascendentale è poi affermata criticando
il razionalismo scientista, il dogmatismo, il relativismo e il totalitarismo,
sia nazista sia comunista (quest’ultimo ben più pericoloso a causa della
dialettica della storia), senza però perorare apertamente la causa della libertà
individuale. Quest’ultima è, per Voegelin, costantemente sotto la minaccia
del relativismo se l’individuo non si apre criticamente alla trascendenza.
La scienza politica voegeliniana si riscopre proprio nella trascendenza
ed è perciò un’interrogazione continua del rapporto tra ordine politico e fondamento dell’esistenza: alla sterilità del razionalismo scientista-positivista
della scienza politica moderna, ovvero all’idea anch’essa tutta moderna
di una “scienza auto-fondata su una ragione immanente”,188 Voegelin contrappone una ricerca senza sosta ed approdo (zetesis), rivolta alla ricorrente
tensione (helkein) verso il fondamento trascendente dell’ordine politico,
tensione che nutre e costruisce l’ordine stesso. Questo tipo di rinnovamento
della scienza politica è al centro della comprensione dei movimenti di palingenesi terrena, dei loro processi rivoluzionari e quindi del totalitarismo: se
187
G. ZANETTI, op. cit., pp. 63, 66-67.
188
Ivi, p. 72.
98
Cap. III - Monismo e scienza politica
nella History of Political Ideas Voegelin si interroga sulla civiltà occidentale,
valutando proprio le irruzioni di immanenza e trascendenza nella storia
umana, con particolare attenzione alle “forces of innerwordly religiosity”,
cioè alla secolarizzazione dello spirito e ai disordini ideologico-dogmatici
dell’età moderna e contemporanea, nella Nuova Scienza Politica (e nella
produzione scientifica successiva) egli mette in risalto “the reassertion of
the spirit”, ovvero una scienza che, non dimenticandosi di essere collegata
all’ontologia e alla metafisica, possa penetrare il significato profondo della
storia, andando al di là di ciò che semplicemente appare e oltre la corruzione
epistemologica del monismo.189
189
Cfr. E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VII, The New Order and Last Orientation, cit., p. 195.
99
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
CAPITOLO IV
ISAIAH BERLIN E LA STORIA DELLE IDEE
4.1. Isaiah Berlin: ilosofo e storico delle idee
Nel 1988 Isaiah Berlin,190 ormai anziano e altrettanto celebre intellettuale a livello internazionale, giunse nella città di Torino per ricevere
il Premio Senatore Giovanni Agnelli e in quella occasione tenne un lungo
discorso di ringraziamento successivamente pubblicato in italiano con il
titolo Sulla ricerca dell’ideale.191
Potrebbe apparire quanto mai curioso la scelta di introdurre la figura
e l’opera di Berlin in rapporto alla riflessione sul monismo iniziando da un
evento che risale alla fine degli anni ‘80 e che certamente non rappresenta
il momento più alto e memorabile della sua carriera, già all’epoca costellata
190
Isaiah Berlin nacque a Riga in una agiata famiglia di commercianti ebrei. Trasferitosi
poco più che bambino con i genitori in Inghilterra, compì i suoi studi universitari a Oxford,
entrando a far parte – primo ebreo nella storia di quell’istituzione – del prestigioso All Souls
College. Durante la Seconda guerra mondiale ebbe incarichi diplomatici sia in America, sia
in Unione Sovietica che lo portarono ad entrare in contatto con insigni personalità del tempo
quali Arthur Schlesinger, George Kennan, Anna Achmatova, per citarne alcuni. Nel 1958
divenne Chichele Professor di Teoria politica e sociale all’All Souls College e nel 1966 fu tra
i fondatori del Wolfson College (Oxford). Storico delle idee, filosofo e diplomatico, Berlin
fu tra i personaggi più in vista dell’ambiente intellettuale inglese del XX secolo. La biografia
più nota e apprezzata su Berlin rimane quella scritta da Michael Ignattieff, della quale ci siamo avvalsi nella traduzione italiana: M. IGNATIEFF, Isaiah Berlin. Ironia e libertà, Roma,
Carocci, 1998. Si vedano inoltre: I. BERLIN, In libertà. Conversazioni con R. Jahanbegloo,
tr. it. Roma, Armando Editore, 2012 e S. LUKES, op. cit. I due ultimi libri citati consistono
essenzialmente in lunghe interviste rilasciate da Berlin e quindi sono particolarmente interessanti proprio perché permettono di ‘leggere’ la vita del pensatore inglese attraverso il suo
sguardo più intimo e personale. Sulle frequentazioni di Berlin nel periodo americano si vedano
le interessanti pagine di F. S. SAUNDERS, La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo
delle arti e delle lettere, Roma, Fazi editore, 2004, p. 37 ss. In generale, su Isaiah Berlin e
la sua produzione intellettuale rimandiamo anche alla Isaiah Berlin Virtual Library, il cui
catalogo e le cui iniziative relative allo studio e alla divulgazione dell’opera dello studioso
inglese sono consultabili all’indirizzo web: http://berlin.wolf.ox.ac.uk/.
191
In questo caso ci siamo avvalsi direttamente della traduzione italiana del testo: I. BERLIN,
Sulla ricerca dell’ideale, Roma, Edizioni Morcelliana Edizioni, 2007.
101
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
di ben più importanti riconoscimenti. Tuttavia, il discorso che egli lesse
in quella occasione era un tentativo di affrontare alcuni dei temi che lo
avevano maggiormente appassionato e quindi di illustrare il suo percorso
intellettuale con il suo consueto (e molto criticato) gusto per le grandi sintesi
concettuali.192
Dalle parole del pensatore inglese emergeva con forza il problema del
pluralismo dei valori e dei fini e, insieme a ciò, la sua profonda diffidenza
per quelle concezioni filosofiche, etiche, conoscitive e politiche che cercavano di ricondurre la complessità (e pluralità) della vita entro un unico,
rigoroso schema esplicativo.193 Dopo aver evocato il suo ‘incontro’ con la
filosofia avvenuto a Oxford, Berlin ripercorreva la storia del pensiero filosofico soffermandosi in particolare sul razionalismo del ‘600 e del ‘700
che, a suo giudizio, si era caratterizzato per la fiducia di poter “stabilire un
grande sistema armonioso tenuto insieme da nessi inscindibili e suscettibile
di essere formulato in termini esatti”, applicando allo studio della realtà
umana quel metodo scientifico che tanti risultati sorprendenti e rivoluzionari
era riuscito a dare nell’indagine della natura.194
In questo senso, per Berlin, si era mosso il filosofo illuminista Condorcet che, in base ai dettami del razionalismo illuminista, aveva affermato
di poter “riorganizzare razionalmente la società” a partire da una chiara
individuazione dei bisogni umani.195 La certezza di poter discernere il senso
e la direzione della storia sarebbe poi stata incarnata, sebbene in maniera
differente, da Hegel e da Marx:
non esistevano verità atemporali: esisteva lo sviluppo storico, il mutamento continuo
[…]. La storia era un dramma in molti atti […] sia nel regno delle idee, sia nella
realtà […]. Tuttavia, dopo rovesciamenti inevitabili, fallimenti, ricadute, ritorni alla
barbarie, il sogno di Condorcet sarebbe divenuto realtà.196
Ciò che Berlin contestava apertamente a questo tipo di visione era il
192
Si veda a proposito S. VECA, Introduzione a I. BERLIN, Sulla ricerca dell’ideale, cit.,
pp. 29 ss.
193
Ibidem.
194
Ivi, pp. 29-33.
195
Ivi, p. 33.
196
Ivi, p. 37.
102
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
suo carattere teleologico, l’idea che esistesse un fine ultimo capace di dare
senso e significato al Tutto, alla vita, alla realtà nelle sue più sfaccettate declinazioni. Sin dagli anni ‘30, ossia sin dai suoi primi ‘passi’ nel mondo della
storia delle idee, Berlin aveva preso una posizione ben precisa e critica verso
questo tipo di concezioni, poiché in esse egli vedeva la pretesa e la ferma
volontà di individuare una risposta unica, un senso unico alla complessità
dell’esistenza; una tendenza monistica che egli considerava una sinistra e
pericolosa minaccia alla libertà, in particolare alla libertà individuale, alla
libertà di pensiero e alla libertà di scelta.197
È indubbio, come del resto è concorde nel ritenere la ricca e importante
letteratura fiorita attorno all’opera del pensatore inglese,198 che la critica al
monismo abbia caratterizzato l’intero percorso intellettuale di Berlin ma è
altrettanto vero che, in una prospettiva storica, essa svolse un ruolo primario
e centrale nell’opera berliniana in un lasso di tempo preciso, compreso fra
gli anni ‘40 e la fine degli anni ‘50, ed è proprio su questo periodo che ci
soffermeremo nella nostra analisi. A partire infatti dagli anni ‘60 Berlin si
sarebbe infatti sempre più concentrato sul problema del pluralismo.199
L’intellettuale inglese elaborò la sua riflessione sul monismo attraverso
la storia delle idee, disciplina alla quale cominciò ad avvicinarsi, maturando
un progressivo distacco dalla corrente del positivismo logico o empirismo
197
Ivi, pp. 33-37.
198
Tra i lavori fondamentali dedicati al pensiero di Berlin ricordiamo: B. BAUM – R. NICHOLS (edited by), Isaiah Berlin and the Politics of Freedom:“Two Concepts of Freedom”
50 Years Later, New York and London, Roudledge, 2013; P. BHIKU, Isaiah Berlin, in ID.,
Contemporary Political Philosophy, Oxford, Martin Robertson, 1982; J.L. CHERNISS, A Mind
and its Time: the Development of Berlin’s Political Thought, Oxford, Oxford University Press,
2013; G. CROWDER, Isaiah Berlin. Liberty and Pluralism, Cambridge, Polity Press, 2004;
di quest’ultima opera ci siamo avvalsi della versione italiana in: ID., Isaiah Berlin, Bologna,
Il Mulino, 2007; G. CROWDER – H. HARDY, (edited by), The One and the Many: Reading
Isaiah Berlin, Amherst, New York, Prometheus Books, 2006; J. GRAY, Isaiah Berlin: An
Interpretation of his Thought, Princeton, Princeton University Press, ristampa del 2013; C.J.
GALIPEAU, Isaiah Berlin’s Liberalism, cit; R. HAUSHEER, Introduction to I. BERLIN,
Against the Current: Essays in the History of Ideas, edited by H. Hardy, London, Hogarth
Press, 1979; J. REED, The Continuing Challenge of Isaiah Berlin’s Political Thought, in
“European Journal of Political Theory”, 8 (2009), pp. 253-262; A. WALICKI, Encounters
with Isaiah Berlin: Story of an Intellectual Friendship, Wien, Peter Lang, 2011.
199
Si veda J. CRACRAFT, Berlin for Historians, in “History and Theory. Studies in the Philosophy of History”, 41 (2002), pp. 297-298.
103
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
logico che era stata introdotta a Oxford dal filosofo A.J. Ayer.200 Nella città
oxoniense il giovane Berlin si misurò, per alcuni anni, con questioni allora
particolarmente in voga tra i positivisti logici, ossia la “teoria della conoscenza” e “la teoria del linguaggio”, condividendo con questi la medesima
tendenza anti-metafisica. Una tendenza che, come avrebbe ricordato lo stesso Berlin, si andava ad inserire in un ambiente intellettuale profondamente
refrattario all’idealismo e a Hegel.201 Del resto, molti e molti anni più tardi,
in un altro profilo autobiografico fondamentale per comprendere la sua
identità di storico delle idee e filosofo, ossia My Intellectual Path, Berlin
avrebbe affermato con tono deciso di non aver mai creduto in nessuna verità
metafisica.202 Tuttavia, diversamente dai suoi colleghi, come Stuart Hampshire e A.J. Ayer, Berlin maturò l’idea, alla quale sarebbe rimasto sempre
fedele, che “no abstract or analytical point exists out of all connection with
historical thought, that every thought belongs, not just somewhere, but to
someone, and this at home in a context which is not purely prescribed”.203
L’allontanamento dal positivismo logico non significò però il ripudio
della filosofia tout court: Berlin era e rimase prima di tutto un filosofo,
sebbene con un interesse e una attrazione indubbi per la dimensione storica, per la “immaginazione storica”.204 La storia delle idee – disciplina nata
negli Stati Uniti tra gli anni ‘10 e ‘30, grazie soprattutto all’opera di Arthur
Ocken Lovejoy205 – permetteva a Berlin – di coniugare queste due ‘anime’.
200
Il positivismo logico, rappresentato da filosofi come G.E. Moore, B. Russell e L. Wittgenstein
viene comunemente considerato la versione inglese del positivismo del Circolo di Vienna,
la cui concezione venne introdotta nell’ambiente intellettuale di Oxford proprio da Ayer con
il suo Language, Truth and Logic del 1936. C.P. BERTELS – E. PETERSMA, I Filosofi del
Novecento, Roma, Armando Editore, 1995, pp. 71 ss. Si veda a proposito G. CROWDER,
Isaiah Berlin, cit., pp. 41-42. Inoltre, AA.VV., Dizionario di filosofia: gli autori, i concetti,
le opere, Milano, Rizzoli, 1994.
201
I. BERLIN, In libertà, cit., p. 48.
202
I. BERLIN, My Intellectual Path, in ID., The Power of Ideas, edited by H. Hardy, Princeton,
Princeton University Press, 2002, pp. 2 ss.
203
B. WILLIAMS, Introduction, to I. BERLIN, The Concept of Scientific History (1961),
cit., 1980, p. XII.
204
Ibidem. Si veda a riguardo anche il commento di A. RYAN, Berlin and History, in G.
CROWDER – H. HARDY, op. cit., p. 159.
205
Relativamente a Lovejoy e alla storia delle idee in ambito americano rimandiamo al Cap.
I del nostro volume.
104
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
Nella Oxford del primo dopoguerra la storia delle idee era una disciplina
ai margini, alla quale Berlin aveva cominciato ad accostarsi attraverso
il filosofo idealista R.G. Collingwood (1889-1943). Quest’ultimo era un
intellettuale abbastanza isolato, refrattario alla collaborazione con scuole
e gruppi accademici, e i suoi interessi spaziavano dalla filosofia alla storia
fino alla archeologia.206 Egli era un convinto idealista e non a caso fu proprio
Collingwood a tradurre in inglese e far conoscere nel suo paese l’opera di
Benedetto Croce.207 Proprio per le sue convinzioni e per la tenacia con cui in
vari scritti difese il punto di vista e la tradizione idealiste, Collingwood divenne uno dei bersagli preferiti di Ayer, al quale però replicò, come avvenne
nel suo Essay on Methaphysics del 1940, cercando di mettere in luce quelli
che riteneva fossero i limiti e le contraddizioni del positivismo logico.208
È certo che Berlin frequentò le lezioni di filosofia della storia tenute da
Collingwood durante il Trinity Term del 1931 e, secondo il principale biografo di Berlin, Michael Ignatieff, fu proprio Collingwood a esercitare una
notevole impressione sul giovane studente.209 Questa affermazione merita
di essere approfondita soprattutto perché, come abbiamo precedentemente
osservato, Berlin era ben lontano (e lo sarebbe sempre stato) dal subire il
‘fascino’ della filosofia idealista. Attraverso Collingwood, Berlin conobbe
la figura di Giambattista Vico che, insieme a Hamann e Herder, avrebbe poi
rappresentato ai suoi occhi uno dei ‘campioni’ della prima reazione all’illuminismo, ossia di quella corrente di pensiero che egli avrebbe definito
Contro-illuminismo, e che avrebbe costituito uno dei punti di riferimento
206
Per una introduzione all’opera e al pensiero filosofico di Collingwood cfr: J. CONNELY –
P. JOHNSON–S. LEACH, R. G. Collingwood. A Research Companion, London, Bloomsbury,
2014. Inoltre, T.A. HARTIN, Collingwood’s Idea of History: the Development and Form of
Historical Inquiry, Honor Thesis, Richmond University, Spring 1984, pp. 562.
207
Cfr. A. VIGORELLI, Lettere di Robin George Collingwood a Benedetto Croce (1912-1939),
“Rivista di Storia delle Filosofia”, 46 (1991), pp. 545-563.
208
M. DUBNOV, Isaiah Berlin, the Journey of a Jewish Liberal, New York, Palgrave Macmillan, 2012, p. 70.
209
M. IGNATIEFF, op. cit., p. 69. Dubnov ricorda però che Berlin ammise il suo ‘debito’ nei
confronti di Collingwood soltanto in occasione di un convegno che si tenne a Gerusalemme
nel 1974. M. DUBNOV, op. cit., p. 72. Cfr. Y. Yavel, Philosophy and History in Action: Papers Presented at the First Jerusalem Philosophical Encounter, December 1974, Jerusalem,
Magnes Press, 1978.
105
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
essenziali nella sua riflessione sul concetto di pluralismo.210
Proprio da Collingwood, secondo Peter Skagestad, il giovane Berlin
avrebbe appreso una speciale sensibilità per la ricerca storica come storia
dei pensieri dell’uomo e quindi come “self-knowledge”, una visione che,
a sua volta, sarebbe stata probabilmente ispirata a Collingwood dall’opera
vichiana.211
Sebbene molte fossero le ragioni di distanza tra Collingwood, imbevuto
di cultura idealista e incline anche ad un certo moralismo di tipo cristiano,
e Berlin, quest’ultimo sviluppò nel tempo un gusto e un interesse per la dimensione storica delle idee che molto probabilmente gli provennero proprio
dallo schivo e riservato filosofo oxoniese. Come suggerisce M. Dubnov, la
figura di Collingwood potrebbe quindi aver esercitato un ruolo non indifferente nel distacco di Berlin dalla filosofia analitica e nel suo successivo
210
P. SKAGESTAD, Collingwood and Berlin: a Comparison, “Journal of the History of
Ideas”, 66 (2005), pp. 99-112. La nostra ricerca si concentra su un periodo ben definito della
produzione intellettuale di Berlin, ossia gli anni ‘50, quindi non prenderemo in considerazione
gli scritti da lui dedicati al Contro-illuminismo. Ci pare tuttavia importante chiarire brevemente il significato di questo termine. Nel 1973, Berlin pubblicò sul prestigioso Dictionary
of the History of Ideas di Philip P. Wiener (New York, Charles Scribner and Sons) il lemma
Counter-Enlightenment. Con tale espressione Berlin indicava una vera e propria reazione alla
temperie dell’illuminismo: se quest’ultima, a suo giudizio, si era caratterizzata per il primato
del diritto naturale, della Ragione, ritenuta comune a tutti gli uomini, per la critica feroce alle
istituzioni, incluse quelle religiose, il Contro-illuminismo parlava di istinto, rifiutava l’idea
che esistessero leggi uniformi, comprensibili razionalmente, sottese alla realtà umana e sociale
e ribaltava totalmente la prospettiva cosmopolita valorizzando, invece, il carattere nazionale.
È stato fatto notare che il modo in cui Berlin delineava il Contro-illuminismo, quale corrente
di pensiero e movimento culturale, sembrava ampiamente recuperare alcuni dei tratti salienti
generalmente attribuiti al Romanticismo. Del resto, alcune delle figure cardine del Controilluminismo, alle quali Berlin si richiamava, ossia Hamann, Herder, Schelling, possono essere
ricondotte al periodo romantico. Il personaggio che invece sembrava avere una collocazione
alquanto particolare nell’alveo del Contro-illuminismo era quella di Giambattista Vico sia perché
italiano, sia perché apparteneva ad un momento storico molto antecedente al Romanticismo.
H. CHISIK, Historical Dictionary of the Enlightenment. Historical Dictionaries of Ancient
Civilizations and Historical Eras, no. 16, Lanham, Maryland, Toronto, Oxford, The Scarecrow
Press, 2005, pp. 127-128. Sulla storia del lemma Counter-Enlightenment prima di Berlin, si
veda ad esempio R. WOLKER, Isaiah Berlin’s Enlightenment and Counter Enlightenment.
Remarks as public Lecture delivered by the Department of History and Jewish Studies Program
at the Central European University, Budapest, 2000, disponibile all’indirizzo web: http://web.
ceu.hu/jewishstudies/pdf/02_wokler.pdf, pp. 1-9. Il saggio The Counter-Enlightenment fu
successivamente pubblicato da Berlin come opera autonoma nella raccolta intitolata Against
The Current. Essays in the History of Ideas, cit.
211
P. SKAGESTAD, op. cit., pp. 101 ss.
106
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
avvicinamento alla storia delle idee.212
Un primo, decisivo passo in tal senso avvenne nel 1933 quando l’editore H. P. Fisher propose a Berlin di scrivere uno studio monografico su
Karl Marx che fosse chiaro, efficace e che potesse essere letto anche dal
grande pubblico. Il lavoro di ricerca che avrebbe svolto per la biografia di
Marx gli avrebbe offerto gran parte del “materiale” sul quale egli avrebbe
ragionato nei decenni successivi.213
Il risultato fu una analisi che non solo illustra alcune delle componenti
essenziali dello stile argomentativo e di scrittura di Berlin storico delle idee
ma che contiene anche una serie di riflessioni, suggestioni, elementi dai quali
egli avrebbe tratto ispirazione per elaborare il suo concetto di monismo e la
sua critica ad esso. Bisognerà però aspettare gli anni ‘50 e i primi anni ‘60
per leggere alcuni tentativi di riflessione sistematica da parte di Berlin su che
cosa significasse, per lui, occuparsi di storia, nello specifico di storia delle
idee, ossia il suo saggio sulla Historical Inevitability, The Sense of Reality
che, in origine, costituiva la base della lezione su Realism and History che
Berlin tenne presso lo Smith College (U.S.A) nel 1953 e The Concept of
Scientific History del 1961.214
Tuttavia, anche il suo Karl Marx. His Life and Environment, pubblicato
nel 1939, è in buona parte esemplificativo di una certa sensibilità, di una
certa lettura del pensiero e delle idee (filosofiche e politiche) che avrebbero
trovato piena espressione nelle opere successive. Non vorremmo tanto soffermarci sui limiti e le mancanze dello scritto giovanile di Berlin, sui quali
la letteratura si è già pronunciata, bensì sul modo in cui l’autore, prendendo
le distanze dal positivismo logico di Ayer, si ‘impossessava’ del pensiero
politico e della figura di Marx cercando anzitutto di dare ad entrambi
spessore storico, collocandoli in un particolare contesto storico, culturale
e intellettuale. Nel libro sul filosofo di Treviri è possibile già intravvedere
il percorso intellettuale che Berlin avrebbe intrapreso, ossia il suo modo di
declinare la storia delle idee. Marx veniva calato nella realtà del suo tempo
212
Cfr. M. DUBNOV, op. cit., pp. 72-76.
213
D. KELLY, The Political Thought of Isaiah Berlin, “The British Journal of Politics and
International Relations”, 4 (2002), pp. 29 ss. Cfr. M. IGNATIEFF, op. cit., pp. 30 ss.
214
Questi sono, secondo J. CRACRAFT, op. cit., p. 292, i tre saggi che meglio sintetizzano
il pensiero di Berlin sul significato e il senso degli studi di tipo storico.
107
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
e ampio spazio veniva dato da Berlin anche al dato biografico, al rapporto di
Marx con il padre, a quello con le sue radici ebraiche e alla sua personalità.
Altrettanto rilevante diventava l’analisi del periodo trascorso dal teorico del
materialismo storico a Parigi, alle sue frequentazioni, alle letture che aveva
fatto, al ruolo da lui svolto nell’Internazionale Socialista.215
L’opera di contestualizzazione che Berlin si era proposto di realizzare
con il suo studio su Marx non si limitava però alla rivalutazione del dato
storico, concreto, biografico, essa voleva mostrare come il pensiero politico e filosofico di Marx potesse essere pienamente compreso se posto in
rapporto alla tradizione intellettuale a lui precedente. Nel fare questo Berlin
sceglieva la via – che sarebbe poi diventata una componente essenziale e
tipica di tutta la sua opera – delle grandi sintesi concettuali: egli poneva
innanzitutto a confronto l’eredità razionalista inaugurata dall’illuminismo
con il “German Historicism” emerso quale reazione al Secolo dei Lumi, per
poi concentrarsi sull’opera di Hegel, alla luce della quale, a suo giudizio, il
pensiero di Marx diventava pienamente comprensibile.216
Berlin esaminava il concetto hegeliano di “History”, di “Spirit”, di
“laws of History”, di “historical development”, di “necessity of conflicts”,
per poi argomentare quanto profondo fosse il debito intellettuale di Marx
nei confronti del “metaphysical historicism” di Hegel.217 L’analisi del pensiero hegeliano diventava così funzionale a comprendere la concezione
materialistica della storia che, secondo Berlin, riproponeva a suo stesso
fondamento “the central Hegelian conception […] although it is transposed
into semi-empirical terms”.218
Berlin sottolineava l’apporto rivoluzionario e innovativo dell’opera
di Marx, sempre nell’ottica del confronto intellettuale tra quest’ultimo e
una pluralità di voci e di eredità culturali precedentemente ricordate. Egli
riteneva così che fosse fondamentale portare alla luce la vicinanza tra la concezione filosofica di Marx e quella di Hegel che, a suo giudizio, consisteva
215
I. BERLIN, Karl Marx. His Life and Environment, 4th Edition, with a Foreword by A.
Ryan, Oxford, Oxford University Press, 1978.
216
Ivi, pp. 49-60.
217
Ivi, pp. 31-41.
218
Ivi, p. 91.
108
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
in due aspetti di primaria importanza: la elaborazione da parte di entrambi
di un “cosmic scheme” capace di spiegare (e nel caso di Marx anche di
cambiare) la realtà e, legato strettamente a questo aspetto, la comune convinzione che il processo storico seguisse una direzione precisa, che esistesse
una “historical necessity”. All’opera di Marx, secondo Berlin, era quindi
sottesa l’idea (hegeliana) che la “rationality [is the] entailing knowledge
of the laws of necessity” e la cui conoscenza rendeva gli uomini “free”.219
Ma proprio in una simile concezione della storia, ossia nell’idea che
questa seguisse delle leggi e quindi un percorso necessario – sebbene, ovviamente, tale necessità venisse declinata e interpretata in maniera differente
da Hegel e da Marx – Berlin individuava una delle implicazioni filosofiche,
politiche e morali più pericolose presenti nell’opera dei due pensatori, ossia
la convinzione che si fosse davvero liberi nel momento in cui si era coscienti
della “historical necessity” e quindi delle leggi che regolavano il processo
storico e la vita stessa degli uomini:
His use [Berlin si stava riferendo a Marx] of such notions as freedom and rationality,
his ethical terminology, seem to rest on some such views as following […]. If you
know in what direction the world process is working, you can either identify your self
with it or not, if you fight it, you thereby compass your own certain destruction, being
necessarily defeated by the forward advance of history […]. Only a wholly rational
being is wholly free to choose between alternatives: where one of these irresistibly
leads to his own destruction, he cannot choose it freely, because to say that an act is
free […] is to deny that is contrary to reason.220
Nella visione marxiana di “world process” e “historical development”
Berlin ravvisava non solo l’influsso della lezione hegeliana ma anche una
potente negazione del principio di libertà; proprio da questo punto di vista
egli esprimeva un giudizio critico verso i due filosofi tedeschi. È da sottolineare come considerazioni pressoché identiche sarebbero state formulate
da Berlin molti anni più tardi in Two Concepts of Liberty, dove egli sarebbe
tornato ad evidenziare quello che, ai suoi occhi, era il pericoloso e perverso
‘cortocircuito’ tra il concetto di libertà, razionalità e necessità presente nel
219
Ivi, pp. 114-115.
220
Ivi, p. 114.
109
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
pensiero di Marx.221
In generale, già nell’opera del 1939, prendeva forma l’idea che le
concezioni filosofiche volte a interpretare la realtà attraverso un modello
onniesplicativo recassero in sé i germi di un pensiero illiberale, sinistro,
pericoloso, che alcuni anni più tardi Berlin avrebbe giustappunto definito
monistico.222
Ciò che ci interessa non è tanto discutere la validità e la condivisibilità
o meno della interpretazione berliniana di Marx: a riguardo, ad esempio,
appare penetrante il commento di D. Kelly che accusa Berlin di aver fatto una
sorta di “caricatura” di Marx schiacciando quest’ultimo eccessivamente su
Hegel.223 Potremmo altrettanto convenire con chi ci ricorda (pedantemente)
come il Marx di Berlin fosse distante sia “dalla militanza tipica della marxiologia scientifico-socialista del primo dopo-guerra” – ma ci saremmo potuti
aspettare qualcosa di diverso da un intellettuale liberale come Berlin? – sia
dalla accurata disamina degli aspetti filologici che avrebbe caratterizzato
gli studi su Marx dopo la Seconda guerra mondiale.224 Del resto, autorevoli
studiosi hanno rimproverato a Berlin di non essersi mai misurato seriamente
con i testi storici. Rimarrebbe infatti seriamente deluso chi si avvicinasse
all’opera di Berlin pensando di leggere volumi ricchi di note, citazioni e
minuziosi rimandi testuali: in questo senso anche il suo studio su Marx non
costituisce un’eccezione.225
Vorremmo piuttosto sottolineare come nell’opera del 1939 cominciasse
a prendere (timidamente) forma l’identità di Berlin quale storico delle idee
in un duplice senso. Innanzitutto dalla analisi che egli dedicava a Marx
(e in particolare dal raffronto che egli tracciava tra quest’ultimo e Hegel)
emergeva quanto importante fosse per Berlin il problema della libertà e della
libertà individuale, quale questione filosofica, politica ed etica con cui egli
221
Su questo aspetto cfr. D. KELLY, op. cit., pp. 25-48.
222
Ivi, p. 30.
223
Ivi, pp. 27-29 e p. 30. D. Kelly ricorda come già l’ex allievo di Berlin a Oxford, G.A.
Cohen avesse mosso sostanzialmente lo stesso tipo di critica in Isaiah’s Marx and Mine,
pubblicato nel 1978.
224
B. BONGIOVANNI, Introduzione a I. BERLIN, Karl Marx, tr. it. Firenze, La Nuova Italia,
1994, p. XIV.
225
P. ANDERSON, A Zone of Engagement, London, Verso, 1992, p. 234.
110
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
si sarebbe confrontato tutta la vita.226
Un confronto che nasceva di fondo dalla convinzione che “le idee
centrali, le grandi idee che hanno occupato il mondo occidentale hanno una
sorta di vita propria”.227 Tuttavia, le pagine accurate dedicate da Berlin, ad
esempio, agli anni trascorsi da Marx a Parigi, alle letture che quest’ultimo
aveva fatto, all’ambiente culturale con il quale l’esule tedesco era entrato in
contatto (compresi i liberali russi),228 esprimevano la convinzione che le idee
(filosofiche, morali, politiche) possedevano una loro dimensione storica e
che, proprio per questo, era essenziale comprendere il contesto nelle quali
esse nascevano e si sviluppavano:
Se sei interessato alle idee, se queste ti importano [– avrebbe detto Berlin nelle sue
Conversations con R. Jahanbegloo –] non puoi non essere interessato alla loro storia,
perché le idee non sono monadi, non sono nate nel vuoto, ma hanno relazioni con altre
idee, credenze, forme di vita, punti di vista: i punti di vista, le Weltanschauungen,
si influenzano reciprocamente e fanno parte di quello che si è soliti chiamare ‘clima
intellettuale’; formano la gente, la sua azione e il suo modo di sentire, tanto quanto
fattori materiali e mutamenti storici.229
Lo storia delle idee, nella prospettiva di Berlin, non era uno studio filosofico nel senso stretto del termine, poiché essa riconosceva la dimensione
storica delle idee, il ‘peso’ del contesto nelle sue varie forme e declinazioni,
ma non era neppure interamente storica nella misura in cui essa affermava l’esistenza di questioni, problemi, domande capaci di ‘attraversare’ le
epoche, questioni “eterne”, attorno alle quali gli uomini si erano sempre
interrogati e avrebbero continuato a farlo. La natura duplice della storia
delle idee e quindi la natura duplice del ‘mestiere’ dello storico delle idee,
in bilico fra due mondi, sarebbe stata così sintetizzata da Berlin nelle sue
Conversations:
Come presero vita le loro idee? In quale epoca? In che luogo? In che tipo di società?
