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CENTRO EDITORIALE TOSCANO Nicoletta Stradaioli è dottore di ricerca in Storia del pensiero politico europeo moderno e contemporaneo presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Perugia. Ha trascorso vari periodi di studio negli Stati Uniti, in particolare all’Eric Voegelin Institute della Louisiana State University e partecipato ai convegni annuali dell’American Political Science Association-Eric Voegelin Society. È inoltre membro della redazione della rivista “Il Pensiero Politico”. Autrice di molti saggi su Eric Voegelin e sulla cultura politica del Novecento, ha pubblicato, tra l’altro, i volumi Il potere della povertà. Eric Voegelin interprete di Francesco d’Assisi (Carocci, 2014), Europa e Stati Uniti: Eric Voegelin e la storia delle idee politiche (CET, 2011). A 23,00 ERIC VOEGELIN E ISAIAH BERLIN STORICI DELLE IDEE UNA RIFLESSIONE SUL MONISMO Sara Lagi insegna Storia del pensiero politico all’Università di Torino. È stata docente a contratto di Storia dell’Unione europea presso Middlebury College (sede di Firenze) e Visiting Scholar presso la sede americana del medesimo college. Si occupa di storia del pensiero liberal-democratico e ha pubblicato lavori di carattere monograico su El pensamiento politico de Hans Kelsen. Los origines de De la Esencia y valor de la democracia (Biblioteca Nueva, 2007), Adolf Fischhof e Karl Renner. La questione nazionale austriaca (1869-1917) (CET, 2011), Georg Jellinek. Scritti di Filosoia, Politica e Diritto (Rubbettino, 2015). È membro della redazione della rivista “Il Pensiero Politico” e ha pubblicato saggi per riviste internazionali quali “Res Publica”, “Hungarian Historical Review”, “Araucaria. Revista Iberamericana de Filosoia, Politica y Humanidades”. S. LAGI - N. STRADAIOLI Quali sono le idee, le convinzioni, le visioni che hanno alimentato i sistemi totalitari del primo dopoguerra? Con questo enorme problema si sono confrontati numerosi intellettuali del secolo passato, fra i quali due pensatori fino ad ora mai posti in diretto raffronto l’uno con l’altro e anzi considerati profondamente distanti tra loro, ossia Eric Voegelin e Isaiah Berlin. Indubbiamente diversi per formazione e idealità politica, i due intraprendono però un percorso di ricerca molto simile, quello della storia delle idee, intesa come strumento per indagare le origini ideali del totalitarismo; origini che i due pensatori riconducono ad alcune grandi correnti di pensiero quali, ad esempio, lo scientismo illuminista e positivista, che sono per loro rappresentative di una Weltanschauung monistica. Quest’ultima, interpretata da entrambi come il “cuore” ideologico di ogni concezione liberticida, è la convinzione che sia possibile trovare una spiegazione univoca e definitiva alla complessità (sociale, politica, etica) del reale. Dalla certezza di possedere l’unica comprensione corretta della realtà scaturisce, ai loro occhi, la certezza ben più sinistra e pericolosa di poter controllare (e manipolare) tutto e tutti. Voegelin e Berlin si interrogano a lungo proprio su questo concetto con l’obiettivo, rispettivamente, di rivendicare la centralità della dimensione spirituale e trascendente per “sane” istituzioni democratico-liberali e di affermare il valore della libertà e della responsabilità individuali quali antidoti contro il conformismo e l’omologazione sociale. Nelle loro opere, la storia delle idee diventa quindi un mezzo di indagine attorno alle radici ideali del fenomeno totalitario e, al contempo, un mezzo di elaborazione teoricopolitica. 74 Sara Lagi - Nicoletta Stradaioli ERIC VOEGELIN E ISAIAH BERLIN STORICI DELLE IDEE UNA RIFLESSIONE SUL MONISMO CENTRO EDITORIALE TOSCANO POLITEIA Scienza e Pensiero 74 In copertina: Eric Voegelin e Isaiah Berlin. POLITEIA Scienza e Pensiero Collana fondata da Salvo Mastellone COMITATO SCIENTIFICO Anna Maria Lazzarino Del Grosso (Coordinatrice), Sergio Amato, Lea Campos Boralevi, Carlo Carini, Zeffiro Ciuffoletti, Vittor Ivo Comparato, Jean-Yves Frétigné, Paschalis Kitromilides, Cornel Zwierlein 74 CENTRO EDITORIALE TOSCANO 2017 © Copyright 2017 Centro Editoriale Toscano sas Via Dante 2/c - 50018 Scandicci - Firenze Tel./Fax 055.350530 e-mail: cs2p@fol.it cetscandicci@virgilio.it www.centroeditorialetoscano.it POLITEIA Scienza e Pensiero 74 Sara Lagi - Nicoletta Stradaioli ERIC VOEGELIN E ISAIAH BERLIN STORICI DELLE IDEE UNA RIFLESSIONE SUL MONISMO CENTRO EDITORIALE TOSCANO ISBN 978-88-7957-371-9 Il volume è stato sottoposto a doppia peer-review. Sara Lagi, Università degli Studi di Torino; Nicoletta Stradaioli, Università degli Studi di Perugia. Nella stesura del volume il lavoro è stato così ripartito: Sara Lagi ha elaborato il saggio introduttivo (Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee: considerazioni introduttive) e i capitoli IV, V, VI e VII; Nicoletta Stradaioli ha scritto i capitoli I, II, III e ha curato l’apparato bibliografico del volume. Introduzione INDICE Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee: considerazioni introduttive pag. Cap. I. Eric Voegelin e la storia delle idee “ 19 Cap. II. Eric Voegelin e la rilessione sul monismo “ 49 Cap. III. Monismo e scienza politica “ 85 Cap. IV. Isaiah Berlin e la storia delle idee “ 101 Cap. V. Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo “ 129 Cap. VI. Monismo e libertà positiva “ 161 Cap. VII. Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il “riccio” e la “volpe” “ 179 Bibliograia “ 197 Indice dei nomi “ 209 9 7 Introduzione ERIC VOEGELIN E ISAIAH BERLIN STORICI DELLE IDEE CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE1 Il primo dopoguerra in Europa si era caratterizzato per un attacco sempre più aspro nei confronti della democrazia parlamentare e liberale, criticata da una varietà impressionante di movimenti anti-sistema che, pur nella loro immensa diversità politico-ideologica, erano concordi nel ritenere che proprio quella particolare forma di governo era ormai obsoleta, inefficace, paralizzata dinanzi alla crisi morale, economica e politica di quel periodo. Le critiche alla democrazia, ai partiti tradizionali, la denuncia del carattere fittizio del governo democratico quale governo del popolo – brillantemente condotta prima della grande guerra da parte degli elitisti italiani (Mosca, Pareto, Michels) – si accompagnavano ad una altrettanto spietata analisi delle falle e delle debolezze del liberalismo e dello Stato di diritto liberale.2 Gli attacchi di Carl Schmitt al formalismo giuridico di Hans Kelsen e allo Stato di diritto liberale bene rappresentavano, a nostro giudizio, l’atmosfera di quel periodo.3 Il successivo avvento del Fascismo, del Nazismo e dello Stalinismo stava lì da ammonimento, a ricordare che una certa epoca era finita e che ad essa ne era subentrata un’altra, quella totalitaria. Tuttavia, già durante gli anni della guerra e ancora più dopo la sua fine, non pochi furono gli intellettuali che, da posizioni ideologiche e politiche differenti, cominciarono a interrogarsi sul perché del totalitarismo, sulle sue radici più profonde, su 1 Il titolo del nostro lavoro è stato ripreso da un articolo che abbiamo pubblicato recentemente per la rivista “Storia e Politica”. Alcune delle osservazioni che abbiamo sviluppato in questa Introduzione si ispirano, sebbene in una forma molto più ampliata e articolata, al primo paragrafo di quello stesso articolo: N. STRADAIOLI – S. LAGI, Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee: una riflessione sul monismo, “Storia e Politica”, 8 (2016), pp. 608-648. 2 S. MASTELLONE, Storia delle democrazia in Europa dal XVIII al XX secolo, Torino, UTET Libreria, 2004, pp. 264 ss; ID., Storia del pensiero politico europeo. Dal XIX al XX secolo, Torino, UTET Libreria, 1993, pp. 209 ss. 3 Si veda a proposito G. BONVECCHIO, Decisionismo: la dottrina politica di Carl Schmitt, Milano, UNICOPLI, 1984; e il fondamentale D. DYZENHAUS, Legality and Legitimacy: Carl Schmitt, Hans Kelsen and Hermann Heller in Weimar, Oxford, Clarendon Press, 1997. 9 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee quali fossero stati i fattori, le cause e le condizioni storiche, politiche, ideali che avevano contribuito alla sua nascita e al suo trionfo.4 Gli esempi sono numerosi: da Jacques Maritain che in Christianisme et Démocratie (1943)5 vedeva nelle ideologie totalitarie l’espressione di un Occidente che aveva smarrito la sua identità cristiana ed evangelica ad Hannah Arendt con il suo celebre ed emblematico The Origins of Totalitarianism (1951);6 dal sacerdote cattolico Romano Guardini che nel suo Welt und Person (1939)7 rifletteva in chiave anti-nazista sul significato di persona e poneva il problema dei limiti al potere (dello Stato) che, a suo giudizio, era stato del tutto rimosso dalla modernità, fino a Leo Strauss che nell’opera Natural Right and History (1953)8 si soffermava sulla deriva relativistica e storicistica che aveva condotto al nichilismo e, appunto, ai regimi totalitari. Nel variegato gruppo di intellettuali, impegnati in vario modo a riflettere sul totalitarismo, un ruolo significativo fu sicuramente rivestito da Eric Voegelin (1901-1985) e Isaiah Berlin (1909-1997). La ricerca che qui proponiamo, centrata sulla giustapposizione e comparazione tra il pensiero dei due autori, potrebbe sollevare alcune (lecite) perplessità e quindi ci sembra opportuno esplicitare le ragioni che ci hanno condotte ad accostare due nomi e due figure non solo fino ad ora mai posti in diretto raffronto, ma soprattutto molto diversi l’uno dall’altro: diversi per formazione, per idealità politica, per interessi, perfino per stile di scrittura e argomentazione.9 4 S. FORTI, Totalitarismo, Roma-Bari, Laterza, 2001; H. FRENSKE, Il pensiero politico contemporaneo, tr. it. Bologna, Il Mulino, 2001; R. MOLINELLI, Sui totalitarismo del Ventesimo secolo, Padova, Marsilio, 2005; E. Traverso, Totalitarismo. Storia di un dibattito, Verona, Ombre Corte, 2015. 5 J. MARITAIN, Christianisme et Démocratie, Paris, Hartmann, 1943. 6 H. ARENDT, The Origins of Totalitarianism, 2nd enlarged ed., Cleveland, New York, The World publishing company, 1958. 7 R. GUARDINI, Welt und Person. Versuche zur christlichen Lehre von Menschen, Würzburg, Wekbund, 1939. Per una ricostruzione sistematica del pensiero politico di Guardini cfr. C. MORGANTI, Comunità e stato. Europa e occidente. La politica secondo Guardini, Firenze, CET, 2016. 8 L. STRAUSS, Natural Right and History, Chicago and London, University of Chicago Press, 1953. 9 Per i profili biografici e intellettuali dei due pensatori rimandiamo, rispettivamente, alla prima e alla seconda parte del nostro libro. 10 Introduzione Si potrebbero sollevare altrettanti dubbi sulla scelta di tipo comparatistico che abbiamo intrapreso. Non si rischia forse di cadere in quelle sorti di ‘trappole’ intellettuali che, ignorando il ‘peso’ dei contesti storici e delle specificità storico-intellettuali, inducono a porre in comparazione pensatori altresì profondamente differenti e distanti, in nome di una qualche (magari non molto ben precisata) forma di affinità ideale? Inoltre, ogni tentativo di comparazione comporta e implica la capacità di individuare punti di contatto tra due autori, tra due pensieri, tra più opere, ma quali punti ed elementi di contatto potrebbero condividere l’autore di Two Concepts of Liberty10 con lo scienziato politico tedesco naturalizzato americano? Su quali basi avvicinare le opere di due intellettuali che non hanno mai fatto alcun riferimento l’uno all’altro? Come misurarsi con la loro originale produzione intellettuale? E soprattutto quale contributo questo tipo di indagine può (potrebbe) dare in termini di storia del pensiero politico? Queste sono le domande che ci siamo poste e alle quali proveremo a dare una risposta nelle nostre Considerazioni introduttive con l’intento di spiegare così il senso e la struttura del nostro lavoro. Innanzitutto, pur nella loro diversità e specificità, è indubbio che Voegelin e Berlin si interroghino a lungo sul totalitarismo. A differenza di Voegelin, Berlin non si riferisce mai esplicitamente al fenomeno totalitario, eppure, come sottolinea C. Hatier, egli può essere annoverato tra i grandi esponenti dell’“anti-totalitarian camp”, perché impegnato a elaborare una “insight into totalitarian mind”, dal carattere più precisamente anti-sovietico e anti-stalinista.11 Al di là di questo rilevante e comune impegno, la riflessione di Voegelin e Berlin sembra però articolarsi secondo percorsi differenti: Voegelin è soprattutto interessato a ri-pensare e ri-fondare la scienza politica per renderla 10 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, in ID., Four Essays on Liberty, Oxford, Oxford University Press,1969. 11 C. HATIER, Isaiah Berlin and the Totalitarian Mind, “The European Legacy”, 9 (2004), p. 768. Basti qui ricordare la lunga intervista che Berlin rilasciò negli anni ‘90 a Steven Lukes, nella quale il pensatore inglese dichiarava che la sua opera più celebre e discussa, Two Concepts of Liberty del 1958, aveva una forte connotazione anti-sovietica e anti-stalinista. I. BERLIN, Tra Filosofia e storia delle idee. La società pluralista e i suoi nemici. Intervista autobiografica e filosofica, a cura di S. Lukes, con Introduzione di S. Lukes, tr. it. Firenze, Ponte alle Grazie, 1994, p. 62. 11 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee all’altezza della nuova epoca post-totalitaria,12 laddove Berlin non elabora mai, né cerca in alcun modo di farlo, una costruzione dottrinaria, bensì sembra molto più interessato a “sharpen a sensibility” di carattere liberale, profondamente refrattaria verso qualsiasi forma di estremismo e fanatismo; una ‘sensibilità’ nella quale egli sembra vedere un antidoto potente contro qualsiasi deriva e nuova minaccia liberticida.13 Al contempo, in Voegelin appare altresì centrale il problema del totalitarismo quale degenerazione di un certo tipo di modernità,14 mentre tale problematica è sostanzialmente assente nel pensiero di Berlin. Agli occhi del pensatore inglese è piuttosto fondamentale interrogarsi sul significato di libertà e di libertà individuale, negata nella maniera più estrema e radicale dalle ideologie e dai sistemi totalitari; questione, invece, che appare infinitamente più sfumata nell’opera di Voegelin,15 proiettata sostanzialmente ad indagare “the principal types of order of human existence in society and history as well as the corresponding symbolic forms”16 e quindi a leggere il concetto di libertà diluito nella complessa vicenda di una storia delle esperienze di ordine e disordine delle società umane. Da un lato, abbiamo Eric Voegelin il quale è stato a più riprese definito 12 La ‘restaurazione’ voegeliniana della scienza politica è affrontata nel Cap. I (par. 1.2) e nel Cap. II (par. 2.1) di questo volume. Basti qui ricordare, ad esempio, E. VOEGELIN, Political Theory and the Pattern of General History, in ID., Published Essays 1940-1952, Columbia and London, University of Missouri Press, 2000, pp. 157-167; ID., The New Science of Politics, in ID., Modernity without Restraint, Columbia and London, University of Missouri Press, 2000; B. COOPER, Eric Voegelin and the Foundation of Modern Political Science, Columbia and London, University of Missouri Press, 1999. 13 Questa è la linea interpretativa, largamente condivisibile, che troviamo in T. NARDIN, Micheal Oakeshott’s Cold War Liberalism, New York, Palgrave Macmillan, 2015, p. 1 ss. 14 Questo aspetto del pensiero voegeliniano è analizzato nel Cap. II. Parti consistenti della History of Political Ideas di Voegelin sono dedicate alla critica della “logica del moderno”, ovvero alla messa in discussione del razionalismo scientista-positivista e delle filosofie universalistiche. È poi in particolare in The New Science of Politics che la critica alla modernità trova la sua teorizzazione compiuta. Cfr. ad esempio, E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit.; ID., Wissenschaft, Politik und Gnosis, München, Kosel, 1959; tr. ingl. ID., Science, Politics, and Gnosticism, in ID., Modernity without Restraint, cit. 15 Entrambi questi aspetti del pensiero voegeliniano e berliniano verranno evidenziati nel corso della nostra analisi. 16 E. VOEGELIN, Order and History, vol. III, Plato and Aristotle, Columbia and London, University of Missouri Press, 2000, p. 43. 