Le loro idee potranno essere interessanti di per se stesse, ma sono le loro idee, e
226
Cfr. il fondamentale G. CROWDER, Isaiah Berlin, cit., pp. 35 ss.
227
I. BERLIN, In libertà, cit., pp. 62-63.
228
I. BERLIN, Karl Marx. His Life and Environment, cit., pp. 61 ss.
229
I. BERLIN, In libertà, cit., pp. 62-63.
111
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
bisognerà chiedersi quali furono le pene e i tormenti che subirono una volta messe
in circolazione. Come maturarono nelle loro teste le loro idee e i loro scritti? Non
si può parlare di idee nella più pura astrazione, senza riferirsi alla storia, ma non è
neanche possibile parlarne in termini di contesto storico concreto, come se le idee
non avessero alcun senso al di fuori di esso.230
Per Berlin, le idee si radicavano nella storia ma, al contempo, avevano una sorta di “vita trans-storica”; certe visioni e categorie erano così in
grado di esercitare una qualche forma di influsso su periodi successivi. Del
resto, Berlin insistette sempre sul potere e sulla forza delle idee: nei suoi
Two Concepts of Liberty (1958), egli avrebbe infatti citato Heine, secondo
il quale “philosophical concept nurtured in the stillness of a professor’s
study could destroy a civilization”.231
Il modo in cui Berlin intendeva la storia delle idee sembra, secondo
Peter Skagestad, riecheggiare la lezione di Collingwood e in particolare il
concetto collingwoodiano di “absolute presupposition” (“presupposizioni
assolute”). In Essay on Methaphysics il filosofo idealista, in polemica con
il positivismo logico di Ayer, aveva infatti affermato che ciascuna epoca e
ciascuna società possedevano categorie interpretative proprie, la cui comprensione presupponeva anche la conoscenza e la consapevolezza del dato
storico, soprattutto laddove una determinata categoria lasciava il posto ad
un’altra.232
La vicinanza tra il teorico del monismo e il filosofo idealista appare
altresì indicativa di quanto filosofica fosse la visione che Berlin aveva della
storia delle idee.233 La convinzione che le idee avessero un impatto, una influenza, un peso al di fuori del contesto in cui esse generavano costituiva, a
230
Ivi, p. 63.
231
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 119.
232
Su questo aspetto, oltre a P. SKAGESTAD, op. cit., anche M. RICCIARDI, Isaiah Berlin, su
libertà e pluralismo, “Ragion Pratica”, 26 (2006), p. 10. Sebbene, come abbiamo precedentemente ricordato, Berlin non avesse mai dichiarato un debito intellettuale esplicito nei confronti
di Collingwood, è da ricordare che in una lettera a Shiela Grant Duff, datata dicembre 1932,
Berlin parlava di lui in toni di grande ammirazione: lo definiva un filosofo “continentale”,
“eccitante e rischioso” e uomo di vasta cultura. I. BERLIN, Flourishing. Letters 1928-1946,
edited by H. Hardy, London, Chatto & Windus, 2004, p. 44.
233
I. BERLIN, In libertà, cit., p. 65.
112
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
mio giudizio, il presupposto delle ampie “genealogie di idee”,234 in cui Berlin
si cimentò e, al contempo, del suo impegno nel comprendere le radici culturali e intellettuali più profonde di quel monismo (epistemologico, filosofico e
politico) che, a giudizio suo (e di Voegelin), aveva caratterizzato il fenomeno
totalitario. Nella prima parte del nostro studio, ricordavamo come Voegelin
non avesse mai preteso di definirsi uno storico. La stessa considerazione può
essere estesa a Berlin che, con una malcelata ‘civetteria’, amava ripetere, a
chi lo interrogava su questo aspetto, di non essere un “historian”. Del resto,
come abbiamo sottolineato precedentemente, nessuna delle sue opere (così
come quelle di Voegelin) possono essere in alcun modo definite storiche
nel senso stretto del termine. Se per ricerca storica intendiamo un esame
approfondito delle fonti, una attenta disamina a partire dalla distinzione tra
fonti primarie e secondarie, il problema contenutistico e metodologico di
misurarsi con il “vero” e con il “falso”, allora è indubbio che Berlin (così
come Voegelin) non fu mai uno storico.235
Se per ricerca storica intendiamo tomi paludati e studi monografici
corredati da ricchi e raffinati rimandi testuali, allora – ancora una volta
– resteremmo molto delusi da Berlin nei panni dello storico.236 Il rilievo
stesso che egli dava al contesto storico, pur riconoscendone l’importanza,
non è neppure lontanamente paragonabile, ad esempio, a quello ad esso attribuito da uno dei suoi principali critici, Quentin Skinner,237 e dalla Scuola
234
P. ANDERSON, op. cit., p. 234.
235
F. CHABOD, Lezioni di metodo storico, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 3-7.
236
H. HARDY – K. HIRUTA, Editing Berlin, Interpreting Berlin, Introduction to H. HARDY
(edited by), The Book of Isaiah: Personal Impressions of Isaiah Berlin, Oxford, The Boydell
Press, 2009, p. 138.
237
Skinner attaccava quelle che riteneva fossero, all’epoca, le due “mitologie” imperanti nella
storia delle idee: la prima, secondo la quale era unicamente il contesto, con i suoi fattori sociali, economici e politici, a determinare il testo e la seconda che, invece, vedeva nella logica
interna al testo la chiave di volta per la sua comprensione. Contro queste due impostazioni
Skinner rivendicava l’importanza di ricostruire le intenzioni degli autori, i contesti storici
nella loro specificità e originalità, evitando l’errore di leggere e studiare il passato per trovare
risposte relative alla realtà presente, poiché in questo modo si finiva per proiettare la nostra
concettualità, le categorie tipiche della nostra realtà e contemporaneità, su figure e periodi
storici distanti da noi. Berlin sembrava proprio replicare alle posizioni di Skinner quando,
nelle sue Conversazioni con R. Jahanbegloo, affermava che, per lui, era impossibile parlare
e discutere delle idee (politiche, sociali, filosofiche etc.), focalizzando primariamente e quasi
esclusivamente la propria attenzione sul contesto storico. Cfr. Q. SKINNER, Meaning and
113
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
di Cambridge, eppure la dimensione storica, per Berlin, era rilevante e ciò
emergeva già dal suo studio giovanile su Marx.238
Negli anni anni ‘50, Berlin avrebbe provato a chiarire ciò che, secondo
lui, era l’essenza della ricerca storica e la profonda differenza tra questa e la
ricerca scientifica. Avrebbe ripetuto che la storia riguardava prima di tutto
gli uomini, la realtà umana, nella sua vivente complessità e contro ogni tentativo scientista avrebbe affermato che la ricerca storica era essenzialmente
e profondamente diversa da quella scientifica. Il modo in cui Berlin pose la
distinzione tra studio della storia e studio della natura, tra ricerca storica e
ricerca scientifica, è essenziale per meglio comprendere la sua concezione
della storia delle idee e, attraverso essa, la sua riflessione sul monismo. In
tal senso vorremmo soffermarci su tre scritti molto significativi, il testo
The Sense of Reality (scritto in origine nel ‘53), la parte finale di Historical
Inevitability (anche’esso del 1953), al quale dedicheremo ampio spazio successivamente, e infine il saggio The Concept of Scientific History del 1961.
Understanding in the History of Ideas, “History and Theory”, 8 (1969), pp. 3-53 e I. BERLIN,
In libertà, cit., pp. 24-25. Sul confronto tra le posizioni di Skinner e Berlin si veda l’interessante M. BODE, op. cit., pp. 72 ss. A Skinner Bode replica che non solo la particolare visione
berliniana della storia delle idee dovrebbe essere, a sua volta, opportunamente contestualizzata
ma soprattutto come l’accusa rivolta al pensatore inglese (peraltro da più fronti) di non essere
stato uno storico delle idee rigoroso non tiene conto del fatto che, per Berlin, la storia delle
idea era prima di tutto un modo di fare filosofia “by other means”.
238
Nella intervista rilasciata agli inizi degli anni ‘90 a S. Lukes, Berlin avrebbe sintetizzato
così la sua contro-replica a Skinner: “Quentin Skinner sostiene giustamente che le idee si
possono comprendere pienamente solo se si comprende in quali circostanze politiche sono
state prodotte, contro chi erano dirette e chi intendevano favorire, quali furono le conseguenze
di determinate idee. È tutto vero. Però l’essenza delle idee in quanto tali non emerge dalle
analisi storiche di Quentin Skinner. Se avesse ragione non saremmo capaci di comprendere
Platone o Aristotele. Non sappiamo che tipo di città fosse Atene né che aspetto avesse […].
Tuttavia le idee in se stesse sono rimaste. Hanno stimolato ed emozionato gli uomini per più
di duemila anni. Se le condizioni di Skinner non sono soddisfatte, com’è possibile tutto questo? La comprensione delle idee non può dipendere soltanto da una comprensione adeguata
del contesto”. Ci sembra che nella risposta a Skinner e alla cosiddetta scuola contestualista
di Cambridge, Berlin fosse non poco debitore della lezione di Collingwood. I. BERLIN, Tra
Filosofia e storia delle idee. La società pluralista e i suoi nemici, cit., pp. 63-64.
114
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
4.2 Ricerca storica e ricerca scientiica secondo Berlin (1953-1961)
Alla base della Elizabeth Cutter Morrow Lecture che Berlin lesse allo
Smith College nel ‘53 e intitolata Realism in History c’era uno scritto dal
titolo (molto significativo e potremmo dire anche ‘molto berliniano’) di
The Sense of Reality.239
Era un sano senso della realtà che lo storico doveva possedere e proprio
sulla base di questo, per Berlin, era necessario rendersi conto che la volontà
di trasformare la ricerca storica in una scienza, sul modello di quelle naturali,
aveva una spiegazione culturale ben precisa che, a suo giudizio, affondava
le radici nella storia intellettuale europea tra ‘600 e ‘800: egli usava così la
storia delle idee per ragionare sulla identità dello studio storico in rapporto
a quello scientifico. Nel ‘600 e nel ‘700 lo sviluppo prodigioso del sapere
matematico e scientifico aveva contribuito a generare la convinzione che
fosse possibile in maniera analoga a ciò che accadeva nelle scienze esatte,
disvelatrici del mondo naturale, comprendere la direzione generale della
storia.240 Le osservazioni di Berlin ricordano non poco quelle di Voegelin
nella sua History of Political Ideas: entrambi individuavano nella rivoluzione intellettuale operata dallo sviluppo delle scienze esatte e del metodo
scientifico uno dei momenti di svolta fondamentali nella storia delle idee
europea e occidentale. Sebbene durante l’‘800 si fosse profilata una vasta reazione contro la temperie culturale settecentesca, l’idea che la storia seguisse
un suo percorso, che ci fosse bisogno di qualcosa per scoprire “historical
laws” era, per Berlin, riuscita a sopravvivere con un innegabile successo.241
Richiamandosi evidentemente alla sua biografia intellettuale su Karl
Marx, il pensatore inglese contestava esattamente questo principio, ossia
che comprendere il movimento e la realtà storica significasse individuare
un disegno, un insieme di leggi generali ad essi sottesi. E in tal senso, la
vicinanza tra Voegelin e Berlin storici delle idee emerge ancora una volta
con una certa efficacia: pur con le necessarie e debite distinzioni e pur
239
I. BERLIN, The Sense of Reality, in ID., The Sense of Reality. Studies in the Ideas and their
History, edited by H. Hardy, with an Introduction by P. Gardiner, London, Pimlico, 1996. Si
veda a proposito nello stesso volume H. HARDY, Editor’s Preface, p. X.
240
I. BERLIN, The Sense of Reality, cit., pp. 8, 28-29.
241
Ivi, p. 9.
115
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
ricordando la specificità dei loro profili e percorsi intellettuali, entrambi
rifiutavano decisamente l’idea che il processo storico seguisse leggi oggettive e razionalmente discernibili. Berlin sviluppava così la sua riflessione,
muovendo dalle considerazioni appena delineate, con l’obiettivo di chiarire
quelle che, a suo giudizio, erano le peculiarità della ricerca storica, ossia
l’attenzione al dato esperienzale (“experience of life”) e, insieme ad essa,
“insight”, “simpathy, interest and imagination”.242 Lo studio della storia,
secondo Berlin, richiedeva osservazione, conoscenza dei fatti e comprensione, ossia la capacità (e la qualità) di cogliere la psicologia e il carattere
degli esseri umani: “it requires – scriveva Berlin – scrupulous observation,
accurate knowledge of facts, but it is more than this: it is a form of understanding and not of knowledge of facts in ordinary sense”. Secondo questa
prospettiva – che presupponeva la volontà di rivendicare la particolarità e la
originalità della ricerca storica così come Voegelin aveva avanzato la stessa
pretesa nei confronti della scienza politica – lo storico era quindi colui che
riusciva, a differenza dello scienziato, nell’intento di riportare alla luce “a
form of life”:243
This is an essential factor in making us admire and trust – scriveva Berlin – some
historians more than others. It is when an historian so describes the past that we are
conscious of having brought before us not merely attested facts, but revelation of a
form of life, of a society [...] sufficiently similar to what we ourselves understand by
human life or society or men’s intercourse, that we can continue – extrapolate – for
ourselves, go on by ourselves, understand why this man did this, and the nation that
[…] because those of our faculties have been brought into play which operate similarly
in our understanding of our own society, as opposed to some inductive or deductive
conclusions – it is then that we recognise what we have been given as being, and,
not the dry rattle of mechanical formulae or of a loose heap of historical bones.244
Lo studio della storia non poteva prescindere dai fatti, ma non si riduceva ad una sorta di mera ‘tassonomia’; in esso Berlin credeva di scorgere
“a perpetual oscillation between horror of saying more that we know for
certain, which leads one to say as little as possible as near nothing at all
242
Ivi, p. 20.
243
Ivi, p. 22.
244
Ivi, p. 25.
116
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
[…] and per contra the attempt to describe the past in real terms, to give it
the look of life, something recognisible human, even at the inevitable risk
of saying more than we can know by accredited «scientific» methods”.245
Lo storico doveva trovare un equilibrio fra queste due tendenze e
inclinazioni anzitutto avendo ben presente “the sense of reality” o “of the
history” che – scriveva Berlin – “enables us to detect the relationships of
actual things and persons is acquiatance with particulars, while all theories
deal with attributes and idealised entities – with the general”.246 Chi si occupava di storia (e quindi della vita e delle idee degli uomini) doveva saper
guardare al particolare e saper rapportare il particolare ad un contesto più
ampio, senza per questo cercare di spiegare la realtà storica in termini di
schemi, leggi o modelli come, invece, avveniva per l’indagine del mondo
naturale nelle scienze esatte.247 In particolare, la abilità di non cadere nel
‘tranello’ di schematismi ed eccessive astrazioni significava, per Berlin,
evitare di scambiare e fraintendere “the knowledge of a small portion of
the scene to cover the entire scene”.248
In maniera fortemente analoga a Voegelin, anche secondo l’intellettuale
inglese, era stato proprio questo l’errore (epistemico e filosofico) principale
commesso dai “great system-builders” dell’800, ad esempio da Marx che
parlava di “historical laws”. Voegelin criticava il tentativo di uniformare e
‘piegare’, snaturandola, la scienza politica ai canoni del metodo scientifico
e in maniera simile Berlin insisteva sulla necessità di distinguere lo studio
della storia e delle vicende umane da quello che riguardava il mondo della
natura. La commistione fra queste due dimensioni costituiva infatti, per
Berlin, una clamorosa violazione del “sense of reality”: parlare di leggi
della storia era, a suo giudizio, improprio ed errato sia dal punto di vista
filosofico, sia da quello storiografico.249
Il tema del “senso della realtà” come idea-guida per lo storico sarebbe stata nuovamente al centro della attenzione e della analisi di Berlin in
245
Ivi, p. 27.
246
Ivi, p. 35.
247
Ibidem.
248
Ivi, pp. 35-39.
249
Ivi, pp. 81-83.
117
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
Historical Inevitability e in The Concept of Scientific History. Il primo
saggio, sul quale avremo modo di discutere ampiamente nelle prossime
pagine, era anzitutto un affresco delle concezioni deterministiche, di come
esse si fossero sviluppate e di quelle che Berlin considerava fossero le loro
implicazioni filosofiche, etiche e politiche più sinistre e pericolose. Lo
scritto, come del resto la netta maggioranza della produzione intellettuale
del pensatore inglese, nasceva in origine quale testo di una Lecture che egli
lesse nel 1953 alla London School of Economics and Political Sciences,
in occasione di una serie di conferenze dedicate al padre del positivismo
ottocentesco, Auguste Comte.
Da un lato, Berlin elaborava una critica serrata alle varie forme di
determinismo e in generale a tutte quelle concezioni filosofiche (metafisiche o scientiste che fossero), volte a trovare una spiegazione univoca alla
complessità della realtà, una causa ultima o qualche legge universale, valida
e oggettiva che permettessero di spiegare il processo storico e prevederne
perfino gli indirizzi futuri; dall’altro, egli rivendicava la peculiarità degli
studi storici e della figura dello storico (delle idee). Era nella parte finale di
Historical Inevitability che Berlin tornava a interrogarsi sulla natura della
ricerca storica, ricordando anzitutto che lo storico doveva possedere e usare
“imagination” o il “power of sympathy or of understading in order to avoid
the injustice that springs from an unsufficient grasp of the aims and codes
and customs of cultures distant from us in time or space”.250
Nel rivendicare simili qualità e capacità come componenti essenziali del
‘mestiere’ dello storico, Berlin prendeva criticamente le distanze da coloro
che pensavano di avvicinarsi al mondo della storia, di fare ricerca storica
seguendo gli stessi criteri impiegati dai fisici, dai biologi o dai geologi:251
History is not identical with imaginative literature, but it is certainly not free from
what, in a natural science, would be rightly condemned as unwarrantably subjective
and even, in an empirical sense of the term, intuitive. Except on the assumption that
history must deal with human beings purely as material objects in space […] its
method can be scarcely be assimilated to the standards of an exact natural science.252
250
I. BERLIN, Historical Inevitability, in ID., Four Essays on Liberty, cit., p. 66.
251
Ivi, pp. 66 ss.
252
Ivi, p. 90.
118
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
Il pensatore inglese sottolineava così, contro quella che egli riteneva la
pericolosa degenerazione scientista degli studi storici, come questi ultimi,
a differenza delle trattazioni scientifiche, si caratterizzassero per la impossibilità da parte dello storico di prescindere completamente da qualsiasi
forma di “moral or psychological insight and evaluation which is involved
in viewing human beings as creatures with purposes and motives”.253
In polemica con chi parlava di storia come una disciplina da uniformare
ai canoni delle scienze esatte, Berlin difendeva così l’elemento “subjective”,
ossia la centralità dell’elemento umano nella ricerca storica. Ma ciò non
significava che questa non potesse ambire a chiarire, illuminare, a formulare
spiegazioni generali soddisfacenti, ossia ad essere una fruttuosa branca del
sapere umano. Essa infatti – sottolineava Berlin – si misurava anzitutto coi
“facts” che, a loro volta, dovevano essere letti, ragionati, interpretati. Lo
storico, a suo giudizio, non poteva mai prescindere dai “facts”, dalla loro
varietà, complessità e perfino contraddittorietà e ad essi doveva continuamente tornare in un dialogo costante:
The same fact can be arranged in many patterns, seen from many perspectives, displayed in many lights, all of them equally valid, although some will be more suggestive
or fertile in one field than in another […]. Yet through it all the facts themselves will
remain relatively «hard» […] and whenever obsession by a given pattern causes a
given writer to interpret the facts too artificially, to fill the gaps of knowledge too
smoothly, without sufficient regard to empirical evidence, other historians will instinctively perceive that some kind of violence is being done to the facts, to the relation
between evidence and interpretation is in some way abnormal.254
Pur riconoscendo l’importanza del dato empirico, egli riteneva altresì
irragionevole e assurda la pretesa di chi voleva dare vita a descrizioni e
indagini storiche del tutto a-valutative, ossia a chi rimaneva “ostaggio” dei
fatti sui quali incentrava la propria indagine:
253
Ivi, p. 91. Historical Inevitability generò un ampio e vivace dibattito. Si vedano, ad esempio, i commenti al testo berliniano contenuti in J.A. PASSMORE, History, the Individual
and Inevitability, “Philosophical Review”, 68 (1958), pp. 93-102, in A. SEN, Determinism
and Historical Predictions, “Enquiry”, New Dehli, 2 (1959), pp. 113-114. In generale, è
utile riferirsi a I. HARRIS, Berlin e i suoi critici, in I. BERLIN, Libertà, a cura di H. Hardy,
Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 361 ss.
254
I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., p. 70.
119
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
and we are further told that we should practice such objectivity out of respect for
some imaginary scientific canon which distinguishes between facts and values and
sharply, so sharply that it enables us to regard the former as being objective, inexorable and therefore self-justifying, and the latter merely as a subjective gloss upon
events – due to the moment, the milieu, the individual temperament – and consequently unworthy of serious scholarship, of the great, hard edifice of dispassionate
historical construction.255
E proprio contro una simile concezione della ricerca storica Berlin
affermava che:
to this we can only answer that to accept this doctrine is to do violence to the basic
notions of our morality, to misinterpret our sense of the past, and to ignore the most
general concepts and categories of normal thought. The time will come when men
will wonder how this view, which combines a misunderstanding of empirical methods
with cynicism exaggerated to the point of eccentricity, can ever be achieved such
remarkable fame and influence and respectability.256
Per Berlin era infatti rilevante comprendere come quelle categorie
si fossero storicamente formate e nell’affermare ciò il pensatore inglese
sembrava richiamarsi, sebbene implicitamente, all’opera di Collingwood e
alla sua teoria degli “absolute principles”.257
Contro coloro che ambivano a elaborare schemi e modelli oggettivamente validi per spiegare la realtà storica, Berlin ricordava la centralità dei
fatti: erano gli schemi a doversi ‘piegare’ ai fatti, non viceversa; e in ciò, a
nostro giudizio, egli dimostrava una sensibilità intellettuale profondamente
empirista; contro però coloro che professavano una sorte di ‘religione’ dei
fatti, invocando indagini rigorose e neutrali, simili alle scienze esatte, Berlin
sottolineava che la ricerca storica riguardava gli uomini, la loro realtà, la
loro vita, i loro pensieri e quindi, per sua stessa natura, essa non poteva in
nessun modo prescindere dall’elemento valutativo. Qualsiasi tentativo di
ragionare in termini di modelli e di spiegazioni a-valutative, di nessi causaeffetto, significava, per Berlin, porsi al di fuori della storia ed entrare nel
mondo della materia inanimata, nel mondo della Natura, oggetto proprio
255
Ivi, p. 77.
256
Ibidem. Sulla sostanziale avversione di Berlin all’idea che lo storico “di professione”
dovesse essere assimilato ad uno scienziato, cfr. B. WILLIAMS, Introduction, cit., pp. 2 ss.
257
Cfr. G. CROWDER, Isaiah Berlin, cit., pp. 41 ss.
120
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
dell’indagine scientifica.258
Il problema della unicità della ricerca storica e della sua diversità
fondamentale da quella scientifica rivestì un ruolo indubbiamente importante nella produzione intellettuale di Berlin almeno fino ai primi anni ‘60,
quando pubblicò The Concept of Scientific History (1961).259 Egli tornava a
riflettere su questo tema e, allo stesso tempo, sembrava voler elaborare una
sorta di giustificazione teorica del modo in cui, nel decennio precedente, si
era occupato attivamente di storia delle idee in opere come The Hedgehog
and the Fox, Russian Thinkers e la stessa Historical Inevitablity. L’incipit
del saggio pubblicato nel 1961 era pressocché identico, nei toni e nei contenuti, a quello di The Sense of Reality. Ancora una volta era alle grandi
rivoluzioni scientifiche e sperimentali del ‘600 e del ‘700 che, secondo
Berlin, doveva essere ricondotto il principio, che si era affermato in Europa,
secondo cui “history could be made respectable by being assimilated to one
of the natural sciences”.260 Era proprio questo processo di “assimilazione”
che Berlin contestava riconoscendo innanzitutto che se la scienza tendeva
per sua stessa natura a elaborare “general propositions or laws”, nella misura in cui lo scopo dello scienziato era la formulazione di vere e proprie
teorie esplicative oggettivamente e universalmente valide, la ricerca storica,
invece, si misurava con “particular facts”. 261
Le scienze naturali erano orientate a scoprire le leggi generali che regolavano e connettevano fenomeni fisici e che poi, una volta individuate,
venivano configurate e rappresentate tramite “models”.262 In questo senso,
puntualizzava Berlin, i fenomeni naturali “can be described in terms of the
degree to which these differences can be systematically described, the simplicity of the models, and the range of their application largely determine
their success or failure of a given science to perform its task”.263
Lo storico aveva ugualmente bisogno di usare “models”, ma in un senso
258
Si veda a proposito I. BERLIN, The Sense of Reality, cit., p. 9.
259
I. BERLIN, The Concept of Scientific History (1961), in ID., Concepts and Categories, cit.
260
Ivi, p. 103.
261
Ivi, pp. 111-113.
262
Ivi, p. 115.
263
Ibidem.
121
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
per Berlin del tutto differente da quello che caratterizzava le scienze esatte
perché il rapporto tra storia e dati empirici era differente da quello fra dati
empirici e scienza.264 Tale diversità era ricondotta da Berlin a due aspetti
primari, (in parte già delineati in Historical Inevitability): anzitutto, al fatto
che, a differenza dello scienziato, lo storico era chiamato a confrontarsi con
una quantità enorme ed estremamente variegata di dati e, inoltre, alla natura
stessa della ricerca storica che, a suo giudizio, riguardava essenzialmente
la “vita degli uomini studiata da altri uomini”.265
Relativamente al primo dei due aspetti appena indicati, Berlin osservava che per lo storico “the facts to be fitted into the scientific grid and
subsumed under the adopted laws or models […] are too many, too minute,
too fleeting, too blurred at the edges”.266 La consapevolezza di una simile
difficoltà doveva servire, secondo Berlin, ad acquisirne un’altra, ancora più
importante, ossia che lo storico era chiamato a elaborare una particolare
forma di “generalizations”, che si adattasse al proprio e particolare tipo di
ricerca. Ciò – sottolineava Berlin – era possibile laddove veniva condotta
una schietta “operation of common sense”: emergeva così, ancora una volta,
il carattere sostanzialmente empirista della riflessione berliniana.267 A sua
volta, per Berlin, l’essenza della ricerca storica divergeva completamente
dal mondo della scienza perché “historical explanation is related to moral
and aesthetic analysis not merely as organisms in space”:268 essa riguardava
il mondo (variegato, plurale, articolato) degli uomini e proprio per questa
ragione lo storico doveva possedere la “imaginative projection of [oneself]
into the past”.269
In altri termini, Berlin tornava a ribadire che la ricerca storica non poteva essere completamente a-valutativa, non poteva ambire – sul modello delle
scienze esatte – a spiegare la realtà umana e storica sulla base di relazioni
strettamente causali, che lo storico non poteva in nessun modo rapportarsi
264
Ivi, pp. 116-119.
265
Ivi, pp. 119-129.
266
Ivi, p. 119.
267
Ivi, p. 116.
268
Ivi, p. 134.
269
Ivi, pp. 132-135.
122
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
al “materiale umano” come uno scienziato si relazionava al mondo inanimato. Era alla luce di queste considerazioni su quanto differente la ricerca
storica fosse da quella scientifica che Berlin rivendicava per lo storico
non il compito di scoprire “general laws” – come, a suo giudizio, avevano
pensato di poter fare, ad esempio, gli storici della temperie positivista quali
Taine – bensì di “understand the relation of parts to wholes”.270
In nessuno dei saggi fin qui discussi, Berlin esplicitava a quali pensatori si fosse ispirato nella sua riflessione sulle differenze – per lui molto
rimarchevoli – tra ricerca storica e ricerca scientifica e del resto la scarsità di
note e riferimenti testuali precisi non ci aiuta in tal senso. Possiamo soltanto
avanzare qualche ipotesi interpretativa. Le considerazioni fin qui sviluppate
da Berlin sembrano richiamare alla mente quel Wilhelm Dilthey che fu un
punto di riferimento importante per lo stesso Eric Voegelin e che distinse,
dando il via allo storicismo tedesco, tra “scienze della natura” e “scienze
dello spirito”.271 Nella ferma critica di Berlin ad ogni tentativo di trasformare lo studio della storia in una vera e propria scienza potremmo inoltre
ravvedere una netta presa di distanza da tutta la tradizione storiografica
positivista e anche l’espressione della sua personale polemica contro chi,
come ad esempio il celebre studioso inglese E.H. Carr, andava difendendo
in quel periodo una visione della ricerca storica centrata sul principio di
avalutatività.272
270
Ivi, p. 123.
271
Un utile riferimento in termini di storia della storiografia è il recente: F. BENIGNO, Parole
nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Roma, Viella, 2013.
272
Tra coloro che accolsero il testo di Berlin in maniera particolarmente critica ci fu proprio
lo storico inglese, di orientamento marxista, Edward Hallett Carr. Quest’ultimo e Berlin erano diversissimi sotto molteplici punti di vista – non ultimo quello politico – e la loro stessa
concezione della storia rifletteva bene tale diversità. Come abbiamo appena visto, Berlin
rivendicava per lo storico il diritto e la capacità di esprimere giudizi e valutazioni, mentre
Carr riteneva di potere considerare la storia come una vera e propria scienza, attribuendo allo
storico il compito principale di analizzare i nessi causali che si erano verificati nel passato
e che potevano, una volta conosciuti, permettere di comprendere il futuro. Cfr. E.H. CARR,
What is History?, London, Macmillan, 1961. La figura e l’opera di Carr venivano evocati
da Berlin in due distinti punti di Historical Inevitability, cit., p. 81 p. 87. Berlin ravvisava
una “internal contradiction in the views of those who believe in the historical conditioning
of historians and yet protest against moralizing by them, whether they do so contemptuously
like Mr. Carr”. Ivi, p. 87. Cfr. A. HOLACECK, Ethical Historiography: the Berlin-Carr Debate and Revolutionary Realism of Alexander Herzen, Honor Thesis, Class 2010, Wesleyan
123
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
Ancora più rilevante ci sembra il commento di Peter Skagestad, secondo il quale la distinzione tra scienza e storia, che Berlin elaborava nei tre
saggi appena discussi, era non poco debitrice nei confronti di Collingwood.
In due opere del 1936, Human History e History or Re-enactment of Past
Experience,273 il traduttore inglese di Croce aveva parlato infatti degli studi
di carattere storico come conoscenza dei pensieri degli uomini e di come tali
pensieri venissero incarnati nelle azioni umane, laddove la ricerca scientifica era primariamente interessata ai fatti in quanto tali, rispetto ai quali lo
scienziato era chiamato a porsi con distacco, ossia dall’esterno. Al contrario
dello scienziato, per Collingwood, lo storico doveva saper “rievocare” il
passato e quindi saper penetrare nelle idee e nei pensieri degli uomini. Sia
in Collingwood, sia in Berlin la storia, a differenza delle scienze naturali,
era quindi prima di tutto “knowledge of life”.274
Per Skagestad, lo stesso concetto di “rievocazione” (“re-enacment”),
così centrale nel pensiero di Collingwood, era stato in un certo senso ‘assorbito’ e rielaborato da Berlin.275 In The Concept of History, per sottolineare
l’originalità della ricerca storica, Berlin parlava infatti della “imaginative
projection”, già evocata in The Sense of Reality, come “the attempt to capture concepts and categories that differ from those of the investigator by
means of concepts and categories that cannot be but his own. [It] is a task
he can never be sure he is even beginning to achieve, yet is not permitted
to abjure”.276
College, U.S.A., pp. 3 ss.
273
Riediti postumi in The Idea of History (1940).
274
P. SKAGESTAD, op. cit., pp. 99-112. L’autore, per sua stessa ammissione, elabora la sua
interessante comparazione tra Collingwood e Berlin traendo ispirazione da lavori precedenti,
in particolare da: M. IGNATIEFF, op. cit, pp. 58, 203; R. HAUSHEER, Introduction to I.
BERLIN, The Crooked Timber of Humanity: Chapters in the History of Ideas, Princeton,
Princeton University Press, 1999, XIII-LIII; B. WILLIAMS, Introduction, cit., e J. GRAY,
op. cit., p. 163. I riferimenti sono tratti da P. SKAGESTAD, op. cit., p. 100.
275
Ivi, pp. 101-103.
276
I. BERLIN, The Concept of Scientific History, cit., pp. 115-116. Il brano citato è riportato
anche da P. SKAGESTAD, op. cit., p. 102. Skagedad ricorda come in una delle sue opere
“mature” quale Three Critics of the Enlightenment: Vico, Hamann and Herder Berlin avrebbe
criticato la concezione collingwoodiana di “re-enactment”, affermando che essa si basava in
maniera del tutto impropria sulla convinzione che lo storico, in modo “semi-mistico”, fosse in
grado di penetrare nella coscienza delle personalità, delle quali studiava la vita e il pensiero.
124
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
Lo storico, come emergeva da The Concept of Scientific History, doveva capire il modo in cui, ad esempio, avevano ragionato le grandi figure
e personaggi del passato, quali fossero state le loro categorie di pensiero, i
concetti che avevano utilizzato per leggere la loro realtà ma, al contempo,
doveva riuscire a veicolare quei concetti e renderli intellegibili nel suo
presente attraverso le sue proprie categorie di pensiero. In ciò il ‘mestiere’
dello storico era diametralmente opposto a quello dello scienziato.277
Con il saggio del 1961 Berlin sintetizzava una serie di suggestioni e
considerazioni sulla natura della storia e della ricerca storica in contrapposizione alle cosiddette scienze esatte che, a nostro giudizio, erano già in parte
presenti nel suo libro su Karl Marx del 1939 e in maniera più sistematica
ed evidente nei due testi degli anni ‘50, precedentemente ricordati. La sua
critica a chi praticava la ‘religione’ dei fatti così come a chi praticava la
‘religione’ della teoria, la enfasi sull’empatia che, a suo avviso, lo storico
doveva saper provare e dimostrare per il materiale studiato e soprattutto
l’immagine della ricerca storica che al proprio centro poneva gli uomini
e che quindi doveva confrontarsi con un grado di complessità e di varietà
molto diversa da quella con cui si confrontava lo studioso della natura, erano
egualmente rivolti contro chi voleva rendere la storia una scienza esatta.
Nei saggi fin qui discussi egli prendeva una chiara posizione contro
chi voleva piegare la ricerca storica ai canoni della ricerca scientifica, rivendicando altresì una idea della storia come comprensione e conoscenza
della vita umana che, in quanto tale, era, per Berlin, plurale, e ricca di
sfaccettature. Ciò però non significava che lo storico dovesse rinunciare
alle generalizzazioni, egli doveva piuttosto essere consapevole della loro
particolarità perché queste – osservava Berlin – avevano una struttura, un
senso, un modo di essere formulate in rapporto alla realtà empirica molto
differenti da quelli tipici delle scienze esatte: indicativo di ciò era lo stesso
Insomma, Berlin accusava Collingwood di aver elaborato una teoria della conoscenza storica
dai tratti inequivocabilmente “metafisici”. Nel suo articolo, Skagestad prende le distanze da
una simile lettura del principio di “re-enactment” non solo sottolineando opportunamente
l’analogia tra questo stesso principio e la concezione berliniana di ricerca storica, così come
essa emergeva da The Concept of Scientific History, ma anche contestando allo stesso Berlin di
aver frainteso il pensiero e la metodologia di Collingwood. P. SKAGESTAD, op. cit., p. 104.
277
I. BERLIN, The Concept of Scientific History, cit., pp. 115-116.
125
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
principio della “imaginative projection”.278
Berlin sottolineava quindi la differenza e la distanza tra storia e scienza
sia relativamente al loro metodo di indagine, sia relativamente all’oggetto
del loro studio. Tuttavia se ci fermassimo a questa considerazione rischieremmo di dare una lettura parziale della riflessione berliniana sul significato
e la peculiarità della ricerca storica. C’è infatti un aspetto fondamentale da
prendere in considerazione: Berlin – come del resto lo stesso Voegelin – non
era, né cercava di essere un metodologo o un teorico degli studi storici. La
sua severa critica a coloro che volevano trasformare lo storico in uno scienziato era mossa da una esigenza filosofica e filosofico-politica piuttosto che
metodologico-storiografica. La stessa scelta di occuparsi di storia delle idee
adottando una forma testuale molto particolare, quella dell’essay, sembra
indicativa di tale tendenza. Secondo J. Ferrell, il “saggio” era particolarmente congeniale a Berlin sia perché gli consentiva di sviluppare una vera
e propria “strategia persuasiva” nei confronti del lettore – una strategia che,
come cercheremo di dimostrare, era finalizzata a costruire un discorso sul
monismo quale ‘cuore’ ideologico del totalitarismo – sia perché, permettendogli di muoversi con libertà da un argomento all’altro, sembrava dare piena
espressione alla sua avversione verso tutte quelle costruzioni teoriche che
cercavano di fornire spiegazioni ultime, sistematiche e magari con pretese
di universalità.279
Negli scritti fin qui esaminati, tale avversione, a ben vedere, era diretta
contro il carattere monistico del Concept of Scientific History, ossia contro
la volontà di racchiudere la complessità della realtà storica e umana entro
un modello generale, di provare a spiegare quest’ultima attraverso schemi
esplicativi cosiddetti scientifici che, per Berlin, non solo erano del tutto impropri, perché propri di un’altra disciplina, ma anche perché impedivano di
guardare agli essere umani come “active beings, pursuing ends, shaping their
own and others’ lives, feelings, reflecting, imagining, creating in constant
278
Ivi, pp. 115 ss.
279
J. FERRELL, Isaiah Berlin as Essayst, “Political Theory”, 40 (2012), pp. 603-610. Ferrell
ricorda che in una lettera del 1952, indirizzata all’amico Jacob Talmon, Berlin scriveva con
tono irritato: “now I must sit down to the hideous task of writing a book”; la frase è riportata
in I. BERLIN, Enlightening: Letters 1946-1960, edited by H. Hardy and J. Holmes, London,
Chatto & Windus, 2009, p. 354, citata in J. FERRELL, Isaiah Berlin as Essayst, p. 608.
126
Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee
interaction and intercommunication with other human beings”.280 Queste
ultime considerazioni, che troviamo formulate in The Concept of Scientific
History, appaiono, come vedremo, sostanzialmente identiche alla parte
finale di Two Concepts of Liberty, dedicata alla celebre contrapposizione
tra monismo e pluralismo.281
Nei saggi di storia delle idee pubblicati negli anni ‘50, da The Hedgehog and the Fox a Two Concepts of Liberty e dei quali ci occuperemo
tra breve, Berlin individuava infatti nelle concezioni filosofiche e politiche
monistiche la volontà di trovare (e imporre) una spiegazione univoca alla
realtà sociale, umana, politica. Non a caso, come abbiamo già potuto appurare e come vedremo più avanti nel dettaglio, Berlin riteneva che le radici
del monismo nella filosofia, nella politica e nella morale potessero essere
ricondotte, in qualche misura, alle correnti scientiste, che a loro volta egli
poneva in diretto rapporto ad una certa tradizione razionalista e illuminista,
che a suo giudizio aveva contribuito e non poco a ‘contaminare’ nel lungo
periodo la concezione stessa della ricerca storica.282
In tal senso, gli scritti di Berlin fin qui analizzati appaiono rilevanti per
comprendere non solo la sua specifica visione della ricerca storica – aspetto
di non secondaria importanza dato che egli si dedicò per tutta la vita alla
storia delle idee – ma anche come quella stessa visione fosse correlata e
rimandasse, nel profondo, al problema del monismo.283
280
I. BERLIN, The Concept of Scientific History, cit., pp. 132-133.
281
Ci stiamo riferendo all’ultima sezione del saggio intitolata The One and the Many.
282
A testimonianza del legame nell’opera di Berlin tra la riflessione sulla natura della ricerca
storica e quella di carattere più propriamente teorico-politico è sufficiente ricordare come,
ad esempio, in The Sense of Reality, egli individuasse proprio in un sano “senso della realtà”
quel principio che doveva “guidare” non solo lo storico ma anche l’uomo politico, lo statista.
I. BERLIN, The Sense of Reality, cit., pp. 52 ss. Il tema del “senso della realtà” applicato alla
politica e il problema di saper valutare il peso dei fatti, piuttosto che cercare di ‘adattare’ e
distorcere questi ultimi alla luce di teorie ritenute onniesplicative, riemergeva in un articolo di
Berlin, intitolato Realism in Politics. Egli sottolineava la assoluta peculiarità della conoscenza
scientifica e quindi, a suo giudizio, la assoluta erroneità di chi cercava di applicare il metodo, i
canoni e la forma mentis propri della scienza non solo allo studio della storia ma anche alla realtà
sociale e politica; errore nel quale, a suo giudizio, erano caduti non pochi pensatori e non pochi
uomini d’azione. Il pensatore inglese scorgeva nelle persone la tendenza e l’attitudine mentale
ad applicare particolari modelli di indagine ai più svariati campi del sapere e dell’agire umani,
ma ciò, a suo giudizio, implicava la (ostinata) convinzione che esistessero una chiave di lettura
e un principio universalmente validi e capaci di spiegare la realtà in tutte le sue sfaccettature.
I. BERLIN, Realism in Politics, “Spectator Archive”, December 17th (1954), pp. 774-776.
283
Nella sua analisi della concezione berliniana di ricerca storica, Hauley si richiama ad una
127
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
CAPITOLO V
ISAIAH BERLIN E LA RIFLESSIONE SUL MONISMO
5.1 Isaiah Berlin e il Cold War Liberalism
È stato spesso ripetuto – peraltro correttamente – che la riflessione
di Berlin sulle radici ideali del totalitarismo debba essere storicamente
ricondotta nell’alveo del cosiddetto Cold War Liberalism, al quale Berlin
appartenne insieme, ad esempio, a Raymond Aron e Karl Popper. Sul piano
intellettuale, tutti e tre si confrontarono con il totalitarismo verso il quale
nutrirono una profonda avversione ma senza per questo creare una vera e
propria scuola di pensiero o una dottrina politica strutturata. La letteratura
è infatti sostanzialmente concorde nel ritenere che il Cold War Liberalism
fu prima di tutto un “frame of mind” che, secondo T. Hardin:
[It] had no room for the theory of history or foundational truths advanced by ideological
cold warriors like Samuel Hungtington or Francis Fukuyama. It was epistemological
sceptical, pluralist, and committed to a version of constitutional government that could
ensure not only negative freedom but also provide some kind of social minimum,
which its proponents saw as a condition for a stable civil association.284
La definizione tracciata da Hardin, che riconduce al Cold War Liberalism anche Micheal Oakeshott e Friederich von Hayek, sembra essere
debitrice della riflessione che su tale argomento è stata elaborata da Jan
Werner Müller nel suo saggio del 2008, Fear and Freedom: On Cold War
Lecture che il pensatore inglese tenne a Princeton nel 1973, all’interno dei Geuss Seminars,
dal titolo Two Notions of the History of Culture: the German vs the French Tradition. Una
ampissima parte delle considerazioni contenute in quella Lecture erano già state sviluppate
da Berlin nei tre saggi sul senso della ricerca storica, dei quali abbiamo precedentemente
discusso. Fu in quella occasione però, come sottolinea Hauley, che Berlin affermò: “I am no
Historian” e in effetti la sua visione della storia delle idee e le implicazioni anti-monistiche
della sua riflessione sulla specificità della ricerca storica testimoniano ampiamente quanto
quelle parole fossero lungi dall’essere una mera boutade. R.P. HAULEY, Berlin and History,
in G. CROWDER – H. HARDY, op. cit., pp. 159 ss.
284
T. NARDIN, op. cit., p. 1.
129
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
Liberalism, nel quale lo studioso individua cinque aspetti fondamentali
condivisi da Berlin, Popper e Aron e rappresentativi del Cold War Liberalism: 1. l’idea che la conoscenza umana sia fallibile; 2. la rivendicazione che
non esiste nessuna certezza storica; 3. la comune avversione al marxismo,
criticato per la sua pretesa di predire lo sviluppo sociale ed economico;
4. la comune volontà di comprendere le radici ideali dei regimi liberticidi
della prima metà del XX secolo, sebbene questo tentativo di comprensione,
secondo Müller, abbia a che fare con “a pshycological Verstehen and even
Einfühlung” piuttosto che con “a plan to map out the structural changes that
had made the rise of totalitarianism possible”; 5. infine la comune opposizione al comunismo sovietico e allo stalinismo.285
Pur tenendo in debita considerazione gli elementi di vicinanza tra Berlin
e gli altri Cold War Liberals, è altrettanto opportuno sottolineare quanto la
sua posizione avesse un carattere personale e originale. Il suo stesso spirito anti-stalinista e anti-sovietico, che svolse un ruolo significativo nello
sviluppo della riflessione sul monismo,286 è infatti ricco di sfumature e di
sfaccettature che impediscono di considerarlo solo e soltanto come una mera
espressione del Cold War Liberalism.
Anzitutto, esempio efficace della vicinanza di Berlin a questa particolare corrente di pensiero è il suo lungo pamphlet Generalissimo Stalin and
the Art of Government del 1952, scritto sotto pseudonimo,287 nel quale la
strategia politica del dittatore russo, fatta di violente repressioni e improvvise
“fughe in avanti”, era descritta come un metodo brutale quanto efficace
di controllare il popolo e il partito.288 A testimonianza, peraltro, del ‘pedi285
J.W. MÜLLER, Fear and Freedom cit., pp. 45-64, in particolare p. 20, ricorda infatti
opportunamente come “Berlin, Aron and Popper all considered themselves engaged in an
anti-Marxist war of ideas. Even when they spoke out against totalitarianism it was clear that
Stalinism had been the critical template for their models of totalitarianism”.
286
Certamente la riflessione di Berlin sulle radici ideali e culturali del totalitarismo non può
essere sic et simpliciter ‘appiattita’ sul suo spirito anti-comunista e anti-stalinista ma, come
sottolinea il suo biografo, da esso non è possibile prescindere. M. IGNATIEFF, op. cit., p. 58.
287
La scelta di pubblicare lo scritto sotto pseudonimo “O. Utis” fu dettata dalla preoccupazione di proteggere la incolumità dei suoi parenti e amici che vivevano ancora in Russia. G.
CROWDER, Isaiah Berlin, cit., p. 70.
288
I. BERLIN, Generalissimo Stalin and the Art of Government, in ID., The Soviet Mind:
Russian Culture under Communism, edited by H. Hardy with a Foreword by S. Talbott, Wa-
130
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
gree’ anti-sovietico di Berlin è opportuno ricordare anche le sue altolocate
frequentazioni nel periodo in cui lavorò per il British Diplomatic Service
a Washington, New York e Mosca: negli U.S.A., Berlin conobbe e strinse
amicizia con John Schlesinger, George Kennan, l’esule ebreo-italiano Max
Ascoli, Hamilton Fish Armostrong, ossia figure intellettuali e politiche di
spicco che, pur nella loro diversità, erano tutti convinti oppositori della
Russia di Stalin.289
Diversamente però dai suoi sodali americani, Berlin intese il suo anticomunismo prima di tutto come “una questione privata”, privo di qualsiasi
traccia di russofobia, così come di intenti apologetici nei confronti della
superpotenza americana.290 In particolare, la sua preferenza per il sistema
liberal-democratico occidentale e anglo-americano non significò mai una
adesione acritica a quel mondo, né al sistema capitalista inteso à la Hayek.
Del resto, in maniera abbastanza analoga a Popper e Aron, anche Berlin
espresse la propria ‘simpatia’ per il welfare state e, in generale, per forme
di sostegno sociale a favore dei ceti più disagiati.291
Per meglio comprendere la personale e sfaccettata attitudine che
Berlin ebbe verso il cosiddetto ‘mondo libero’ e il paese che ai tempi della
guerra fredda ne era il principale rappresentante ideologico, ossia gli Stati
Uniti, vorremmo riferirci ad un articolo, The Intellectual Life of American
Universities, che Berlin pubblicò nel 1949, e nel quale, con uno stile sottilmente ironico, criticava l’indirizzo pratico e fondamentalmente moralistico assunto dal sistema universitario americano, caratterizzato sempre
più dalla diffusione di discipline “socially useful”, ritenute indispensabili
al “common good”.292
Ai suoi occhi, in America, stava prendendo corpo una pericolosa mentalità che considerava tutte quelle discipline e quegli interessi intellettuali
shington, Brookings Institution Press, 2004, pp. 92-111.
289
J.L. CHERNISS, Isaiah Berlin: a Mind and his Time, cit., pp. 79 ss. Si veda anche a proposito la corrispondenza di Berlin in I. BERLIN, Enlightening letters 1946-1960, cit.
290
J.L. CHERNISS, Isaiah Berlin: a Mind and his Time, cit., p. 90.
291
J.W. MÜLLER, Fear and Freedom cit., p. 55. Cfr. A. RYAN, Berlin, Mill and Progress,
in L. BROCKNISS – R. ROBERTSON (edited by), Isaiah Berlin and the Enlightenment,
Oxford, Oxford University Press, 2016, p. 122.
292
I. BERLIN, The Intellectual Life of American Universities, (1949) ora in ID., Enlightening
Letters, cit., pp. 749-760.
131
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
non direttamente riconducibili ad un simile schema educativo come un pericoloso “time-wasting”.293 In ciò Berlin vedeva una minaccia allo sviluppo
dell’individuo, della diversità individuale e soprattutto una minaccia alla
“curiosity”, quale motore della conoscenza e della crescita personale.294 Con
Political Ideas in the Twentieth Century, apparso originariamente nel 1950
per la rivista americana “Foreign Affairs”, Berlin continuava a interrogarsi
sulla minaccia alla diversità individuale e in particolare sulla forma estrema
che essa aveva assunto nei sistemi totalitari del ‘900. Già in questo saggio
possiamo cogliere sia la sostanziale avversione di Berlin per lo scientismo
– che peraltro avrebbe caratterizzato di lì a poco anche il suo ragionamento
sulla natura della ricerca storica – sia il suo modus operandi, quello dello
storico delle idee che si interrogava sulle origini del monismo filosofico,
politico, morale.
Nell’illuminismo Berlin individuava una delle ‘cifre’ della cultura
politica ottocentesca, l’elemento che aveva accomunato socialismo e liberalismo. Tuttavia, uno dei principi fondamentali di quella corrente di pensiero,
ossia la fiducia nella capacità umana di risolvere razionalmente tutti i problemi, era stata, per Berlin, portata alle sue estreme conseguenze e distorta
durante il ‘900. L’obiettivo non era più quello di individuare problemi e
fornire soluzioni, bensì eliminare l’idea stessa di problema:
It was left to the twentieth century to do something more drastic than this. For the
first time it was conceived that the most effective way of dealing with questions,
particularly those recurrent issues which had perplexed and often tormented original
and honest minds in every generation, was not by employing the tools of reason,
stillness those of the more mysterious capacities called «insight» and «intuition»,
but by obliterating the questions themselves.295
Un processo che era stato radicalizzato dai sistemi totalitari, con la loro
pretesa di realizzare un “nuovo ordine”, intrinsecamente giusto e nuovo e
che, in quanto tale, doveva rimuovere la necessità stessa da parte dell’individuo di interrogarsi, di indagare, di porsi domande e problemi sulla realtà
293
Ivi, pp. 753-755.
294
Ivi, p. 755.
295
I. BERLIN, The Political Ideas of the Twentieth Century, in ID., Four Essays on Liberty,
cit., p. 23.
132
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
che lo circondava:
The method has the simplicity of genius: it secures agreement on matters of political principle by removing the psychological possibility of alternatives, which itself
depends, or it is held to depend, on the older form of social organization, rendered
obsolete by the revolution and the new social order. And this is how Communist
and Fascist states – and all other quasi and semi-totalitarian societies and secular
and religious creeds – have in fact proceeded in the task of imposing political and
ideological conformity.296
E la finalità di un simile stato di cose era, per Berlin, rendere gli individui del tutto imperturbabili e indifferenti dinanzi a “questions which,
when raised and discussed, endanger the stability of the system”.297 Per
Berlin, la repressione del dissenso, dell’opposizione, di quello che con una
espressione milliana potremmo definire il “pensiero non conformista”,
consisteva innanzitutto nel far credere (e nell’imporre con la forza tale
credenza ai più riottosi) che non esistessero più problemi fondamentali sui
quali discutere, riflettere, confrontarsi e scontrarsi. Nel secondo dopoguerra
era l’Unione Sovietica, secondo Berlin, ad incarnare al massimo grado lo
spirito (totalitario) appena descritto. Egli insisteva particolarmente proprio
sul tema della rimozione dei problemi intesa come lotta alla capacità (e alla
possibilità) stessa degli individui di porre a se stessi interrogativi, questioni,
dubbi e lo faceva perché, a suo giudizio, un processo analogo – sebbene in
maniera ‘edulcorata’, non sistematicamente repressiva e lesiva della dignità
individuale – aveva preso forma nel cosiddetto ‘mondo libero’. È all’interno
di questa considerazione che andrebbe letta la sua critica, precedentemente
ricordata, al sistema educativo e universitario americano, centrato sul principio di “social usefulness”.
Nella tendenza, per lui in atto in Occidente, a spostare l’attenzione
verso i metodi per risolvere i problemi, ossia nell’affermarsi di una ragione puramente strumentale – che egli considerava una degenerazione dello
scientismo illuminista in maniera fortemente analoga al Voegelin di History
of Political Ideas – Berlin scorgeva (con paura) la volontà di creare una
sorta di armonia sociale del tutto artificiale, volta a instillare nelle persone
296
Ivi, pp. 23-24.
297
Ivi, p. 24.
133
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
la confortante sensazione di non aver più alcun bisogno di interrogarsi,
chiedere, porre agli altri e a se stessi questioni e problemi, poiché per ciascun problema esisteva una soluzione razionale e valida. Pur non volendo
mettere in dubbio la onestà e la bontà delle iniziative filantropiche e sociali,
Berlin osservava scettico che:
tensions (within or between individuals or groups or nations) that need to be released, wounds, conflicts, fixations, phobias and fears, psychical and psycho-physical
abnormalities of all sorts which require the aid of specialized healers – doctors,
economists, social workers, teams of diagnosticians or engineers ot the masters of
the craft of helping the sick and the perplexed – individual and collective sources of
physical wisdom of every kind. To the degree to which such suffering exists and can
be treated by the applied sciences – genuine physical or mental sickness, poverty,
social and economic inequality […] which men and money can cure or alleviate.
[…] But the reverse of this coin is the tendency – difficult to avoid, but disastrous –
to assimilate all men’s primary needs to those that are capable of being met by the
these methods: the reduction of all questions and aspirations to dislocations which
expert can set right.298
Secondo una simile prospettiva, non esistevano problemi ma soltanto
soluzioni e, più precisamente, esistevano e venivano presi in considerazione soltanto problemi che potevano essere risolti con strumenti ad hoc.
Di fondo, e pur con le dovute e debite distinzioni, Berlin era convinto che
questa visione accomunasse paradossalmente il mondo sovietico a quello
democratico-capitalista. Le differenze tra i due regimi erano innegabili sotto
molti punti di vista, eppure egli affermava che: “the resistance to it, whether
in the forms of attacks on American «materialism» […] or on communist
or nationalist fanaticism […] derives from an obscure realization that both
these tendencies – which spring from a common root – are hostile to the
development of men as creative and self-directing beings”.299
Berlin sembrava così pensare che nel mondo occidentale fosse largamente penetrata, sebbene in forme e modalità particolari, la volontà per lui
tipica dei regimi totalitari di rimuovere l’idea stessa di problema, con la conseguenza, per lui inevitabile, di creare sì società più regolate ma anche più
propense al conformismo, alla uniformità di pensiero e quindi contrarie alla
298
Ivi, p. 35.
299
Ibidem.
134
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
diversità individuale. E nel profondo, dietro a tale tendenza – sia nella sua
versione drammaticamente repressiva, ossia quella totalitaria, sia nella sua
versione ‘accettabile’, ‘pacifica’, ossia democratica e occidentale – Berlin
sembrava scorgere una idea ancora più sotterranea e più radicata, la certezza,
che egli in parte riconduceva alla temperie dello scientismo illuminista, per
cui era possibile trovare una soluzione unica, valida e razionale ai problemi
posti dalla vita reale.300
Secondo noi, in Political Ideas of the Twentieth Century, Berlin si
misurava proprio con tale convinzione – la cui critica fu centrale nella
sua riflessione sul monismo e quindi sulle radici ideali e intellettuali del
totalitarismo – ponendola in rapporto ai pericoli e alle ‘ombre’ che egli
vedeva profilarsi nelle democrazie occidentali. Qui, osservava Berlin, stava
prendendo forma e forza un vero e proprio “paternalistic state” che, seppur
“best intentioned”, avrebbe ridotto sempre più la libertà dell’individuo e
combattuto la diversità individuale “in the interest (the very real interest)
of his welfare or of his sanity, his health, his security, his freedom from
want and fear”.301
Per Berlin, l’interesse per il bene comune, per la sorte dei più deboli,
era del tutto legittimo, positivo e comprensibile, ma ancor più importante
era arginare le derive del paternalismo, comprendere altresì la rilevanza
della diversità, della pluralità che egli, già in questo saggio del 1950, legava saldamente al principio della libertà.302 Berlin criticava così l’idea, per
lui sottesa alla mentalità del paternalismo moderno, che potessero esistere
soluzioni uniche, generali, universalmente valide ai dilemmi sociali, umani
e morali. Se la ricerca storica doveva essere sempre ricerca sugli uomini da
300
Contro ciò Berlin aveva già cominciato ad esprimersi attraverso una prima ‘incursione’
nell’ambito della storia delle idee con il suo studio monografico su Karl Marx; nei primi
anni ‘50 egli continuava in questo suo impegno nei saggi fin qui analizzati. Cfr. Cap. I del
nostro volume.
301
I. BERLIN, The Political Ideas of the Twentieth Century, cit., p. 38
302
Ibidem. Sulla connessione tra difesa della libertà e difesa del pluralismo in Berlin è stato
scritto molto, cfr. C. CROWDER, Isaiah Berlin, cit; J. FERRELL, Isaiah Berlin’s Liberalism
and Pluralism in Theory and Practice, “Contemporary Political Theory”, 8 (2009), pp. 295316; W.J. GALSTON, Moral Pluralism and Liberal Democracy: Isaiah Berlin’s Hetherodox
Liberalism, “The Review of Politics”, 71 (2009), pp. 85-99; E. MYERS, From Pluralism
to Liberalism: Rereading Isaiah Berlin, “The Review of Politics”, 72 (2010), pp. 599-625.
135
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
parte di altri uomini, evitare schematismi, saper collegare il particolare al
generale avendo ben presente le sfaccettature e la particolarità della realtà
umana, così nella politica e nella società era necessario recuperare la consapevolezza della complessità e della varietà, sebbene ciò non significasse
rinunciare alla necessaria organizzazione del corpo sociale:
what is required is less mechanical, less fanatical application of general principles,
however rational or righteous, more cautious and less arrogantly self-confident application of accepted, scientifically tested, general solutions to unexamined individual
cases. [E questo perché, secondo Berlin] no solution can be guaranteed against error,
no disposition is final. And therefore a loose texture and toleration of a minimum of
inefficiency, even a degree of indulgence in ideal talk, ideal curiosity, aimless pursuit
of this or that without authorization […] may allow more spontaneous, individual
variation (for which each the individual must in the end assume full responsibility),
and will always be worth more than the neatest and most delicately fashioned imposed pattern.303
Era il Berlin filosofo della politica, liberale e anti-dogmatico che parlava in queste pagine e in quanto tale egli prendeva le distanze da quelle
concezioni che, ai suoi occhi, mettevano in pericolo, in particolare se attuate
con eccessivo zelo e rigore, la libertà e la diversità individuali, la “eccentricità”, la possibilità stessa per “individuals and minorities” di raggiungere i
propri obiettivi.304 Contro la logica del “paternalistic State” Berlin osservava
che l’ubbidienza alla autorità e alle istituzioni non era dovuta sulla base
della loro infallibilità (o presunta tale), bensì in nome della loro necessità e
utilità. Ma tale consapevolezza, a suo giudizio, ne implicava un’altra, ancora
più importante in termini filosofici e politici, ossia che lo Stato e i detentori
del potere non avevano alcun diritto o prerogativa di ridurre e minacciare
lo spazio della libertà individuale.305
Nelle riflessioni di Berlin c’era molto del pensiero e della etica liberali di John Stuart Mill così come dell’utilitarismo di Jeremy Bentham:
c’era la difesa milliana della eccentricità e della necessità di resistere al
303
I. BERLIN, The Political Ideas of the Twentieth Century, cit., p. 40.
304
Ibidem.
305
Ibidem.
136
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
conformismo,306 c’era un richiamo alla concezione benthamiana dell’ubbidienza politica,307 e, al contempo, al pensiero di Kant, feroce critico dello
“Stato paternalistico”.308
Berlin sembrava così riallacciarsi ad una grande tradizione di pensiero
europeo molto risalente309 e tuttavia Political Ideas of the Twentieth Century
può essere ricondotta anche nelle ‘maglie’ del Cold War Liberalism. Con
quella corrente Berlin sembrava condividere infatti la diffidenza verso le
tecniche di controllo sociale, verso forme eccessive di “regulations” – tra le
quali quelle attuate dal regime sovietico erano, per lui, una delle espressioni
più emblematiche ed estreme.310
Berlin metteva in guardia dai pericoli insiti nel paternalismo, ossia nella
creazione di una società fortemente regolata e osservata, e nel fare questo,
secondo noi, egli prendeva una posizione chiara contro quelle concezioni,
quelle logiche, quei progetti politici e sociali che proponevano una “soluzione finale” e che per questo erano da ritenersi, a suo giudizio, monistici.