12 Introduzione un pensatore conservatore, sebbene – e ci preme sottolinearlo – afferente ad un conservatorismo molto particolare, distante da fantasie o rimpianti reazionari e da nostalgie per vecchi equilibri istituzionali, che mette piuttosto in discussione una certa forma di modernità, ossia un preciso modello di razionalità, per ‘restaurare’ i principi della filosofia classica e della filosofia cristiana.17 Dall’altro abbiamo Isaiah Berlin, uno schietto intellettuale liberale, che vede nel liberalismo non una dottrina politica bensì un modo di intendere la vita e i rapporti tra le persone, fondato sul rispetto delle libertà e della dignità individuali, sulla libertà di scelta e di pensiero.18 Se ci fermassimo a queste considerazioni non avremmo però neppure cominciato a rispondere alle perplessità e alle questioni prima sollevate. Ci dovremmo semplicemente limitare ad osservare che, in un certo momento storico, Eric Voegelin e Isaiah Berlin – come molti altri intellettuali – si sono misurati con un fenomeno ideologico e politico dalle conseguenze ed effetti devastati e che lo hanno fatto dimostrando però una sensibilità e una forma mentis sostanzialmente differenti e con obiettivi in parte differenti. Il nostro libro nasce invece dalla convinzione che ci sia molto di più. In uno suo studio recente Jan Werner Müller osserva, in maniera quasi distratta eppure per noi molto significativa, come “Voegelin’s epichistorical diagnosis of modernity in certain respects runs parallel to some of the narratives and psychological diagnosis offered by the liberals”.19 I “liberals” ai quali egli fa riferimento sono gli esponenti del cosiddetto Cold War Liberalism, ossia di quella corrente di pensiero che, nel secondo dopoguerra, rielabora il pensiero liberale in termini fortemente anti-dogmatici, “epistemologicamente scettici” e con una evidente carica di critica verso il modello politico sovietico.20 A quel gruppo viene normalmente ricondotto lo stesso Berlin (insieme ad Aron, Popper, Oakeshott), ma certamente non ne fa parte 17 Cfr. E. SANDOZ, The Politics of Truth and Other Untimely Essays. The Crisis of Civic Consciousness, Columbia and London, University of Missouri Press, 1999, pp. 139-143. 18 Cfr. C.J. GALIPEAU, Isaiah Berlin’s Liberalism, Oxford, Clarendon Press, 1994. Sul significato di liberalismo in una prospettiva di storia del pensiero politico: G. BEDESCHI, Storia del pensiero liberale, Soveria-Mannelli, Rubbettino, 2015. 19 J.W. MÜLLER, Fear and Freedom: on Cold War Liberalism, “European Journal of Political Theory”, 7 (2008), p. 60. 20 Cfr. T. NARDIN, op. cit., pp. 1 ss. 13 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee Voegelin.21 La osservazione di Müller è per noi molto interessante perché, a nostro giudizio, quel “running parallel” riguarda, in particolare, proprio Voegelin e Berlin. Pur nelle loro peculiarità e originalità, i due pensatori non solo “corrono parallelamente” ma finiscono per ‘incontrarsi’ proprio su di un terreno di indagine ben preciso, che è quello della storia delle idee, e condividono, come testimoniato dalla loro produzione intellettuale, una necessità intellettuale ben precisa, ossia quella di ricercare e individuare, nello specifico, le radici ideali e intellettuali profonde del totalitarismo. È la condivisione di questi due aspetti, di queste due esigenze che, a nostro giudizio, permette di spiegare perché – richiamandosi ancora una volta a Müller – una parte della riflessione di Voegelin sembri svilupparsi “parallelamente” ad una certa “narrativa liberale” di quel Cold War Liberalism al quale Berlin viene ricondotto. È a partire da queste considerazioni che abbiamo deciso innanzitutto di delimitare chiaramente il contenuto del nostro studio: abbiamo elaborato un confronto tra Voegelin e Berlin come storici delle idee che, in quanto tali, cercano di comprendere la genealogia di idee che ha condotto nel corso della storia alla nascita e alla affermazione di sistemi e ideologie liberticide. Nel fare ciò non abbiamo potuto evitare di confrontarci direttamente con un termine ed un concetto (epistemico, filosofico e politico) di grande rilevanza per chi si avvicini a Berlin quale storico delle idee – e come abbiamo cercato di dimostrare anche allo stesso Voegelin – ossia il concetto di monismo che immediatamente – così come pluralismo – evoca il nome del pensatore inglese, in particolare la sua celebre 21 Voegelin difficilmente può essere ricondotto a uno specifico filone di liberalismo, in quanto egli stesso è fortemente critico verso certi aspetti del modello liberale. In tale senso, l’intellettuale tedesco contrappone alla debolezza della democrazia liberale un ordine politico (e una scienza politica) ancorati alle radici classiche e cristiane. Cfr. J.W. MÜLLER, Fear and Freedom: on Cold War Liberalism, cit., pp. 20 ss; ID., Value Pluralism in Twentieth-Century Anglo-American Thought, in M. BEVIR (edited by), Modern Pluralism. Anglo-American Debates Since 1880, Cambridge, Cambridge University Press, 2011, pp. 81-104; J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1993, p. 155; ID., Reading Max Weber: Leo Strauss and Eric Voegelin, “European Journal of Political Theory”, 3 (2004), pp. 151-166; T. MCALLISTER, Revolt Against Modernity. Leo Strauss, Eric Voegelin, and the Search for a Postliberal Order, Lawrence, University Press of Kansas, 1996; J.H. HALLOWELL, The Decline of Liberalism as an Ideology with Particular Reference to German Politico-Legal Theorists, Berkeley, University of California Press, 1943. 14 Introduzione Prolusione Two Concepts of Liberty del 1958.22 Se è indubbio che il termine di monismo e pluralismo sia utilizzato trasversalmente in più ambiti disciplinari, dalla filosofia alla sociologia fino alla scienza politica,23 è altrettanto innegabile che esso sia diventato celebre e si sia durevolmente impresso nell’immaginario collettivo grazie al saggio berliniano. Nell’ultimo capitolo di Two Concepts of Liberty leggiamo: One belief, more than any other, is responsible for the slaughter of individuals on the altars of the great historical ideals – justice or progress or the happiness of future generations, or the sacred mission or emancipation of a nation or race or class, or even liberty itself, which demands the sacrifice of individuals for the freedom of society. This is the belief that somewhere, in the past or in the future, in the divine revelation or in the mind of an individual thinker, in the pronouncements of history or science, or in the simple heart of an uncorrupted good man, there is a final solution.24 Per Berlin la convinzione di trovare una soluzione finale ai problemi della realtà umana, di individuare e applicare alla società e alla politica “a single criterion”, una formula in grado di ridurre la complessità dell’esistente ad un principio onniesplicativo, di unificare tutti i possibili valori e scopi, 22 Ci occuperemo nello specifico del concetto di monismo in Berlin, così come esso emerge da Two Concepts of Liberty, nel Cap. VI. 23 In ambito strettamente filosofico, potremmo ricordare uno dei padri del giusnaturalismo moderno, Christian Wolff (1679-1754), che conia e usa il termine monismo per riferirsi ad un unico principio (materiale o spirituale) al quale dovrebbero essere ricondotti tutti gli esseri viventi. Altrettanto significativo potrebbe essere il richiamo al “monismo sociologico” teorizzato da Emile Durkheim (1858-1971), secondo il quale i rapporti tra gli individui e lo Stato dovrebbero essere sostanzialmente assimilati a quelli esistenti tra gli uomini e Dio, ossia tra gli uomini e una entità “monistica” ad essi superiore. Lo stesso concetto di pluralismo, che Berlin comincia a definire in Two Concepts of Liberty, e sul quale si concentrerà fortemente in molte sue opere successive al ‘58, ritorna e riemerge in più ambiti disciplinari e scientifici, con significati e implicazioni particolari e diversi da quelli individuati dal filosofo inglese: basti pensare alla scienza politica e a pensatori come Maitland e Laski che parlano di pluralità di centri, organizzazioni e gruppi fra i quali disperdere e diffondere il potere per evitare che esso si concentri nelle mani di un ristretto manipolo di persone. Sul piano strettamente sociologico, potremmo ricordare i numerosi studi dedicati all’analisi del pluralismo, inteso come quella particolare forma di organizzazione sociale nella quale differenti e piccoli gruppi riescono a preservare la loro specificità culturale. Si veda a proposito cfr. C. PERELMAN, The New Rethoric and the Humanities, Dortrecht: Holland, Boston: U.S.A, London: England, D. Reidel Publishing Company, 1979; G. PASQUINO, Nuovo corso di scienza politica, Bologna, Il Mulino, 2009; L. DIOTALLEVI, L’ordine imperfetto. Stato, modernità, secolarizzazione, Bologna, Il Mulino, 2015; U. HANNERZ, La complessità culturale, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1998. 24 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 167. 15 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee di realizzare la perfezione, l’armonia e la vera pace o la vera libertà qui ed ora, ossia di poter “racchiudere” la vita umana, sociale, politica, etica entro uno schema, un modello o una serie di leggi ritenute universalmente valide, ha caratterizzato quelle ideologie e sistemi politici che hanno fatto scempio della libertà e della dignità personali.25 Tale certezza è tipica di una Weltanschauung monistica e quest’ultima è, nell’ottica berliniana, parte integrante ed essenziale dei grandi regimi totalitari.26 Riteniamo che, per una serie di ragioni che discuteremo e argomenteremo nel corso della nostra analisi, la concezione di monismo, intesa in senso berliniano, possa essere estesa all’opera voegeliniana. Come cercheremo di mostrare nella prima parte del nostro lavoro, anche in Voegelin sembra prendere forma una riflessione filosofica e politica sulla natura monistica di quelle idee, visioni e concezioni che costituiscono le origini profonde del totalitarismo e che vengono indagate dai due pensatori attraverso la storia delle idee. Al loro modo di concepire e declinare questa particolare disciplina abbiamo dedicato ampio spazio nella nostra ricerca, per due ragioni fondamentali: primo, perché sia per Voegelin, sia per Berlin essere storici delle idee e “fare” storia delle idee significano, più concretamente, “fare” filosofia e pensiero politico, semplicemente “con altri strumenti”;27 secondo, perché per entrambi le idee hanno un potere straordinario sulla vita degli uomini. Nel nostro studio su Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee: una riflessione sul monismo, ci siamo dovute anche porre un ulteriore problema, non indifferente per chi si occupa di storia del pensiero politico, ossia su quale periodo della loro produzione intellettuale (peraltro ampia e variegata) concentrarci. Abbiamo quindi scelto di limitare la nostra ricerca 25 Ivi, pp. 167-171. 26 Su questo aspetto cfr. Cap. VI. 27 È M. Bode a sottolineare opportunamente questo aspetto in rapporto all’opera berliniana; più precisamente egli afferma che “l’approccio” di Berlin alla storia delle idee è un modo di fare filosofia “by other means”. Ci soffermeremo nel dettaglio sulla concezione berliniana e voegeliniana della history of ideas: prendendo spunto dalla interpretazione di Bode, che estendiamo anche a Voegelin, cercheremo di mostrare come e in quale misura la storia delle idee offra ad entrambi i pensatori una opportunità unica di elaborare una loro particolare visione filosofico-politica. Nell’ultimo capitolo della prima parte e nel penultimo capitolo della seconda parte (Cap. III e Cap. VI) prenderemo in esame proprio tali questioni. M. BODE, Isaiah Berlin and the Problem of Counter-Enlightenment Liberalism, B.A. (Hons), Thesis submitted in the School of History and Politics, University of Adelaide, 2011, p. 72. 16 Introduzione ad un lasso di tempo ben preciso, compreso tra la metà degli anni ‘30 e la fine degli anni ‘50, quando cioè Voegelin e Berlin si misurano con il tema delle radici ideali e intellettuali del totalitarismo come storici delle idee e cercano, rispettivamente, di definire il significato di scienza politica e di ricerca storica, distinguendole (con tutta una serie di implicazioni per noi rilevanti sia sul piano epistemologico, sia sul piano teorico-politico) dalla conoscenza di tipo scientifico. Nel particolare periodo storico da noi preso in esame, Voegelin e Berlin emergono come due pensatori che individuano una serie di correnti di pensiero e concezioni sia epistemiche, sia filosofiche e filosofico-politiche dal carattere monistico. L’aspetto interessante è che, pur nelle loro diversità e nella specificità dei loro percorsi biografici e intellettuali dei quali daremo debitamente conto, entrambi rintracciano in una certa parte della tradizione illuminista e razionalista, nello scientismo, nel positivismo, nel materialismo storico alcune di quelle concezioni, idee, visioni che avrebbero contribuito a preparare nel corso della storia il ‘terreno’ ai sistemi liberticidi del ‘900. Relativamente a Berlin è stato spesso sollevato il problema di come conciliare la sua idealità liberale con la sua critica ad una parte dell’illuminismo, ossia di quella corrente di pensiero dalla quale si suole far derivare il liberalismo moderno.28 In questa sede, si è deciso di ‘accantonare’ tale problematica per soffermarci invece su come una simile critica sembri avvicinare il pensatore inglese a Voegelin, così come ad altri intellettuali che nel secondo dopoguerra si misurano in maniera decisamente polemica nei confronti della temperie razionalista e illuminista.29 28 Sulla controversa questione nell’opera di Berlin sul rapporto fra la sua attitudine sostanzialmente critica nei confronti di una certa parte della tradizione illuminista – altresì essenziale per comprendere la sua riflessione sulle radici intellettuali del totalitarismo – e la sua anima liberale rimandiamo a R. HAUSHEER, Enlightening the Enlightenment, in J. MALI - R. WOLKER (edited by), Isaiah Berlin’s Enlightenment and Counter-Enlightenment, Philadelphia, American Philosophical Society, 2003 e G. GARRARD, The Counter-Enlightenment Liberalism of Isaiah Berlin, “Journal of Political Ideologies”, 3 (1997), pp. 281-296. Il primo tende a smorzare la carica di critica che Berlin rivolge ad alcuni aspetti e componenti della tradizione illuminista, mentre il secondo tende a enfatizzarla. In generale, è da sottolineare come Berlin sia tutt’altro che anti-illuminista. Egli riconosce nel Secolo dei Lumi un momento essenziale e imprescindibile nello sviluppo del concetto di libertà e dei diritti di libertà all’interno della cultura occidentale ma ciò non gli impedisce, appunto, di sottolinearne aspetti, per lui, problematici e controversi. È proprio su ‘questo’ Berlin che ci soffermeremo in rapporto a Voegelin. 29 Per un inquadramento generale di questo tema si veda D.C. RASMUSSEN, Contempo- 17 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee Portando la nostra attenzione proprio su Voegelin, più volte la letteratura specialistica ha messo in rilevo come la sua presa di distanza dal pensiero settecentesco consista nel rifiuto di determinate idee del Secolo dei Lumi, idee che, per lo studioso tedesco, sono la premessa di una ragione e di una scienza “scientista”, con finalità utopistiche, che recide ogni legame con la trascendenza. Non si tratta perciò di un rifiuto incondizionato, ma che ha ben presente come all’interno dell’illuminismo esistano più correnti, sebbene, come vedremo, appaia molto più intenso e netto della critica che anche Berlin muove ad alcuni aspetti del pensiero illuminista.30 Il risultato, come abbiamo infine cercato di sintetizzare nel capitolo finale del nostro lavoro, è la elaborazione, da parte di entrambi i pensatori, di una riflessione sul monismo – condotta attraverso la storia delle idee – che appare anzitutto, sul piano prettamente teorico-politico, un ripensamento critico di una parte di quella tradizione intellettuale europea e occidentale che, a loro giudizio e per dirla con Berlin, avrebbe finito per contribuire ad alimentare e rafforzare tutte quelle ideologie e quei regimi che sono riusciti nell’intento di “deprive men, in the name of some remote, or incoherent, ideal of much that they have found to be indispensable to their life as unpredictably self-transforming human-beings”.31 rary Political Theory as an Anti-Enlightenment Project, pp. 1-45, disponibile sul sito della Brown University: www.brown.edu/Research/ppw/files/Rasmussen_PPW.pdf. In generale, per una presentazione e un inquadramento efficaci di quei pensatori che dal XVIII in avanti si sono confrontati criticamente con l’illuminismo rimandiamo a G. GARRARD, CounterEnlightenments. From the Eighteenth Century to the Present, New York, Routledge, 2006 e da segnalare anche Z. STERNHELL, Contro l’Illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda, tr. it. Roma, Baldini Castoldi Dalai, 2007. 30 In particolare, alla critica di Voegelin nei confronti dell’illuminismo francese fa da contraltare il rilievo che egli stesso dà allo Scottish Enlightenment e, nello specifico, alla tradizione dello Scottish Common Sense. Cfr. E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, Columbia and London, University of Missouri Press, pp. 56-61: 56-57; ID., Anamnesis. On the Theory of History and Politics, Columbia and London, University of Missouri Press, 2002. 31 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 171. 