A testimonianza della particolarità del suo anti-stalinismo e anti-sovietismo,
Berlin sembrava quindi suggerire che anche il mondo occidentale uscito
dalla Seconda guerra mondiale recava in sé i germi del monismo (filosofico
e politico). In altri termini, l’individuazione (di una certa parte) dell’illuminismo quale matrice comune del socialismo e del liberalismo nell’800
e, sebbene nella sua forma degenerata, distorta e alterata, anche dei sistemi
totalitari e financo di quelli paternalistici e occidentali, non era un esercizio
di storia intellettuale; essa aveva una valenza teorico-politica ben precisa
nella misura in cui Berlin era interessato a mostrare come, pur nella loro
diversità, i regimi totalitari, da un lato, e lo stato paternalistico dall’altro
condividevano, per alcuni aspetti, una connotazione monistica e quindi
306
J.S. MILL, On Liberty, 1859.
307
J. BENTHAM, An Introduction to Principles of Morals and Legislation, 1823 (second
edition).
308
Kant è spesso evocato da Berlin in Two Concepts of Liberty, cit., ad esempio, pp. 138,
158-159.
309
Nel caso specifico di Kant e Mill, una tradizione di stampo liberale. Cfr. G. BEDESCHI,
Storia del pensiero liberale, Soveria-Mannelli, Rubbettino, 2015.
310
J.L. CHERNISS, Isaiah Berlin: a Mind and his Time, cit., p. 90. Sempre J. CHERNNISS,
Berlin’s Early Political Thought, in C. CROWDER – H. HARDY, op. cit., p. 107.
137
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
lesiva, sebbene con gradi e forme differenti, della libertà individuale.311 In
tal senso, il saggio sulle Political Ideas of the Twentieth Century andava ad
inserirsi a pieno titolo nella riflessione di Berlin sul monismo filosofico e
politico che, come quella di Voegelin, prendeva forma attraverso la storia
delle idee e sembrava presupporre una convinzione profonda di fondo, ossia
che le idee avessero una loro, speciale forza e un loro speciale potere sulla
vita (e sulle forme di vita) degli uomini.312
Una convinzione alla quale Berlin rimase fedele per tutta la vita e che,
per sua stessa ammissione, egli aveva maturato non tanto a contatto con la
filosofia di Oxford, ossia con il gruppo dei positivisti logici di Ayer, bensì
attraverso la lettura dei pensatori russi, con i quali iniziò a confrontarsi a
partire dal suo studio su Karl Marx. His Life and Environment.
Come cercheremo di mostrare nel prossimo paragrafo, l’indagine di
Berlin sul monismo fu infatti, sin dal suo inizio, strettamente legata alla
storia intellettuale del mondo russo.
5.2 Tolstoj “volpe” e “riccio”
In maniera nettamente controcorrente rispetto al suo tempo, e molto
probabilmente in virtù delle sue radici famigliari e culturali, Berlin distinse
sempre tra Stato sovietico e Russia. Verso quest’ultima, la sua letteratura, la
sua lingua, la sua arte, Berlin nutrì sempre una profonda ammirazione e un
altrettanto sincero e duraturo interesse, testimoniato dai suoi studi su figure
come Tolstoj, Turgenev, Herzen, Belinskij: egli fu infatti storico delle idee
filosofiche, politiche e anche letterarie.313 L’attenzione profonda che Berlin
dimostrò per tutta la vita nei confronti del mondo russo è un aspetto essenziale della sua ricerca sulle radici intellettuali dei regimi liberticidi e anche
311
Il saggio del ‘50 mostrava inoltre, e ormai in maniera chiara, come Berlin avesse intrapreso
il ‘cammino’ della storia delle idee e, come attraverso essa, stesse affermando il suo proprio e
personale modo di “fare” filosofia e pensiero politico cfr. M. BODE, op. cit., p. 72.
312
Cfr. I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., pp. 118-120.
313
I. BERLIN, Three Strands in My Life, “Jewish Quarterly”, 27 (1979), pp. 5-7. Risaliva al
1951 la sua traduzione in inglese di Turgenev, First love.
138
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
sui possibili antidoti contro di essi. L’‘incontro’ di Berlin con i pensatori
russi risaliva alla fine degli anni ‘30, quando egli cominciò a preparare lo
studio monografico su Marx, attraverso il quale si avvicinò agli illuministi
francesi, ai socialisti come Proudhon, ed anche a Plechanov, commentatore
e seguace del filosofo di Treviri, e ai “precursori della Rivoluzione russa”.
Il suo interesse per la storia delle idee e la volontà di dedicarsi ad essa si
legarono alla ‘scoperta’ di questi autori e si rafforzarono nel corso degli
anni ‘40 anche grazie alle esperienze in ambito diplomatico che egli ebbe
prima a Washington e poi a Mosca. Nella città russa, dove si recò nel 1945
e nel 1956, ebbe infatti l’occasione di conoscere Anna Achmatova e Boris
Pasternak che lasciarono su di lui una impressione profonda e durevole.314
Fu di ritorno da questi paesi che egli decise di abbandonare definitivamente la filosofia – la disciplina che dal 1946 insegnava al New College di
Oxford –315 per la storia delle idee: da quel momento in poi, come avrebbe
ricordato, egli cominciò ad interrogarsi sistematicamente sul concetto di
monismo e a misurarsi con il problema della libertà.316
Tuttavia, già il suo studio su Marx rappresentò, a nostro avviso, un
primo momento di distacco sia dal positivismo logico, sia dalla filosofia
analitica. Ha perfettamente ragione D. Kelly quando ricorda come in quella
prima opera (l’unica a carattere monografico che ci abbia lasciato Berlin)
fosse ravvisabile una serie di problemi e un certo tipo di approccio al pensiero di grandi pensatori che avrebbero caratterizzato successivamente l’intera
riflessione dell’intellettuale inglese. In senso lato, al di là dei problemi di
datazione, e quindi di individuare con certezza matematica un “prima” e un
“dopo” nella ricca produzione del pensatore inglese, Berlin sottolineò in più
occasioni quanto anche la sua curiosità per il mondo russo avesse influito su
quella svolta: “mi resi conto – avrebbe confessato Berlin a S. Lukes negli
anni ‘90 – che intendevo leggere Bakunin, Belinskij, e Herzen. Desideravo
conoscere le ragioni delle loro idee, più che risolvere problemi filosofici”.317
314
Su questo aspetto: I. BERLIN, Personal Impressions. Updated Edition, edited by H. Hardy,
with a new Foreword by H. Lee and N. Annan, London, Paperback, 2014.
315
I. BERLIN, Tra filosofia e storia delle idee, cit., p. 48.
316
Ivi, p. 28 e ID., My Intellectual Path, cit., pp. 5-7.
317
I. BERLIN, Tra filosofia e storia delle idee, cit., p. 56.
139
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
L’incarico di Fellow che egli ricevette dall’All Souls College nel 1950
sancì ufficialmente il suo passaggio dalla filosofia analitica alla storia delle
idee, che al tempo, però, continuava ad essere considerata, in ambito accademico oxoniense e inglese, una disciplina molto ‘esotica’.318
Esiste dunque, per stessa ammissione di Berlin, un nesso profondo
tra la sua scelta di misurarsi con la storia delle idee e il suo interesse per il
mondo intellettuale russo. La stessa definizione di monismo e pluralismo,
che Berlin elaborò in maniera sistematica nel suo celebre Two Concepts of
Liberty, sarebbe in parte non del tutto chiara e comprensibile se prescindessimo da questo aspetto. Negli anni ‘50 Berlin maturò la sua ricerca sul
monismo non solo muovendo da una analisi critica di certe parti della tradizione razionalista e illuminista, così come di altre tradizioni intellettuali
di cui ci occuperemo successivamente, ma anche dalla lettura di artisti e
pensatori russi per lui molto significativi. Nella sua intervista a S. Lukes,
Berlin avrebbe individuato due saggi in particolare che avevano, in un
certo senso, “segnato il suo passaggio dalla filosofia alla storia delle idee”;
il primo, di cui abbiamo già parlato, era Political Ideas of the Twentieth
Century, il secondo era The Hedgehog and the Fox – il cui protagonista era
giustappunto uno dei maggiori scrittori dell’800 russo, Tolstoj – e che venne
pubblicato per la prima volta nel 1951 per la rivista “Slavonic Studies”.319
Due osservazioni preliminari sono tuttavia necessarie: The Hedgehog
and the Fox testimoniava non solo quanto, per Berlin, le idee avessero un
indubbio potere ma anche come esse non potessero mai essere scollegate
dagli individui, dalle persone fisiche e concrete che le avevano professate.
In tal senso, lo scritto del 1951 conteneva in sé già un chiaro richiamo a
quella particolare visione di conoscenza storica che Berlin avrebbe formulato
nel 1953, ad esempio, in Historical Inevitability. Inoltre, come sottolinea
A. Kelley, proprio questo saggio denotava un interesse per la cultura russa
che appariva del tutto eccentrico e atipico per quel periodo. Berlin prendeva
infatti nettamente le distanze da quel mondo anglo-americano che guardava
alla Russia come culla del fanatismo, di pensatori e uomini politici così
318
Ivi, pp. 56-57.
319
Il saggio apparve come opera autonoma nel 1953: I. BERLIN, The Hedgehog and the Fox.
An Essay on Lev Tolstoj’s View of History, London, Weidenfeld and Nicolson.
140
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
sconfinatamente innamorati delle loro idee da compiere in nome di esse
atti tremendi, di rottura e carichi di violenza. Non erano infatti pochi gli
osservatori occidentali che consideravano la passione russa per le idee e le
ideologie come sintomo di una sostanziale insanità mentale e di un eccesso
di temperamento. Con The Hedgehog and the Fox Berlin cercava di proporre
una lettura di quella realtà completamente diversa, ben più articolata, e in tal
senso egli non faceva altro che continuare sulla strada già intrapresa pochi
anni prima, nel 1948, quando, sempre sulle pagine di “Slavonic Papers”,
aveva dedicato un saggio a Russia and 1848. Qui aveva ricondotto la intransigenza intellettuale e morale degli intellettuali russi durante il trentennio successivo alla fine dell’ondata rivoluzionaria del 1848 (che però non
aveva riguardato direttamente l’Impero zarista) non ad una qualche forma
di malsana inclinazione al fanatismo ma ad un particolare processo storico
e culturale che aveva esercitato su di loro un impatto indelebile, alla luce
del quale, secondo Berlin, era possibile in parte comprendere il successivo
sviluppo della storia russa.320 L’Impero russo dopo il 1848 veniva dipinto da
Berlin come un luogo di repressione; ogni forma di idea liberale era stata
spazzata via sotto lo Zar Nicola I e gli intellettuali del tempo, in una simile
situazione di isolamento e di provvedimenti repressivi, non avevano avuto
altra scelta, secondo Berlin, che “ripiegarsi su se stessi”.321 Separati dall’Europa occidentale, i giovani russi si erano così imposti una severa disciplina
che, ai loro occhi, rappresentava anzitutto una risposta al fallimento dei
tentativi rivoluzionari occidentali.322
Berlin tornava a misurarsi con questo tema alcuni anni più tardi, in una
serie di saggi apparsi sotto il titolo di A Marvellous Decade e risalenti al
biennio 1955-1956:323 egli parlava della intelligentsia russa tra gli anni ‘30 e
320
I. BERLIN, Russia and 1848, in ID., Russian Thinkers, edited by H. Hardy and A. Kelley
with an Introduction by A. Kelley, London, The Hogarth Press, 1978.
321
I. BERLIN, Russia and 1848, cit., pp. 2 ss.
322
Ivi, pp. 8 ss.
323
A Marvellous Decade consisteva in quattro distinti saggi (The Birth of the Russian Intelligentsia, German Romanticism in St. Petersburg and Moscow, Vissarion Belinskij, Alexander
Herzen), pubblicati su “Encounter” tra il 1955 e il 1956 e che riproducevano i testi letti da
Berlin in occasione delle Northcliffe Lectures che egli tenne nel 1954 presso lo University
College di Londra. Tutti e quattro gli scritti berliniani furono successivamente riediti sotto il
titolo di A Remarkable Decade in ID., Russian Thinkers, cit. ed è a questa versione che abbiamo
141
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
la fine dei sommovimenti del 1848, dei dilemmi morali e politici che essa si
era posta sul destino del proprio paese dopo la sconfitta di Napoleone, delle
soluzioni che aveva provato a trovare, alimentate, secondo Berlin, dal desiderio di scoprire una verità assoluta e dall’influsso che su di essa era stato
esercitato dall’idealismo hegeliano, con cui erano entrati in contatto quei
giovani russi abbastanza abbienti da studiare nella università tedesche.324
In maniera evidentemente analoga a Russia and 1848, nei saggi sulla
Marvellous Decade Berlin cercava così di mostrare come una certa tendenza
alla intransigenza e alla serietà estrema con cui la intelligentsia russa aveva
abbracciato particolari idee e ideologie – che, a suo giudizio, avrebbero
poi pervaso, se non tutto, una ampia parte del mondo intellettuale russo
fino al 1917 – non derivava da una perversa inclinazione dell’animo russo
(perversa almeno secondo i prevalenti stereotipi e canoni anglo-americani),
bensì da fattori ideali, culturali e storici che avevano preso forma nella
metà dell’800. Come sottolinea A. Kelley, il ritratto che nella prima metà
degli anni ‘50 Berlin dava della realtà russa era soprattutto teso a mostrare
i problemi morali e politici con cui la intelligentsia si era confrontata, forte
dell’influsso su di essa esercitato dalle correnti culturali europee, che proprio
alcuni intellettuali russi avevano assorbito e che poi avevano portato nel
proprio paese, “russificandole”. Nel delineare un simile affresco, attraverso
la storia delle idee, Berlin prendeva le distanze da tutti quegli osservatori
occidentali che sovrapponevano l’immagine della Russia a quella della Repubblica sovietica e stalinista. Per questa ragione, secondo A. Kelley, Berlin
fu il primo intellettuale del secondo dopoguerra a far conoscere al mondo
di lingua inglese i grandi personaggi e i principali movimenti culturali russi
precedenti alla Rivoluzione.325
Il trait d’union che collega idealmente Russia and 1848 e A Marvellous
Decade è, a nostro avviso, proprio The Hedgehog and the Fox. Era in questo
fatto riferimento. Cfr. H. HARDY, Editorial Preface to I. Berlin, Russian Thinkers, cit., p. IX.
324
I. BERLIN, The Birth of the Russian Intelligentsia, in ID., A Remarkable Decade, in ID.,
Russian Thinkers, cit., pp. 114 ss e ID., German Romanticism in St. Petersburg and Moscow,
in ID., A Remarkable Decade, in ID., Russian Thinkers, cit., pp. 136 ss.
325
A. KELLEY, A Complex Vision. Introduction to I. BERLIN, Russian Thinkers, cit., pp.
XIII-XVI. Di questa stessa opinione anche A. WALICKI, Berlin and the Russian Intelligentsia,
in C. CROWDER – H. HARDY, op.cit., pp. 49 ss.
142
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
scritto che Berlin parlava del monismo quale visione etica e filosofica attraverso l’opera e il pensiero di Tolstoj, nei quali però Berlin ravvisava anche
una sotterranea, ma non per questo meno interessante, tendenza pluralista.
Nel saggio berliniano, la massima di Archiloco per cui “the fox knows
many things, but the hedgehog knows one big thing”, che sintetizzava ai
suoi occhi la distinzione tra monisti e pluralisti, stava ad indicare infatti la
differenza tra coloro che leggevano e comprendevano la realtà nei termini
di una “single central vision, one system, […] in terms of which they understand, think and feel” e coloro che, al contrario, guardavano alla realtà
nella loro incommensurabile e immensa pluralità e diversità, “who pursue
many ends, often unrelated and even contradictory, connected, if it all, only
in some de facto way, [… Be] related to no moral or aestethic principle”.326
Consapevole del rischio di cadere nella trappola di facili quanto sterili
schematismi, Berlin guardava alla massima del poeta greco anzitutto come
un punto di vista, una prospettiva di analisi e di ricerca nella storia delle
idee.327 In questo caso, tale ricerca riguardava l’universo letterario e artistico
russo, in particolare l’opera di Tolstoj, il suo celebre romanzo Guerra e Pace,
in cui Berlin individuava una vera e propria “filosofia della storia”.328 Tolstoj
veniva dipinto come un artista e un pensatore “ossessionato” dalla storia,
dal senso della storia, dal rapporto tra la storia e la vita degli esseri umani;
nella “filosofia della storia” del romanziere russo Berlin vedeva e leggeva
una doppia inclinazione, una doppia tendenza: una pluralista e una monista.
Dietro la creazione di Guerra e Pace, pubblicata per la prima volta
nel 1865, c’era anzitutto, secondo Berlin, un rifiuto deciso dell’idea che
potessero essere individuate leggi necessarie e oggettive sottese alla storia
umana. Ciò che però, nell’interpretazione di Berlin, “opprimeva” e assillava
ancora di più il grande romanziere era il modo in cui la storia degli uomini
veniva narrata e spiegata. Come emergeva da lettere, articoli e testimonianze
molto antecedenti alla stesura di Guerra e Pace, Tolstoj, secondo Berlin,
riteneva del tutto insoddisfacente e soprattutto priva di una vera e propria
326
I. BERLIN, The Hedgehog and the Fox (1953), versione online disponibile sul sito della
Princeton University: https://press.princeton.edu/chapters/s9981.pdf. Nella nostra analisi ci
siamo avvalse di questa versione del testo berliniano.
327
Ivi, p. 437.
328
Ivi, pp. 437-438.
143
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
legittimazione la preferenza che gli studiosi, nelle loro analisi storiche,
sembravano aver sempre attribuito alla sfera politica e pubblica, poiché essi
avevano finito per ignorare e “sacrificare” quella grande varietà di elementi
e fattori che faceva altresì parte della vita umana.329
Nelle prime pagine di The Hedgehog and the Fox, veniva così sottolineata una certa inclinazione in Tolstoj a valorizzare il carattere plurale della
esperienza storica e umana. Berlin riteneva che forte di questa convinzione
Tolstoj avesse infine deciso, già negli anni ‘50, di dedicarsi alla scrittura
di un romanzo storico che desse voce alla “real texture of life, both of individuals and communities” da opporre alla “unreal picture presented by
historians”.330
Guerra e Pace diventava così per Berlin un poderoso ritratto non solo
della Russia che affrontava la minaccia napoleonica ma ancor più l’espressione della visione che il suo creatore aveva della storia. Berlin ricordava,
ad esempio, come nella ricostruzione della battaglia di Austerlitz, Tolstoj
sottolineasse il contrasto tra ciò che veniva raccontato nei dispacci ufficiali
e il modo in cui i singoli personaggi percepivano la propria personale situazione, senza che nessuno di loro – dal Principe Brigation fino al più umile
dei soldati – avesse una chiara consapevolezza di ciò che stava realmente
accadendo o sarebbe accaduto.331
Lo stesso tipo di contrasto riemergeva, secondo Berlin, dalle pagine
dedicate all’incendio di Mosca del 1812 che aveva consegnato a Napoleone
una città quasi totalmente distrutta. Tolstoj descriveva le persone non come
eroi o martiri bensì come semplici, comuni mortali, preoccupati delle loro
faccende e dei loro problemi individuali. E a proposito di ciò, per enfatizzare
ancora di più la visione che il romanziere russo aveva delle “vere” dinamiche
della storia e di quanto esse fossero ben diverse dalle versioni ufficiali che
venivano date dai potenti e dagli storici di professione, Berlin osservava
come “those who went about their ordinary business without feeling heroic
emotions or thinking that they were actors upon the well-lighted stage of
history were the most useful to their country or community, while those
329
Ivi, pp. 446-447.
330
Ivi, p. 447.
331
Ivi, p. 448.
144
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
who tried to grasp the general course of events and wanted to take part in
history, those who performed acts of incredible self-sacrifice […] were the
most useless”.332
Da Guerra e Pace, secondo Berlin, emergeva quanto centrale la “unconscious activity” fosse nella visione tolstojana della storia e quindi quanto
sterili fossero, per il romanziere, i tentativi di chi voleva spiegare la storia e
in particolare i grandi eventi solo e soltanto sulla base di “rational means”
e di precisi nessi strettamente causali.333
Nella interpretazione berliniana, l’importanza della “attività inconscia”
stava lì a testimoniare come per Tolstoj la vita umana fosse così articolata,
varia e molteplice da rendere del tutto assurdo qualsiasi tentativo di spiegarla – e quindi ‘imbrigliarla’ – in grandi costruzioni teorico-esplicative.
Era il Tolstoj “volpe” quello che Berlin stava descrivendo in queste pagine
del 1951:
since no theories [per Tolstoj] can possibly fit the immense variety of possible human
behaviour, the vast multiciplicty of minute, undiscoverable causes and effects which
form the interplay of men and nature which history purports to record. Those who
affect to be able to contract this infinitive multiciplity within their ‘scientific’ laws
must be either deliberate charlatans or blind leaders of the blind.334
Tuttavia, secondo Berlin, da Guerra e Pace, così come da tutte le
opere di Tolstoj e dalla sua stessa esistenza – che nella sua ultima fase fu
all’insegna di un profondo misticismo – emergeva anche un altro aspetto,
altrettanto centrale nella concezione che il romanziere aveva della storia; un
aspetto diametralmente opposto a quello pluralista fin qui evocato, ossia una
sorta di inclinazione al monismo. Nella interpretazione di Berlin la “volpe”
Tolstoj lasciava così il posto al “riccio” Tolstoj: in quest’ultimo il pensatore
inglese ravvisava infatti sia la consapevolezza della varietà estrema della vita
e quindi una profonda diffidenza verso tutte quelle teorie e quei pensatori
che cercavano di spiegare la storia e le azioni umane in termini “scientifici”,
sia una urgenza egualmente sincera non solo di comprendere “the historian’s
332
Ivi, p. 449.
333
Ibidem.
334
Ivi, p. 450.
145
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
task” ma anche ciò in cui “history consists”.335 In Tolstoj Berlin credeva di
scorgere un bisogno profondo di conoscere la verità:
Tolstoj’s purpose is the discovery of the truth, and therefore he must know what history
consists of, and recreate only that. History is plainly not a science, and sociology,
which pretends that it is, is a fraud; no genuine laws of history have been discovered,
and the concepts in current use – cause, accident, genius – explain nothing […] Why
do the events the totality of which we call history occur as they do? Some historians
attribute events to the acts of individuals, but this is no answer: for they do not explain how these acts ‘cause’ the events they are alleged to ‘cause’ or ‘originate’.336
In Guerra e Pace prendeva forma con incredibile potenza la critica di
Tolstoj a tutte quelle scuole di pensiero che spiegavano gli eventi storici in
nome del potere, di fattori puramente economici e sociali o della grandezza
di un singolo individuo, poiché tutte queste spiegazioni erano, per l’artista
russo, prive di una consapevolezza per lui altresì fondamentale, ossia la
impossibilità di identificare tutte le possibili cause e fattori che condizionavano o, in alcuni casi, determinavano la storia e la vita degli uomini.337
Nella prima parte del suo saggio Berlin aveva sottolineato quanto una
simile convinzione fosse intimamente collegata ad una visione pluralista
della realtà e quindi alla “volpe” che, a suo giudizio, viveva in Tolstoj.
Invece, nella seconda parte del saggio, egli cercava di dimostrare come
quella stessa concezione della storia, così fortemente difesa dallo scrittore
russo, implicasse, al contempo, una ricerca monistica del significato della
vita: per Berlin la critica mossa a spiegazioni delle vicende umane basate su
rapporti strettamente causali non significava infatti, neppure per un istante,
che Tolstoj rivendicasse l’assoluto libero arbitrio o l’assenza di qualsiasi
principio capace di unificare, spiegandola, l’intera esistenza:338
Tolstoj’s central thesis […] is that there is a natural law whereby the lives of human
beings no less than that of nature are determined; but those men, unable to face
this inexorable process, seek to represent it as a succession of free choices, to fix
responsibilities for what occurs upon persons endowed by them with heroic virtues
335
Ivi, pp. 451-452.
336
Ivi, p. 452.
337
Ivi, p. 456.
338
Ibidem.
146
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
or heroic vices, and called by them great men […]. They are ordinary human beings
who are ignorant and vain enough to accept responsibility for the life of society […]
than recognize their own insignificance and impotence in the cosmic flow which
pursues its course irrespective of their wills and ideals.339
E proprio attraverso questa ottica che, per Berlin, Tolstoj poteva non
solo parlare di un “inexorable determinism” ma anche credere in “true on
irrefutable theoretical grounds”, quando, ad esempio, tratteggiava la figura
di Napoleone in Guerra e Pace.340
In Tolstoj, Berlin credeva di scorgere così una forte ambivalenza: da
un lato, la certezza che la realtà storica e umana fosse variegata, plurale,
concreta, e quindi impossibile da contenere in una teoria che la spiegasse
secondo parametri strettamente causali, e che potesse abbracciare tutte le
possibili combinazioni sottese agli eventi storici; dall’altro, la urgenza e la
necessità, altrettanto radicate, di trovare una spiegazione unica, finale e oggettiva a tutto ciò che esisteva; in Tolstoj convivevano così due anime, quella
della “volpe” e quella del “riccio”. La prima, per Berlin, era incarnata dallo
scrittore che nei suoi romanzi sapeva tratteggiare con maestria gli uomini
e le donne nelle loro singolarità, nei loro caratteri irripetibili, dando corpo
alle loro idee e sentimenti come se fossero individui reali e vivi. Il secondo,
invece, era incarnato dall’uomo, dal filosofo e dal mistico che credeva – o
aveva bisogno di credere – in una visione unificante della realtà:
Tolstoj perceived – scriveva Berlin – reality in its mutliciplity, as a collection of
separate entities round and into which he saw with a clarity and penetration scarcely
ever equalled [...]. The celebreted lifelikeness of every object and every person in his
world derives from this astonishing capacity of presenting every ingredient of it in its
fullest individual essence, in all its many dimensions […]. Yet what he believed was
the opposite. He advocated a single all embracing vision; he preaches not variety but
simplicity, not many levels of consciousness but reduction to some single level – in
War and Peace, to the standard of the good man.341
Il contrasto che Berlin ravvisava in Tolstoj era quindi tra due opposte
concezioni: la prima che vedeva nella realtà (umana e storica) pluralità e
339
Ibidem.
340
Ivi, p. 458.
341
Ivi, p. 466.
147
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
diversità, gioie e dolori, gli individui che si facevano carico delle proprie
responsabilità così come dei propri progetti da conseguire e realizzare, e la
seconda, di segno diametralmente opposto, quasi “metafisica”, che invece
vedeva dietro quella pluralità, di cui spesso il romanziere russo sembrava
denunciare la vanità e vuotezza, un disegno, un principio capace di governare
il Tutto, ma che, pur essendo vivo e reale, Tolstoj riteneva quasi del tutto
incomprensibile da parte degli uomini.342
Che cosa emerge di così interessante dalla interpretazione dell’opera
e della figura di Tolstoj, carica di eleganza e di sensibilità letterarie, che
Berlin dava in The Hedgehog and the Fox? A nostro avviso, l’aspetto essenziale non consiste tanto nella attendibilità scientifica della analisi che Berlin
elaborava e quindi nella sua capacità di cogliere il ‘vero’ Tolstoj. Si potrebbe
anche essere totalmente in disaccordo con quanto il pensatore inglese andava
scrivendo dell’autore di Anna Karenina e tuttavia dovremmo ammettere
che il suo ritratto del romanziere russo, la lettura che egli dava di Guerra
e Pace, rappresentavano già nei primi anni ‘50 un esempio efficace di ciò
che per Berlin significava “fare” storia delle idee e un tassello importante
della sua riflessione sul monismo (e per converso sul pluralismo). Due degli
scritti berliniani sul significato della ricerca storica e sulla differenza tra
questa e la ricerca scientifica risalivano, come abbiamo precedentemente
osservato, proprio ai primi anni ‘50. In The Hedgehog and the Fox, che
precedeva di soli due anni Historical Inevitability, Berlin parlava di Tolstoj,
ci raccontava la sua vita, le sue idee, la sua filosofia della storia utilizzando
quel processo di empatia, di “imaginative projection”, la cui importanza
egli avrebbe sempre rivendicato: egli presentava Tolstoj e il suo pensiero
da dentro e i passi che abbiamo citato offrono un esempio eccellente di ciò
che concretamente, ossia sulla carta, significasse questo procedimento. Non
entreremo nel merito di quanto corretto esso fosse; non è nostro interesse e
la letteratura critica che ricordavamo nel primo capitolo ha messo bene in
evidenza le debolezze metodologiche e scientifiche della storia delle idee
à la Berlin. Al contrario, ciò che ci preme sottolineare è come le riflessioni
di Berlin sul significato della ricerca storica dovrebbero essere considerate
in stretto rapporto con quelle che, negli stessi anni, egli stava elaborando
attorno al problema del monismo.
342
Ivi, p. 467.
148
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
Nel saggio del 1951, Tolstoj incarnava due visioni contrapposte che
scaturivano, secondo Berlin, da un bisogno umano, psicologico, personale
e che poi si rifletteva e si articolava nella sua arte. Emergeva abbastanza
chiaramente quanto Berlin preferisse il Tolstoj “volpe” al Tolstoj “riccio”,
eppure egli guardava a quest’ultimo con una sorta di compassione, simpatia
e indulgenza. Restava però aperto un problema molto significativo per il
pensatore inglese, ossia comprendere come quel bisogno si fosse articolato e
avesse trovato espressione concreta nella storia, nelle menti degli uomini, da
quali correnti di pensiero esso fosse stato nutrito, plasmato, trasformato fino
a diventare parte essenziale delle ideologie e dei regimi totalitari del ‘900.343
Berlin avrebbe provato a delineare una possibile risposta in Historical
Inevitability, nel quale individuava un nesso profondo tra monismo, concezioni deterministiche e minaccia alla libertà individuale, preparando così il
‘terreno’ al più celebre Two Concepts of Liberty.
5.3 Isaiah Berlin e il determinismo
Dalle considerazioni fin qui svolte si evidenziano alcuni punti di contatto importanti tra Voegelin e Berlin storici delle idee: le differenze tra i
due sono indubitabili, sotto molteplici punti di vista, tuttavia per entrambi la
storia delle idee diventava un mezzo per misurarsi con il problema del monismo e quindi interrogarsi sulle radici intellettuali e ideali del totalitarismo:
tra queste entrambi i pensatori individuavano, ad esempio, la tradizione dello
scientismo illuminista. In particolare, Historical Inevitability rappresenta un
punto di riferimento essenziale per comprendere quanto e in quale misura
la critica berliniana a quella particolare tradizione di pensiero (e non solo)
presenti interessanti analogie con quella voegeliniana.