18 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee CAPITOLO I ERIC VOEGELIN E LA STORIA DELLE IDEE 1.1 Eric Voegelin: storia, uomo e idee politiche Eric Voegelin32 è noto al grande pubblico per essere indiscutibilmente uno dei grandi filosofi politici del XX secolo che, confrontandosi con la scienza politica a lui coeva, ha elaborato una originale critica della modernità 32 Eric Voegelin nacque a Colonia da modesti genitori di religione protestante; dopo avere dimorato a Colonia e a Königswinter (Renania), la famiglia Voegelin si trasferì, nel 1910, in Austria, a Vienna, dove Voegelin compì l’intero ciclo di studi inferiori e superiori. Nel 1919 si iscrisse alla facoltà di legge dell’Università della capitale e nel 1922 conseguì, con Kelsen e Spann, il dottorato in scienze politiche. Il fermento culturale di Vienna e l’ambiente accademico esercitarono sul giovane Voegelin un influsso decisivo. L’università era animata da personalità quali Hans Kelsen, Alfred Verdross, Adolf Merkl, per il diritto, da Friedrich Wieser, Ludwig von Mises e Joseph Schumpeter, per l’economia, Moritz Schlick, per la filosofia della scienza; inoltre, l’istituto austriaco per gli studi storici annoverava tra i suoi membri Alfons Dopsch, che aveva raggiunto fama internazionale grazie ai suoi studi sulla storia economica del periodo carolingio, e Otto Brunner, che sarebbe diventato famoso per le sue ricerche sul feudalesimo medievale. Voegelin, inoltre, non poté fare a meno di essere colpito dalla scuola psicanalitica di Freud, anche se non conobbe mai il grande psicologo. Studiò, però, con Hermann Swoboda, entrando in contatto con il lavoro del fondatore della teoria psicanalitica e con Otto Weininger; conobbe, poi, alcuni degli allievi di Freud, come: Heinz Hartmann, Robert Waelder e Ernst Kries. Nel 1929 divenne libero docente di Dottrina dello Stato e Sociologia, presso la facoltà di legge; nel 1936, dopo essere stato nominato professore straordinario, subì una progressiva emarginazione accademica per essersi dichiarato nemico del nazismo, vedendosi alla fine costretto ad abbandonare l’incarico universitario e l’Europa. Nel 1938 emigrò negli Stati Uniti in seguito all’Anschluss. Nel 1958 fu chiamato in Germania, all’università di Monaco a dirigere l’Institut für politische Wissenschaft. Nel 1969, divenne professore emerito di scienze politiche all’Università di Monaco e ritornò negli Stati Uniti presso la Hoover Institution della Stanford University, dove lavorò come Research Fellow. Qui rimase fino al giorno della morte. Cfr. E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, Columbia and London, University of Missouri Press, 2006. Inoltre, tra le biografie intellettuali più note su Voegelin: M.P. FEDERICI, Eric Voegelin. The Restoration of Order, Wilmington, ISI Books, 2002; E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution. A Biographical Introduction, New Brunswick-London, 2000; B. COOPER, op. cit.; S. CHIGNOLA, Pratica del limite. Saggio sulla filosofia politica di Eric Voegelin, Padova, Unipress, 1998; G.F. LAMI, Introduzione a Eric Voegelin. Dal mito teo-cosmogonico al sensorio della trascendenza: la ragione degli antichi e la ragione dei moderni, Milano, Giuffrè, 1993; G. ZANETTI, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin, Bologna, Clueb, 1989. 19 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee secondo il paradigma dello gnosticismo. Eppure non si deve dimenticare che gran parte della produzione teorico-scientifica voegeliniana mostra il grande interesse del pensatore tedesco per le idee e la loro storia, ovvero per una storiografia delle idee che riveli il rapporto tra storia politica e teoria politica. Certamente, parlare di Voegelin quale historian of ideas è ‘insolito’, perché egli non può essere definito propriamente uno storico, così come propriamente storici non possono essere definiti i suoi scritti. Eppure, tra gli anni ‘30 e gli anni ‘50 del Novecento si aprì per Voegelin un percorso di ricerca che rappresenta un momento centrale per comprendere la genesi delle ricerche voegeliniane oltre che alcuni nodi problematici delle sue future pubblicazioni. Il Voegelin storico delle idee sviluppa un’analisi che si misura a fondo con eventi, vicende storiche, uomini, autori e con idee e teorie che ad essi sono intrecciate e ne costituiscono il fondamento. Si tratta di uno studio che prende in esame le teorie sul potere, la dottrina dello Stato, la sfera dei sentimenti religiosi e degli elementi più irrazionali del vivere politico e si confronta, da un punto di vista metodologico, con la relazione tra storia e filosofia. Entro questo grande schema d’indagine prevale poi un tema che caratterizza la sua intera biografia intellettuale: il totalitarismo, declinato anche come monismo nelle sue varie dimensioni (epistemologica, ontologica, filosofica, politica e morale), quale elemento del totalitarismo stesso. Per mezzo della storia delle idee Voegelin affronta così una grande sfida: rintracciare le radici storiche, culturali, intellettuali del monismo totalitario. È importante fare qui alcune precisazioni; in primo luogo, a differenza di Berlin, Voegelin raramente usa in modo esplicito il termine ‘monismo’, eppure questo caratterizza grande parte della produzione scientifica voegeliniana. Emblematico è uno dei primi scritti dello studioso tedesco, Über die Form des amerikanischen Geistes (1928),33 frutto di due anni di studio trascorsi negli Stati Uniti d’America, nel quale emerge fin da subito l’av33 E. VOEGELIN, Über die Form des amerikanischen Geistes, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1928; tr. ingl. ID., On the Form of the American Mind, Baton Rouge and London, Louisiana State University Press, 1995. Il contenuto del volume è piuttosto eterogeneo, prendendo in esame autori come John R. Commons, George Santayana, Charles S. Peirce, William James, Husserl e Brentano (solo per citarne alcuni) e temi quali tempo e esistenza, mistica puritana e dottrina calvinista, problematiche teorico-giuridiche-economiche della dottrina politica americana, oltre che la questione delle classi sociali e del movimento sindacale in America. 20 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee versione a qualsiasi impostazione monistica o dogmatica. Per Voegelin il monismo obbliga, sia a livello filosofico sia politico, a sottomettersi a una “absolute mind”, la quale impone modelli di pensiero (e modelli politici) schematicamente costruiti in base a principi aprioristicamente determinati. La pluralità e articolazione della realtà, compresa l’esistenza socio-politica, è così ridotta a un sistema chiuso, che si pretende di dominare come un dato sensibile (“an all-encompassing datum”).34 Nel nostro volume vedremo quanto vicina sia la concezione voegeliniana di monismo a quella di Berlin e soprattutto quanto essa sia centrale nella loro opera di storici delle idee. È altresì opportuno sottolineare che la riflessione voegelinina sulle radici ideali del totalitarismo non può essere completamente ricondotta entro l’alveo della storia delle idee, ma essa ne costituisce l’incipit, mostrando quei contenuti, temi, filoni discorsivi che contraddistinguono il pensiero maturo dello studioso. Stando così le cose, c’è da chiedersi come questa storiografia delle idee venga da Voegelin concepita e come si rapporti con altre discipline, quali: political theory e political science. L’indagine che si propone presuppone, perciò, anche un’analisi attenta su questioni di metodo, oltre che tematicocontenutistiche, che investono la storia delle idee nel suo complesso e che definiscono l’originalità dell’elaborazione speculativa dello studioso tedesco attorno alle idee politiche. In tal senso, il caratteristico approccio voegeliniano alla storia delle idee mette in luce strumenti teorici e temi al centro del percorso interpretativo che egli sviluppa nei confronti delle visioni totalitarie della realtà. Non si potrà allora non riflettere sulle influenze, sulle correnti, sui ‘maestri’ che determinano l’ambito speculativo della storia delle idee voegeliniana. Mostrando l’identità di Voegelin quale storico delle idee, emergono continuità, affinità (e differenze) con l’altro grande intellettuale oggetto del nostro studio: Berlin. Questi ha infatti apportato un contributo vitale alla storia delle idee e alla conoscenza di questioni e problemi relativi al carattere della ricerca storica e al suo significato; inoltre, si è confrontato con le radici culturali e ideologiche dei moderni totalitarismi. Nella seconda parte del volume il pensiero del filosofo inglese riguardo a queste tematiche verrà affrontato approfonditamente. 34 Cfr. E. VOEGELIN, On the Form of the American Mind, cit., pp. 57-63. 21 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee L’attenzione di Voegelin per le idee e per le idee politiche in particolare può essere cronologicamente suddivisa in due momenti: a) gli anni Trenta, ovvero la prima produzione scientifica voegeliniana in cui si evidenzia il problematico rapporto che egli intrattiene con la dottrina dello Stato tedesca ed in cui esamina le idee di razza e le teorie della razza; b) gli anni Quaranta e Cinquanta, in cui, emigrato negli Stati Uniti d’America, si confronta con l’ambiente intellettuale statunitense, con la scienza politica americana, e si impegna a redigere un manuale universitario, la History of Political Ideas, che avrebbe dovuto competere, da un punto di vista commerciale e intellettuale, con opere quali la History of Political Theory (1937) di George H. Sabine. Affronteremo in dettaglio nelle pagine successive il contesto disciplinare e professionale americano e la History nei suoi elementi portanti; veniamo invece adesso a definire come Voegelin impieghi, sin dai primi scritti, le idee quale strumento idoneo per interpretare storicamente la realtà politica e per cogliere l’ispirazione monistica di alcuni metodi logicoscientifici legati alla comprensione della realtà politico-statale. A cominciare dagli anni Trenta del Novecento Voegelin è interessato a elaborare una Staatslehre che, in netta contrapposizione al sistema kelseniano della Normlogik, tenga conto dei fenomeni politici contingenti e delle idee politiche quale fulcro del fenomeno associativo statale.35 In tale contesto, i due volumi sull’idea di razza, Rasse und Staat e Die Rassenidee in der Geistesgeschichte von Ray bis Carus, pubblicati entrambi nel 1933, insieme a Der autoritäre Staat, del 1936, costituiscono il primo concreto tentativo di costruire su nuove basi la dottrina dello Stato, sganciandosi 35 Voegelin fu allievo e assistente di Kelsen negli anni universitari viennesi. Riguardo al complesso rapporto intellettuale tra il pensatore tedesco e il giurista austriaco è di grande interesse la corrispondenza tra i due autori, dal 1939 al 1954. Cfr. E. VOEGELIN, Selected Correspondence 1950-1984, Columbia and London, University of Missouri Press, 2007, pp. 206-209 e 214-218. Significativi sono poi i seguenti lavori voegeliniani: Reine Rechtslehre und Staatslehre, “Zeitschrift für öffentliches Recht”, IV (1924), pp. 80-131; Kelsen’s Pure Theory of Law, “Political Science Quarterly”, XLII (1927), pp. 268-276; Zur Lehre von der Staatsform, “Zeitschrift für öffentliches Recht”, VI (1927), pp. 572-608; Die Souveranitätstheorie Dickinsons und die Reine Rechtslehre, “Zeitschrift für öffentliches Recht”, VIII (1929), pp. 413-434; Die Einheit des Rechtes und das soziale Sinngebilde Staat, “Internationale Zeitschrift für Theorie des Rechtes”, 1/2 (1930), pp. 58-89; Die österreichische Verfassungsreform von 1929, “Zeitschrift für Politik”, XIX, (1930), pp. 585-615. 22 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee dalla metodologia della scienza politico-giuridica a lui coeva.36 Secondo la prospettiva voegeliniana, la “dottrina pura del diritto” (Reine Rechtslehre) di Hans Kelsen eliminava dall’ordinamento giuridico qualsiasi condizionamento fenomenico e umano, escludendo così la possibilità di indagare e di confrontarsi con la dimensione sociale ed antropologica della realtà. Lo Stato era, per Kelsen, l’unico vero oggetto della scienza giuridica e non era necessario chiedersi da quali idee e da quali esperienze umane traesse origine. Era pertanto racchiuso entro un sistema logico di norme, costruito sull’autonomia della legge e trasformato in semplice macchina di produzione normativa. Il giurista austriaco respingeva ogni possibilità di spiegare il legame della società indipendentemente dalla positivizzazione giuridica. L’attenzione di Voegelin è invece rivolta agli elementi concretamente politici a fondamento della costruzione “dell’esperienza politica comunitaria”:37 lo studio della dinamica (extra-giuridica) della costruzione della comunità politica impone, perciò, una scelta metodologica differente da quella kelseniana. Senza entrare nel merito dello scontro speculativo tra Voegelin e Kelsen, che la letteratura critica ha studiato a fondo,38 si vuole qui sottolineare come la polemica di Voegelin nei confronti della metodologia kelseniana implichi una netta presa di posizione contro il ‘monismo metodologico’ del giurista austriaco. Un monismo metodologico che, a parere di 36 E. VOEGELIN, Rasse und Staat, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1933; tr. ingl. ID., Race and State, Baton Rouge and London, Louisiana State University Press, 1997; ID., Die Rassenidee in der Geistesgeschichte von Ray bis Carus, Berlin, Junker und Dünnhaupt Verlag, 1933; tr. it. ID., Razza. Storia di un’idea, traduzione e cura G. Rossi, Milano, Edizioni Medusa, 2006; ID., Der autoritäre Staat. Ein Versuch über das österreichische Staatsproblem, Wien, Springer, 1926; tr. ingl. ID., The Authoritarian State. An Essay on the Problem of the Austrian State, Columbia and London, University of Missouri Press, 1999. Nei due volumi sull’idea di razza Voegelin attacca frontalmente la supposta scientificità del biologismo razzista e nazista. È chiaro l’impegno scientifico, politico e civile del pensatore tedesco. Oltre a questi due volumi è significativo il saggio The Growth of the Race Idea, pubblicato nel 1940 in “The Review of Politics”, nel quale Voegelin sintetizza, per il pubblico statunitense, alcuni dei principi chiave della sua analisi sull’idea e le teorie della razza. Cfr. E. VOEGELIN, The Growth of the Race Idea, “The Review of Politics”, 2 (1940), pp. 283-317; ora anche in ID., Published Essays 1940-1952, Columbia and London, University of Missouri Press, 2000, pp. 27-61. 37 S. CHIGNOLA, Pratica del limite. Saggio sulla filosofia politica di Eric Voegelin, cit., pp. 9, 7-12. 38 Ivi, cit., pp. 30-40, 54-67; S. CHIGNOLA, “Fetishism with the Norm” and Symbols of Politics: Eric Voegelin between Sociology and “Rechtswissenschaft” (1924-1938), 10, Eric Voegelin-Archiv, Ludwig-Maximilians-Universität München, Occasional papers, 1999, pp. 5-70. 23 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee Voegelin, non solo fa dell’approccio logico-categoriale al fenomeno statale l’unico metodo valido, ma per di più subordina l’oggetto studiato, lo Stato, al metodo della Normlogik e alle sue categorie. Nel contesto della Reine Rechtslehre ciò implica, quindi, che lo Stato venga disegnato dal metodo stesso della Normlogik e la sua unità assicurata dalle categorie della procedura logico-normativa. Lo Stato si dissolve pertanto nel diritto e il diritto si riduce esclusivamente ad un sistema logico di norme. Seguendo questo tragitto, Kelsen mette al bando la dimensione umana, socio-culturale e storica dell’ordinamento statale e fa della Normlogik un dogma, una tecnica normativa che ambisce a costruire un modello generale valido per tutti gli ordinamenti giuridici.39 Evidenziando i limiti dell’approccio metodologico kelseniano, Voegelin afferma la necessità di una diversa costruzione della dottrina dello Stato che non guardi solo ai principi logico-giuridici formali, ma riveli la natura storica, sociologica, antropologica dell’ordine statale. È infatti l’uomo che organizza e realizza lo Stato: “the roots of the State must be sought in the nature of man”.40 La comunità politica va studiata a partire dall’uomo e dalle strutture di senso, dagli elementi essenziali, quali appunto le idee, che spiegano il vincolo tra individuo e società. Per superare il giusformalismo kelseniano, Voegelin ha di conseguenza in mente “a system of Staatslehre” che si articola in tre parti: a) theory of law, b) theory of power e c) political ideas.41 Rispetto, però, a queste ultime egli ammette di non avere una conoscenza sufficiente, “I knew nothing whatsoever about political ideas”, e dunque inizia a colmare tale lacuna “acquiring knowledge on specific ideas”.42 I risultati di questa ricerca furono i due volumi sulla razza: una prima analisi sistematica intorno alle idee politiche che, focalizzandosi sul 39 Secondo Voegelin, la metodologia kelseniana è caratterizzata da un’impostazione positivistica di matrice neokantiana. Sulla questione cfr.: E. VOEGELIN, The Authoritarian State, cit., pp. 163-212: 165-174; ID., Autobiographical Reflections, cit., pp. 48-51. Inoltre, cfr. E. KAUFMANN, Critica della filosofia neokantiana del diritto, Napoli, ESI, 1992, pp. 107118; G. CALABRÒ, Kelsen e il neokantismo, in C. ROEHRSSEN (a cura di), Hans Kelsen nella cultura filosofico giuridica del Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1983, pp. 87-92. 40 E. VOEGELIN, Race and State, cit, p. 2. 41 E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, cit., p. 66. 42 Ibidem. 