L’interesse di Berlin per il determinismo quale visione filosofica risaliva a molto tempo prima della sua Auguste Comte Lecture. Come osserva
M. Ricciardi, già negli anni ‘30, Berlin aveva preso chiaramente le distanze
proprio dal determinismo di Ayer, secondo il quale il comportamento degli
esseri umani era soggetto alle stesse leggi che regolavano l’intero mondo
343
A. KELLEY, op. cit., pp. XV ss.
149
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
naturale e, in opposizione all’idea, anch’essa difesa da Ayer, che tutti gli
enunciati dovessero avere una traduzione strettamente logica, Berlin aveva
affermato che il linguaggio doveva anzitutto aderire alla vita mentale e
morale delle persone.344 Già molti anni prima del suo passaggio alla storia
delle idee, Berlin aveva quindi individuato nel determinismo, quale visione filosofica, un problema non indifferente per chi come lui riteneva che
il concetto di libertà individuale non fosse solo una mera parola e che la
realtà umana e morale non potessero essere ridotte a semplice appendice
del mondo naturale.345
Nella sua lezione alla London School of Economics del ‘53 Berlin
analizzava lo sviluppo e le caratteristiche delle principali concezioni deterministiche nella storia delle idee e sviluppava attorno ad esse un ragionamento critico che, come vedremo, era volto a sottolineare il loro contenuto
illiberale e potenzialmente liberticida. L’avversione al determinismo inteso
quale minaccia alla libertà era lungi dall’essere originale. È infatti Joshua
Cherniss a ricordare come essa fosse ben presente nelle opere di pensatori,
contemporanei a Berlin, quali Karl Popper, Raymond Aron e Friederich
von Hayek.346
In questo paragrafo vorremmo piuttosto analizzare la critica contro
la Historical Inevitability nell’ottica di un confronto generale tra Berlin e
Voegelin storici delle idee. Il 13 giugno 1953 il pensatore inglese inviava
a Lincoln Schuster, co-editor (insieme a Richard Simon) della Simon &
Schuster, ossia la casa editrice che un anno più tardi avrebbe pubblicato
Historical Inevitability sotto forma di saggio, una lettera in cui egli affermava e sottolineava tutta la sua contrarietà alla idea di inevitabilità storica,
“as a kind of Moloch which makes people think that to resist to history is
344
M. RICCIARDI, op. cit., pp. 15-16. Relativamente al dibattito che si svolse su tali questioni
tra Ayer e Berlin cfr. I. BERLIN, J.L. Austin and the Early Beginnings of Oxford Philosophy,
in ID., Personal Impressions, cit. e A.J. AYER, Freedom and Necessity, in ID., Philosophical
Essays, London, Macmillan, 1946.
345
M. RICCIARDI, op. cit., p. 15. Anche J.L. CHERNISS, Isaiah Berlin, A Mind and its
Time, cit., p. 107.
346
Ivi, p. 109.
150
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
both useless and in some way immorale”.347
Una contrarietà che presupponeva in Berlin la convinzione, di cui
abbiamo già discusso, che il metodo scientifico, volto a individuare leggi
universalmente valide e oggettive, non fosse applicabile, né estendibile alla
conoscenza del processo storico o della vita umana in generale: la critica
di Berlin al determinismo storico si collegava quindi ad un certo modo di
intendere l’essenza e la originalità della ricerca storica rispetto a quella
strettamente scientifica.
Esistono a nostro avviso due livelli di lettura fondamentali nel saggio
di Berlin: il primo è quello che può essere ricondotto alla storia delle idee,
attraverso la quale Berlin distingueva tra varie forme di determinismi che si
erano affermate nel tempo e il secondo, quello più propriamente filosoficopolitico, che vedeva nello sviluppo di tali concezioni una tappa fondamentale
in un lungo percorso storico costellato di sistemi e ideologie oppressive e
liberticide fino ai regimi sorti nella metà del ‘900. Berlin attribuiva all’idea
di poter comprendere e disvelare le leggi del divenire storico e di poter, sulla
base di esse, fare vere e proprie predizioni, un enorme e durevole fascino
sulla mente degli uomini.348 C’è chi aveva individuato nel “Progress” nello
“World Spirit”, nella “Race” o nella “Reason”, nel “Party” o nella “Social
Class” il principio in grado di determinare la vita degli uomini e il corso
della storia; c’è chi aveva parlato di forze metafisiche, chi di forze sociali
ed economiche, chi infine aveva invocato l’esistenza di grandi personalità,
individui fuori dal comune, capaci, con le loro azioni e le loro decisioni,
di determinare il destino dei loro simili e della storia.349 Tutte queste teorie
e concezioni, sebbene particolari, tra loro differenti, nate e affermatesi in
contesti storici e culturali diversi, erano però accomunate, secondo Berlin,
da una medesima idea di fondo, ossia che la realtà storica, umana, nella sua
immensa complessità, potesse essere compresa, nelle sue manifestazioni
passate, presenti e future, sulla base di un principio unificante e onniesplicativo. E in questo senso, a suo giudizio, il determinismo, in tutte le sue
declinazioni, aveva una connotazione filosofica ed epistemica profonda347
I. BERLIN, Letter to Lincoln-Schuster, contenuta in ID., Enlightening, cit., p. 379.
348
I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., p. 43.
349
Ivi, pp. 43-45.
151
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
mente monistica.350
Tuttavia, per Berlin, questo fondamento comune aveva percorso storicamente diverse direzioni: egli individuava così un determinismo “teleological”, uno “metaphysic” e infine uno “scientific”. Nella sua declinazione
teleologica il determinismo assumeva i contorni di una visione filosofica
e conoscitiva che attribuiva agli individui, agli esseri umani un fine, uno
scopo, una funzione in base ai quali la loro vita e lo stesso corso della storia diventavano “intelligible”.351 In tal senso “historical explanation, must
consist, above all, in the attribution of individuals, groups, nations, species,
each to its own proper place in the universal pattern”.352
In altri termini, qualsiasi fenomeno umano, dalla fondazione di una
civiltà alla caduta di un Impero, veniva spiegato come espressione di “rise
and fall of states or movements or classes or individuals as if they obeyed
to some irresistible rhythm, a rising or falling wave of some cosmic river,
an ebb or tide in human affairs”.353
Non meno fortunato si era rivelato, per Berlin, il determinismo nella
sua accezione strettamente metafisica, che non cercava di spiegare la realtà
in base a fini e scopi, bensì in rapporto alla esistenza di una “realtà senza
tempo”, perfetta e contrapposta a quella della “appearence”, ossia al disordine, al caos, al conflitto del mondo, della vita umana, anch’essi soltanto
apparenti, transitori perché riflesso di una (nascosta) armonia profonda ed
eterna. Per chi abbracciava questa Weltanschauung spiegare la realtà e la
storia significava disvelare, portare alla luce, proprio quella “self-consistent,
eternal, ultimate structure of reality, compresent timelessly, as it were, with
the confused world of senses”, in virtù della quale qualsiasi cosa poteva
essere correttamente compresa, perché era questa stessa “structure” a determinare il Tutto.354
Infine esisteva una “versione” del determinismo che poteva essere
ricondotta alle scienze naturali e, più precisamente, a quel filone di pen350
Ivi, pp. 45-47.
351
Ivi, pp. 44-48.
352
Ivi, p. 52.
353
Ivi, p. 53.
354
Ivi, p. 55.
152
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
siero scientista che, per Berlin, si dipanava dall’età moderna fino al cuore
tecnocratico del ‘900.355
Come aveva già chiaramente affermato in Political Ideas of the Twentieth Century la Rivoluzione scientifica del ‘600 e del ‘700 aveva lasciato
una impressione e una influenza durevoli sul pensiero filosofico, sociale e
politico europeo di quel tempo. Dinanzi alle grandi conquiste intellettuali di
Galileo Galilei e poi di Isaac Newton, alla fecondità dimostrata dalla ricerca
e dal sapere scientifico, si era affermata l’idea che la storia, la politica, la
società, in una parola sola, l’uomo, potessero essere studiati applicando
ad essi lo scrupoloso metodo scientifico. Una simile convinzione, sebbene
sotto una forma originale e non del tutto assimilabile al contesto storico e
culturale in cui essa era emersa, aveva non solo attraversato tutto il Secolo
dei Lumi ma era rifiorita nell’800.356
Nel ‘700 la fiducia nella correttezza del metodo scientifico si era indissolubilmente legata alla convinzione che fosse possibile calcolare, misurare,
avere una conoscenza esatta e precisa della realtà umana, sociale, politica,
poiché – sulla base dei risultati raggiunti dal sapere scientifico – “nothing
in nature is transcendent, nothing is purposive; everyting is measurable;
the day will dawn when – osservava Berlin con una non indifferente punta
di ironia – in aswer to all painful problems now besetting us, we shall be
able to say with Condorcet, «calculemus», and return the answers clearly,
exactly, and conclusively”.357
Nei pensatori illuministi, fra i quali Berlin ricordava D’Holbac,358 Condorcet, D’Alembert, prendeva così forma una concezione deterministica di
carattere “scientifico”, che si basava su di una (per Berlin del tutto supposta)
analogia tra mondo umano e storico, da un lato, e mondo naturale dall’altro:
355
Si veda a proposito il suo Political Ideas of the Twentieth Century, cit.
356
I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., pp. 56-57.
357
Ivi, p. 57.
358
Era proprio a D’Holbac che Berlin dedicava un capitolo del suo Freedom and Its Betrayers.
Six Enemies of Human Liberty. Il testo raccoglieva le Lectures tenute da Berlin per il programma radiofonico della B.B.C. nel 1952. Gli altri nemici della libertà erano – significativamente
– Rousseau, Hegel, Fichte, Saint Simon e De Maistre. Rimandiamo a I. BERLIN, Freedom
and Its Betrayers. Six Enemies of Human Liberty, edited by H. Hardy, with a New Foreword
by E. Krauze, updated edition, Prinecton, Princeton University Press, 2003.
153
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
come la scienza era riuscita ad individuare le leggi che regolavano la natura,
in modo del tutto analogo sarebbe stato possibile conseguire un risultato
altrettanto ambizioso nell’indagine della realtà storica, politica, sociale.359
L’illuminismo diventava così per Berlin uno dei punti nodali nello
sviluppo della visione deterministica e quindi, secondo lui, monistica. In
altri termini, dalla grande rivoluzione scientifica dell’epoca moderna si era
affermata una vera e propria certezza, alla quale Berlin – così come lo stesso
Voegelin – attribuiva esiti dirompenti, ossia che potesse essere individuato
un principio, un modello, in grado di spiegare la realtà umana con lo stesso
grado di oggettività e universalità con cui era possibile spiegare la realtà
naturale. L’interpretazione assai critica che Berlin dava in queste pagine
dell’illuminismo e in particolare dello scientismo illuminista richiama alla
mente quella voegeliniana discussa nella prima parte del nostro lavoro. Sia
Voegelin, sia Berlin riconoscevano proprio in questa particolare tradizione
di pensiero un carattere monistico. Pur in un assetto speculativo differente
(per esempio, nella critica di Berlin alla tradizione illuminista è assente
qualsiasi riferimento al problema dello smarrimento della dimensione trascendente che, invece, è ben presente in Voegelin), entrambi guardavano con
sospetto a quelle elaborazioni scientiste che affermavano la validità di un
metodo esclusivo per comprendere la realtà e di conseguenza per realizzare
un ordine politico perfetto.360
Numerosi e autorevoli studiosi sono stati concordi nel ritenere che la
lettura berliniana dell’eredità illuminista fosse inaccurata e molto parziale.
Del resto, la stessa critica può essere estesa anche a Voegelin.361 Nello spe359
I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., pp. 65 ss. Proprio in questa opera, la riflessione
sul determinismo di carattere “scientifico”, le cui radici Berlin riconduceva all’illuminismo,
andava ad integrarsi con quella, già precedentemente discussa, sulla distinzione tra storia e
scienza, tra ricerca storica e ricerca scientifica.
360
Ivi, p. 73.
361
P. GAY, The Enlightenment: An Interpretation, vol. 2., New York, W.W. Norton & Company,
1996; M. LILLA, Wolves and Lambs, in M. LILLA – R. DWORKIN – R. SILVERS (edited
by), The Legacy of Isaiah Berlin, New York, Palgrave Macmillan, 2001, pp. 36 ss. Inoltre, C.
HATIER, Isaiah Berlin and the Totalitarian Mind, cit., pp. 768-771. Tutti e tre gli studiosi, fra
i principali dell’opera berliniana, rimproverano al pensatore inglese di aver fatto una sorta di
“caricatura” dei philosophes francesi. Berlin viene così accusato di aver sovrapposto due piani
di indagine e di riflessione altresì separati, ossia la sua particolare visione dell’illuminismo –
che implicava un certo modo di intendere la libertà e al contempo una riflessione più ampia
154
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
cifico, è stata evidenziata la eccessiva facilità con cui Berlin poneva sullo
stesso piano, come se appartenessero davvero ad una medesima scuola di
pensiero, filosofi illuministi altresì differenti tra loro e gli è stato infatti
rimproverato di aver sottovalutato, per non dire taciuto, la vena scettica e
tutt’altro che monistica insita in molti autorevoli esponenti dell’illuminismo,
compreso Condorcet, che invece Berlin reputava uno schietto esponente
del monismo.362
In queste pagine vorremmo invece partire da un presupposto differente,
ossia considerare la lettura che Berlin dava dell’illuminismo, così come di
altre visioni, concezioni, tradizioni filosofiche, al di là e indipendentemente
dalla sua oggettiva accuratezza e credibilità scientifica. Vorremmo piuttosto
sottolineare come tale interpretazione, anche e forse soprattutto in virtù di
alcune storture e forzature, fosse funzionale alla sua riflessione sul monismo
e, quindi, sulle ideologie e sui sistemi politici liberticidi del ‘900. I punti
di contatto tra Berlin e Voegelin relativamente al problema del monismo
possono essere colti e apprezzati proprio nella misura in cui si accantoni il
tema della validità scientifica della loro storia delle idee e si guardi invece
a quest’ultima come una riflessione sul (e contro il) monismo e, in senso
lato, come il loro particolare modo di “fare” pensiero politico.
Per Berlin, la fiducia nella applicabilità ed “esportabilità” del metodo scientifico allo studio e alle comprensione del mondo umano, sociale,
politico aveva poi trovato una piena espressione – sebbene con modalità
teoriche particolari, non identiche a quelle tipiche dell’illuminismo – nel
diciannovesimo secolo, nel secolo del positivismo e di Auguste Comte, che
Berlin considerava il discepolo di illustri rappresentanti del determinismo
in chiave scientifica quali Condorcet e St. Simon.363
Non era un caso che proprio nella temperie positivista, da Berlin
descritta come “imbevuta” di scientismo, fosse nata una disciplina quale
la sociologia che, a suo giudizio, aveva un carattere deterministico poiché
vedeva nel comportamento umano e sociale il risultato di fattori esterni che
sul tema del monismo – alla effettiva storia dell’illuminismo e della filosofia illuminista.
362
I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., pp. 56 ss.
363
Ivi, p. 79.
155
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
potevano essere spiegati attraverso un metodo rigorosamente scientifico.364
Era stato Comte, osservava Berlin, a svolgere nell’800 un ruolo decisivo nello sviluppo di una simile concezione. Con una argomentazione e
toni che ricordavano ancora una volta quelli utilizzati proprio da Voegelin
nella sua History of Political Ideas, Berlin attribuiva al filosofo positivista francese l’obiettivo molto ambizioso di elaborare “an all-embracing
pyramid of scientific knowledge” che potesse spiegare qualsiasi cosa.365
E ciò, sottolineava Berlin, presupponeva la convinzione (deterministicoscientifica) che “men are not unique, or in need of individual treatment, but,
on the contrary, like the inhabitants of the animal, vegetable and mineral
kingdom, belong to types and obey general laws”.366 Nella loro storia delle
idee Berlin, sia Voegelin attaccavano duramente questa particolare visione
epistemica e filosofica.
Insieme a Comte, secondo Berlin, altri due filosofi dell’800 avevano
contribuito, sebbene da prospettive filosofiche e teorico-politiche differenti,
ad affermare e difendere una concezione sostanzialmente deterministica
della realtà umana, storica, politica e sociale, ossia Hegel e Marx: il primo,
per Berlin, rappresentava il determinismo nella sua versione idealista, laddove il secondo, insieme a Comte, il determinismo di carattere “scientifico”.
Come per gli altri scritti berliniani precedentemente discussi – e in maniera
analoga a Voegelin – anche in Historical Inevitability l’interesse principale
del pensatore inglese era concentrare la propria attenzione (e critica) sugli
elementi che, a suo giudizio, avvicinavano intellettuali e filosofi non necessariamente appartenenti allo stesso secolo o alla stessa scuola di pensiero.
Questo modo di declinare la storia delle idee trovava la sua piena legittimità
nella convinzione nutrita da Berlin che le idee appartenevano sì ad un particolare contesto storico ma possedevano anche una natura “trans-storica”.367
In Historical Inevitability, Berlin sembrava richiamarsi al suo studio
del 1939 e in particolare ad una linea interpretativa che egli aveva già allora
espresso chiaramente: in una prospettiva di storia delle idee, a suo giudizio,
364
Ivi, pp. 79-80.
365
Ivi, p. 79.
366
Ibidem.
367
Si veda il Cap. IV.
156
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
esistevano importanti analogie e punti di contatto tra il padre dell’idealismo
tedesco e il filosofo di Treviri. Entrambi, secondo Berlin, ritenevano che
l’uomo, la storia, la società, la politica potessero essere pienamente compresi
a partire da una “natura più ampia” che per Hegel era “spirituale”, mentre
per Marx era “materiale”. Secondo Berlin, nelle concezioni filosofiche e
filosofico-politiche che i due pensatori tedeschi avevano elaborato, la vita
umana appariva sottoposta a (e determinata da) “forze” più grandi e più
complesse di ciascun singolo individuo e che, giunte ad un certo grado e
livello di “sviluppo”, non potevano far altro che deflagrare in grandi cambiamenti, dal carattere – ad esempio per Marx – rivoluzionario.368
Berlin sintetizzava così la componente deterministica che egli considerava comune all’opera di Hegel e di Marx:
then (as both Hegel and Marx notoriously believed) the crucial moments of advance
are reached; these always take form of violent, cataclysmis leaps, destructive revolutions which, most often with fire and sword, establish a new order upon the ruins
of the old. Inevitably, the foolish, obsolete, purblind, home-made philosophies of the
denizens of the old establishment […] are swept away.369
Nella connotazione sostanzialmente deterministica che, a suo giudizio,
era sottesa sia all’opera di Hegel sia a quella di Marx, Berlin ravvedeva
un’altra implicazione filosofica, etica, psicologica e politica rilevante, ossia
la convinzione che l’“historical process” (per Hegel legato alla realizzazione
dello Spirito, per Marx alla vittoria della classe proletaria sull’iniquo sistema capitalista) potesse essere compreso solo da pochi uomini intelligenti,
ossia pochi eletti: “both Hegel and Marx – scriveva Berlin – conjure up an
image of peaceful and foolish human beings, largely unaware of the part
they play in history, building their homes with touching hope and simplicity upon the green lopes of what seems to them a peaceful mountain side”,
alla quale venivano contrapposti coloro che erano invece ben consapevoli
di quale “direction in which the world is inexorably moving” e che, forti di
tale consapevolezza, erano disposti a seguirla (e annunciarla).370
Già nel saggio giovanile del 1939, Berlin aveva dichiarato quali erano,
368
I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., pp. 60-61.
369
Ivi, p. 61.
370
Ibidem.
157
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
per lui, le implicazioni filosofiche, etiche e politiche più sinistre in una simile Weltanschauung; quattordici anni più tardi egli tornava a riaffermarle
ma in un contesto di riflessione ben più ampio e articolato che riguardava
la natura e il significato delle concezioni deterministiche nella storia delle
idee. Che fossero teleologiche, metafisiche o scientifiche, che si ispirassero a qualche principio religioso o alla esaltazione del metodo scientifico
applicato alla realtà umana o sociale, che fossero professate da D’Holbac,
Comte o Marx, tutte le declinazioni e le forme assunte dall’atteggiamento
deterministico erano accomunate da un elemento di grande rilievo, e questo sì per Berlin pericoloso e inquietante: “the elimination of the notion of
individual responsibility”.371 Il pensatore inglese poteva così scrivere:
If the history of the world is due to the operation of identifiable forces other than, and
little affected by, free human wills and free choices (whatever these occur or not),
then the proper explanation of what happens must be given in terms of the evolution
of such forces. And then there is the tendency to say that not individuals, but these
larger entities, are ultimately «responsible».372
Una volta messo in discussione il principio di responsabilità individuale, per Berlin, azioni come “lodare”, “biasimare”, esprimere un qualsiasi
tipo di giudizio, un giudizio di valore, perfino provare sentimenti come il
rimorso per un gesto o il rimpianto per una decisione non presa, l’idea di
poter operare una qualsiasi scelta erano destinati a perdere di senso e significato. La stessa ricerca storica, nella quale, per Berlin (che in tal senso non
poco era stato influenzato da Collingwood), si sarebbe dovuto dimostrare
doti come l’empatia, la “imaginative projection”, la capacità di emettere
un giudizio, sarebbe venuta letteralmente meno, perché dal punto di vista
deterministico – soprattutto se portato alle sue estreme conseguenze – la
realtà e la vita dei singoli individui non potevano essere diversi da ciò che
necessariamente e inevitabilmente dovevano essere.373
Berlin vedeva nelle concezioni e nelle filosofie deterministiche un
contenuto illiberale, non perché esse proclamassero la soppressione dei
371
Ivi, p. 63.
372
Ivi, pp. 63-64.
373
Ibidem.
158
Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo
diritti di libertà, ma perché, in nome della “necessity”, delle “laws” e della
“inevitability”, rendevano letteralmente superfluo quel principio che, a suo
giudizio, era alla base di qualsiasi forma di libertà, del concetto stesso di
libertà, ossia la responsabilità individuale.374
Il liberalismo di Berlin non era quindi una dottrina politica in senso
stretto; esso consisteva prima di tutto in una adesione personale al principio
della responsabilità individuale, a prescindere dal quale, a suo giudizio,
non poteva esistere nessuna morale: egli sembrava così appropriarsi della
lezione kantiana sul significato di morale. E allo stesso tempo, proprio in
queste pagine, la difesa del principio della responsabilità individuale e, in
ultima analisi, della libertà individuale contro le concezioni deterministiche
significava anche rivendicare l’esistenza, l’importanza e il senso stesso della
ricerca storica che, per Berlin, non aveva a che fare con il mondo inanimato,
soggetto alle leggi della necessità, bensì con quello degli uomini.375
In Historical Inevitability possiamo così cogliere pienamente alcune
delle caratteristiche del pensiero liberale di Berlin: esso non aveva nessuna
connotazione sistematica, veniva a definirsi in contrapposizione alle concezioni deterministiche, e quindi al monismo filosofico, etico, conoscitivo
al quale, per Berlin, proprio quelle stesse concezioni appartenevano. Il
pensatore inglese non parlava di totalitarismo, almeno non dichiaratamente e scopertamente; tuttavia il suo saggio del ‘53 era percorso da una
questione fondamentale, ossia capire su quale ‘terreno ideale’ si fossero
innestati ideologie e regimi politici dispotici fino ad arrivare, appunto, a
quelli totalitari. Parte integrante (forse perfino preponderante) di questo
‘terreno ideale’ sembravano essere concezioni dal carattere deterministico
che, per Berlin, non potevano essere pienamente comprese a prescindere
da un certo scientismo illuminista e positivista. In Historical Inevitability
la storia delle idee veniva a manifestare chiaramente la sua doppia valenza:
essa era lo strumento per indagare il determinismo e quindi, attraverso esso,
il monismo, ma al contempo il modo in cui Berlin commentava e criticava
le concezioni deterministiche, e quindi il modo in cui egli declinava la storia
delle idee, diventavano funzionali ad esprimere la sua visione filosofica e
374
Ivi, pp. 61-68.
375
Ivi, pp. 68 ss.
159
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
politica che parlava di libertà anzitutto come responsabilità individuale e
che, neppure troppo nascostamente, poneva la libertà quale valore e principio da difendere contro, in questo caso, quelle visioni (non solo filosofiche
ma inevitabilmente anche politiche) che, a suo giudizio, riconducevano
la vita umana nella sua complessità, morale, sociale e politica entro uno
schema onniesplicativo, che parlava di leggi del processo storico, di fini
ultimi verso i quali tendere o ancora di una “reality” vera da contrapporre
alla “appereance”.
Nel pensiero di Berlin, il legame tra la sua indagine sulla lunga
genealogia di idee e visioni che, a suo giudizio, aveva contribuito a nutrire
sistemi e ideologie oppressivi e il suo spirito liberale sarebbe emerso con
grande forza, alcuni anni più tardi, nei suoi Two Concepts of Liberty.
160
Cap. VI - Monismo e libertà positiva
CAPITOLO VI
MONISMO E LIBERTÀ POSITIVA
6.1 La libertà in una prospettiva monistica
Negli anni ‘50 fare storia delle idee significava, per Berlin, indagare
il percorso e la traiettoria compiuti nei secoli da quelle idee, concezioni,
ideologie che condividevano un carattere monistico. La sua riflessione
su questo problema aveva una connotazione teorico-politica e ideologica
forte: essa rifletteva la sua idealità liberale. Quest’ultima emergeva già, a
nostro giudizio, da Historical Inevitability ma, ancor più, da Two Concepts
of Liberty, in cui l’indagine sul monismo si andava a legare a quella sulla
(celebre e altrettanto contestata) distinzione tra libertà positiva e libertà negativa. Distinzione che veniva tracciata su due livelli di analisi strettamente
intrecciati, quello della storia e delle idee e quello della filosofia politica, e
nella quale sembravano riversarsi e ‘precipitare’ le considerazioni, i rilievi
e le critiche delle sue opere precedenti. Nelle prossime pagine vorremmo
anzitutto mostrare come la concezione della libertà positiva fosse strettamente collegata alla questione di monismo e come nella Prolusione del 1958
Berlin elaborasse una contrapposizione diretta tra libertà positiva e libertà
negativa che ne presupponeva un’altra, più profonda, quella tra monismo
e pluralismo. A nostro giudizio, le finalità sottese a questo tipo di ragionamento erano essenzialmente due: da un lato, analizzare (e denunciare)
quella che, secondo Berlin, era la distruzione del significato più profondo
e umano di libertà nei regimi liberticidi e, dall’altro, difendere altresì una
visione liberale e pluralistica di libertà non solo come risposta a ciò che era
accaduto nel passato ma anche in rapporto al nuovo ordine politico forgiato
dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
La distinzione che Berlin poneva tra libertà negativa e positiva è ben
conosciuta: laddove la prima era intesa dal pensatore inglese, in linea con
la tradizione liberale di Constant, Burke, Paine, Tocqueville, Mill, come
“area of non-interference”, ossia come quello “spazio” ideale nel quale
161
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
ciascun individuo poteva essere al riparo da ingerenze ed eventuali abusi
commessi dalla autorità pubblica, la seconda assumeva, invece, i contorni
della libertà in senso più schiettamente democratico, ossia la libertà come
“self-government”, in altri termini come governo di se stessi.376
Se alla libertà in senso negativo era sottesa la domanda “«How far does
government interfere with me?»”, a quella in senso positivo era invece sottesa una domanda, per Berlin, profondamente differente, ossia “«who rules
me?»”.377 Ora, è indubbio che nella Prolusione del 1958, letta in onore del
conferimento della cattedra Chichele di Political Theory, Berlin esprimesse
una chiara e personale adesione al concetto negativo di libertà, ossia alla
libertà in senso liberale, ma il senso della distinzione da lui elaborata e del
suo atteggiamento critico nei confronti della libertà positiva vanno molto al
di là di un simile (facile) schematismo. Entrambi dovrebbero essere collocati
e compresi in un contesto di riflessione che era anzitutto – e continuava ad
essere – orientata a comprendere il rapporto tra monismo, da un lato, e le
ideologie e sistemi totalitari dall’altro. Tra questi, il comunismo sovietico
rappresentava il principale bersaglio del pensatore inglese: molti anni più
tardi, nella sua intervista a S. Lukes, Berlin avrebbe ammesso che Two
Concepts of Liberty era indirizzato contro il regime sovietico, e che esso
era prima di tutto scaturito dalla: “mia indignazione per tutti gli inganni
marxisti, per tutte quelle chiacchiere sulla vera libertà, per il gergo stalinista e comunista della libertà autentica. Popper ha ragione: questi discorsi
costano vite innocenti”.378
E per sottolineare con ancora maggiore forza quanto affermato, Berlin
aggiungeva che il messaggio politico della sua Prolusione era (e doveva
essere considerato) dichiaratamente “antimarxista”.379
In tal senso, senza per questo voler scivolare in interpretazioni eccessivamente unilaterali e riduzionistiche, la Prolusione può essere ricondotta
a pieno titolo nell’alveo del Cold War Liberalism. Era anzitutto al monismo
nella sua versione sovietica che Berlin pensava alla fine degli anni ‘50 ed
376
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 123.
377
Ivi, pp. 130-131.
378
I. BERLIN, Tra filosofia e storia delle idee, cit., p. 62
379
Ibidem.
162
Cap. VI - Monismo e libertà positiva
è anche alla luce di una simile considerazione che dovrebbe essere interpretata la sua concezione della libertà positiva. Tuttavia, ci pare opportuno
sottolineare come la critica alle implicazioni monistiche della libertà in senso
positivo non significasse in alcun modo che Berlin fosse contro la libertà
democratica e a favore solo e soltanto di una libertà liberale.380
La storia delle idee mostrava, secondo Berlin, come il significato
originario di libertà positiva fosse stato alterato, distorto, piegato, usato e
interiorizzato da ideologie oppressive e liberticide. In quale modo era possibile che fosse avvenuto ciò? Questa era una delle domande fondamentali
che Berlin si poneva nel suo famoso saggio. Alla base della libertà positiva
c’era, a suo parere, il desiderio e la volontà dell’individuo di essere “his
own master”, ossia – per usare un termine di reminescienza roussoviana – il
desiderio di una perfetta autonomia.381
Secondo una prospettiva di storia delle idee, per Berlin, il principio
del “self-government” era stato declinato nel tempo come l’affermazione
del “True self”, “higher” rispetto a quello “false” e “lower”, e inoltre come
l’imposizione dell’“Ideal self” su quello “empirical”.382 Tale distinzione,
che veniva ricondotta dal pensatore inglese ad alcuni dei principali filosofi
del ‘700 illuminista (ma non solo), possedeva, a suo giudizio, una forte
implicazione monistica che emergeva in modo compiuto laddove la realizzazione del “True self” e il conseguimento della piena autonomia, venivano
a identificarsi totalmente con “specific principle or ideal in order to attain
the selfsame end”.383 Principio o ideale che potevano essere quelli professati
da un dittatore, da un folle visionario o da un Leader totalitario. Berlin cercava dunque di spiegare e dimostrare la connessione tra un certo modo di
concepire la libertà positiva, la visione monistica e l’esistenza di ideologie
e sistemi liberticidi individuando, come era suo solito, alcuni grandi idee
e grandi pensatori che avevano lasciato una impronta durevole nella storia
380
Nella intervista condotta da S. Lukes, così Berlin si esprimeva: “la libertà negativa è
fondamentale, ed è fondamentale anche la libertà positiva. Sono entrambe forme di libertà
di grandissimo valore che tutti vogliamo. Io non sono affatto contrario alla libertà positiva,
correttamente intesa. Ma non sono la stessa idea, e possono entrare in conflitto”. Ibidem.
381
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 131.
382
Ivi, p. 132.
383
Ivi, p. 134.