24 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee ruolo dell’idea di razza (come mito, simbolo politico dotato di capacità coesiva) e sulle teorie della razza, ne chiarisce l’uso politico-ideologico. Nel tentativo di capire il ruolo delle Rassenideen nel processo di costruzione dell’ordinamento statale Voegelin divide le “idee di Stato” in tre categorie: Personenideen, Gemeinschafstideen e Leibideen; le prime sono quelle che realizzano la realtà politica a partire da personalità che incarnano l’idea di potere (idea di imperatore, di dittatore, di re, di sacerdote-re…); le seconde sono quelle che ricavano dall’esperienza della comunità la concretezza della realtà dello Stato (idea di comunità cristiana, etnica, federale…) e le ultime sono le “idee di corpo” o metafore corporali (dinastia, parentela di sangue, corpus mysticum, razza) che contribuiscono a realizzare la comunità, lo Stato stesso.43 The ideas of the state do not rise in a vacuum; instead, they are linked to «fundamental experiences» that form the actual foundations of the state. The ideas of persons [Personenideen] (such as the ideas of monarchy, empire, and the leader [Führeridee]) are associated with the experience of person, while the ideas of community [Gemeinschaftsideen] (Christian, ethnic, and federalist ideas) are associated with the real experiences of the community; body ideas [Leibideen] (which include the idea of race) are in turn associated with corporeal experiences [Leiberlebnisse] (especially with the experience of race).44 Esula dallo scopo di questo lavoro esaminare l’analisi voegeliniana delle idee e delle teorie della razza,45 come non è qui possibile dar conto dettagliatamente del progetto di rifondazione metodologica della dottrina dello Stato,46 ma è significativo mettere in evidenza come il pensatore te43 E. VOEGELIN, Nochmals, Rasse und Staat in der Staatslehre: Erwiderung, “Reichsverwaltungsblatt und Preußisches Verwaltungsblatt”, 55 (1934), pp. 202-203; tr. ingl. ID., One More “Race and State” in Political Science. A Rebuttal, in ID., Published Essays 1934-1939, Columbia and London, University of Missouri Press, 2001, p. 18. Inoltre, ID., Race and State, cit., pp. 4-5. 44 E. VOEGELIN, One More “Race and State” in Political Science. A Rebuttal, cit., p. 18. 45 Cfr. T.W. HEILKE, Voegelin on the Idea of Race. An Analysis of Modern European Racism, Baton Rouge and London, Louisiana State University Press, 1990; D.J. LEVY, Ethos and Ethnos. An Introduction to Eric Voegelin’s Critique of European Racism, in R. BERNASCONI – S. COOK (edited by), Race and Racism in Continental Philosophy, Bloomington & Indianapolis, Indiana University Press, 2003, pp. 98-114. 46 Siamo di fronte ad uno studio che collega lo Stato alle forme culturali e ai fenomeni di vita collettiva il quale mostra un’impostazione che si riallaccia a temi e scelte metodologiche 25 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee desco si avviasse sin dai primi scritti ad impiegare l’idea quale paradigma interpretativo per lo studio della realtà politica, indicandone la valenza simbolica, antropologica e il ruolo da questa assunto nella costruzione della società politica. Le considerazioni critiche di Voegelin sul tema della razza sono anche l’occasione per schierarsi contro l’orientamento dogmatico e il monopolio metodologico delle scienze naturali. Queste ultime adottano un modello epistemologico definito da Voegelin “the dogma system of natural science superstition”47 che, come ricorda opportunamente Ellis Sandoz, si fonda su due postulati: a) l’unico metodo veramente scientifico è quello delle scienze naturali, il quale, forte della sua esaustività, è in grado di risolvere “all problems encountered in the human horizon”; b) la scienza avanza lungo una linea di progresso continuo, togliendo legittimità a qualsiasi affermazione e idea del passato, che viene considerata datata, superata. Ne consegue, da un lato, che gli altri metodi, specialmente quelli delle ‘scienze dello spirito’, “are merely vestiges of a useless past «metaphysical» period of human intellectual development now overcome” e, dall’altro, che “any problems that cannot be mastered through application of the scientific method are vicini al complesso dibattito giuspubblicistico e politico di Weimar. Da questo punto di vista, nonostante gli esiti speculativi differenti, autori che mostrano una sensibilità teorica simile a quella di Voegelin sono, per esempio, Rudolf Smend, Carl Schmitt, Gerhard Leibholz e Theodor Litt. Per quanto riguarda Rudolf Smend, Voegelin, ritiene che questi abbia compiuto, attraverso la teoria dell’integrazione, un primo passo importante nel tentativo di fondare una dottrina dello Stato che vada al di là di una mera costruzione giuridica; Leibholz, invece, sembra essere entrato nell’universo teorico di Voegelin per il tramite della riflessione sulla nozione di rappresentanza, oltre che attraverso la distinzione tra Stato totale e Stato autoritario. È poi significativo che Voegelin, come Smend e Leibholz, prendendo le distanze da una sociologia orientata in senso meccanicistico-causale, sia stato positivamente colpito dalle questioni poste da Theodor Litt. Cfr. E. VOEGELIN, Race and State, cit., p. 7; ID., Zu Sanders Allgemeiner Staatslehre, “Österreichische Zeitschrift für öffentliches Recht”, 1 (1946), pp. 106-135; tr. ingl. ID., On Sander’s General Political Science, in ID., Published Essays 1934-1939, cit., pp. 126-160; ID., Interaction and Spiritual Community: A Methodological Investigation, in ID., The Theory of Governance and Other Miscellaneous Papers 1921-1938, Columbia and London, University of Missouri Press, pp. 19-140: 122-140; ID., The Authoritarian State, cit.; C. GALLI, Strategie della totalità. Stato autoritario, Stato totale, totalitarismo nella Germania degli anni Trenta, “Filosofia politica”, XII (1997), pp. 28-62. 47 E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution. A Biographical Introduction, cit., pp. 54-55; E. VOEGELIN, Race and State, cit., pp. 9, 13. 26 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee illusory problems that can be disregard”.48 Con la pretesa di conseguire un sistema analitico stabile e fruibile, oltre che universalmente valido e oggettivo, le scienze naturali danno vita a una definizione razzista dell’idea di razza, in cui la natura umana viene indebitamente semplificata e descritta esclusivamente secondo connotati biologici, genetici e fisici. Voegelin mette però ben a fuoco come l’uomo nel suo insieme sia Leib (corpo), Seele (anima) e Geist (mente, spirito) e tale complesso unitario non può essere oggetto di una scienza positiva, né tanto meno essere ridotto al solo contenuto corporeo. In questo senso, egli rifiuta le teorie scientifiche da lui chiamate “superpower construction” (Übermacht-Konstruktion), cioè strutture mentali in cui, prese due variabili dipendenti, l’una determina l’altra e nella fattispecie la sfera della natura (il corpo) determina la sfera dell’anima, dello spirito. La sfera determinante priva così di autonomia qualsiasi altro regno dell’essere e tutto viene risolto e deciso dalla “super potenza” di un’unica classe, in questo caso quella della natura corporea. Voegelin dunque evidenzia come una parte non possa essere presa come il tutto, perché l’immagine dell’uomo non è ricostruibile sulla sola base degli aspetti biologico-fisici: l’uomo è un’unità inscindibile che appartiene a tutti i regni dell’essere e la sua complessità e ricchezza non può e non deve essere ridotta ad un singolo aspetto della sua esistenza. Nell’argomentazione voegeliniana questo significa prendere le distanze dal ‘monismo scientifico’ del nazionalsocialismo, perché le teorie razziste del nazismo sono l’estrema espressione di un uomo plasmato unicamente secondo categorie animali per mezzo di un “ars combinatoria genetica”;49 ma anche rilevare l’inconcludenza di tutte le teorie che, in base a impostazioni metodologiche che pretendono di ridisegnare in via ‘scientifica’ e assoluta la realtà, rivendicano la possibilità di spiegare e decifrare l’individuo e la totalità delle sue relazioni facendo riferimento, di volta in volta, a un singolo, parziale elemento della sua vita. Da questo punto di vista, è interessante sottolineare come Voegelin tracci un parallelismo tra teorie biologiche della razza, marxismo e liberalismo. In primo luogo, queste sono accomunate dalla 48 E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution. A Biographical Introduction, cit., pp. 54-55. 49 G. ZANETTI, op. cit., pp. 18-19. 27 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee volontà di destituire la storia, consegnandola alle masse, con l’intento di rendere l’individuo stesso astorico.50 Oltre a ciò anche marxismo e liberalismo sono superpower construction: se il marxismo ha assunto le categorie economico-materiali quale fattore esclusivo nel definire l’uomo e la forma della società, il liberalismo ha dato luogo a una dottrina dell’uguaglianza che, di fatto, riconduce a caratteristiche fisiche l’unica uguaglianza possibile, perseguendo una visione economica individualista ovvero un’idea esclusivamente utilitaristica del vivere civile.51 Nello specifico, nel disegnare il paragone tra teorie della razza e marxismo l’intenzione di Voegelin è sia rimarcare la fallacia logica di qualsiasi conoscenza scientifica monistica, fatta in nome della razza o della classe, sia polemizzare vivacemente con i teorici della razza nazionalsocialisti che si vantavano di essere antimarxisti. Più problematico, invece, appare il parallelismo tra le teorie della razza e il liberalismo. Ha ragione Gianfrancesco Zanetti nel ricordare che Voegelin cade nella tentazione di semplificare “i fenomeni storici moderni attraverso troppo immediati comuni denominatori o brutali sussunzioni in categorie così ampie da risultare inefficaci”;52 eppure, al di là della validità o meno dell’interpretazione voegeliniana, ci preme notare come il giudizio sulla corrente di pensiero liberale sia legata al convincimento che il liberalismo dimostra i suoi limiti (politici e morali) nella incapacità di opporre resistenza alla minaccia sempre più concreta di regimi liberticidi. L’adesione voegeliniana al sistema liberal-democratico non è, pertanto, acritica e mira a rivelare i principi (in questo caso la nozione monistica di conoscenza) che possono indurre una degenerazione della sua forma politica. Come vedremo nelle pagine successive, anche Berlin riflette sul liberalismo senza però mai mettere in discussione il suo sostegno alla democrazia liberale. Dalle osservazioni fatte emerge chiaramente come, per Voegelin, vi sia una relazione strettissima tra monismo epistemologico-metodologico e monismo politico: il primo è infatti alla base dell’intera tradizione di pensiero occidentale del totalitarismo. Tornando al problema della Staatslehre, lo studioso tedesco evidenzia un altro punto cruciale: l’indagine dei fenomeni 50 E. VOEGELIN, The History of the Race Idea from Ray to Carus, cit., p. 23. 51 Ivi, pp. 23-24. 52 G. ZANETTI, op. cit., p. 19. 28 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee politici per mezzo della capacità interpretativa delle idee politiche deve accompagnarsi ad un’antropologia filosofica, una conoscenza della natura dell’uomo e delle sue condizioni essenziali che ermeneuticamente colga l’uomo stesso nella sua interezza, armonizzando i molteplici aspetti che lo compongono (fisici, psichici, intellettuali, culturali e storici). La storiografia delle idee voegeliniana perciò rielabora due tradizioni di pensiero: la dottrina dello Stato tedesca e la scienza della antropologia filosofica. In questa prima fase, emerge un tracciato teorico-metodologico originale in cui la realtà politica, e lo Stato in particolare, sono indagati a partire dall’intreccio storia-idee, uomo-idee. Nella prospettiva voegeliniana studiare le idee significa obbligatoriamente allargare lo sguardo sulla storia e tenere presente che le idee stesse sono legate all’uomo: le idee non solo appartengono alla realtà socio-politica, ma sono prima di tutto fenomeni umani, connesse all’ambito delle esperienze umane. Non sono perciò un concetto astratto, ma qualcosa di reale che si oggettivizza realizzandosi nella storia. Per Voegelin, la conoscenza della realtà politica (e dello Stato) implica, di conseguenza, andare oltre l’ordinamento statico e formale dell’organizzazione statale per afferrare le diverse componenti della realtà sociale, le quali per loro natura si svincolano da qualsiasi astrazione positiva. Il contenuto dell’idea di Stato non si esaurisce nella nozione di diritto o di legge, ma mira ad indagare il vincolo coesivo dello Stato stesso: è importante stabilire quale sia l’idea fondativa e formativa della realtà politico-sociale, ovvero il suo contenuto, che si concretizza attraverso le azioni degli individui (governanti e governati). Voegelin indaga, quindi, l’esistenza politica delle idee nel continuo processo di articolazione delle comunità politiche, perché per mezzo dell’idea (politica) la società raggiunge un’unità, cioè una struttura ordinata: A political idea does not attempt to describe social reality as it is, but it sets up symbols, be they single language units or more elaborate dogmas, that have the function of creating the image of a group as unit. […] What welds the diffuse mass of individual life into a group unit are the symbolic beliefs entertained by the members of a group.53 Si rivela pertanto un’impostazione originale dell’indagine storiografica delle political ideas, volta ad oltrepassare la dimensione giuridico-istituzio53 E. VOEGELIN, The Growth of the Race Idea, cit., pp. 283-284. 29 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee nale (quella inerente alle forme di governo, alle istituzioni politiche, al diritto statuale interno e internazionale), per mostrare, da un lato, quelle idee (e le complesse logiche di tipo simbolico) che danno vita al ‘legame politico’ e, dall’altro, il contesto in cui le idee stesse si sviluppano, comprendendone la funzione e la transizione da un complesso di idee a un altro. Dunque, nella versione voegeliniana, la storia delle idee si pone al di fuori di qualsiasi impostazione idealistica, la quale asserisce l’assoluta indipendenza delle idee stesse dai contesti nei quali vengono generate, perché le idee non si possono considerare svincolate dalla storia e dalla loro storicità; ed emerge, inoltre, la centralità di una antropologia filosofica che non può non tenere conto della “sphere of sentiments and attitudes”,54 ovvero del complesso di quei fattori esperienziali e ‘meno razionali’ che aiutano a chiarire il contenuto di un’epoca e di una corrente di pensiero. Attraverso il connubio tra storia delle idee e antropologia filosofica Voegelin sviluppa i principi fondamentali dell’analisi critica verso sistemi ideologici, ovvero verso visioni del mondo monistiche che esaminano solo parametri naturalistico-quantitativi, i quali pretendono di raggiungere certezze assolute e definitive. L’attenzione per il dato storico, per la sua peculiarità ed unicità, così come per la componente umana che a tale dato dà vita, rivela quanto nella ricerca storica voegeliniana abbia lasciato un segno importante l’ambiente culturale tedesco. In particolare, Voegelin segue un metodo di ricerca che, al di là delle differenze, è in parte debitore della Geistesgeschichte di Wilhelm Dilthey.55 Nel tentativo di rinvenire le fondamenta del sapere storico, Dil54 E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. II, The Middle Ages to Aquinas, Columbia and London, University of Missouri Press, 1998, p. 108. 