163
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
delle idee (filosofiche e politiche). Le origini della distinzione fra “True
self” e “False self” potevano essere ricondotte – secondo Berlin – a Kant,
uno dei maggiori esponenti del razionalismo illuminista tedesco, secondo
il quale la libertà comportava anzitutto la capacità di ciascun individuo di
resistere e controllare i propri desideri e quindi, in ultima analisi, la capacità
di seguire la ragione.384
In Kant, la libertà costituiva la condizione per esercitare un comportamento pienamente morale e in ciò Berlin ravvedeva uno dei principi
cardine dell’“umanesimo liberale” e uno dei motivi alla base della critica
radicale che il Filosofo di Königsberg aveva condotto contro ogni forma di
paternalismo, ossia contro ogni forma di autorità che ponesse sotto tutela la
vita dei cittadini, e contro la quale lo stesso Berlin si era scagliato nel suo
Political Ideas of the Twentieth Century.385 Tuttavia, nella idea che esistesse
una connessione profonda, necessaria tra ragione e libertà, Berlin sembrava
individuare una implicazione pericolosa proprio per il principio di libertà
(negativa) e quindi per la libertà individuale.386
Nell’ottica di Berlin, il rapporto tra ragione e libertà, o meglio l’idea che
si potesse essere liberi per mezzo e attraverso la ragione, sembrava essere
stato declinato secondo due direzioni sostanzialmente monistiche, a loro
volta strettamente intrecciate l’una all’altra, e che in questa sede tratteremo
separatamente soprattutto per ragioni di sistematicità e chiarezza espositiva. Da un lato, c’erano stati pensatori che si erano principalmente posti
il problema di come raggiungere l’autodeterminazione in termini politici
e sociali attraverso la legge, dall’altro pensatori che avevano concettualmente collegato il principio della autodeterminazione alla comprensione
della “necessità razionale” che, a loro giudizio, era sottesa a tutte le cose.
In entrambi i casi, per Berlin, si perveniva ad una concezione di libertà che
finiva per tradire il suo stesso significato.387
Al primo gruppo appartenevano autori, filosofi, pensatori storicamente
distanti l’uno dall’altro, Spinoza, Locke, Rousseau, Fichte, T.H. Green e
384
Ivi, pp. 138 ss.
385
Ivi, p. 138; si veda Cap. IV, par. 2.4. del nostro volume.
386
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., pp. 146 ss.
387
Su questo specifico aspetto torneremo tra breve.
164
Cap. VI - Monismo e libertà positiva
molti altri, accomunati però, secondo Berlin, dalla convinzione che l’ubbidienza a leggi razionali avrebbe reso l’uomo libero. Il pensatore inglese
ricordava allora il padre della Ethica more geometrico demonstrata che
parlava della costrizione quale forma di libertà, ogni qualvolta essa veniva
esercitata nell’“interesse” di chi la subiva o Locke, secondo il quale “where
there is no law there is no freedom”.388
L’esempio principale di questo filone di pensiero, per Berlin, era però
Rousseau la cui fondamentale preoccupazione era stata individuare quella
forma di organizzazione politica e sociale che permettesse agli uomini
di rimanere liberi (autonomi), pur sottomettendosi alle leggi (ossia ad un
principio eteronomo). La soluzione delineata dal Ginevrino era stata il
Contratto sociale sulla base del quale le leggi cessavano di essere strumenti
di oppressione, trasformandosi nella espressione della volontà generale.389
Berlin osservava così che “liberty, so far from being incombatible with
authority, becomes virtually identical with it”.390 Se la legge era razionale,
se si richiamava ai dettami della ragione, ubbidire ad essa significava essere
veramente liberi.391 E questa stessa idea di libertà era, per Berlin, caratteristica del razionalismo illuminista e di tutte le “declarations of the rights
of man in the eighteenth century, and of all those who look upon society as
a design constructed according to rational laws of the wise lawgiver” o di
qualsiasi altra entità e soggetto che rivendicasse per sé il monopolio della
ragione.392
Berlin sembrava poi identificare un secondo gruppo di pensatori che,
a suo giudizio, parlavano sì di ragione e libertà ma più precisamente in rapporto alla possibilità di individuare la “necessità razionale” insita nella realtà
umana, sociale e politica. Fra questi, ancora una volta, Berlin identificava
una certa parte degli illuministi, i quali, come peraltro aveva già affermato
in Historical Inevitability, avevano proposto di estendere il prodigioso metodo scientifico allo studio della società, poiché la conoscenza razionale e
388
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 147.
389
Ivi, p. 148.
390
Ibidem
391
Ibidem.
392
Ibidem.
165
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
quindi oggettiva di quest’ultima avrebbe permesso di capire quali erano i
veri fini dell’uomo, trasformando radicalmente il mondo e liberando l’uomo
dal peso della ignoranza.393
Questo stesso principio, secondo Berlin, riemergeva nei pensatori del
secolo successivo, i quali, pur nella loro originalità e peculiarità, sembravano condividere con i filosofi del secolo precedente la convinzione che
la storia, la società umana seguissero particolari leggi e regolarità, e che la
comprensione (razionale) di queste ultime potesse rendere gli uomini liberi,
felici ed emancipati:
Herder, Hegel, Marx – scriveva Berlin – substituted their own vitalistic models to
social life for the older, mechanical ones, but believed, no less than their opponents,
that to understand the world is to be freed. […] One must also understand history,
that is, the peculiar laws of continuous growth, whether by «dialectical» conflict or
otherwise, that govern individual and groups, in their interplay with each other.394
Nell’illuminismo così come nell’idealismo, nel materialismo scientifico
e finanche nel positivismo ottocentesco, Berlin individuava non solo una
Weltanschauung sostanzialmente deterministica ma anche la certezza che
la comprensione razionale di ciò che esisteva era la condizione per essere
liberi, poiché solo attraverso tale comprensione gli uomini avrebbero potuto
riconoscere “their own part in the working of a rational world”, e quindi la
direzione della storia e della umanità.395
A ben vedere, Berlin aveva affermato tutto questo non solo nel suo
saggio sulla inevitabilità storica ma anche nel suo Karl Marx. His Life and
Environment del ‘39. Nella Prolusione del ‘58 il filosofo di Treviri e il suo
pensiero tornavano a rivestire un ruolo importante nel ragionamento di
Berlin sul significato di libertà positiva. Alla base del materialismo storico
c’era infatti, secondo Berlin, la convinzione che solo una corretta visione
della reale natura delle istituzioni politiche ed economiche alle quali gli
uomini erano soggetti in un particolare momento storico, ossia la corretta
comprensione – che poteva essere raggiunta soltanto ad un certo “livello
di sviluppo sociale” – di quanto tali istituzioni non fossero né oggettive,
393
Ivi, p. 142.
394
Ibidem.
395
Ibidem.
166
Cap. VI - Monismo e libertà positiva
né universali, avrebbe avviato un processo di liberazione e trasformazione.
Così Berlin sintetizzava il messaggio politico e rivoluzionario di Marx:
we are enslaved by despots – institutions or beliefs or neuroses – which can be
removed only by being analysed and understood. We are imprisoned by evil spirits
which we have ourselves – albeit not consciously – created, and can exorcise them
only by becoming conscious and acting appropriately: indeed, for Marx understanding is appropriate action. I am free, and only if, I plan my life in accordance with
my own will.396
Il punto, per Berlin, era che in Marx, una volta compreso il senso delle
cose, la direzione della storia, una volta raggiunta la comprensione delle
leggi sottese alla realtà sociale ed economica, la volontà stessa si sarebbe
inevitabilmente adeguata alle “necessities of things”.397 In tal senso, Berlin
poteva osservare che in Marx “knowledge liberates not by offering us more
open possibilities amongst which we can make our choice, but by preserving us from the frustration of attempting the impossible”.398 È C. Hatier a
sottolineare come, per Berlin, la concezione filosofica e politica di Marx
“is nothing but the assertion that there is an inherent logic of history, a telos
in the Aristotelian sense that indicates the possibility of giving sense and
meaning to the past and present, as well as predicting the future”.399
E questa considerazione può essere parimenti estesa al Marx del quale
Berlin parlava nello studio monografico del ‘39, a quello di Historical Inevitability e infine, appunto a quello di Two Concepts of Liberty. In tutte e
tre queste opere l’interpretazione critica del pensiero di Marx rappresenta,
a nostro avviso, uno dei punti di contatto più profondi tra la riflessione
di Berlin e quella di Voegelin sul monismo. In Marx Voegelin criticava
i progetti di palingenesi totale, laddove Berlin sottolineava piuttosto la
connessione, per lui del tutto perversa, fra necessità e libertà ma, al di là di
396
Ivi, pp. 143-144.
397
Ivi, p. 144.
398
Ibidem.
399
C. HATIER, op. cit., p. 770. Secondo lo studioso inglese l’interpretazione berliniana in
chiave monistica di Marx avrebbe influenzato profondamente un altro celebre pensatore
anti-marxista quale Tzvetan Todorov che in Facing the Extreme: Moral Life in Concentration
Camps descriveva la concezione marxista del destino umano in termini di “iper-determinismo”.
C. HATIER, op. cit., pp. 770-771.
167
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
queste distinzioni, entrambi pensavano di scorgere nell’opera del filosofo
di Treviri la tendenza monistica a dare delle realtà una spiegazione univoca,
assoluta, esaustiva, scientificamente comprovata, la tendenza a proporre e
legittimare uno schema onniesplicativo.
Al contempo, ci sembra che il Marx interpretato da Berlin finisse per
assomigliare (e non poco) a Spinoza, che in effetti veniva evocato, in alcuni
passi della Prolusione, come uno dei grandi esponenti di quella lunga progenie di pensatori che dall’antichità classica in poi avevano parlato della vera
libertà quale comprensione della necessità razionale che regolava il mondo.400 Tuttavia, aspetto ben più importante, è osservare come la particolare
lettura (molto simile a quella di Voegelin) che Berlin dava in queste pagine
del filosofo di Treviri era funzionale a riflettere sul significato di libertà
positiva in rapporto al problema del monismo. Il tipo di libertà alla quale
si perveniva seguendo la via razionalista e deterministica era, per Berlin,
quello della autodeterminazione, laddove con questo termine si finiva per
indicare una condizione nella quale l’individuo era libero nella misura in cui
comprendeva la necessità razionale delle cose, si conformava ad essa e quindi era perfettamente padrone di sé e autodeterminato, perché consapevole
che non avrebbe mai potuto – razionalmente – volere ed essere altrimenti:
To want necessary laws to be other than what they necessarly are – osservava Berlin
commentando in realtà la visione filosofica deterministica alla quale egli riconduceva
Marx – is to be insane […]. The notion of liberty contained in it is not the «negative»
conception of the field (ideally) without obstacles […] but the notion of self-direction
or self-control. I am a rational being; whatever I can demonstrate to myself as being
necessary, as incapable of being otherwise in a rational society […]. I cannot, being
rational, wish to sweep out of my way.401
In altri termini, che si parlasse della libertà come ubbidienza a leggi
razionali e quindi giuste, che si parlasse della libertà come consapevolezza
della necessità razionale delle cose, si continuava a far riferimento, secondo
Berlin, a concezioni fondamentalmente monistiche perché basate sull’idea
che la complessità, i conflitti, i dilemmi, i problemi della realtà umana,
sociale, morale e politica potessero essere compresi attraverso una formu400
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., pp. 147 ss.
401
Ivi, p. 144.
168
Cap. VI - Monismo e libertà positiva
la, uno schema, un modello oggettivo, universalmente valido e vero, che
per tutti i problemi e i dilemmi ci fosse una unica soluzione corretta, che
esistesse una unica risposta giusta ai problemi (lo scientismo illuminista,
l’Idealismo di Hegel, le leggi del materialismo storico in Marx etc.), così
come fosse possibile un unico grande, incommensurabile scopo verso il
quale tendere (la creazione di una società razionale, la realizzazione dello
Spirito nel mondo, la vittoria del proletariato etc.).402
Nella Prolusione del ‘58 la riflessione che Berlin sviluppava attorno al
concetto positivo di libertà – indipendentemente dai limiti che tale riflessione aveva – non si inquadrava soltanto nel contesto della storia delle idee,
ma aveva una forte connotazione teorico-politico nella misura in cui essa
poneva la libertà positiva, in particolare il carattere monistico che Berlin
vi ravvedeva, in rapporto con i regimi liberticidi e totalitari o, per usare le
sue stesse parole, con le concezioni “nationalistic, communist, authoritarian
and totalitarian” del passato e del presente.403
Muovendo infatti dal presupposto – per Berlin alla base della libertà
positiva – che si potesse esser liberi, autodeterminarci attraverso la ragione, che cosa accadeva – si chiedeva il pensatore inglese – se un Partito, un
Capo carismatico, un movimento politico pretendevano di limitare i diritti
delle persone proprio in nome della ragione? Che cosa accadeva se quello
stesso Partito, affermando di conoscere esattamente la direzione della storia,
compiva azioni estreme, lesive della più elementare dignità umana? In altri
termini, che cosa accadeva se quel “True Myself”, il cui riconoscimento,
per Berlin, costituiva il fondamento stesso del concetto di libertà positiva,
finiva per essere incarnato da una totalità, da un gruppo o da un Leader
supremo che si assumevano il compito (ben gravoso) di imporre la ragione e quindi la libertà anche ai più recalcitranti e scettici? Queste erano, a
nostro parere, alcune delle domande profonde che caratterizzavano i Two
Concepts of Liberty:
the real self may be conceived as something wider than the individual (as the term is
normally understood), as a social «whole» of which the individual is an element or
aspect: a tribe, a race, a church, a state, the great society of the living and the dead
402
Ivi, pp. 131-144.
403
Ivi, p. 181.
169
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
and the yet unborn. This entity is then identified as being the «true» self which, by
imposing its collective, or «organic», single will upon its recalcitrant «members»,
achieves its own, and therefore their, «higher» freedom.404
In una simile prospettiva, l’uso della violenza e della costrizione nei
confronti dei singoli individui finiva così per essere giustificato come mezzo
necessario per portare alla luce la loro “latent rational will”, il loro “true
purpose”, ossia quella parte di loro che, “although it is belied by all that
they overtly feel and do and say, is their «real» self, of which their poor
empirical self in space and time may know nothing or little”.405 Era sulla
base di una simile convinzione che, per Berlin, la tortura, la oppressione,
la tirannia, ogni forma di violenza non solo diventavano comprensibili ma,
paradossalmente, anche giuste, perché strumenti per far trionfare in ciascun
individuo il “True self”, il “Rational self” e, attraverso esso, rendere tutti
veramente e completamente liberi, liberi nell’unico modo in cui essi potevano essere, ossia liberi attraverso l’autorità.406
Con questo ragionamento, così evocativo del mondo distopico immaginato da George Orwell in 1984,407 Berlin descriveva quella che, secondo
lui, era la logica di ogni ideologia totalitaria. Una logica che egli sembrava
ricondurre alla visione monistica insita, a suo giudizio, in un certo modo di
intendere la libertà. Con ciò Berlin non voleva certamente affermare che la
libertà in senso positivo portasse, se realizzata, al totalitarismo, bensì che il
carattere monistico che essa possedeva era diventato storicamente funzionale
a ideologie e regimi liberticidi. Un contenuto monistico che Berlin storico
delle idee riconduceva – in maniera analoga a Voegelin – agli influssi dello
scientismo illuminista, di quello positivista, e nello specifico a grandi
protagonisti del pensiero filosofico dell’800, quali Hegel, Comte e Marx.
404
Ivi, p. 132.
405
Ivi, p. 133.
406
Ibidem.
407
Cfr. L.M. BASSANI-M. MINGARDI, Dalla Polis allo Stato. Introduzione alla storia del
pensiero politico, Torino, Giappichelli editore, 2015, pp. 78 ss.
170
Cap. VI - Monismo e libertà positiva
6.2 Deinire il monismo attraverso il suo esatto opposto: il pluralismo
in Two Concepts of Liberty
In Two Concepts of Liberty, Berlin poneva la libertà positiva in collegamento con il problema dell’“autogoverno razionale” e quindi, in ultima
analisi, con quella frattura tra “True and Empirical self”, le cui radici ideali
venivano da lui individuate nell’opera di Kant. Per il pensatore inglese, l’implicazione monistica del concetto positivo di libertà consisteva proprio nella
pretesa, per lui comune a tutte quelle teorie, dottrine, visioni che parlavano
di libertà attraverso la ragione, di aver individuato l’unico modo corretto,
universale, razionale e oggettivo di comprendere come essere liberi. In altri
termini, sottesa alla libertà positiva era l’idea (monistica) che fosse possibile individuare la vera ed unica forma di libertà che, una volta realizzata,
avrebbe permesso a tutti di vivere nella completa armonia.
In tal senso, nella Prolusione del ‘58, Berlin non faceva altro che
sviluppare ed esplicitare una riflessione che però veniva da molto lontano.
Dai suoi esordi con Karl Marx. His Life and Environment a Historical
Inevitability, da The Sense of Reality ai suoi studi sugli intellettuali russi,
Berlin aveva cercato di (di)mostrare come la convinzione, per lui radicata
profondamente nella mente umana,408 che si potesse alla fine giungere ad
una armonia finale in grado di conciliare tutti i fini, tutte le idee, tutte le
aspirazioni attraverso la realizzazione di un grande unico e veritiero principio, fosse infondata e foriera di esiti pericolosi. Infondata perché, a suo
giudizio, essa contraddiceva il più elementare “senso della realtà” (e su
tale concetto sarebbe tornato a scrivere anche in molte opere successive
al 1958)409, pericolosa perché, in nome di un armonia finale, perfetta, definitiva si sarebbe potuto (e per lui, così come per Voegelin, era stato fatto)
commettere qualsiasi tipo di azione, assumere qualsiasi tipo di scelta. Era
nella parte finale di Two Concepts of Liberty che Berlin cercava di trovare
una sintesi efficace a questa concatenazione di ragionamenti:
408
In particolare vedi I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., pp. 167 ss.
409
Si pensi, ad esempio, ad suo saggio Concept of Scientific History, di cui abbiamo parlato
nel Cap. IV.
171
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
One belief, more than any other, is responsible for the slaughter of individuals on
the altars of the great historical ideals – justice or progress or the happiness of future
generations, or the sacred mission or emancipation of a nation or race or class, or even
liberty itself, which demands the sacrifice of individuals for the freedom of society.
This is the belief that somewhere, in the past or in the future, in the divine revelation
or in the mind of an individual thinker, in the pronouncements of history or science,
or in the simple heart of an uncorrupted good man, there is a final solution.410
In Two Concepts of Liberty, ciò che Berlin respingeva non era tanto
l’idea positiva di libertà quanto una certa forma di mentalità monistica che
egli pensava di scorgere in essa, ossia una certa tendenza al dogmatismo. In
tutte le opere fin qui discusse la riflessione di Berlin sul monismo diventava
quindi il pensiero critico (di un liberale moderatamente scettico ed empirista) su quelle idee, teorie, visioni, dottrine che avevano, a suo giudizio,
alimentato il dogmatismo e quei sistemi e ideologie liberticide dietro i quali
esso si celava. È alla luce di simili considerazioni che possiamo cogliere a
pieno il senso delle seguenti parole:
It is, I have no doubt, some such dogmatic certainty that has been responsible for
the deep, serene, unshakeable conviction in the minds of some of the most merciless
tyrants and persecutors in history that what they did was fully justifies by its purpose. I do not say that the ideal of self-perfection – whether for individual or nations
or churches or classes – it is to be condemned in itself, or that the language which
was used in its defense was in all cases the result of a confused or fraudolent use of
words, or of a moral or intellectual perversity […]. But equally it seems to me that
the belief that some single formula can in principle be found whereby all the diverse
ends of men can be harmoniously realized is demonstrable false.411
A nostro avviso è nell’ultima parte del passo appena citato che Berlin
lasciava dichiaratamente e apertamente l’ambito della storia delle idee
per quello proprio della filosofia politica. Era da questa prospettiva che il
pensatore ribadiva la sua personale avversione al monismo e, al contempo,
tornava a definirlo abbracciando l’ideale ad esso opposto, ossia il pluralismo
e in particolare il pluralismo dei valori che egli riconduceva al concetto
negativo di libertà.412
410
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 167.
411
Ivi, pp. 168-169.
412
Ivi, pp. 169-171.
172
Cap. VI - Monismo e libertà positiva
Nella storia delle idee Berlin aveva individuato quei principi, visioni,
teorie che, a suo giudizio, erano presupposti dal concetto positivo di libertà. Ma, ancora più nel profondo, egli riteneva che quei principi, visioni e
teorie fossero accomunati dalla convinzione monistica di poter individuare
un unico criterio in base al quale comprendere la realtà, in base al quale
trovare la soluzione finale alla complessità del mondo e conciliare i fini
degli uomini in unico disegno perfetto. L’idea che si potesse giungere alla
concezione corretta di libertà rispondendo alla questione “chi governa?”,
la domanda capitale che, per Berlin, caratterizzava il concetto positivo di
libertà e lo distingueva da quello negativo, rifletteva pienamente, ai suoi
occhi, tale esigenza di perfezione e verità.413
Al contrario, se si partiva dal presupposto del tutto differente, ossia
che gli “human goals are many, not all of them commensurable, and in
perpetual rivarly with one another”, allora, secondo Berlin, era necessario
riconoscere due conseguenze di grande rilievo: da un lato, si doveva per
forza rinunciare ad interrogarsi su quale fosse il principio ultimo che da
solo spiegasse la realtà e indicasse quale via percorrere per raggiungere la
vera libertà, la vera felicità, la vera pace, la vera armonia; dall’altro – sul
piano più propriamente politico – si doveva comprendere quali fossero le
condizioni utili a garantire e salvaguardare l’esigenza, per Berlin, propria
della natura umana, di “choose between ultimate values”.414
La principale fra tali condizioni, a suo parere, era porre limiti al potere,
all’autorità dei governanti. Con ciò egli non voleva sostenere che la libertà
individuale fosse l’unico “dominant criterion of social action”, che i principi
come giustizia, felicità, sicurezza non avessero alcuna importanza, né tanto
meno desiderava propugnare l’idea di una libertà illimitata.415 Egli affermava
piuttosto che tra monismo e pluralismo, il secondo era da preferire perché
esso, a suo giudizio, “with the measure of «negative» liberty that it entails,
seems to me truer and more human ideal than the goals of those who seek
in the great, disciplined, authoritarian structures the ideal of «positive» self-
413
Ivi, pp. 168 ss.
414
Ivi, p. 171.
415
Ivi, p. 169.
173
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
mastery by classes, or peoples, or the whole of mankind”.416
Nelle pagine finali di Two Concepts of Liberty, Berlin esplicitava quella
che potremmo definire la premessa ideologica sulla quale, a nostro avviso,
si basavano tutti i suoi scritti fin qui discussi, ossia la sua adesione, in un
periodo storico caratterizzato dalla guerra fredda e dalla contrapposizione
fra due modi opposti di concepire il significato di libertà e democrazia, al
pluralismo dei valori e al concetto negativo di libertà.417
Sulla compatibilità tra pluralismo e liberalismo nell’opera di Berlin
si è scritto molto e rimandiamo alla principale letteratura esistente a riguardo.418 In questa sede, vorremmo più semplicemente soffermarci sulla
contrapposizione – innegabile – tra libertà positiva-monismo, da un lato,
e libertà negativa-pluralismo dall’altro. Berlin non voleva – per sua stessa
ammissione – prendere alcuna posizione contro l’idea positiva di libertà,
eppure tra questa e quella negativa, egli parteggiava sostanzialmente per la
seconda, per una libertà in senso liberale, proprio perché egli ravvedeva in
essa una connotazione pluralistica.419
In maniera analoga ai pensatori classici della tradizione liberale europea
416
Ivi, p. 171.
417
Cfr. il commento di J. CHERNISS, Berlin’s Early Political Thought, cit., pp. 108 ss.
418
Oltre a C. CROWDER, Isaiah Berlin, cit., a J. GRAY, Isaiah Berlin, cit., e agli altri autori
citati in precedenza, cfr. A. RYAN (edited by), The Idea of Freedom. Essays in Honor of
Isaiah Berlin, Oxford, Oxford University Press, 1979; Q. SKINNER, The Idea of Negative
Liberty, in R. RORTY – J.B. SCHNEEWIND – Q. SKINNER (edited by), Philosophy in
History, Cambridge, Cambridge University Press, 1984; E. MACK, Isaiah Berlin and the
Quest for Pluralism, “Public Affairs Quarterly”, 7 (1993), pp. 141-151; C.J. GALLIPEAU,
op. cit.; W.J. GALSTON, Liberal Pluralism, Princeton, Princeton University Press, 2002;
M. LILLA – R. DWORKIN – R. SILVERS (edited by), op. cit.; A. ZAKARAS, A Liberal
Pluralism: Isaiah Berlin and J. S. Mill, “The Review of Politics”, 75 (2013), pp. 69-96. Per
una panoramica sintetica ed efficace delle principali obiezioni mosse all’idea berliniana di
libertà e di pluralismo cfr. I. HARRIS, op. cit., pp. 364-372. La maggioranza degli studi di
carattere prettamente filosofico elaborati attorno al concetto berliniano di pluralismo sembra
concorde nel ritenere che la connessione stabilita da Berlin, sin da Two Concepts of Liberty,
fra liberalismo e pluralismo non sia davvero solida, perché sembrerebbe ‘aprire le porte’ al
relativismo e allo scetticismo. Nella letteratura critica più recente la posizione di Zakaras
sembra però offrire un punto di vista alternativo; egli infatti ritiene che tale collegamento sia
di carattere essenzialmente “psicologico”, piuttosto che filosofico. A. ZAKARAS, op. cit.,
pp. 69-96. Si veda inoltre A. PLAW, Re-visiting Berlin. Why Two Liberties are Better Than
One, “Journal of International Politics”, 1 (2005), pp. 138-157.
419
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., pp. 170-172.
174
Cap. VI - Monismo e libertà positiva
– e altresì in maniera diversa da Voegelin – la questione filosofica, politica
ed etica fondamentale per Berlin era la difesa della libertà individuale e
quindi la difesa degli individui dagli abusi del potere, perché egli riteneva
che proprio in questo modo essi avrebbero potuto sviluppare ciò che pensavano potesse essere “a fullfilled human life”.420 Ci pare che l’eco della
lezione liberale di Mill fosse ben presente in queste (come in altre) pagine
di Two Concepts of Liberty.421 Del resto, era lo stesso Berlin a richiamarsi
esplicitamente alla idea, propugnata da Mill nel suo On Liberty, degli “experiments in living”, che comportava – in entrambi i pensatori inglesi – una
concezione fallibilistica della natura e della vita umane, ossia la “permanent
possibility of error”, il cui riconoscimento era, secondo Berlin, uno dei
presupposti filosofici del pluralismo di fini e valori e quindi, per converso,
della sua critica al monismo.422
Al contempo, l’adesione al pluralismo e al principio (milliano) degli
“esperimenti di vita”, con il carico di errori, fallimenti e delusioni che
questi potevano generare, significava, per Berlin, accettare la ineliminabilità dell’antagonismo e del contrasto tra le persone.423 A loro volta, sia il
pluralismo dei fini e dei valori, sia il conflitto, quali aspetti caratteristici
della vita sociale, politica, umana, presupponevano, nell’ottica di Berlin, il
riconoscimento di un principio sostanziale che, a suo giudizio, le concezioni
monistiche con la loro “sete” di perfezione e armonia non possedevano, anzi
negavano in modo deciso, ossia la libertà individuale:
To assume – scriveva Berlin – that all values can be graded on one scale, so that it
is a mere matter of inspection to determine the highest, seems to me to falsify our
knowledge that men are free agents, to represent moral decision as an operation which
a slide-rule could, in principle, perform.424
420
Ivi, p. 170.
421
Abbiamo già sottolineato infatti all’inizio del Capitolo IV come l’idea berliniana di libertà
negativa contenga non pochi riferimenti alla tradizione del pensiero liberale europeo, in particolare ad autori come Constant, Von Humboldt, Tocqueville e lo stesso Mill.
422
I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 170.
423
Ibidem.
424
Ivi, p. 171.
175
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
E questo, a ben vedere, era stato il problema filosofico e inevitabilmente politico che accomunava tutti le opere berliniane fin qui esaminate.
La letteratura ha a lungo dibattuto sul concetto berliniano di pluralismo dei
fini e dei valori, considerato da molti il vero e principale lascito filosofico
dell’opera del pensatore inglese.425 A noi preme invece sottolineare due
aspetti in particolare: la Prolusione del ‘58, con la sua difesa del pluralismo,
mostrava con forza quanto la riflessione di Berlin sul monismo si poggiasse su di un presupposto ideologico (e politico) ben preciso, alla luce del
quale diventa ancor meglio comprensibile perché certi pensatori (quali, ad
esempio, Marx) risultassero, in alcuni aspetti della loro opera, fondamentalmente distorti o fraintesi da parte di Berlin, ossia un presupposto di tipo
liberale. Un liberalismo antidogmatico, pluralista, imbevuto di una buona
dose di scetticismo, fallibilista, diffidente verso le costruzioni metafisiche
e i principi eccessivamente generali.426 Una visione che egli condivideva
con molti esponenti del Cold War Liberalism, ma che, a ben vedere, non
era certamente nata con quest’ultimo e che anzi era ben più risalente: una
visione, le cui radici affondavano nella storia del pensiero politico europeo
del ‘700 e dell’800, in pensatori e intellettuali che Berlin stesso citava come
propri punti di riferimento: Burke, Paine, Mill, Von Humboldt, Constant,
Tocqueville, solo per fare alcuni nomi. Negli anni ‘50 Berlin aveva cercato
di ricostruire le grandi genealogie di idee che, in particolare dal ‘600 fino al
‘900, avevano costituito e alimentato il monismo (filosofico, etico, conoscitivo, politico). Tuttavia, proprio quella indagine presupponeva l’adesione di
Berlin ad una certa idealità politica in aperta opposizione ai sistemi totalitari
e in particolare, per sua stessa ammissione, al mondo sovietico.427
Dalla prospettiva di storia del pensiero politico, la riflessione sulla
natura e sulla genealogia del monismo da noi delineata diventava così la
particolare risposta che da liberale anti-dogmatico Berlin dava negli anni
‘50 alle ideologie liberticide del suo secolo. Al contempo, proprio nella sua
idealità liberale è facilmente ravvisabile un elemento importante di divergenza da Voegelin. Il problema filosofico e politico principale per Berlin
425
Cfr. C. CROWDER, Isaiah Berlin, cit. e la letteratura indicata nella nota precedente n. 418.
426
J. CHERNISS, Berlin’s Early Political Thought, cit., p. 108.
427
Cfr. l’Incipit di Two Concepts of Liberty, cit., pp. 118-121.
176
Cap. VI - Monismo e libertà positiva
era la libertà e, al contempo, comprendere quei grandi complessi di idee che
nella storia avevano rigettato sia il principio della libertà individuale, sia
il principio di responsabilità individuale e, in ultima analisi, il pluralismo
di fini e valori.