55 Tra le opere principali di Dilthey ricordiamo: Introduzione alle scienze dello spirito (1883); L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII (1891-1904); Studi per la fondazione delle scienze dello spirito (1905-1910); L’essenza della filosofia (1907); La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910). Si rimanda inoltre a: G. CACCIATORE – G. CANTILLO (a cura di), Wilhelm Dilthey: critica della metafisica e ragione storica, Bologna, Il Mulino, 1985; F. BIANCO (a cura di), Dilthey e il pensiero del Novecento, Milano, Angeli, 1988; F. BIANCO, Dilthey e la genesi della critica storica della ragione, Milano, Marzorati, 1971; P. ROSSI, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, Einaudi, 1971; F.K. RINGER, The Decline of the German Mandarins. The German Academic Community 1890-1933, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 1969; C. VICENTINI, Studio su Dilthey, Milano, Mursia, 1974; I.N. BULHOF, Structure and Change in Wilhelm Dilthey’s Philosophy of History, “History and Theory”, 15 (1976), pp. 2132; G.G. IGGERS, The German conception of History. The National Tradition of Historical 30 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee they elaborò una ‘critica della ragione storica’, una forma di conoscenza ermeneutica, il cui nucleo strutturale risiedeva nella distinzione tra ‘scienze della natura’ (Naturwissenschaften) e ‘scienze dello spirito’ (Geisteswissenschaften), le prime basate su una spiegazione (Erklären) di tipo causale, le seconde, invece, su una comprensione (Verstehen) che si desumeva dalla vita, nella sua unicità e irripetibilità. L’obiettivo metodologico, per Dilthey, era sottolineare come mondo storico e mondo naturale avessero criteri di indagine diversi, perché la conoscenza storica non poteva (e non doveva) formulare leggi universali e necessarie. Il suo materiale (l’oggetto spirituale) non era omogeneo e non sottostava, perciò, a nessuna generalizzazione normologica. Ne consegue che, nell’accezione diltheyana, la storia delle idee è la storia della mente umana e tenta di afferrare le relazioni tra una determinata Weltanschauung e le idee, i fatti politici, economici, sociali, religiosi e le attività dell’uomo che danno vita e sono contemporaneamente determinate dalla visione del mondo di riferimento. Quella di Dilthey è una narrazione della storia che non si sofferma sugli elementi esteriori ed apparenti del movimento storico, ma punta a comprendere la vita dell’uomo soprattutto nei suoi aspetti interiori, partendo dalla convinzione che questi non è solo pura ragione, ma un essere senziente fatto di sentimenti, desideri e volontà. La storia è, allora, necessaria sia per capire l’uomo, perché questo è essenzialmente un essere storico, sia in quanto campo di manifestazione degli eventi umani, unici ed irripetibili. Questa ricostruzione del mondo storico, per cui, da un lato, storia e vita umana sono una complementare all’altra e, dall’altro, le manifestazioni della vita umana sono oggettivazioni dello spirito, che si materializzano nella storia, produce una ricerca orientata a investigare e comunicare le proiezioni della vita dello spirito, ovvero i fenomeni storici nella loro fluidità e dinamicità, oltre che nel loro essere vissuti. Dilthey elabora una ‘storia spirituale’, o ‘storia dello spirito’, in cui la storia stessa è fatta di insiemi di significato: famiglia, società civile, Stato, diritto, religione vengono compresi nella loro complessità e nelle loro relazioni strutturali e culturali. Siamo di fronte a un sapere storico inteso Thought from Herder to the Present, Hanover, New Hampshire, Wesleyan University Press, 1983; J. RÜSEN, Theory of History in the Development of West German Historical Studies: A Reconstruction and Outlook, “German Studies Review”, VII (1984), pp. 11-26. 31 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee come sistema di strutture culturali tra loro interconnesse. Voegelin richiama e rielabora proprio il ragionamento metodologico di Dilthey sulla Geistesgeschichte-Geisteswissenschaft: come ha osservato Jürgen Gebhardt,56 l’influenza diltheyana si rivela in quegli aspetti della lettura storiografica di Voegelin in cui quest’ultimo è attento, da un lato, a addentrarsi nell’ethos di un’epoca attraverso la caratterizzazione storica delle idee e, dall’altro, a sottolineare come le idee stesse siano inscindibili dalla storia e dall’uomo, il quale produce la storia stessa. L’aspetto antropologico, cioè la descrizione dell’uomo come essere storico, è centrale nella scienza storica di Voegelin, tesa sempre ad afferrare i meccanismi socio-antropologici espressi dalle idee e che alle idee stesse danno vita. Non solo, Voegelin si avvicina a Dilthey anche nel tratteggiare una storia cultural-intellettuale delle idee politiche che mira a scandagliare in profondità il corso degli eventi, per penetrare nel carattere più intimo, non esteriore e meno apparente, delle epoche storiche, per spiegare il perché di determinate idee e la loro influenza sul sorgere e sul declino di una civiltà, di una società politica. Egli non cade, però, nello storicismo dell’analisi diltheyana: la ratio storicistica sostiene che ogni singolo avvenimento deve essere valutato in base al contesto, all’ambiente e al tempo storico; il legame tra manifestazione umana dell’idea e momento storico di tale manifestazione viene frantumato in un’estrema varietà di particolari e di valori, negando sia una qualsiasi visione d’insieme della storia sia un qualsiasi riferimento ad una verità che trascenda l’agire dell’uomo. Il risultato è una prospettiva relativistica che appiattisce paradossalmente la complessità dell’idea quale forma storica. Per Voegelin, fare storia delle idee significa inoltrarsi nelle sue trame nascoste per estrarre quelle idee che si sono rivelate decisive perché, da un lato, hanno prodotto ordine politico e, dall’altro, hanno originato il disgregarsi dell’ordine stesso. Egli suggerisce un approccio ermeneutico che rifiuta lo storicismo relativistico e, con ancor più enfasi, lo storicismo 56 J. GEBHARDT, Hermeneutics and Political Theory, “Interpretation. A Journal of Political Philosophy”, 40 (2013), pp. 283-303. Cfr. anche ID., Offene Horizonte – offene Fragen. Eric Voegelins hermeneutisches Experiment der universalhistorischen Vermessung des menschlichen Ordnungsdenkens, in H.J. SIGWART (edited by), Staaten und Ordnungen. Die politische und Staatstheorie von Eric Voegelin, Baden, Nomos, 2016, pp. 175-194. 32 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee ‘finalistico’, che vede nella storia umana uno sviluppo necessario e pensa di prevederne il tragitto. Inoltre, secondo Joachim Fischer, Voegelin dà rilievo ad un altro aspetto a cui le Geisteswissenschaften guardavano solo indirettamente, senza esserne particolarmente interessate: l’ambito politico, un campo di primaria importanza per comprendere il mondo socio-storico ed i suoi protagonisti.57 Abbiamo quindi una Geisteswissenschaft of politics, che compone antropologia, filosofia e storia nell’esplorazione del politico ed in cui è marcata la componente teorica e filosofica. Il nuovo orientamento dato da Voegelin alla scienza ermeneutica di Dilthey si inserisce in una temperie culturale in cui anche altri studiosi furono intenti a rimodulare e riconcettualizzare le modalità di conoscenza e comprensione del ricco tessuto socio-storico e socio-politico e ad esaminarne le sue forme simboliche e le sue idee. Max Scheler, Helmuth Plessner, Bernhard Groethuysen, Georg Misch, Karl Jaspers sono solo alcuni degli autori che fornirono a Voegelin gli stimoli speculativi per impostare e perfezionare la svolta metodologica che aveva in mente: una scienza politica che fosse “a noetic interpretation of man, society and history that confronts the conceptions of order prevalent in its sourrounding society with the criteria of the critical knowledge of order”.58 È questo un traguardo che raggiungerà negli anni a venire, proprio ridefinendo e precisando, negli anni Trenta, il 57 J. FISCHER, Philosophische Anthropologie. Eine Denkrichtung des 20. Jahrhunderts, Freiburg-München, Verlag Karl Alber, 2008, pp. 124-126. 58 E. VOEGELIN, Anamnesis. On the Theory of History and Politics, Columbia and London, University of Missouri Press, 2002, pp. 342-343. Cfr. anche J. GEBHARDT, Hermeneutics and Political Theory, cit., pp. 300-301. Per quanto riguarda il rapporto tra Max Scheler ed Eric Voegelin, è importante ricordare che, proprio a partire dagli anni Trenta, Voegelin iniziò a elaborare una propria antropologia filosofica che divenne uno degli strumenti concettuali per mettere in discussione il logos giuridico kelseniano. L’opera scheleriana di riferimento è Die Stellung des Menschen im Kosmos (1928). Tra le letture che in questi anni influirono in modo decisivo sul modo di studiare e fare storia politica-storia del pensiero politico e che determinarono anche la caratteristica analisi voegeliniana del politico in base a una nuova filosofia antropologica si deve includere anche Helmuth Plessner. Su questo punto si veda la recensione di Voegelin all’opera di Plessner, Macht un menschliche Natur: Fachschriften zur Politik und staatsbürgerlichen Erziehung (1931), in E. VOEGELIN, Selected Book Reviews, Columbia and London, University of Missouri Press, 2001, pp. 38-41. Cfr. inoltre, la recensione di Plessner a Rasse und Staat di Voegelin: H. PLESSNER, Besprechung: E. Voegelin, Rasse und Staat, in “Zeitschrift für öffentliches Recht”, XIV (1934), pp. 407-414; vedi anche E. VOEGELIN, Race and State, cit., pp. 27-28; ID., Selected Correspondence 1924-1949, Columbia and London, University of Missouri Press, 2009, pp. 293-296: 295. 33 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee metodo, l’orientamento e le discipline complementari alla storiografia delle idee. Un storiografia delle idee, quindi, che già da ora appare insolita, non tradizionale e che ambisce a configurarsi come uno studio storico-critico con una forte impostazione teorico-filosofica. 1.2 Storia delle idee: ricerca storica e scienza politica secondo Eric Voegelin (1942-1952) Lo spessore filosofico e teoretico della historiography of ideas voegeliniana aumentò di densità quando Voegelin giunse negli Stati Uniti d’America. L’emigrazione oltreoceano, nel 1938, a causa dell’Anschluss tedesco, accrebbe in Voegelin il desiderio di reagire a qualsiasi schematismo dottrinario, che egli aveva già rinvenuto, come è stato detto, nella dottrina dello Stato tedesca, e lo spronò a confrontarsi scientificamente con un nuovo ambiente intellettuale. Dopo avere trascorso un anno ad Harvard, accolto dagli amici Haberler e Schumpeter, e un breve periodo presso il Bennington College del Vermont, Voegelin si trasferì in Alabama a Tuscaloosa. Qui cominciò ad addentrarsi nello studio dell’American Government, della costituzione e del diritto amministrativo americano ed ebbe la possibilità di tenere un corso in storia delle idee politiche. Nel 1942, si spostò ancora, questa volta a Baton Rouge, per insegnare presso il Department of Government della Louisiana State University, dove rimase fino al 1958, quando tornò in Germania, presso l’università di Monaco. Gli anni trascorsi negli Stati Uniti ed in particolare i circa sedici (19421958) vissuti in Louisiana furono fondamentali sotto almeno tre punti di vista. In primo luogo, Voegelin precisò la procedura metodologica della sua storia intellettuale o del pensiero (filosofico, religioso, politico), prendendo sempre più le distanze dalla tipica storiografia delle idee che produceva analisi dettagliate di testi o monografie su singoli pensatori. Inoltre, ribadendo la peculiarità del proprio metodo, si misurò non solo con gli studi storici di sintesi in voga, ma soprattutto con la disciplina nel suo insieme, la history of political theory, quale parte del più ampio campo disciplinare della political science. In terzo luogo, è in questo periodo che Voegelin iniziò a redigere la History of Political Ideas, un’opera che da semplice testo universitario, 34 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee assunse dimensioni monumentali, senza mai essere portata a termine: per quindici anni, dal 1938 al 1954, la History fu la principale preoccupazione dello studioso tedesco e il maggiore lavoro a cui si dedicò. Il trattato ebbe origine tra l’autunno e l’inverno del 1938-1939, quando Voegelin prese l’impegno editoriale con la McGraw-Hill Book Company di redigere un college text-book, della lunghezza di circa 200 pagine, che doveva competere con opere quali la History of Political Theory (1937) di George H. Sabine. Il testo avrebbe dovuto farlo conoscere al pubblico americano e costituire, perciò, un tassello fondamentale per la sua reputazione accademica; ma non andò esattamente così. Il manuale che, secondo gli accordi, doveva essere consegnato all’editore nel settembre del 1940, subì numerose interruzioni e fu infine abbandonato. La quantità di materiale da prendere in considerazione, per redigere una storia delle idee politiche che analizzasse le varie fasi in cui la società politica si evolve nel corso del tempo, era enorme; per di più, secondo Voegelin, era necessario un aggiornamento importante delle fonti (primarie e secondarie), per dare conto criticamente del contesto in cui veniva a collocarsi ogni singolo autore e ogni idea politica. Aumentando la conoscenza e la consapevolezza rispetto al materiale storico che Voegelin analizzava, la History of Political Ideas non solo crebbe quantitativamente, divenendo un trattato sempre più voluminoso, ma si andò ispessendo anche il contenuto teorico dell’opera, trasformando di fatto il trattato stesso. La History da semplice libro di testo di storia del pensiero politico progressivamente divenne un’opera di vaste dimensioni, di otto volumi circa, che usciva dagli schemi tradizionali, e in cui l’idea (l’idea politica) appariva a Voegelin inadeguata quale strumento analitico per esaminare il mondo socio-storico e i fenomeni politici moderni.59 Comunque, in questi anni, nel programma di ricerca di Voegelin prevale 59 La History of Political Ideas consta di otto volumi, pubblicati tutti postumi: vol. I, Hellenism, Rome, and Early Christianity, Columbia and London, University of Missouri Press, 1997; vol. II, The Middle Ages to Aquinas, Columbia and London, University of Missouri Press, 1997; vol. III, The Later Middle Ages, Columbia and London, University of Missouri Press, 1998; vol. IV, Renaissance and Reformation, Columbia and London, University of Missouri Press, 1998; vol. V, Religion and the Rise of Modernity, Columbia and London, University of Missouri Press, 1998; vol. VI, Revolution and the New Science, Columbia and London, University of Missouri Press, 1998; vol. VII, The New Order and Last Orientation, Columbia and London, University of Missouri Press, 1999; vol. VIII, Crisis and The Apocalypse of Man, Columbia and London, University of Missouri Press, 1999. 35 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee una continuità tematica importante che lega la sua speculazione ‘continentale’ a quella ‘statunitense’: lo studioso tedesco è sempre attento a rintracciare i fondamenti ideologici delle tradizioni di pensiero occidentali. L’attenzione si concentra così sempre più sull’esame critico della civiltà occidentale, guardando alle idee, alle forze motrici che ne hanno determinato l’assetto sociale-religioso-politico e la sua crisi. L’intento di Voegelin è duplice: da un lato, individuare le radici intellettuali del totalitarismo per comprendere il deragliamento ideologico dell’età contemporanea e, dall’altro, superare il disordine politico proprio di questa epoca, forgiando una scienza politica che vada oltre qualsiasi presunzione di dogmaticità che possa penetrare il significato profondo della storia, aderendo alla realtà antropologica della politica stessa. Andiamo, però, con ordine e consideriamo innanzitutto l’incontro voegeliniano con la history of political theory statunitense, prendendo in esame il contesto metodologico all’interno del quale si situa la disciplina ‘storia delle idee’. È qui centrale ribadire che nel mondo accademico nordamericano questa, in senso ampio, rimanda a discipline quali la political theory, la history of political theory e la history of political thought ed è, inoltre, una componente del più ampio campo disciplinare della political science. È questo un punto essenziale ai fini della riflessione che qui si propone. Infatti, “the subfield of political theory”, identificandosi con la ‘scienza politica’, è lo spazio scientifico-disciplinare in cui prende forma, dalla fine del XIX secolo fino a tutti gli anni Sessanta del Novecento, un dibattito particolarmente intenso che riguarda l’identità della teoria politica stessa e il ruolo che questa ha all’interno della political science. Un dibattito che, soprattutto negli anni ‘40 e ‘50 del Novecento, si sofferma sullo stato della scienza politica, sul suo passato e, specialmente, sulle sue prospettive future.60 In questa discussione si inserisce anche Voegelin, avanzando 60 J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1993, p. 1. Per quanto riguarda la storia della political science americana da un punto di vista metodologico, etico e politico vedi anche: R. SEIDELMAN, Disenchanted Realists. Political Science and the American Crisis, 1884-1984, Albany, SUNY, 1985; J.G. GUNNELL, Between Philosophy and Politics. The Alienation of Political Theory, Amherst, University of Massachusetts Press, 1986; J. FAR – R. SEIDELMAN (edited by), Discipline and History. Political Science in the United States, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1993. 36 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee riflessioni che investono la storia del pensiero politico, la teoria politica e non da ultima la scienza politica; riflessioni nelle quali si profila una forte critica ai dogmi delle scienze naturali, al monismo epistemologico e politico, al totalitarismo. Voegelin era ben consapevole che “the general history of political ideas […] is almost an American monopoly from its beginnings”.61 I contributi storiografici più rilevanti erano quelli di William Dunning (1857-1922), Charles McIlwain (1871-1968), George Sabine (1880-1961) e Thomas Cook (1907-1976);62 tra questi, per Voegelin, i punti di riferimento furono le opere manualistiche di Dunning e Sabine. Come mette ben in evidenza John Gunnell, la pubblicazione dei tre volumi di A History of Political Theories (1902, 1905, 1920) di Dunning rappresentò di fatto un momento importante nell’ambito accademico della ‘teoria politica’, gettando le basi per fare della “political theory a distinct genere” e dettando i principi che la stessa doveva seguire nell’insegnare le idee del pensiero politico moderno. Nello specifico, per Dunning, si trattava, da un lato, di saldare le idee al contesto storico, per rinvenire nel corso progressivo della storia stessa quegli avvenimenti e quelle idee che avevano lasciato un’impronta indelebile sull’uomo e, dall’altro, di determinare il nesso causale che legava fatti e idee, per ricostruire una storia delle idee politiche che tracciasse origine e sviluppo delle idee politiche stesse.63 Il modello elaborato dallo storico americano era, perciò, una indagine sulla evoluzione della “political consciuosness of men […] from early antiquity to modern times” e una “interpretation of the development of political theory in its relation to political fact”, avente per oggetto “the current of institutional development”.64 Una storia delle idee ancorata alla 61 E. VOEGELIN, Political Theory and the Pattern of General History, in ID., Published Essays 1940-1952, Columbia and London, University of Missouri Press, 2000, p. 157. Il saggio fu pubblicato originalmente nella “American Political Science Review”, 38 (1944), pp. 746-754. 62 W. DUNNING, History of Political Theories, 3 voll., New York, Macmillan, 1902-1920; C.H. MCILWAIN, The Growth of the Political Thought in the West, New York, Mcmillan, 1932; T.I. COOK, History of Political Philosophy: from Plato to Burke, New York, Prentice Hall Inc., 1936; G.H. SABINE, History of Political Theory, New York, Henry Holt Company, 1937. 63 J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation, cit., pp. 61-65. 64 W. DUNNING, A History of Political Theories. Ancient and Medieval, cit., pp. VII, XIX, XXV. Cfr. anche J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an 37 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee storia politico-istituzionale e che, quindi, era una storia del potere e delle sue manifestazioni, vale a dire una storia delle teorie del potere. Sabine aveva compiuto un passo ulteriore, dando luogo a una sintesi in cui autori e teorie politiche erano sì calati nella realtà storica di riferimento, ma veniva dato principalmente rilievo ai momenti cruciali nella storia europea, presupposto di idee e di teorie di valore e forza particolari. In questo modo, Sabine collocava le teorie politiche di maggiore importanza proprio “in the interstices of political and social crisis”.65 La political theory era subordinata alla struttura della political history senza che ciò desse luogo a una mera cronaca descrittiva: se fatti ed idee erano criticamente esaminati in un contesto di tempo, spazio e circostanze, quali fattori determinanti nella produzione teorica di un autore ed elementi importanti per comprendere il suo pensiero, “the historical occasion” non era l’unico metro di studio. Ogni teoria politica doveva essere letta anche come risposta ad uno specifico stato di cose che si voleva modificare ed era perciò proiettata anche verso il futuro.66 Nel 1943, Voegelin si misurò metodologicamente proprio con queste opere di sintesi. L’occasione fu la ricostituzione della political theory research committee, da parte della American Political Science Association, e un convegno organizzato dalla stessa associazione, eventi nei quali venne affrontato lo stato della American political theory, nel tentativo di ridefinire la disciplina alla luce di nuovi aspetti e nuove questioni emerse.67 Al seminario, presieduto da Francis G. Wilson, parteciparono, oltre a Voegelin, anche B.F. Wright e E.S. Griffith.68 Il resoconto di Wilson sul American Vocation, cit., p. 64. 65 G.H. SABINE, What is a Political Theory?, “Journal of Politics”, 1 (1939), p. 3. 66 Ivi, p. 4 . 67 J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation, cit., p. 205. 68 Cfr. F.G. WILSON – B.F. WRIGHT – E.S. GRIFFITH – E. VOEGELIN, Research in Political Theory: A Symposium, “American Political Science Review”, 38 (1944), pp. 726-754. Tre anni dopo, nel 1946, il meeting annuale dell’American Political Science Association fornì ancora l’opportunità di discutere sullo stato della political theory. L’émigré scholars Arnold Brecht organizzò, infatti, una tavola rotonda sul tema, Beyond Relativism in Political Theory. Alla discussione fu invitato a partecipare anche Voegelin; gli altri relatori furono: J. Ronald Pennock, Francis G. Wilson, Gabriel Almond, Francis W. Coker, John H. Hallowell, Hans 38 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee lavoro della commissione è rilevante, offrendo una sintesi preziosa dei nuclei problematici di una materia complessa che doveva fondere insieme filosofia, storia e politica. Lo scienziato politico statunitense affermava appunto che la “political theory was in part a philosophical consideration of political science”, che analizzava “metaphysical principles embedded in the works of those who study primarily political instituions and processes”; il compito che doveva assolvere era poi quello di esporre “the concepts of political science” e di fornire “usable definition of politcal terms”.69 Se tale era la funzione della teoria politica, si presentavano difficoltà rispetto al modo di praticarla; le divisioni maggiori all’interno della disciplina riguradavano “those who took metaphysics seriously […] and those who believed that metaphysics was «little more than the name given to logical thought»” e anche chi “embraced «theological approach», and believed that there was more to study of politics than «clinical observation», and those who pursued the «method of positivist», and accepted the empirical or «now traditional positivistic scientific or liberal technique of social study»”.70 A queste questioni si aggiungeva poi un’ulteriore ragione di conflitto, che aveva come oggetto il significato da dare alla storia. Alcuni professionisti della materia sostenevano che “America needed a consciousness of history”, ovvero una “philosophy of history”, e altri desideravano, invece, concentrarsi “on pragmatic social choice and the «ends-means relationship»”.71 Su almeno un punto, però, c’era accordo, ossia sulla esigenza di dare maggiore spazio ai testi dei grandi autori, dei classici, perché, a parere di Wright, lo studio della storia del pensiero politico occidentale “can […] make great contri- Kelsen (il quale fu poi impossibilitato a prendere parte al convegno), Benjamin Lippincott e Benjamin Wright. Per quanto riguarda la posizione di Voegelin e la sua valutazione sul relativismo cfr. A. BRECHT, Beyond Relativism in Political Theory, “The American Political Science Review”, 41 (1947), pp. 477-488; vedi anche la lettera di Voegelin a Brecht e a Wilson in E. VOEGELIN, Selected Correspondence 1924-1949, cit., pp. 486-493. Inoltre, A. BRECHT, Political Theory: The Foundations of Twentieth-Century Political Thought, Princeton, Princeton University Press, 1959, pp. 17, 261-301: 263-264 e 272-274, 277, 319. 69 La citazione è in J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation, cit., p. 205. 70 Ivi, pp. 205-206. 71 Ivi, p. 206. 39 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee butions to the future course of American democracy”.72 Secondo Griffith, tuttavia, una indagine (storica) sull’origine, lo sviluppo e il declino delle idee e delle dottrine non doveva essere invece all’ordine del giorno, perché così al massimo si potevano recuperare concetti il cui valore era “historically relative”, in quanto rimandavano a “various institutional arrangements”. Non era possibile risalire a “«timeless» concepts” all’interno del mondo della politica e dello Stato. Concetti eternamente validi provenivano da altri settori di ricerca come la psicologia, la sociologia o l’antropologia.73 Il rapporto della commissione, qui riportato nelle sue parti più rilevanti, ben rivela come la scienza politica americana, e con essa la political theory, si trovassero a un momento di svolta. Doveva essere stabilita con esattezza e rigore la natura della teoria politica e, in riferimento a questa, come si configurassero ricerca storica e ricerca scientifica. Era in gioco il significato e la peculiarità della ricerca storica stessa in rapporto (e in contrapposizione) al modello esplicativo dettato dalle scienze esatte. Non bisogna, inoltre, dimenticare che tra gli anni ‘40 e ‘50 del Novecento la scienza politica statunitense stava vivendo un periodo di crisi e rivoluzione, in cui si andava affermando il comportamentismo. La behavioral revolution credeva in una struttura metodologica del tutto simile a quella delle scienze naturali e matematiche che, per mezzo di una ricerca esclusivamente empirica, giungeva a formulare leggi generali, strategie e approcci d’indagine per spiegare e prevedere perché l’uomo agisse in un determinato modo. Lo scopo era fornire una cornice analitica certa che grazie ad analisi quantitative potesse contribuire al rafforzamento e al successo della pratica politica democratica. Si profilava pertanto all’orizzonte uno scontro tra ‘scienza’ e ‘storia’, tra una scienza politica di matrice scientista-positivista e una scienza politica radicata nella storia e con una forte valenza teorico-filosofica. Tornando al simposio di studio organizzato dall’American Political Science Association, Voegelin individua precisamente i contorni della propria ricerca storica, 72 Ibidem. Sull’importanza di testi di pensiero politico vedi anche la lettera di Eric Voegelin a Talcott Parsons, 2 dicembre 1943, in E. VOEGELIN, Selected Correspondence 1924-1949, cit., pp. 383-385. 73 J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation, cit., p. 207. 40 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee indicando anche il contesto metodologico all’interno del quale doveva situarsi la disciplina storia delle idee. Nel saggio presentato al convegno, intitolato Political Theory and the Pattern of General History, il filosofo tedesco esamina i nuclei problematici di una materia che fonde assieme storia, filosofia e politica, vagliando anche i principi di metodo delle opere di Dunning e Sabine.74 Voegelin è convinto che sia necessario ripensare la history of political ideas, approfondendo la relazione tra political ideas e political history, ovvero tra history of theory e political history, tenendo presente le più recenti fonti storiografiche e non tralasciando l’importanza del modello storiografico che si adotta. Secondo la storiografia voegeliniana, una storia delle idee politiche, perché sia veramente tale, non può essere semplicemente una registrazione di “ideas concerning political problems in their chronological order”, bensì deve essere una narrazione critica che segue “a pattern of meaning in time”.75 In tal senso, The History of Political Theories di Dunning aveva, per Voegelin, un impianto solido e tradizionale, attenta come era ai risvolti giuridico-istituzionali, per rivelare l’origine, la natura e lo scopo delle idee di potere, di sovranità e di Stato. Protagonista era la storia politica, analizzata prendendo in considerazione “the theoretical content of institutions”.76 La speculazione dello storico americano aveva, però, secondo Voegelin, un punto debole: Dunning assumeva una sequenza temporale lineare e progressiva dello sviluppo storico, con il risultato che “political theory is largely an account of this progress” e “when such progress ceases, the history of political theory ceases”.77 Un simile procedimento imponeva di prendere in esame un’area geografica e temporale ristretta, identificata con il mondo occidentale dall’età classica all’età moderna. Dallo studio erano eliminate “non-Western mankind” e “pre-classic civilizations”, sottraendo validità alla comprensione dell’Occidente, perché per Voegelin “good deal of Western political thought is deeply rooted in Mesopotamia, Persian, and 74 E. VOEGELIN, Political Theory and the Pattern of General History, cit., pp. 157-167. 75 Ivi, pp. 159-160. 76 Ivi, p. 161. 77 Ibidem. 41 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee Israelitic pre-history”.78 Fatto ancor più grave, per il filosofo tedesco, era che Dunning non analizzava con il rigore dovuto nemmeno l’età medievale, da lui ritenuta sostanzialmente apolitica, perché, al di là della separazione Stato-Chiesa, non aveva raggiunto altro ‘progresso’ politico. Quanto a Sabine, invece, la sua History of Political Theory (1937) si presentava, a parere di Voegelin, come una sintesi più solida e completa rispetto al lavoro di Dunning. La ricostruzione dello storico delle dottrine politiche seguiva, come in Dunning, il principio secondo cui “political theory is a function of politics and that, therefore, the pattern of a history of theory has to follow the pattern of political history”, ma escludeva una visione progressiva della storia. Sabine riusciva a presentare un’equilibrata visione d’insieme, raggiungendo un rilevante traguardo scientifico: “the historian has to follow with impartial loyalty the structure of theory as it reveals itself in history, whether it reflects the problems of a differentiated sphere of politics, or whether it reflects an undifferentiated complex of community order”.79 Stando in questi termini gli studi di storia del pensiero politico, Voegelin sottolinea come fosse indispensabile rinunciare alla convenzionale struttura lineare della storia che parte dall’antichità classica e conduce, passando per il Medioevo, all’età moderna e all’età contemporanea. Questa forma temporale non è più sufficiente per afferrare nella sua complessità la combinazione armonica tra storia politica e storia delle idee, perché ignora “Near Eastern pre-classic civilizations”, le cui idee hanno influenzato lo sviluppo dell’Occidente stesso. Era necessario allargare l’orizzonte storico d’indagine: “Mesopotamian, Persian, and Egyptian theory would have to be accepted as a body of thought on an equal footing with Hellenic, and it would have to be treated with equal thoroughness”.80 Allargando la visuale sul corso degli eventi, si rivelava un tracciato né lineare né unico, composto di diversi piani, tra loro paralleli, ma collegati dalle idee politiche, dal materiale simbolico dei diversi contesti storici. Ciò imponeva anche di superare “the widely accepted conception of 78 Ivi, pp. 158, 161-162. 79 Ivi, p. 162. 80 Ivi, pp. 163-164. 42 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee political theory as a theory concerned with the explanation of governmental authority”. La storia delle idee nella prospettiva interpretativa voegeliniana è rivolta non tanto alle idee politiche che riguardano il governo dello Stato, gli elementi strutturali del potere politico o il rapporto governanti-governati, ma alle idee “concerned with the mythical creation of communities” e “the so-called nonpolitical ideas”, ossia sentimenti escatologici, idee politicoreligiose quali fonti principali “of political fermentation and revolution throughout Western history”.81 Per questo motivo, integrare la storia delle idee con la storia politica significa, per Voegelin, concentrarsi sulle fasi di passaggio da un’epoca a un’altra e particolarmente sui momenti di crisi che caratterizzano il transito da un vecchio assetto socio-culturale e politico a uno nuovo. Procedere lungo questo tragitto scientifico, implica una storia delle idee declinata in modo originale, per costruire una visione d’insieme che, abbattendo anche steccati disciplinari, illumini zone ancora in ombra dei fenomeni politici. Rispetto alle considerazioni sin qui svolte, e avendo preso in esame il rapporto tra Voegelin e l’ambiente intellettuale americano, non può passare in secondo piano il programma di ricerca svolto da Arthur Ocken Lovejoy (1873-1962) e dal gruppo di storici che si raccolsero intorno a lui. Il filosofo statunitense di origine tedesca, insieme ai colleghi George Boas (1891-1980) e Gilbert Chinard (1881-1972) fondò, nei primi anni ’20 del Novecento presso la Johns Hopkins University, un circolo di storia delle idee (History of Ideas Club), al quale seguì nel 1940 la rivista “Journal of the History of Ideas”, fondando di fatto questa disciplina nella sua accezione (anche metodologica) più stretta. Anche se Voegelin non conobbe mai direttamente Lovejoy (né entrò mai in contatto con gli storici delle idee propriamente detti) è interessante notare come questi fosse da lui conosciuto e stimato. In una lettera del primo febbraio del 1943 all’amico Engel-Janosi Voegelin valutava positivamente l’opera principale del filosofo statunitense, The Great Chain of Being: A Study of the History of Ideas (1936); in questa, secondo lui, si evidenziavano le eccellenti conoscenze storiche di Lovejoy e un approccio scientifico che, seppur non sistematico, riusciva a cogliere 81 Ivi, pp. 164, 165. 