Negli scritti berliniani degli anni ‘50 la storia delle idee diventava
infatti un mezzo per “fare” filosofia e pensiero politico e mettere così in
evidenza come alla base del totalitarismo ci fosse quella “volontà di domino
totale”, profondamente monistica, di cui però anche Voegelin parlava nei
suoi studi. Più precisamente, a questa “volontà di dominio totale”, Voegelin rispondeva da scienziato della politica che cercava di dare un nuovo
“ispessimento” filosofico al suo percorso di storia delle idee con The New
Science of Politics, in cui esponeva la sua teoria della rappresentanza,
laddove Berlin rispondeva con la sua teoria dei due concetti di libertà e, in
stretto rapporto a ciò, con la sua difesa del pluralismo in contrapposizione al
monismo. Il primo reagiva sul piano filosofico e teorico-politico alla esperienza del totalitarismo valorizzando il rapporto tra politica ed “elemento
trascendente”, il secondo, schierandosi a favore della libertà individuale e
della “freedom of choice”. Il punto è che, a nostro giudizio, entrambi questi
aspetti non sarebbero pienamente comprensibili se prescindessimo dalle
loro histories of ideas.
177
Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe"
CAPITOLO VII
ERIC VOEGELIN E ISAIAH BERLIN:
IL “RICCIO” E LA “VOLPE”
7.1 La complessità di una comparazione
Si è soliti dire che definire comporti inevitabilmente delimitare. Nel
nostro caso allora dovremmo riconoscere che cercare di definire Eric Voegelin e Isaiah Berlin quali storici delle idee comporti inevitabilmente tracciare
tra di loro una linea di confine, che ci consenta di cogliere (delimitandole)
le loro specifiche identità di storici delle idee.
Se guardiamo con attenzione entrambi è innegabile – come la stessa
letteratura ha sottolineato e come abbiamo ricordato nelle nostre Considerazioni introduttive – che esista una linea di confine (delimitazione) tra i
due, tra le loro opere, le loro sensibilità. Cominciamo quindi da una sintesi
ragionata delle differenze che intercorrono tra i due pensatori. Ad uno
sguardo d’insieme, Voegelin e Berlin – nel lasso di tempo da noi preso in
esame, ossia tra la metà degli anni ‘30 e la fine degli anni ‘50 – si confrontano (insieme a molti altri intellettuali) con il problema del totalitarismo,
ma avendo obiettivi e muovendo da presupposti intellettuali spesso molto
diversi. Da un lato Voegelin, che cerca innanzitutto di rifondare la scienza
politica per renderla nuovamente credibile e dissociarla in maniera decisa
e definitiva da una serie di ‘scorie’ intellettuali che, a suo giudizio, hanno
finito per renderla, nel passato, ‘ancella’ di un potere liberticida; dall’altro
Berlin, che non solo non ha nessun interesse per la political science, ma
che non ha nessuna pretesa, né desiderio di rifondare o ripensare alcunché,
tanto meno un ambito disciplinare e scientifico così complesso e articolato.
Come emerge dalla prima parte del nostro lavoro, sia l’ambizione di
ricostituire una scienza politica che sappia recuperare il rapporto tra fondamento dell’esistenza e ordine politico, sia la riflessione critica verso le
derive totalitarie e liberticide di una certa modernità paiono rimandare ad
un Voegelin che cerca, a modo suo, regole e punti fermi capaci di guidare
179
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
(invece di relativizzare) le questioni ultime: una ricerca che, a ben vedere,
è sostanzialmente estranea a Berlin.
C’è indubbiamente nell’opera di Voegelin un bisogno di individuare dei
punti fermi, sebbene non di certezze assolute e granitiche nel senso monistico del termine, che non compare in quella di Berlin. In stretto rapporto a
ciò, attraverso la nostra analisi, è emerso come il problema della modernità,
in senso lato, e, nello specifico, il problema di ripensare la modernità nella
cultura occidentale siano di grande rilevanza per Voegelin, soprattutto tra
la fine degli anni ‘40 e i primi anni ‘50, mentre sono pressoché assenti in
Berlin che, negli scritti qui presi in considerazione, non sviluppa, a nostro
avviso, alcun ragionamento su questo tema.
L’idea voegeliniana di una modernità che ha perso, o per meglio dire
rimosso, il “trascendente” a favore di un’“immanentizzazione del Divino”
(con esiti, per Voegelin, del tutto catastrofici), che ha cancellato il “metafisico” è qualcosa di profondamente estraneo non solo all’orizzonte concettuale
e intellettuale di Berlin, ma alla sua stessa sensibilità. Come è stato spiegato
nella prima parte del nostro lavoro, Voegelin si interroga a lungo (forse potremmo dire per tutta la vita) su quel processo di rimozione del “Divino”,
del “trascendente” e del “metafisico” dalla vita umana. Una rimozione la cui
responsabilità dovrebbe essere individuata, a suo giudizio, nello scientismo
illuminista e positivista, nello gnosticismo: a queste temperie culturali e
alla loro influenza di lungo periodo egli attribuisce l’affermarsi di un’idea
per lui estremamente perniciosa, perché poi messa in atto da movimenti e
partiti politici: l’idea che la mente umana e il metodo scientifico possano
disvelare, spiegare, comprendere e quindi permettere di controllare tutto,
che l’uomo sia in grado di realizzare qui ed ora la perfezione e l’armonia,
facendosi egli stesso super-uomo e finendo per sostituirsi a Dio: “l’ideologia
positivista-scientista si salda all’idea escatologica di un’apocalisse umana
intramondana”. In opere quali The New Science of Politics Voegelin pone
poi queste correnti di pensiero in diretto rapporto allo sviluppo del cosiddetto gnosticismo moderno la cui principale “colpa” è proprio di portare
alle estreme conseguenze quel processo di “immanentizzazione del Divino”,
tutto teso a esaltare “il potere assoluto della forza creatrice dell’uomo”.
A ben vedere, l’“immanentizzazione del trascendente” – per Vogelin
caratteristica dei regimi totalitari del XX secolo e, in senso lato, della mo180
Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe"
dernità – è uno degli “effetti” di lungo periodo più perversi – e che egli
esamina con gli strumenti concettuali dello storico delle idee – scaturiti da
quel monismo epistemologico e filosofico insito (come per Berlin) in una
parte della grande tradizione culturale europea e occidentale. Qui, a nostro
avviso, è possibile cogliere a pieno la ‘vicinanza’ e al contempo la ‘distanza’
intellettuale tra Voegelin e Berlin impegnati egualmente a misurarsi con il
problema della genesi del totalitarismo. Nelle vesti di storici delle idee, i
due pensatori individuano nello scientismo una delle radici intellettuali del
totalitarismo ed entrambi ravvedono in esso un carattere monistico, nella
accezione berliniana del termine. Nello specifico, sia nello scientismo di
matrice illuminista, sia in quello più propriamente positivista Voegelin e
Berlin credeno di vedere la volontà (e la fiducia) di trovare una formula,
un principio onniesplicativo attraverso cui comprendere la realtà nei suoi
molteplici aspetti e poterla dominare.
Tuttavia, la critica di Voegelin all’illuminismo appare ben più netta
e radicale di quella berliniana che – non dimentichiamolo mai – non è
anti-illuminista tout court bensì critico verso quella che egli considera una
“deriva” compiuta da una certa parte del Secolo dei Lumi.428 Consapevoli di
questa rilevante differenza tra i due, ci preme sottolineare come la critica del
pensatore tedesco al carattere monistico di alcune concezioni epistemiche e
filosofiche del ‘700 e dell’800 assuma una forma non del tutto coincidente
con quella del pensatore inglese: per Voegelin tale carattere rimanda inevitabilmente, come abbiamo osservato nella prima parte del nostro studio,
alla negazione da parte dell’uomo di tutto ciò che è “metafisico” e “trascendente”, laddove in Berlin esso si collega più direttamente alla negazione del
pluralismo (così come questo viene definito in Two Concepts of Liberty)
e di ogni forma di libertà e responsabilità individuali. Relativamente alle
considerazioni appena espresse, possiamo quindi cogliere con una certa
chiarezza come nel caso di Berlin la riflessione sulle radici intellettuali
del totalitarismo abbia una implicazione di tipo liberale, di un liberalismo
riconducibile per molti aspetti al Cold War Liberalism e per altri alla tradizione del liberalismo classico.
In tal senso, proprio i vari e interessanti elementi di diversità, che si
428
Su questo aspetto rimando alla importante precisazione contenuta in M. IGNATIEFF, op.
cit., p. 218.
181
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
sono ‘dipanati’ sotto i nostri occhi, acquisiscono, a nostro giudizio, un rilievo particolarmente forte sul piano del pensiero politico se prendiamo in
esame il problema della rappresentanza in Voegelin e quello della libertà
(in senso positivo e negativo) in Berlin. In The New Science of Politics,
il pensatore tedesco affronta il problema della rappresentanza in rapporto
alla tenuta dei sistemi liberal-democratici che non hanno saputo far fronte
all’ascesa del totalitarismo e che, anche dopo la fine della Seconda guerra
mondiale, appaiono ai suoi occhi tutt’altro che solidi. Egli identifica così
tre tipologie di rappresentanza e invita ad “allargare” la “rappresentanza
elementare ed esistenziale” a quella più propriamente “trascendente”, ossia
a quel tipo di rappresentanza che, a suo giudizio, sola e soltanto rimanda
ad una conoscenza dell’uomo nella sua complessità, ad una apertura verso
la trascendenza, e che rifiuta l’idea di poter individuare un singolo criterio
in grado di spiegare l’intera realtà umana.
È nel quadro di una simile riflessione che Voegelin pensa alla creazione
di una società antitetica a quella monistico-totalitaria, ossia pensa ad una
società “pluralistica”. Di pluralismo parla anche Berlin nel 1958, ma in
termini ben diversi da quelli di Voegelin.
Prima di tutto, il concetto di pluralismo in Voegelin è sostanzialmente
collegato alla questione della/e rappresentanza/e, laddove in Berlin alla distinzione tra libertà positiva e libertà negativa. Inoltre, in The New Science
of Politics Voegelin parla della debolezza dei sistemi liberal-democratici
post-bellici, che egli identifica proprio con la difficoltà a recuperare il rapporto tra “immanenza e trascendenza”, mentre Berlin in Two Concepts of
Liberty tesse – e, in tal senso, emerge la sua vicinanza ai Cold War Liberals
– una difesa di quella che potremmo definire una concezione prima di tutto
anche se non esclusivamente liberale della libertà, prendendo una posizione
dichiaratamente anti-stalinista e anti-sovietica. Tra gli anni ‘40 e ‘50 è nel
regime sovietico che Berlin vede la realizzazione piena della logica e della
visione monistico-totalitaria dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
È la Russia sovietica ad essere il suo bersaglio polemico principale, sebbene – come abbiamo osservato – egli abbia un atteggiamento tutt’altro che
accomodante e accondiscendente verso le democrazie liberal-occidentali
e le loro (per lui) pericolose inclinazioni paternalistiche e tecnocratiche.
Ora, tenendo presente queste ultime considerazioni, Voegelin e Berlin
182
Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe"
sembrano prendere, rispettivamente, le sembianze del “riccio” e della “volpe”. Laddove il primo elabora una vera e propria dottrina della rappresentanza che, a sua volta, non sarebbe pienamente comprensibile se non facessimo
riferimento al suo impegno per una ri-fondazione della scienza politica, il
secondo, che invece rimane ‘ancorato’ ad un certo modo di interpretare il
‘mestiere’ di storico delle idee, è piuttosto interessato a individuare le origini
intellettuali della libertà positiva e negativa. È indubbio che Voegelin (in
maniera analoga a Berlin) non pretenda di indicare i “principi di un ordine
politico nuovo”, eppure egli sembra voler tracciare una via attraverso la
quale irrobustire i sistemi liberal-democratici ricostituiti dopo il crollo dei
regimi totalitari, rendendoli all’altezza delle sfide del loro tempo. Berlin
pare piuttosto interessato a raccontarci (e usiamo questo termine in maniera deliberata) quale tipo di libertà si adatta di più, secondo lui, ad una
vita umana degna di questo nome, poiché fondata sul rispetto delle libertà
individuali, del pluralismo dei valori e dell’idea che si possano compiere
scelte anche sbagliate.
È certo che entrambi siano due intellettuali anti-dogmatici: del resto,
in questa sede, abbiamo deciso di sviluppare una riflessione su Voegelin
e Berlin storici delle idee profondamente critici verso quelle concezioni e
correnti di pensiero (monistiche) che, a loro giudizio, hanno ‘nutrito’ i totalitarismi proprio perché, tra le tante ragioni, profondamente dogmatiche.
Tuttavia, il loro anti-dogmatismo è di segno abbastanza diverso: Voegelin
è anti-dogmatico pur cercando e credendo nella possibilità di individuare
qualche forma di verità e certezza. Osserva correttamente a riguardo Jan
Werner Müller:
Voegelin’s quest for certainty is in many way intertwined with the post-war liberalism
firmly relying on some form of transcendence, «objective reason», natural law or
other forms of certainty – the very opposite, in short, of liberalism concerned with
interminable conflict, uncertainty, value pluralism.429
429
J.W. MÜLLER, Fear and Freedom cit., p. 31. Proprio nelle sue Foundations of Democracy,
Kelsen finiva per porre il pensiero di Voegelin e in particolare la teoria della rappresentanza
trascendente in diretto rapporto con quello dei grandi teorici del neogiusnaturalismo cristiano
come Maritain, Brunner e Niebuhur, bersagli delle accese critiche di Kelsen, convinto sostenitore, invece, di una fondazione laica, positivistica e relativistica della democrazia. Nel
concetto voegeliniano di rappresentanza infatti Kelsen vedeva lo stesso bisogno di assoluto
183
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
Berlin non manifesta mai questo tipo di esigenza. Da tutte le sue
opere qui prese in esame emerge, invece, in tutta la sua chiarezza e forza,
la vena, per alcuni aspetti, un po’ scettica del pensatore inglese. Ad uno
sguardo di insieme, sia Voegelin, sia Berlin sono favorevoli al principio di
libertà così come esprimono una sostanziale simpatia verso le istituzioni
liberal-democratiche anche se, nel caso del pensatore tedesco, tale adesione è molto più problematica rispetto a quella berliniana e non presuppone
alcuna esaltazione della libertà individuale che, invece, riveste un ruolo di
primo piano nell’opera dello storico delle idee inglese.
Se poi passiamo dal piano dei contenuti a quello della forma, ci accorgiamo inoltre che le differenze tra il “riccio” Voegelin e la “volpe”
Berlin sono altrettanto rimarchevoli: Voegelin ha uno stile classicamente
accademico; le sue opere hanno rimandi testuali, apparati bibliografici che
permettono, come abbiamo cercato di sottolineare nella prima parte del
nostro lavoro, di rintracciare e ricostruire i suoi punti di riferimento intellettuali principali. Del resto, sarebbe sufficiente ricordare che la sua poderosa
History of Political Ideas viene inizialmente concepita come un “college
textbook” capace di “rivaleggiare” con il celebre manuale di G. Sabine.
Berlin si colloca su una posizione diametralmente opposta: anzitutto,
come abbiamo già avuto modo di osservare, coloro che vogliano comprendere l’esatto percorso genealogico del pensiero di Berlin quale storico delle
idee e filosofo politico attraverso i rimandi e richiami espliciti da parte di
quest’ultimo nei confronti di determinati autori e figure – come, invece,
possiamo fare per il “riccio” Voegelin – andrebbe incontro ad una cocente
delusione. Dagli scritti berliniani qui discussi possiamo evincere, con una
certa sicurezza, l’influenza (per usare un termine ed una categoria cara agli
storici delle idee) che su di lui è stata esercitata dal magistero dei grandi pensatori liberali europei, Burke, Von Humboldt, Tocqueville, Mill, e possiamo
anche concordare con chi, come B. Yack, lo ha accusato di aver distorto (e
travisato) in senso monistico alcuni dei grandi rappresentanti della tradizione illuminista, ma certamente non riusciremo a rintracciare con precisione
matematica le sue fonti (o soltanto una parte di esse).430 Semplicemente, i
che egli attribuiva ai neogiusnaturalisti. H. KELSEN, Foundations of Democracy, “Ethics”,
LXVI (1955), pp. 1 ss.
430
B. YACK, The Significance of Isaiah Berlin’s Counter-Enlightenment, “European Journal
184
Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe"
suoi saggi non sono ricchi di note nè di riferimenti bibliografici. Questo
aspetto ha probabilmente contribuito ad alimentare la critica che gli è stata
rivolta, ossia di non essere mai stato realmente interessato ad analizzare in
modo approfondito le opere di un certo autore o lo sviluppo di una certa
concezione filosofica, quanto a riflettere e proiettare su determinati pensatori
le sue convinzioni e la sua idealità.431
A ulteriore testimonianza della distanza di forma tra il “riccio” Voegelin e la “volpe” Berlin, ricordiamo inoltre che, con l’eccezione del suo
studio su Karl Marx. His Life and His Environment, il pensatore inglese
non ha mai prodotto una ricerca di tipo tradizionalmente monografico.432
Il suo stile argomentativo e di scrittura preferito e prevalente è quella del
saggio e, in alcuni casi, quello delle lettere personali: basti ricordare i monumentali volumi pubblicati in tutti questi anni che raccolgono l’ampio e
variegato carteggio berliniano.433 L’“essay”, piuttosto che la monografia,
permetterebbe a Berlin, secondo J. Ferrell, di esprimere nel migliore dei
modi la sua attitudine intellettuale, quella che a noi piace definire la sua
anima da “volpe”, l’attitudine di chi si cimenta con più argomenti, che vuole
porre questioni, interrogativi, stimoli, piuttosto che giungere a formulazioni
conclusive, che cerca di guardare ad un concetto cogliendone molteplici
sfaccettature che, al contempo, cerca anche di rendere la propria riflessione
accessibile ad un pubblico più ampio.434
Dovremmo allora dedurre che Voegelin e Berlin percorrano due traiettorie intellettuali completamente disgiunte per non dire antitetiche? Come
of Political Theory”, 12 (2013), pp. 49-55.
431
M. LILLA, op. cit., pp. 36 ss.
432
Berlin avrebbe voluto elaborare uno studio sistematicamente monografico sul Romanticismo
in una prospettiva di storia delle idee ma non riuscì mai a tradurre in pratica le sue intenzioni.
Il suo famoso e più volte edito The Roots of Romanticism non è infatti altro – come molte altre
opere di Berlin – che la raccolta delle lezioni (The Mellon Lectures) da lui tenute a Washington
nel 1965. I. BERLIN, The Roots of Romanticism, Princeton, Princeton University Press, 2001.
433
I. BERLIN, Flourishing, cit.; ID., Enlightening, cit.; ID., Building. Letters (1960-1975),
edited by H. Hardy and M. Pottle, London, Vintage Publishing, 2016.
434
J. FERRELL, Isaiah Berlin as Essayst cit., pp. 8 ss. Nel suo saggio, Ferrell sottolinea come
le frequenti critiche mosse a Berlin di non essere riuscito a sviluppare una giustificazione davvero convincente e solida (“inconsistent”) della sua concezione di monismo e del rapporto tra
pluralismo e liberalismo non sembrano tenere in debita considerazione l’impatto che, proprio
in termini concettuali e argomentativi, la scelta stessa dell’“essay” ha molto probabilmente
avuto sul pensatore inglese.
185
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
abbiamo anticipato nella nostra Introduzione e abbiamo cercato di mostrare
nel corso della nostra analisi, siamo invece convinte che il “riccio” e la
“volpe” finiscano per ‘incontrarsi’ e comunicarci qualcosa di interessante,
al di là di quelle linee di divisione e separazione alle quali abbiamo fatto
riferimento precedentemente, sul dibattito teorico-politico che si sviluppa
in Europa e America nel periodo post-bellico attorno alle radici intellettuali
profonde del totalitarismo.
7.2 Contro il monismo: punti di contatto tra Eric Voegelin e Isaiah Berlin
Che cosa troviamo quando attraversiamo idealmente (e in fondo è
proprio quello che abbiamo cercato di fare con il nostro lavoro) la linea di
demarcazione e di ‘confine’ – che pure esiste – tra Eric Voegelin e Isaiah
Berlin storici delle idee? In questo ultimo paragrafo vorremmo proporre
una sorta di sintesi ragionata di tutta una serie di elementi e considerazioni
che sono emersi dalla nostra analisi.
In un suo saggio, Contemporary Political Philosophy as an AntiEnlightenment Project, D. Rasmussen offre una ricostruzione sintetica e
chiara di quella che egli definisce la reazione e la dichiarata “hostility” che
una parte considerevole del pensiero filosofico europeo contemporaneo
avrebbe dimostrato sempre più nei confronti dell’illuminismo a partire dalla
prima metà del ‘900. Egli comincia con menzionare il monumentale Dialectic of the Enlightenment di Horkheimer e Adorno, nel quale il fascismo
è considerato, per molti aspetti, il “prodotto” della cultura illuministica,
per giungere poi ai Cold War Liberals, quali Aron, Popper, Talmon e lo
stesso Berlin, che invece all’illuminismo sembrano attribuire la colpa di
aver preparato il ‘terreno’ al bolscevismo e al comunismo sovietico.435 Del
pensatore inglese, Rasmussen afferma che:
according to Berlin, the Enlightenment was «monist», meaning that its proponents
believed that the world and everything in it forms a systematic, coherent whole and
435
D.C. RASMUSSEN, op. cit., pp. 1-3. Cfr. J. SVENUNGSSON, After Utopia. On the Postwar Debate on History and Ideology, “Storiografia”, 18 (2014), pp. 209-216.
186
Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe"
is subject to a set of universal and eternal laws that are knowable by human beings.436
In questo affresco, emerge anche la figura di Voegelin, la cui critica
contro la temperie illuminista viene così sintetizzata:
[he] blamed the philosophes for focusing on the profane and rational rather than
the sacred and the mysterious, thereby dissolving the transcendental glue that held
Western civilization together.437
Secondo tale prospettiva, Berlin e Voegelin apparterrebbero ad un
medesima quanto variegata corrente culturale che nella metà del XX secolo
si è scagliata contro un comune bersaglio polemico, l’illuminismo e le sue
“responsabilità” di lungo periodo, ma che, al suo interno, si caratterizza per
la presenza di intellettuali che, a ben vedere, hanno ben poco in comune gli
uni con gli altri: dai marxisti Adorno e Horkheimer ai liberali come Berlin
e Talmon fino ai “conservative and Christian” quali Voegelin.438
Se volessimo continuare nella metafora berliniana del “riccio” e della
“volpe” potremmo allora affermare che il “riccio” Voegelin e la “volpe”
Berlin vivono e si muovono nello stesso spazio senza però mai incontrarsi. E,
invece, sulla base della nostra analisi, siamo convinte proprio del contrario.
Intanto, sia Voegelin, sia Berlin, pur con le debite peculiarità che abbiamo
sottolineato, operano una scelta (di metodo e di contenuto) comune e ben
precisa: si occupano di storia delle idee perché entrambi pensano che le
idee (politiche, religiose, filosofiche etc.) abbiano un peso estremamente
rilevante. Quello che nella prima parte del nostro lavoro viene affermato
relativamente a Voegelin, ossia che “nella prospettiva voegeliniana studiare
le idee significa obbligatoriamente allargare lo sguardo sulla storia e tenere
presente che le idee stesse sono legate all’uomo: le idee non solo appartengono alla realtà socio-politica, ma sono prima di tutto fenomeni umani,
connesse all’ambito delle esperienze umane” ci sembra valere, in larga
misura, anche per Berlin. Entrambi dimostrano infatti una chiara sensibilità
verso l’intreccio uomini-idee. Del resto, nel 1961, Berlin scrive – in una
sorta di continua polemica a distanza con la scuola del positivismo logico di
436
D.C. RASMUSSEN, op. cit., p. 3.
437
Ivi, p. 5.
438
Ibidem.
187
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
Ayer – che “no abstract or analytical point exists out of all connection with
historical thought, that every thought belongs, not just somewhere, but to
someone, and this at home in a context which is not purely prescribed”.439
È indubbio che nella elaborazione e maturazione di questo particolare
approccio al significato della storia delle idee i due pensatori si siano ispirati
(dichiaratamente Voegelin, non del tutto dichiaratamente Berlin) a figure e
opere differenti: per comprendere, ad esempio, la storia delle idee secondo
Voegelin è essenziale far riferimento alla rivoluzione metodologica operata nel tardo ‘800 da Wilhelm Dilthey, così come alle ricerche condotte da
intellettuali quali Max Scheler, Helmut Plessner o Georg Misch, laddove, a
nostro giudizio, quella berliniana ha un debito non indifferente nei confronti
delle intuizioni e della sensibilità di Robert G. Collingwood. Tuttavia, sia
il “riccio” Voegelin sia la “volpe” Berlin non solo rivendicano il legame
idee-uomini ma, con altrettanta forza, anche quello tra idee e storia, o meglio tra idee e contesto storico. Per Voegelin è centrale “il contesto in cui
le idee stesse si sviluppano, comprendendone la funzione e la transizione
da un complesso di idee ad un altro. Dunque, nella versione voegeliniana,
la storia delle idee si pone al di fuori di qualsiasi impostazione idealistica,
la quale asserisce l’assoluta indipendenza delle idee stesse dai contesti nei
quali vengono generate, perché le idee non si possono considerare svincolate
dalla storia e dalla loro storicità”. A ben vedere possiamo estendere questo
ragionamento allo stesso Berlin, secondo il quale “non si può parlare di
idee nella più pura astrazione, senza riferirsi alla storia”.440 Certamente, se
avviciniamo la “lente di ingrandimento” noteremo che il modo attraverso
il quale Voegelin fa storia delle idee non è identico a quello di Berlin, così
come appaiono diverse le loro scelte e strategie stilistiche e argomentative.
Ciò nonostante, ad uno sguardo di insieme, il “riccio” Voegelin e la “volpe”
Berlin appaiono più vicini di quanto non si possa credere: entrambi sottolineano l’importanza e il “peso” delle condizioni storiche pur affermando,
con modalità proprie e originali, che lo studio e la comprensione delle idee
non può essere ridotto unilateralmente allo studio e all’analisi del contesto,
439
I. BERLIN, The Concept of Scientific History, cit., p. XII.
440
I. BERLIN, In Libertà, cit., p. 63.
188
Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe"
come se – per citare Berlin – esse “non avessero alcun senso al di fuori di
esso”.441
In stretto rapporto a questo primo importante elemento di affinità tra il
“riccio” Voegelin e la “volpe” Berlin si colloca, a nostro giudizio, la critica
che entrambi muovono ad un certo modo di intendere la scienza e in particolare alla fiducia di poter usare il metodo conoscitivo tipico della scienza
per comprendere la società, la politica, la storia. È opportuno altresì ricordare che Voegelin attacca l’uso, per lui del tutto acritico e improprio, che la
scienza politica ha fatto della metodologia tipica delle scienze esatte, laddove
Berlin muove una critica analoga agli studi di carattere più propriamente
storico. Tuttavia, pur tenendo presente i diversi contesti storico-culturali
nei quali i due attaccano la presunta universale applicabilità del metodo
scientifico, sia Voegelin sia Berlin, in un lungo lasso di tempo che va dagli
anni ‘30 alla fine degli anni ‘50, difendono e argomentano due concetti
fondamentali: 1. il sapere scientifico segue regole di indagine e obiettivi
conoscitivi profondamente e radicalmente diversi da quelli che caratterizzano la scienza politica (nel caso di Voegelin) e il sapere storico (nel caso di
Berlin); 2. la storia delle idee riguarda il mondo degli uomini e quindi non
può in alcun modo adottare un metodo di indagine scientifico-naturalistico.
Insomma, entrambi mettono in guardia dalla tentazione di pensare che
il metodo conoscitivo tipico delle scienze esatte, con la sua ambizione di
trovare una spiegazione univoca, oggettiva e universale ai fenomeni naturali, possa essere applicato a saperi che riguardano la realtà umana, sociale,
politica, etica etc. Se ci fermassimo a questo aspetto, per noi rilevante, non
saremmo però ancora giunte al nocciolo del problema: la produzione intellettuale di Voegelin e quella di Berlin che abbiamo preso in esame non
solo sembrano basarsi su di un certo modo (molto critico) di intendere la
applicabilità del metodo scientifico e il significato della storia delle idee
ma, ancor più in profondità, sembrano condividere un’altra importante
convinzione. Nonostante tutte le differenze che intercorrono tra loro e che
abbiamo cercato di evidenziare, per entrambi i pensatori tentare di trasformare lo studio della realtà storica, politica, etica, umana (nel senso lato del
termine) in un sapere uniformato alle regole e ai canoni interpretativi delle
441
Ibidem.
189
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
scienze naturali ed esatte sia non solo scorretto sul piano epistemologico, ma
soprattutto molto pericoloso sul piano filosofico e politico. Ogni qual volta
infatti decidiamo di percorrere questa strada cadiamo, sia per Voegelin, sia
per Berlin, nella ‘trappola’ del monismo epistemologico, filosofico e politico: per i due pensatori la comprensione delle radici intellettuali profonde
del totalitarismo e, in particolare, di quella Weltanschauung monistica ad
esso sottesa presuppone la consapevolezza di quanto distorta (per loro)
sia la visione della realtà umana che otteniamo se cerchiamo di utilizzare
acriticamente il metodo conoscitivo di tipo scientifico quale unico metodo
di indagine corretto e universalmente applicabile.
Le scienze naturali, secondo Voegelin e Berlin, sono orientate a scoprire
le leggi sottese al mondo naturale, leggi che sono tali perché uniformi, valide
universalmente, oggettive, razionalmente e sperimentalmente dimostrabili,
capaci, ad esempio, di spiegare e rendere intellegibile la complessità dei
fenomeni fisici attraverso la sintesi operata da una formula matematica.
Sia Voegelin, sia Berlin rifiutano l’idea che – esattamente come nella
scienza – anche in altri ambiti del sapere e quindi anche nello studio della
realtà politica, storica, sociale sia possibile individuare, con la precisione
dell’entomologo o del fisico, leggi, formule o principi che possano permetterci di comprendere il senso di tutto ciò che esiste: dove gli uomini stanno
andando e dove andranno, che rendano intellegibile la realtà umana nelle
sue numerose sfaccettature e che quindi consentano anche di controllarla.
È proprio nella convinzione di potere comprendere l’essenza ultima della
realtà umana (sociale, politica, etica) e quindi di poter esercitare su di essa lo
stesso tipo di controllo che siamo in grado di operare sul mondo inanimato
studiato, ad esempio, nelle scienze naturali, che i due pensatori individuano
uno dei caratteri portanti di quella visione monistica per loro caratteristica
del totalitarismo: per entrambi, comprendere tutto significa controllare tutto, ossia significa ‘ridurre’ – prima sul piano epistemologico e filosofico,
poi su quello più propriamente politico – la realtà umana, sociale, politica
ad un insieme di “cose”, di “oggetti” manipolabili e modificabili: nel caso
specifico e concreto di un regime liberticida e totalitario le “cose” sono gli
esseri umani, ossia le persone nelle mani del supremo manipolatore, del
Leader o del Partito o di qualsiasi altro Soggetto che, per dirla con il Berlin
di Two Concepts of Liberty, sa esattamente e oggettivamente ciò che è giusto
190
Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe"
e ciò che è sbagliato e proprio in base a ciò può “costringere” gli individui
più ribelli, riottosi e recalcitranti “ad essere liberi”.
Contro un certo modo di intendere e di utilizzare il metodo scientifico e quindi contro un certo modo di leggere la realtà attraverso esso e le
sue categorie, Voegelin e Berlin abbracciano invece la storia delle idee: è
indubbio che in Voegelin tale disciplina sia funzionale ad una rifondazione
della scienza politica e sia perciò una tappa, in ogni caso significativa, della
sua elaborazione teorica, che mira a rendere nuovamente feconda la scienza
politica stessa e a porre nuovamente al centro di essa l’uomo; mentre in
Berlin questo tipo di obiettivo è del tutto assente. Tuttavia, entrambi ritengono che proprio attraverso la storia delle idee sia possibile individuare il
‘terreno’ ideale dal quale ha preso forma il totalitarismo.