43 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee ampiamente la problematica dell’essere.82 Qualche anno più tardi Lovejoy veniva citato tra coloro che, secondo il filosofo tedesco, erano i rappresentanti di una “new science of politics and history” che tentava di rifondare una filosofia e una scienza della politica “on the basis of either a Christian or a Platonic-Aristotelian anthropology, or a combination of the two”.83 Ciò che incuriosisce Voegelin nell’approccio lovejoyiano non è l’individuazione di unità elementari (unit-ideas), componenti invarianti e persistenti di dottrine, di sistemi di pensiero o di ideologie. Come gran parte della critica storiografica ha messo in risalto, in questo modo Lovejoy atomizza la realtà culturale, sociale e politica, trascurando le continue trasformazioni a cui le idee stesse andavano incontro. Per di più, isolando l’idea-unità e seguendola attraverso le diverse sfere della storia in cui si presenta, il filosofo statunitense toglie dinamicità alla storia stessa rischiando, da un lato, di personificare le idee, di considerarle come entità che si muovono in un vuoto e, dall’altro, di non studiarle sufficientemente nello specifico dei singoli fatti storici o nella specificità del pensiero dei singoli autori. Il modello di storia delle idee di Lovejoy viene letto da Voegelin in prima istanza come un progetto volto a dare rilievo al substrato non razionale, al ‘pathos metafisico’ (come è definito dallo stesso filosofo statunitense) esercitato da determinate idee sulla vita storica dell’uomo. In questo senso, Voegelin enfatizza la forza esercitata da un’idea. Allora, nella history of ideas di Lovejoy prevarrebbe, come ha messo ben in evidenza parte della letteratura specialistica, una doctrine of forces che analizza le idee dando spazio alle esperienze, ai sentimenti e alle rappresentazioni mentali e che mostra il processo di mutamento che coinvolge le idee stesse.84 Rilevando 82 E. VOEGELIN, Selected Correspondence 1924-1949, cit., p. 354. 83 Ivi, p. 574. Gli altri autori citati da Voegelin sono: Max Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos; Erich Przywara, Religionsphilosophie; Nikolaj Berdyaev, Destiny of Man; Reinhold Niebuhr, [The Nature and] Destiny of Man; Johan Huizinga, Homo Ludens; Hans Urs von Balthasar, Apokalypse der deutschen Seele; Henri Gouhier, Jeunesse de Comte; Jacques Maritain, Trois réformateurs; Henri de Lubac, Drame de l’humanisme athée; Aldo Garosci, Bodin; Arnold Joseph Toynbee, A Study of History; John Wild, [George] Berkeley; Fritz Lieb, Russland Unterwegs; Alois Dempf, Sacrum Imperium; Werner Jaeger, Paideia; Karl Jaspers, Die geistige Situation der Zeit; Gilbert Murray, Aeschylus; Francis MacDonald Cornford, Timaeus Commentary, Erwin R. Goodenough, Hellenistic Kingship. 84 L. MINK, Change and Causality in the History of Ideas, “Eighteenth-Century Studies”, 2 (1968), pp. 7-25: 9, 15-16, 19; D.J. WILSON, Lovejoy’s The Great Chain of Being after Fifty 44 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee i motivi non solo razionali che attuano una sorta di pressione dinamica sulla realtà, emerge come la stessa storia delle idee non sia “a chronology of things, but the story of the development of consciousness”.85 L’idea lovejoyiana appare, perciò, molto meno statica e astorica del previsto e al contrario immersa nell’insieme di emozioni, di esperienze, di azioni, di modi d’espressione e di comportamento che chiariscono il significato di un’epoca o di una corrente di pensiero. La storia appare allora tutt’altro che irrilevante per Lovejoy, nonostante in sede di analisi prevalga una tendenza a schedare, a classificare, per mettere a fuoco i nuclei concettuali che resistono nel corso del tempo.86 Senza subire il fascino della storia delle idee lovejoyiana, Voegelin riceve una notevole impressione dal risalto dato dal filosofo americano proprio all’‘irrazionale’ (da non intendersi come astrazione speculativa), e al gioco tra fattori razionali e irrazionali nella storia del pensiero. Una ricerca storica vista quindi nella sua varietà di rapporti e che ha di conseguenza una tendenza interdisciplinare, aperta all’interazione tra diversi piani (politico, giuridico, economico, filosofico, letterario, artistico, religioso, teologico, scientifico…). È questa una linea d’indagine che, secondo Voegelin, dà nuova profondità all’interpretazione del mondo storico (al di là della mera rassegna cronologica) e che è basilare anche per rinnovare la visione scientifica della political theory-political science. Certamente si può discutere sulla validità dell’interpretazione voegeliniana della storia delle idee di Lovejoy, ma in questa sede preme sottolineare, da un lato, il significato che Voegelin dà alla storia, alla ricerca storica e, dall’altro, la connotazione assunta dalla storia delle idee. In primo luogo, per il pensatore tedesco la storia rinvia inevitabilmente all’uomo e alle esperienze da questo vissute; a sua volta l’idea è inscindibile dalla storia e dall’uomo stesso. Le idee non rappresentano alcun riduzionismo concettuale Years, “Journal of the History of Ideas”, 48 (1987), pp. 199-201. 85 L. MINK, Change and Causality in the History of Ideas, cit., p. 25. 86 Sulla storia delle idee lovejoyiana cfr. M. MANDELBAUM, The History of Ideas. Intellectual History and The History of Philosophy, “History and Theory”, 5 (1965), pp. 33-66; M. RICHTER, Begriffsgeschichte and the History of ideas, “Journal of the History of Ideas”, 48 (1987), pp. 247-262; R. KELLY, What is happening to the History of Ideas?, “Journal of the History of Ideas”, 51 (1990), pp. 3-25. 45 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee e, pur essendo collegate a uno specifico contesto storico, comune può essere l’universo esperienziale d’origine che porta le idee stesse ad avere anche un contenuto ‘metastorico’; infatti, certe esperienze e le risposte esperienziali dell’uomo a determinate questioni politiche ritornano e si ripresentano nel corso del tempo. Così autori e filosofi che non appartengono allo stesso tempo storico e alla stessa scuola di pensiero possono sviluppare risposte simili, vale a dire idee, concetti che presentano sostanzialmente affinità, somiglianze. La critica voegelininana al monismo riduzionistico non è, perciò, una ricerca storica storicista in cui le idee, essendo storicamente determinate, sono puramente relative, ma un’indagine che mira a ricostruire un quadro esplicativo sul perché di certe idee e sulla loro genesi. Voegelin imposta così una storiografia delle idee rivolta a rintracciare le fonti dell’ordine e del disordine politico; ed in tale lettura della storia si fa strada la volontà di catturare proprio quelle idee che hanno causato il deragliamento ideologico dell’età moderna e contemporanea. L’intento è quello di spiegare la deriva ideologica dell’Occidente, risalendo alle radici politico-intellettuali che costituiscono la linfa dei totalitarismi del XX secolo. Nell’assetto speculativo voegeliniano ciò comporta anche una riflessione sulle istanze monistiche della scienza politica moderna; questa, infatti, con il suo metodo era coinvolta nell’ascesa e nella logica stessa delle concezioni monistiche del mondo. Dal confronto critico con idee, ideologie e rappresentazioni politiche che presumono di formulare un sistema da cui derivare un unico modello di vita, una società perfetta (e che di fatto preludono e sostengono il totalitarismo), nasce di conseguenza in Voegelin anche l’esigenza urgente di ripensare la scienza politica. Quanto sin qui detto ha fatto emergere una serie di aspetti sul modo di fare ricerca storica (in contrapposizione ai metodi e alle categorie delle scienze naturali) e sul modo di intendere la storia delle idee che, come vedremo, ritornano anche nell’opera di Berlin. La convinzione voegeliniana che non sia possibile separare il piano storico dal piano ideologico porta ad una storia delle idee originale, non convenzionale e ‘atipica’, il cui valore peculiare non risiede in ambizioni unitarie o pretese sistematiche, ma in temi particolari che danno coerenza alla elaborazione storiografica. Uno di questi temi, riguarda proprio la necessità di fare i conti con il monismo (epistemologico e politico) quale minaccia (passata e presente) che incom46 Cap. I - Eric Voegelin e la storia delle idee be sulla democrazia e sulla libertà. Una linea interpretativa che, come sarà poi messo in evidenza, lega Voegelin a Berlin, soprattutto nella misura in cui entrambi si confronteranno con le origini intellettuali del totalitarismo. 47 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo CAPITOLO II ERIC VOEGELIN E LA RIFLESSIONE SUL MONISMO 2.1 Scienza politica, émigré scholars e critica al liberalismo È stato detto come l’identità della storiografia delle idee di Voegelin venga definendosi nell’ambito del confronto metodologico all’interno della disciplina history of political theory-political science americana. In tal senso, negli anni ‘40, le analisi teorico-speculative del filosofo tedesco rientrano nel tentativo di rifondare la scienza politica. Questo obiettivo viene inseguito attraverso lo studio della storia del pensiero politico, dimostrando come la disciplina non sia un’elaborazione sterile su grandi autori o sull’origine e sviluppo dello Stato moderno nelle sue diverse componenti, ma una forma d’indagine politica. Così, la ricerca storica e lo studio delle idee politiche del passato dà luogo a due livelli di analisi tra loro reciprocamente connessi: da un lato, l’esame delle fonti intellettuali che hanno prodotto la politica ideologica moderna; dall’altro, la restaurazione di una nuova scienza politica che chiama in causa ‘il potenziale totalitario’ di una certa forma di ricerca scientifica, la quale ha la pretesa di imporre un criterio d’indagine unico per comprendere la realtà. Da questo punto di vista, nel decennio degli anni ‘40, il trattato History of Political Ideas rappresenta uno snodo fondamentale nel piano di lavoro voegeliniano. Formalmente la History è un testo (universitario) con lo scopo di ricostruire complessivamente la storia del pensiero (filosofico, politico, religioso) della civiltà occidentale, affrontandone la formazione, l’ascesa, il declino e la crisi. L’opera mira a essere un grande affresco storico-politico in cui in primo piano vi sono le idee, il ruolo da queste svolto nelle vicende umane e nella costruzione dell’ordine politico. Tra le idee politiche è dato risalto particolare a quelle che hanno prodotto la politica ideologica moderna e contemporanea, ovvero sistemi concettuali di dominio totale del mondo. In questo senso, il trattato rappresenta di fatto anche una storia delle fonti intellettuali che hanno condotto agli esiti totalitari del XX secolo. Un testo 49 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee allora non convenzionale che sviluppa un’analisi della crisi del mondo politico moderno e contemporaneo; una crisi che, per Voegelin, si caratterizza essenzialmente come religiosa e logico-razionale assieme. L’opera è pertanto il crocevia di numerose ricerche e filoni interpretativi che consentono di ricostruire i tratti caratteristici della riflessione voegeliniana intorno alle dottrine e alle concezioni metodologiche con un contenuto monistico. Lo scritto pubblicato postumo mostra, perciò, anche se ancora in modo provvisorio, le linee guida da seguire per rifondare la scienza politica, esponendo i tratti distintivi della crisi scientifica dello studio del politico. Come ha osservato Barry Cooper, “the foundations [of Eric Voegelin’s political science] are found chiefly in […] [the] History of Political Ideas. […] The History of Political Ideas was more than a livre de circonstance, as were the books of his predecessors. It was […] the solid empirical foundations for Voegelin’s restoration of political science to a genuine science of order in politics, consciousness and history”.87 Naturalmente, la struttura speculativa definitiva della scienza politica di Voegelin va ben oltre le riflessioni svolte nella Storia delle Idee Politiche, ma il materiale empirico-storico raccolto e studiato per la stesura dell’opera, oltre che la scelta di alcuni autori e principi guida alla base della ricerca sviluppata, fornisce la possibilità di chiarire e vedere sotto nuova luce la produzione intellettuale voegeliniana più matura. Prima di procedere all’esame delle idee, delle correnti di pensiero, dei sistemi filosofici e delle personalità che, secondo Voegelin, chiariscono la specificità dell’esperienza totalitaria, ovvero le condizioni da cui il totalitarismo ha avuto luogo, è necessario prendere in considerazione l’analisi critica di Voegelin riguardo alla struttura logica della scienza politica moderna. Un’analisi che si colloca, come è stato più volte ricordato, all’interno del dibattito complessivo sul ruolo della political theory nel contesto disciplinare della political science statunitense e che investe la natura e il significato della scienza politica stessa. La critica voegeliniana al metodo della scienza politica moderna deve essere ricondotta ad un panorama culturale ed accademico preciso: tra gli anni ‘40 e ‘50 del Novecento, il confronto dialettico sulla disciplina coinvolse numerosi studiosi e tra questi si ritagliarono un ruolo da protagonista 87 B. COOPER, op. cit, pp. XI, XII. 50 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo numerosi intellettuali europei che, come Voegelin, fuggiti dagli orrori del secondo conflitto mondiale, trovarono rifugio proprio negli Stati Uniti d’America. L’impatto degli émigré scholars sulla scienza politica americana fu particolarmente profondo, introducendo diverse prospettive, fondate sul convincimento che la conoscenza del politico fosse entrata in una fase di inesorabile declino. Tale convinzione era legata a un forte attacco alla scienza e ad una altrettanto aspra critica al liberalismo: se la scienza andava criticata per la sua pretesa di voler sistematizzare ogni aspetto della vita individuale su basi matematico-quantitative e naturalistiche, il liberalismo era interpretato come un credo politico decadente, che era stato incapace di resistere alla catastrofe totalitaria. Come puntualizza John Gunnell, studiosi europei come Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Theodor Adorno, Franz Neumann, Arnold Brecht, Herbert Marcuse e Max Horkheimer, solo per citarne alcuni, formati nel contesto filosofico tedesco e segnati dall’esperienza negativa della Repubblica di Weimar, “in varying ways and degrees but inexorably, reshaped the discourse of political theory”.88 E, nonostante le profonde differenze dottrinali e filosofiche che li separano, “they […] challenged the liberal, scientific, relativistic, historicist perspective that dominated political theory and political science”.89 Per questi intellettuali, si rendeva necessaria una nuova impostazione della teoria politica e della scienza politica, al fine di contrastare ogni deriva relativistica e storicista e, soprattutto per alcuni di essi (Voegelin, Strauss, Arendt), si imponeva una riflessione in cui l’aspetto storico, filosofico e teorico-speculativo prevalesse su quello empiricoquantitativo-fattuale. Non si trattava di formulare sistematicamente leggi oggettive generali o principi per dedurre e descrivere in via puramente logica la realtà politica, ma di ripensare la natura, il carattere e lo scopo stesso della scienza politica e della history of political theory. Quest’ultima diviene quindi un mezzo per interpretare la crisi dell’Occidente, una crisi 88 J.G. GUNNELL, American Political Science, Liberalism, and the Invention of Political Theory, “The American Political Science Review”, 82 (1988), p. 73. Cfr. anche ID., Between Philosophy and Politics. The Alienation of Political Theory, cit., pp. 13-15. 89 J.G. GUNNELL, American Political Science, Liberalism, and the Invention of Political Theory, cit., p. 73. Cfr. anche ID., The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation, cit., pp. 178-179. 51 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee ritenuta al medesimo tempo politica e morale, e le cui origini andavano ricercate anche nella modalità di comprensione del reale e, in particolare, del mondo socio-politico. Il metodo della scienza politica americana seguiva, infatti, le tracce delle scienze naturali ed era schiavo di uno statuto scientifico che, mirando a leggi di previsione universali, accettava in via assoluta spiegazioni causali, la verificabilità empirica, la quantificazione, la misurazione e l’avalutatività. In un campo come quello della political theory (e del politico in generale) ciò implicava l’impossibilità di produrre teoria politica, di fornire un punto di vista teorico che desse profondità e creatività all’analisi empirica. La scienza politica ‘scientifica’, cioè la scienza politica che voleva procedere secondo il modello delle scienze naturali, aveva di conseguenza cancellato ogni possibilità di dialogo tra scienza, filosofia e storia e, nei suoi limiti estremi, aveva reciso ogni legame, da un lato, con la filosofia (eliminando la filosofia politica) e, dall’altro, con la dimensione storica della scienza e della teoria politica stessa. Nella prospettiva degli émigré scholars, il processo di ‘guarigione’ della scienza politica si realizzava tramite un’indagine che si focalizzava su alcuni temi fondamentali quali: “the critique of modernity (and the domination of technology and the growth of mass society), the attack on neo-Kantian doctrines, the reading of images of historical decline into liberal society, […] the fusing of history and philosophy and the project of deconstructing the Western tradition, the cult of antiquity and the return to Greek philosophy and the transcendental emphasis on heroic action and ‘the political’ as exemplified in the polis, the hermeneutical emphasis on texts and language, the return to ontology, the celebration of the vocation of philosophy as standing above the specialized natural sciences, the antipathy toward pluralist politics and the support of the state”.90 La risposta alla crisi logico-razionale della scienza politica segue, dunque, tragitti personali con diversi obiettivi che, in questa sede, non possono essere approfonditi. Qui, attenendoci all’argomento del nostro lavoro, entriamo nel merito della diagnosi della crisi della scienza e della politica formulata da Voegelin, chiedendoci quale sia la condizione della scienza politica moderna per il 90 J.G. GUNNELL, The Descent of Political Theory. The Genealogy of an American Vocation, cit., p. 173. 