Lungo questa linea di ragionamento, diventa quindi per noi molto
rilevante soffermarci proprio su quelle idee, concezioni e pensatori che,
secondo Voegelin e secondo Berlin, hanno alimentato una Weltanschauung
monistica sia sul piano epistemologico, sia sul piano filosofico-politico. A
noi pare che tale questione accomuni nel profondo il “riccio” Voegelin e
la “volpe” Berlin e, proprio in virtù della importanza che essa riveste nelle
loro opere, diventa possibile problematizzare quella interpretazione che
colloca i due pensatori entro correnti di pensiero distanti l’una dall’altra.
Perfino se ci limitassimo ad una sommaria giustapposizione delle opere
voegeliniane con quelle berliniane fin qui esaminate, potremmo rilevare una
coincidenza interessante e tutt’altro che di circostanza: entrambi riconducono allo scientismo di matrice illuminista e positivista un certo modo monistico di intendere la realtà umana, storica e politica. Per entrambi, il “credo
scientista” si sviluppa con sorprendente successo e intensità tra il ‘600 e
‘700, in virtù dei prodigiosi traguardi raggiunti dalla rivoluzione scientifica
e grazie alla temperie illuminista. Sia Voegelin, sia Berlin attribuiscono ai
philosophes una delle maggiori responsabilità nella costruzione di quel monismo epistemologico, filosofico e politico, senza il quale, a loro giudizio,
non sarebbe comprensibile il totalitarismo. Alcuni pensatori illuministi ci
vengono così dipinti da Voegelin e da Berlin come sostenitori della “verità
assoluta” della scienza, e quindi certi di poter comprendere razionalmente
la realtà sociale, umana, politica e, al contempo, di poter individuare con
la sicurezza tipica delle scienze gli strumenti idonei a cambiarla in meglio,
191
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
per renderla così sempre più prossima alla perfezione, sempre più razionale.
Questo tipo di lettura (sicuramente parziale e distorcente) dello scientismo
illuminista emerge con la stessa, eguale forza sia dalla History of Political
Ideas, sia da Historical Inevitability e Two Concepts of Liberty.
Egualmente, sia Voegelin, sia Berlin attribuiscono al positivismo un
ruolo altrettanto decisivo nel successivo sviluppo dello scientismo durante
l’800. Innanzitutto, entrambi tendono a considerare il positivismo ottocentesco una sorta di prosecuzione e, per alcuni aspetti, estremizzazione di una
certa parte della tradizione illuminista: in esso ritorna la fiducia nella “verità
della scienza”, nella universalità del metodo scientifico e nel concetto di
perfettibilità. Sia Voegelin, sia Berlin fanno riferimento, per esempio, a Auguste Comte nelle cui concezioni filosofiche ravvedono alcuni dei caratteri
(per loro) portanti di una Weltanschauung monistica. Del pensatore francese
viene sottolineata la fiducia totale nella “verità della scienza” e nella conseguente possibilità di individuare quelle leggi e quei principi – conoscibili
razionalmente e con la precisione degna delle scienze esatte – che regolano
lo sviluppo dell’umanità verso una condizione di perfezione “fondata sulla
spiegazione positiva dei fenomeni naturali”. La frase con la quale Berlin,
in Historical Inevitability, descrive in estrema sintesi il pensiero di Comte,
ossia “una piramide di conoscenze scientifiche che potessero spiegare
qualsiasi cosa” è altrettanto indicativa della posizione di Voegelin verso il
padre della sociologia.442
Sia il pensatore tedesco, sia quello inglese vedono in Comte (e in tutto il positivismo) l’atteggiamento mentale e speculativo di chi è convinto
che la realtà umana si caratterizzi per una trama di leggi e comportamenti
regolari, ripetibili, razionalmente comprensibili che possono essere svelati
e chiariti come accade nell’indagine del mondo naturale. Nella filosofia
positiva di Comte, sia Voegelin, sia Berlin colgono una serie di elementi
che, a loro giudizio, riemergono dall’opera dell’altro grande protagonista
della cultura ottocentesca: Karl Marx. Per i due storici delle idee, diventa
essenziale misurarsi, come abbiamo visto, con il materialismo scientifico: la
convinzione che esistano leggi oggettive, razionalmente e scientificamente
conoscibili, capaci di regolare il processo economico, sociale e politico,
442
I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., pp. 132-133.
192
Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe"
e che, a loro giudizio, è il ‘cuore’ stesso della filosofia di Marx, starebbe
lì a dimostrare nella storia delle idee come la concezione scientista abbia
conosciuto una vera e propria rinascita nell’800.
Abbiamo già sottolineato i tanti e importanti elementi di distanza tra
Voegelin e Berlin storici delle idee; vorremmo ribadirne alcuni per tornare
poi con maggiore efficacia e incisività proprio sugli aspetti che rendono, a
nostro giudizio, le opere da loro elaborate e pubblicate tra la fine degli anni
‘30 e gli anni ‘50 un tentativo di riflettere sulle radici ideali del totalitarismo. L’attacco frontale che Voegelin e Berlin muovono a Comte e Marx ha
infatti implicazioni teorico-politiche in parte differenti, che possono essere
comprese se teniamo in debita considerazione l’originalità e la specificità del
percorso intellettuale intrapreso dai due storici delle idee. Voegelin prende
innanzitutto le distanze da Comte perché nella concezione epistemicofilosofica del sociologo, nella sua volontà di individuare le leggi sottese alla
società e nella sua vena, per così dire, scientista, egli ravvisa una forma di
“messianismo moderno e intramondano”, ossia una concezione che parla di
un destino ultimo di perfezione da realizzare, sebbene non nell’immediato,
sulla terra e da parte dell’uomo stesso. Voegelin sembra così guardare a
Comte come uno dei “primi filosofi a dare voce in maniera sistematica ad
un’ideologia escatologica di salvezza collettiva”. Ideologia escatologica
che ha reciso qualsiasi legame con il “trascendente”.
La stessa lettura che il pensatore tedesco propone del filosofo di Treviri può essere ricondotta a questo tipo di ragionamento: la componente
scientista del pensiero di Marx è parte integrante, secondo Voegelin, di un
“messianismo moderno” che parla di una vera e propria “palingenesi”, il
cui obiettivo sarebbe “di liberare l’uomo da ogni limite e il mondo da ogni
male attraverso esperimenti rivoluzionari nei quali il vecchio mondo verrà
sostituito da una nuova creazione”. In altri termini, la critica di Voegelin a
Comte e Marx deve essere inserita in quel più ampio ragionamento critico
sulla volontaria cancellazione della dimensione “trascendente” dalla speculazione filosofica che, secondo il pensatore tedesco, trova nello scientismo
illuminista, nel positivismo e nello gnosticismo tre momenti cruciali.
Tutto ciò è assente in Berlin: egli mette in discussione la filosofia di
Comte e di Marx nei suoi elementi prima di tutto deterministici perché è
nella volontà, per lui comune al sociologo francese e al filosofo tedesco, di
193
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
individuare le leggi che regolano e determinano la realtà sociale, economica
e politica che Berlin individua una enorme e pericolosa minaccia (filosofica,
etica e politica) al principio per lui fondamentale, ossia alla responsabilità
e alla libertà individuali. Insomma, a voler tenere nuovamente conto delle
differenze tra Voegelin e Berlin, potremmo affermare che mentre il primo
critica Comte e Marx da “riccio”, il secondo fa la stessa operazione, ma
da “volpe”.
Eppure, a noi pare che – pur con le debite distinzioni appena sottolineate – la interpretazione di Comte e Marx proposta da Voegelin e Berlin
mostri come la vicinanza tra le loro storie delle idee sia molto più sostanziale. Sebbene con finalità teorico-politiche peculiari, sia Voegelin, sia Berlin
individuano infatti nello scientismo illuminista e positivista (così come,
nello specifico, nell’opera di Comte e Marx) due concezioni epistemiche
e filosofico-politiche assolutamente centrali per comprendere l’affermarsi
nella storia di una Weltanschauung monistica e quindi le radici intellettuali
e profonde del totalitarismo.
Dalla analisi fin qui condotta è così emerso come i due pensatori attacchino la convinzione di poter estendere il metodo scientifico all’indagine
della realtà umana e di poter individuare un principio, un modello o delle
leggi capaci di spiegare la complessità di ciò che esiste, ossia di trovare una
formula onniesplicativa che in quanto tale – monisticamente – possa anche
offrire una soluzione definitiva ai problemi (reali) degli uomini.
È in una simile pretesa monistica che sia Voegelin, sia Berlin, il “riccio”
e la “volpe”, colgono una implicazione filosofica e politica di straordinario
rilievo, dagli esiti per loro pericolosissimi, e che ha, a loro giudizio, trovato
una espressione estrema proprio nei regimi liberticidi del XX secolo: la
certezza di possedere l’unica possibile comprensione corretta della realtà
umana, politica, sociale e, collegata a ciò, la certezza altrettanto granitica
(dogmatica) di aver individuato “the final solution”, per dirla con Berlin, e
quindi di poter creare un sistema politico e sociale perfetto qui ed ora, per
dirla con Voegelin, non potrà altro, per entrambi, che contribuire a generare
e giustificare un potere privo di limiti.
Chi afferma di detenere la “final solution”, perché ha correttamente
inteso, ad esempio, il “corso della storia” allora – sia per Berlin, sia per
194
Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe"
Voegelin – sarà disposto a compiere qualsiasi azione e a imporre, una volta
conquistato il potere, qualsiasi sacrificio pur di seguire quel particolare
“corso” che condurrà al trionfo della Razza Ariana o della Nazione o di
qualsiasi altro principio che si ritenga oggettivamente, universalmente giusto
e vero. Chi avanza la pretesa, ad esempio, di essere riuscito ad individuare,
con precisione scientifica, il significato ultimo sotteso alla storia e alla vita
degli uomini, si troverà – per Berlin – nella posizione di esigere qualsiasi
cosa dai suoi “seguaci”, di costringere gli altri ad essere liberi nel modo
in cui soltanto egli sa essere quello giusto e corretto e – per Voegelin – di
farsi egli stesso Dio, promettendo e realizzando, a qualsiasi costo, progetti
di “palingenesi totale”. In entrambi i casi – sembrano volerci dire il “riccio”
Voegelin e la “volpe” Berlin – il monismo epistemologico e filosofico è
parte integrante di quello politico e trova la sua realizzazione nei regimi e
nelle ideologie totalitari.
Se guardiamo a Voegelin e Berlin come storici delle idee allora vedremo
che, al di là di tutte le debite e importanti differenze da noi sottolineate, quel
“running parallel” al quale fa riferimento fugacemente J.W. Müeller sembra
essenzialmente riguardare la loro riflessione sulle radici intellettuali del
totalitarismo: i due pensatori però finiscono per ‘incontrarsi’ nel momento
in cui entrambi individuano in una Weltanschauung monistica il carattere
portante ed essenziale dei regimi totalitari. La “volpe” Berlin e il “riccio”
Voegelin, impegnati in una riflessione sul monismo, appaiono così più vicini
di quanto non si potrebbe pensare.
Del resto, la famosa e amara frase pronunciata da Voegelin sul senso
ultimo della logica totalitaria, ossia che “the […] activist dreamers […] want
to liberate us from the imperfections by locking us up in the perfect prison
of their phantasy” potrebbe essere stata pronunciata dallo stesso Berlin.443
443
E. VOEGELIN, Wisdom and the Magic of Extreme, cit., p. 315.
195
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STRAUSS L., Natural Right and History, Chicago and London, University of Chicago Press, 1953.
208
Indice dei nomi
INDICE DEI NOMI
Achmatova A., 101, 139
Adorno T., 51, 186
Agostino santo, 57
Almond G., 38
Anderson P., 110n, 112n
Arendt H., 51, 67n
Armstrong Fish H., 131
Aron R., 81, 81n, 129, 150
Ascoli M., 131
Ayer A.J., 104, 105, 107, 112, 138, 150, 150n,
188
Bakunin M., 55, 55n
Balthasar H.U. von, 44n, 79n
Bassani L.M., 170n
Baum B., 103n
Baur F.C., 78, 78n, 79, 79n
Bedeschi G., 13n, 137n
Belinskij V., 138, 139, 141n
Benigno F., 123n
Bentham J., 136, 137, 137n
Berdyaev N., 44n
Bernasconi R., 25n
Bertels C.P., 104n
Bhiku P., 103n
Bianco F., 30n
Boas G., 43
Bode M., 16n, 114n, 138n
Boehme J., 78
Bongiovanni B., 110n
Bonvecchio G., 9n
Brecht A., 38n, 39n, 51
Brentano F., 20n
Brockniss L., 131n
Brunner E., 183n
Brunner O., 19n
Bulhof I.N., 30n
Burke E., 161, 176, 184
Cacciatore G., 30n
Calabrò G., 24n
Cammarota G., 66n, 93n
Camus A.,79n
Cantillo G., 30n
Carini C., 91n
Caroniti D., 54n
Carr E.H., 123, 123n
Chabod F., 113n
Cherniss J.L., 103n, 131n, 137n, 150n
Chignola S., 19n, 23n, 53n, 90n, 92n,
Chinard G., 43
Chisik H., 106n
Cicerone, 83
Coker F.W., 38n
Collingwood R.G., 105, 106, 107, 112, 114n,
120, 124, 125n, 158, 188
Commons J.R., 20n
Comte A., 44n, 54, 57, 58, 69, 70-74, 118, 149,
155, 156, 158, 170, 192, 193, 194
Condorcet N. de., 69, 80, 102, 153, 155
Connely J., 105n
Cook S., 25n
Cook T.I., 37, 37n
Cooper B., 12n, 19n, 50, 50n, 54n, 65n
Cornford F.M., 44n
Cracraft J., 103n, 107n
Croce B., 105n, 124
Crowder G., 103n, 104n, 111n, 120n, 129n, 130n
D’Alembert, 80
Del Noce A., 77-78, 78n
Dempf A., 44n
D’Holbac P.H.T., 153, 158
Di Lucia P., 97n
Dickinson J., 22n
Diderot D., 80
Dilthey W., 30, 30n, 31-33
Diotallevi L., 15n
209
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
Dopsch A., 19n
Doresse J., 77n
Dubnov M., 105n, 107, 107n
Duff Grant Shiela, 112n
Dunning W., 37, 37n, 41-42
Durkheim E., 15n
Duso G., 67, 67n, 91n
Dworkin R., 154n, 174n
Dyzenhaus D., 9n
Engel-Janosi F., 43
Eraclito, 83
Eschilo, 67, 83
Far J., 36n
Federici M.P., 19n
Ferrell J., 126, 126n, 135n, 185
Fichte J.G., 153n, 164
Filoramo G., 77n, 79n
Fischer J., 33, 33n
Forti S., 10n
Franco L., 96n
Franz M., 75n
Frenske H., 10n
Freud S., 19n
Fukuyama F., 129
Galipeau C.J., 13n, 103n
Galli C., 26n, 86n, 91n, 94n
Galston W.J., 135n, 174n
Gardiner P., 115n
Garosci A., 44n
Garrard G., 17n, 18n
Gay P., 154n
Gebhardt J., 32, 32n, 33n
Germino D., 66n, 69, 69n
Gioacchino da Fiore, 79n, 80n
Goodenough E.R., 44n
Gouhier H., 44n
Gray J., 103n, 124n, 174n
Green T.H., 164
Grifith E.S., 38, 38n, 40
Groethuysen B., 33
210
Guardini R., 10, 10n
Gunnell J.G., 14, 36n, 37, 37n, 38n, 39n, 40n,
51, 51n, 52n
Haberler G., 14
Hallowell J.H., 14n, 38n, 54, 54n, 55n
Hampshire S., 104
Hannerz U., 15n
Hardy H., 103n, 104n, 112n, 113n, 115n, 119n,
126n, 129n, 130n, 137n, 139n, 141n, 142n,
143n, 153n, 185n
Harris I., 119n, 174n
Hartin T.A., 105n
Hartmann H., 19n
Hatier C., 11, 11n, 154n, 167, 167n
Hauley R.P., 129n
Hausheer R., 17n, 103n, 124n
Hayek F. von, 129, 150
Hegel G.W.F., 66, 78, 142, 153n, 156, 157, 166,
169, 170
Heilke T.W., 25n
Herder J.G., 105, 106n, 166
Herzen A., 138, 139
Hiruta K., 113n
Holaceck A.,123n
Horkheimer M., 51
Huizinga J., 44n
Humboldt A. von, 175n, 176, 184
Husserl E., 20n
Iggers G.G., 30n
Ignatieff M., 101n, 105, 105n, 124n, 130n, 181
Jaeger W., 44n
Jahanbegloo R., 101n, 111, 113n
James W., 20n
Jaspers K., 33, 44n
Johnson P., 105n
Jonas H., 79n, 81, 81n
Jung C.G., 79
Kant I., 80, 137, 137n, 159, 164, 171
Kaufmann E., 24n
Kelley A., 140, 141n, 142, 142n, 149n
Indice dei nomi
Kelly D., 107n, 110, 110n, 139
Kelly R., 45n
Kelsen H., 9, 9n, 19, 22n, 23-24, 24n, 38n, 91n,
96-97, 97n, 183n, 184n
Kennan G., 101n, 131
Krauze E., 153n
Kries E., 19n
Morganti C., 10n
Mosheim J.L., 79n
Müller J.W., 13, 13n, 14, 14n, 129, 130, 130n,
131n, 183, 183n
Murray G., 44n
Musil R., 83n
Myers E., 135n
Lagi S., 9n, 91n
Lami G.F., 19n
Leach S., 105n
Leibholz G., 26n
Levy D.J., 25n
Lieb F., 44n
Lijoi F., 91n
Lilla M., 154n, 174n, 185n
Lippincott B., 39n, 54n
Litt T., 26n
Locke J., 164, 165, 166
Lovejoy A.O., 43-44, 44n, 45, 105
Lubac H. de, 44n, 79n
Lukes S., 114n, 139, 140, 162, 163n
Nardin T., 12n, 13n, 129n
Neander J.A., 79n
Neumann F., 51
Nichols R., 103n
Niebuhr R., 44n, 183n
Nietzsche F., 69
Mack E., 174n
Maistre J. de, 153n
Mali J., 17n,
Mandelbaum M., 45n
Marcuse H., 51
Maritain J., 10, 10n, 44n
Marx K., 54, 57-58, 66, 69, 70, 73-76, 80-82,
84, 102, 107, 108, 109, 110, 111, 114, 117,
139, 156, 157, 158, 166, 167, 168, 169, 170,
176, 192, 193, 194
Mastellone S., 9n
Matter J., 79n
McIlwain C., 37, 37n
Merkl A., 19n
Mill J.S., 136, 137n, 161, 175, 175n, 176, 184
Mingardi M., 170n
Mink L., 44n, 45n
Misch G., 33
Mises L. von, 19n
Molinelli R., 10n
Moore G.E., 104n
Opitz P.J., 65n, 78n, 81n, 96n
Paine T., 161, 176,
Parsons T., 40n
Pasquino G., 15n
Passerini Glazel L., 97n
Passmore J.A., 119n
Pasternak B., 139
Pecora G., 91n
Peirce C.S., 20n
Pennock J.R., 38n
Perelman C., 15n
Petersma E., 15n
Platone, 83, 96,
Plaw A., 174n
Plessner H., 33, 33n
Popper K., 13, 129, 130, 130n, 131, 150, 162,
186
Pottle M., 185n
Protagora, 67
Przywara E., 44n
Puech H.-C., 76n, 77n, 79, 79n
Quispel G., 79, 79n
Racinaro R., 66n, 91n
Rasmussen D.C., 17n, 18n, 186, 186n, 187
Reed J., 103n
Ricciardi M., 112n, 150, 150n
211
S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee
Richter M., 45n
Ringer F.K., 30n
Robertson R., 103n, 131n
Roehrssen C., 24n
Rorty R., 174n
Rossi G., 23n
Rossi P., 30n
Rousseau J.J., 153n, 164, 165
Rudolph K., 77n
Rüsen J., 31n
Russell B., 104n
Ryan A., 108n, 131n, 174n
Sabine G.H., 22, 35, 37, 37n, 38, 38n, 41, 42
Sander F., 26n
Sandoz E., 13n, 19n, 26, 26n, 27n, 65n, 78n,
90n, 94n, 96, 96n, 97n
Santayana G., 20n
Saunders F.S., 101n
Scheler M., 33, 33n, 44n
Schelling F.W.J von, 78
Schleiermacher F.E.D., 78
Schlesinger A., 101n, 131
Schlick M., 19n,
Schmitt C., 9, 9n, 26n
Schneewind J.B., 174
Schumpeter J., 19n, 34
Schuster L., 150, 151n
Sebba G., 81n
Seidelman R., 36n
Sen A., 119n
Sigieri di Brabante, 55, 55n, 56
Sigwart H.J., 32n
Silvers R., 154n, 174n
Skagestad P., 106, 106n, 112, 112n, 124, 124n,
125n
Skinner Q., 113, 113n, 114n
Smend R., 26n
Spann O., 19n
Spinoza B., 164, 168
St. Simon H. de., 155
Sternhell Z., 18n
Stradaioli N., 9n
Strauss L., 10, 10n, 14n, 51, 67n
212
Svenungsson J., 186n
Swoboda H., 19n
Talmon J., 126n, 186, 187
Taubes J., 79, 81, 81n
Tocqueville A. de, 161, 175n, 176, 184
Tolstoj L., 138, 140, 143, 144, 145, 146, 147,
148, 149
Topitsch E., 81, 81n
Toynbee A.J., 44n
Troeltsch E., 80n
Tzvetan T., 167n
Veca S., 102n
Verdross A., 19n
Vicentini C., 30n
Vigorelli A., 105n
Voltaire, 57
Waelder R., 19n
Walicki A., 103n, 142n
Walsh D., 75, 76n, 85, 85n
Weber M., 14n, 89, 95n, 96n
Wieser F., 19n
Wild J., 44n
Williams B., 120n, 124n
Wilson D.J., 44n
Wilson F.G., 38, 38n, 39n
Wittgenstein L., 104n
Wolker R., 17n, 106n
Wright B.F., 38, 38n, 39, 39n
Yack B., 184, 184n
Yavel Y., 105n
Zakaras A., 174n
Zambon F., 77
Zanetti G., 19n, 27n, 28, 28n, 78, 78n, 90n,
95, 95n, 98n
Finito di stampare
Centro Editoriale Toscano
settembre 2017
POLITEIA
Scienza e Pensiero
1 - SERGIO AMATO, Il problema «partito» negli scrittori politici tedeschi (1851-1914).
2 - SALVO MASTELLONE (a cura di), Il pensiero politico europeo (1945-1989), nuova edizione.
3 - SALVO MASTELLONE, A History of Democracy in Europe. From Montesquieu to 1989, introduction by Michael
E. Good.
4 - VITTORIO CONTI, “Consociatio Civitatum”. Le repubbliche nei testi elzeviriani (1625-1649).
5 - MICHAELA VALENTE, Bodin in Italia. “La Démonomanie des sorciers” e le vicende della sua traduzione.
6 - SERGIO AMATO, Gli scrittori politici tedeschi e la rivoluzione francese (1789-1792).
7 - MARCO SAGRESTANI, Lo scrutinio di lista in Toscana (1882-1891). Dalla competizione possibile alla competizione
mancata.
8 - ROBERTO STURLA, Democrazia e uguaglianza in America: un dibattito nella Francia prerivoluzionaria (1770-1788).
9 - MARCO FERRARI, La “Restauration”. Ideologia e linguaggio (1814-1830).
10 - M.ANTONIETTA FALCHI PELLEGRINI, Horkheimer: la critica del dominio politico.
11 - SALVO MASTELLONE (a cura di), Gramsci: il partito politico nei ”Quaderni“.
12 - ALESSANDRO LEVI, Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, premessa di Salvo Mastellone, nota di Arturo
Colombo.
13 - MICHELE MILLOZZI (a cura e con introduzione di), Giano bifronte. L’eredità storica del Novecento.
14 - ALDO NICOSIA, Sismondi. Costituzionalismo e libertà.
15 - ALBERTO DE SANCTIS, La democrazia “puritana”di Thomas Hill Green. Con alcuni scritti inediti.
16 - SAFFO TESTONI BINETTI, Il pensiero politico ugonotto. Dallo studio della storia all’idea di contratto (1572-1579).
17 - KARL KAUTSKY, La rivoluzione sociale. Riforma e rivoluzione sociale (1902). Con uno studio introduttivo di Sergio
AmAto, Parlamentarismo e socialdemocrazia nell'evoluzione del pensiero politico di Kautsky.
18 - FAUSTO PROIETTI, Il tema del comune nel dibattito politico francese (1807-1830).
19 - SILVANA D’ALESSIO, Contagi. La rivolta napoletana del 1647-’48: linguaggio e potere politico.
20 - MARIA CORONA CORRIAS (a cura e con presentazione di), Carlo Cattaneo. Temi e interpretazioni.
21 - FRANCESCO BERTI, La ragione prudente. Gaetano Filangeri e la religione delle riforme.
22 - EUGENIO CHIESA, Scritti e discorsi 1893-1929, a cura di F. Conti, S. Moroni.
23 - ALESSANDRO ARIENZO, Alle origini del conservatorismo politico inglese.George Saville e la Restaurazione Stuart.
24 - MARCO FERRARI (a cura di), Dinamiche del potere e dell’ideologia nell’Europa contemporanea (1814-1989).
25 - SAFFO TESTONI BINETTI (a cura di), Il potere come problema nella letteratura politica della prima età moderna.
26 - NUNZIA DI MASO, Il repubblicanesimo di Vincenzo Cuoco. A partire da Machiavelli.
27 - NICOLA D’ELIA, Democrazia e ‘modello inglese’. Eduard Bernstein scrittore politico nell’esilio di Londra (1890-1901).
28 - MARCO BARDUCCI, Oliver Cromwell negli scritti italiani del Seicento.
29 - SALVO MASTELLONE (a cura di), Mazzini e gli scrittori politici europei (1837-1857).
30 - ALBERTO DE SANCTIS, Il socialismo morale di Aldo Capitini (1918-1948). Con alcuni scritti inediti.
31 - FIORENZA TARICONE, Il sansimoniano Michel Chevalier: industrialismo e liberalismo.
32 - SHEYLA MORONI, Giovanni Giuriati. Biograia politica.
33 - MARIA CORONA CORRIAS (a cura di), Paola Maria Arcari. Ritratto a più voci.
34 - ANDREA CATANZARO, Paradigmi politici nell'epica omerica.
35 - ALDO NICOSIA, Jacques Necker. Dalla monarchia assoluta alla monarchia esecutiva. Vol.I
36 - MARCO BARDUCCI, Anthony Ascham ed il pensiero politico inglese (1648-1650).
37 - FILOMENA CASTALDO, L’evento, l’innovazione, la pratica virtuosa. Arendt legge Machiavelli.
38 - SARA LAGI, Georg Jellinek storico del pensiero politico (1883-1905).
39 - ANNA MARIA LAZZARINO DEL GROSSO (a cura di), Miti e metafore nella storia del pensiero politico.
40 - JEAN-YVES FRÉTIGNÉ, Giuseppe Mazzini. Il pensiero politico.
41 - CLAUDIA GIURINTANO, La «Res Publica» (1931-1933) di Francesco Luigi Ferrari.
42 - ANDREA CATANZARO, L ’attore e il regista. L’uomo politico nei Moralia di Plutarco.
43 - MICHELA NACCI (a cura di), Figure del liberalsocialismo.
44 - ALDO NICOSIA, Jacques Necker. Dalla monarchia assoluta alla monarchia esecutiva. Vol.II
45 - ALBERTO DE SANCTIS (a cura di), Un dibattito politico su religione e socialismo (1908-1910).
46 - LUCA SARTORELLO, Le due Repubbliche. Bartolo e Machiavelli in un Dialogo inedito di Francesco Sansovino.
47 - ALBA ROSA SURIANO, Il Teatro indipendente nella società politica egiziana. Nascita, evoluzione e prospettive.
48 - A. M. LAZZARINO DEL GROSSO (a cura di), Garibaldi nel pensiero politico europeo.
49 - MARCO BARDUCCI, Grozio ed il pensiero politico e religioso inglese (1632-1678).
50 - FEDERICA FALCHI, Giuseppe Mazzini: la democrazia europea e i diritti delle donne (1837-1860).
51 - SALVO MASTELLONE, Tre democrazie. Sociale (Harney); Proletaria (Engels); Europea (Mazzini) (Londra, 1850-1855).
52 - ZEFFIRO CIUFFOLETTI, SIMONE VISCIOLA (a cura di), Risorgimento. Studi e rilessioni storiograiche.
53 - NICOLETTA STRADAIOLI, Europa e Stati Uniti: Eric Voegelin e la storia delle idee politiche.
54 - SALVO MASTELLONE, Da Savonarola ad Adam Smith. Ideologie in Europa. A cura di M. Barducci, V. Conti.
55 - ALBERTO DE SANCTIS (a cura di), La religione nelle idee politiche contemporanee.
56 - SERGIO AMATO, Sul patriottismo costituzionale tedesco tra Settecento e Novecento.
57 - ROBERTO STURLA, Il modello olandese nella Francia del Settecento fra commercio, federalismo e libertà, con riproduzione
anastatica del volume del 1788 : aux bataves sur le stathouderat pAr le comte de mirAbeAu.
58 -ALESSANDRA TAIUTI, Contro il dominio: lavoro e libertà nel pensiero politico di Max Ascoli.
59 -REGINA LUPI, Francesco D'Aguirre. Riforme e resistenze nell'Italia del primo Settecento.
60 -SARA LAGI, Adolf Fischhof e Karl Renner: la questione nazionale austriaca (1869-1917)
61 -SALVO MASTELLONE, Da Sieyès a Marx. Ideologie in Europa (1789-1870). A cura di M. Barducci.
62 -MILENA BIANCO, L'associazionismo politico inglese e la democrazia europea.
63 - SALVO MASTELLONE, Il lessico democratico europeo - Londra 1835-1848.
64 - ADELINA BISIGNANI, Tocqueville e la democrazia in Europa.
65 - STEFANO QUIRICO (a cura di), L'Italia liberale di Giuseppe Saracco e Maggiorino Ferraris.
66 - FIORENZA TARICONE, Louis Blanc e Mme D'Agoult (Daniel Stern): socialismo e liberalismo.
67 - MARIA A. FALCHI (a cura di), Verità e forme del potere nella rilessione politica contemporanea.
68 - ALBERTO DE SANCTIS, Leonard T. Hobhouse: libero scambio e giustizia sociale.
69 - FEDERICA FALCHI (a cura di), Declinazioni della democrazia: tra recente passato e futuro prossimo.
70 - GABRIELE CARLETTI, Francesco Soave. Un illuminista controrivoluzionario.
71 - ADELINA BISIGNANI, Intellettuali e stato. Corporativismo, liberalismo e democrazia nell'Italia del Novecento.
72 - ANDREA CATANZARO, Hobbes e Omero: una traduzione “politica”?
73 - CARLO MORGANTI, Comunità e Stato, Europa e Occidente. La politica secondo Guardini.
74 - SARA LAGI - NICOLETTA STRADAIOLI, Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee. Una riflessione sul monismo.