52 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo pensatore tedesco. La riflessione metodologica sulla scienza politica è centrale nella lettura che egli dà del monismo, perché nel pensiero di Voegelin il monismo epistemologico conduce inevitabilmente al monismo politico, cioè al totalitarismo. Viene così alla luce una linea interpretativa che si collega proprio a un certo modo di intendere la scienza; precisamente, nella prospettiva voegeliniana, la scienza politica moderna aveva fatto propria una metodologia del tutto simile a quelle delle scienze naturali e matematiche, convinta che i metodi delle scienze esatte fornissero un criterio di validità teorica generale. Centrata sull’auto-fondazione della ragione, riteneva possibile un controllo razionale della realtà sociale e politica, in quanto quest’ultima coincideva con un insieme anonimo di ‘cose’, disponibili a manipolazioni concettuali e delle quali si poteva dare conto in via assoluta ed univoca. Con questo modo di operare, la scienza politica moderna era scaduta a dogmatismo, a schema anticipatorio e descrittivo della realtà politica e della prassi politica, perdendo di vista l’uomo (la sua esistenza politica, il suo agire politico) quale attore principale. Inoltre, restando priva di autonomia e del fondamento antropologico del proprio studio, si era ridotta a vuoto “esercizio retorico” su problemi che non era più in grado di comprendere e dominare e, nel peggiore dei casi, era divenuta strumento di legittimazione di brutali esperimenti totalitari.91 Per Voegelin, ciò che è in discussione è il metodo stesso della scienza politica moderna, indiscutibilmente coinvolta nell’ascesa del totalitarismo: è necessario abbandonare il monismo epistemologico di una disciplina scientifica che pretende di voler tutto comprendere per via dell’uso esclusivo di una ragione razionalista, la quale viene assunta quale principio di ogni conoscenza. In definitiva, nell’ottica voegeliniana, il razionalismo moderno si fonda su un metodo specifico (quello delle scienze naturali) che dà vita ad esercizi speculativi i quali, distorcendo la realtà, affermano una visione immutabile e onnicomprensiva del politico. La scienza politica ha quindi bisogno di un deciso rinnovamento per superare la rigidità del metodo e delle categorie adottate. Nel progetto voegeliniano di rigenerare e restaurare la scienza politica americana la History of Political Ideas costituisce un 91 S. CHIGNOLA, Pratica del limite. Saggio sulla filosofia politica di Eric Voegelin, cit., p. 90. 53 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee banco di prova. Nell’opera l’obiettivo viene inseguito dando spazio ad una ricerca storica che lasci da parte “the submissive descriptive treatment of political problems” ed introduca, invece, “an analysis of the more essential determining factors”.92 Nella Storia delle Idee Politiche l’autore traccia, perciò, i contorni di una nuova scienza politica che sia anche una scienza storica (o meglio una filosofia della storia) dal momento che è la storia a fornire gli strumenti concreti per interrogarsi sulla matrice delle ideologie totali e totalitarie e sulla crisi della modernità.93 Addentrandosi nella ricostruzione storico-culturale della History, emergono tre correnti di pensiero ritenute centrali per spiegare le costruzioni razionali e politiche che desiderano strutturare il mondo per mezzo di un modello perfetto al servizio di un’unica idea. Voegelin si riferisce a scientismo, positivismo e fenomenismo, modelli di pensiero a loro volta coinvolti in una più profonda tendenza del pensiero occidentale: il processo di progressiva secolarizzazione, ossia di negazione della trascendenza, che caratterizza l’età moderna e contemporanea. Guardando alle pagine degli otto volumi del trattato, vi sono paragrafi specifici che offrono le coordinate precise dell’interpretazione voegeliniana del monismo epistemologico e totalitario: The English Quest for the Concrete, nel VI volume (Revolution and the New Science), Phenomenalism nel VII volume (The New Order and Last Orientation) e gran parte dell’VIII volume, Crisis and The Apocalypse of Man, in particolare le sezioni dedicate all’illuminismo, al positivismo, a Comte e a Marx. Oltre a ciò, si deve tenere presente che parti consistenti del VI e dell’VIII libro della History furono pubblicate, nel 1975, da John Hallowell con il titolo From Enlightenment to Revolution, perché sezioni considerate a sé stanti, nelle quali emergono gli aspetti del pensiero politico occidentale che preludono alla sua crisi scientifica, culturale, morale e politica.94 Inoltre, anche altre sezioni della History trovarono, nel corso degli 92 Eric Voegelin a Benjamin Lippincott, 19 maggio 1940, in E. VOEGELIN, Selected Correspondence 1924-1949, cit., p. 247. 93 Cfr. B. COOPER, op. cit., pp. XII, 433. 94 J.H. HALLOWELL (edited by), From Enlightenment to Revolution, Durham, North Carolina, Duke University Press, 1975; tr. it. DARIO CARONITI (a cura di), Dall’Illuminismo alla Rivoluzione, Roma, Gangemi Editore, 2004. John Hallowell, professore di scienza politica alla Duke University per circa trentanove anni, seguì un percorso di ricerca per certi versi simile a quello di Voegelin, affrontando nelle sue opere la crisi della civiltà occidentale e 54 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo anni, una sede editoriale alternativa rispetto a un’opera che nella sua vastità e complessità non giunse a una conclusione. Riguardo alla vocazione monistica del totalitarismo ci interessa sottolineare la pubblicazione in riviste specialistiche dei seguenti articoli: Siger de Brabant, Bakunin’s Confession, The Origin of Scientism, The Formation of the Marxian Revolutionary Idea.95 L’insieme di questa produzione scientifica sta ancora una volta a dimostrare come la History of Political Ideas sia un ‘laboratorio filosofico’ nel quale prende forma l’analisi e la rifondazione della scienza politica, da un lato, e la riflessione sul fenomeno monistico-totalitario, dall’altro. Secondo Voegelin, i prodromi delle dottrine monistiche vanno ricercati nella seconda metà del XIII secolo, con i commenti alle dottrine averroisticoaristoteliche; nel XVI secolo, età in cui nascono la matematica e la fisica modernamente intese; nel XVII secolo con l’avanzamento delle conoscenze scientifiche ed, infine, nel XVIII e XIX secolo, dove le possibilità della ragione umana sembrano non avere limiti. Il XIII secolo rappresenta il primo snodo importante nell’analisi voegeliniana: il mondo medievale si sta rapidamente disgregando, un crollo graduale ma integrale che si manifesta in special modo nello scontro (politico e logico) tra autorità della fede rivelata e autorità e facoltà della ragione. Questo processo di scissione tra fede e ragione si palesa in tutta la sua portata con Sigieri di Brabante, che sostiene in modo risoluto la separazione tra l’ambito dell’indagine filosofico-scientifica da quello proprio della teologia e dell’esegesi della verità rivelata. Del filosofo brabantino, Voegelin evidenzia quei passaggi dei suoi scritti e del suo insegnamento nei quali si rintracciano elementi proponendo come chiave di lettura del suo declino il positivismo, lo storicismo e il relativismo. In particolare, Hallowell si concentrò sull’impatto, a suo parere devastante, che le idee positivistico-scientiste ebbero sul liberalismo. Queste avevano fatto perdere alla cultura occidentale ogni attenzione verso i problemi metafisici e i valori cristiani. Cfr. J.H. HALLOWELL, The Decline of Liberalism as an Ideology, Berkeley, University of California Press, 1943; ID., Politics and Ethics, “American Political Science Review”, 38 (1944), pp. 639-655; ID., Modern Liberalism: An Invitation to Suicide, “South Atlantic Quarterly”, 46 (1947), pp. 453466; ID., Main Currents in Modern Political Thought, New York, Henry Holt and Company, 1950; ID., The Moral Foundation of Democracy, Chicago, Chicago University Press, 1954. 95 E. VOEGELIN, Siger de Brabant, “Philosophy and Phenomenological Research”, 4 (1944), pp. 507-526; ID., Bakunin’s Confession, “The Journal of Politics”, 8 (1946), pp. 24-43; ID., The Origin of Scientism, “Social Research”, 4 (1948), pp. 462-494; ID., The Formation of the Marxian Revolutionary Idea, “Review of Politics”, 12 (1950), pp. 275-302. Il saggio The Origin of Scientism ora anche in ID., Published Essays 1940-1952, cit., pp. 168-196. 55 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee propri di un’attività intellettuale concepita come “an intramundane force trying, as an absolute, to determine the standards of human existence”.96 La configurazione di una ragione che comincia ad imporsi come potere assoluto in grado di stabilire verità assolute (e che perciò recide ogni legame con il trascendente), si accompagna a una concezione intramondana dell’uomo e della sua esistenza, in cui “the life of the intellect” permette di raggiungere in terra il summum bonum.97 Se la filosofia di Sigieri è, per Voegelin, una delle prime chiare espressioni dell’ascesa del potere dell’intelletto, di una ragione autonoma e indipendente, che desidera plasmare il mondo e la vita dell’uomo nei suoi principi costitutivi, è con il XVI secolo che si inaugura una ‘nuova epoca’ in cui la fiducia nelle capacità e possibilità umane raggiunge una più sicura consapevolezza. Una consapevolezza tutta moderna il cui comune denominatore consiste in un uomo inteso come l’origine del significato dell’intero universo, il quale “owes its meaning to the fact that it has been evoked by the mind of man”.98 È nella seconda metà del Cinquecento che s’impone infatti il ‘credo scientista’ e, successivamente, nel XVII secolo, i sorprendenti traguardi raggiunti dalla rivoluzione scientifica nella spiegazione del funzionamento del mondo naturale fanno sostenere all’uomo che i metodi delle scienze naturali sono applicabili e produttivi anche per il mondo sociale e politico. Con l’illuminismo settecentesco si rivela, poi, il nucleo essenziale di una ragione autosufficiente. La riflessione voegeliniana sul XVIII secolo sottolinea come i philosophes rivendicassero la verità assoluta della scienza e sostenessero l’idea di perfettibilità dell’uomo e delle sue conoscenze; una perfettibilità umana illimitata, perché ragione e scienza sono, per il credo illuminista, dotate di capacità infinite. Questa concezione del mondo si basa sul dogma del progresso, da intendersi sia come progresso razionalescientifico sia sociale: l’uomo è capace, guidato dalla ragione e dalla scienza, di cambiare la realtà sociale, di renderla sempre più perfetta. Un’evoluzione 96 E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. II, The Middle Ages to Aquinas, cit., p. 190. 97 Ivi, p. 191. 98 E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. V., Religion and the Rise of Modernity, cit., p. 136. 56 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo progressiva che, per il tramite di un disegno generale, si avvicina a un ordine sociale ideale e completo. Nell’opinione di Voegelin, l’interesse primario degli illuministi razionalisti è, perciò, cambiare la società in conformità con i loro principi, calando in terra la Città di Dio di Agostino. La dottrina del progresso si accompagna, quindi, a una visione della storia in cui il processo storico è guidato dalla scienza empirico-naturale e dalla volontà umana guidata dalla ragione. La dinamica storica, seguendo una tragitto progressivo, può essere costruita a priori e, sempre in astratto, può essere fissato il punto di arrivo di tale cammino: la condizione di perfezione futura dell’umanità è prodotta dall’uomo stesso e la storia si secolarizza. L’uomo è così il padrone del proprio destino e ha il futuro nelle sue mani. Da storico delle idee, Voegelin considera Voltaire uno dei primi filosofi ad avere realizzato una ricostruzione della storia dell’uomo universale nella quale al centro del processo storico è posto l’intramondano esprit humain. L’Essai sur les mœurs et l’esprit des nations, non solo racconta del progresso dello spirito umano, ma mostra una storia secolarizzata, senza irruzioni trascendenti, tutta orientata a celebrare “an image of man in the cosmos under the guidance of innerwordly reason”.99 A governare il processo storico è l’idea di una ragione universale ed immanente, che prende il posto di qualsiasi riferimento spirituale-provvidenzialistico; inoltre, il cammino progressivo della storia stessa si rivela in tre stadi evolutivi: estinzione, rinascita e progresso dello spirito umano, dove l’ultimo stadio corrisponde al Terzo Regno di perfezione spirituale, di una ragione autonoma, onnicomprensiva e onnipotente. Tale impostazione storiografica preannuncia, secondo Voegelin, le filosofie della storia di Comte e di Marx e non solo: “[…] from Voltaire’s esprit to Comte’s faith in the organizing and engineering intellect, to the Marxian faith in the proletarian as the true man and the proletariat as the chosen people, and further on to the various beliefs in chosen nations and a chosen race”.100 Il carattere antimetafisico dell’illuminismo che glorifica la ragione umana e ritiene possibile un mondo nel quale tutto è naturale e nulla sovrannaturale raggiunge conseguenze ancora più estreme nel XIX secolo. La 99 E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VI, Revolution and the New Science, cit., p. 57. 100 Ivi, p. 44. 57 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee svolta monistica della scienza e della politica è nell’Ottocento visibile in tutta la sua radicalità: da un lato, la dimensione ideologica del razionalismo moderno trova espressione nel positivismo scientista e, dall’altro, prorompono sulla scena i movimenti di massa rivoluzionari moderni che con i loro leader annunciano progetti universali di palingenesi terrena. Tuttavia, per Voegelin, la cifra dell’epoca sta nell’auto-trasformazione dell’uomo in super uomo; una trasformazione interiore e spirituale in cui l’uomo è per l’uomo stesso l’essere supremo. Auto-divinizzandosi egli è così in grado di compiere la sua stessa salvazione e di cancellare Dio dal mondo. In questo senso, nel rintracciare le fonti intellettuali del totalitarismo Voegelin identifica anche le componenti religiose delle ideologie totalizzanti che non permettono la salvezza individuale e trascendente, ma impongono una salvezza collettiva e immanente. L’ideologia positivista-scientista si salda all’idea escatologica di un’apocalisse umana intramondana. L’interesse principale di Voegelin si rivolge a Comte e Marx quali pensatori che più di altri rivelano il cuore del positivismo ottocentesco e della crisi spirituale che travolge la modernità intera. Nelle pagine seguenti esamineremo la lettura voegeliniana delle concezioni filosofiche comtiana e marxiana, anticipando però che questi paragrafi della History of Political Ideas (nello specifico l’ottavo volume) costituiscono lo sfondo del tragitto teorico seguito da Voegelin nelle opere successive e, in particolare, nel saggio The New Science of Politics, in cui viene presentato il canone metodologico che la nuova scienza politica deve seguire. In queste sezioni della History si precisa, perciò, l’interpretazione voegeliniana del monismo epistemologico-metodologico e, non da ultimo, si evidenziano alcune analogie con il pensiero di Berlin. Una convergenza di vedute quella tra i due autori che emerge in riferimento allo scientismo illuminista. Pur in un assetto speculativo differente (per esempio, come si vedrà, la critica di Berlin alla tradizione illuminista è orientata, differentemente da Voegelin, in senso antimetafisico), entrambi guardano con sospetto a quelle elaborazioni basate sul monopolio della ragione e delle scienze naturali, le quali affermano la validità di un’unica ‘idea’ e di un metodo esclusivo per comprendere la realtà e realizzare un ordine politico perfetto. Problematizzando, dunque, le affinità tra Voegelin e Berlin, è necessario qui richiamare l’interpretazione che Voegelin dà dello scientismo, tenendo 58 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo presente che nella seconda parte di questo lavoro verrà esaminata proprio la polemica antiscientista del filosofo inglese. “By scientism – afferma Voegelin – we shall understand an intellectual movement of which the beginnings could be discerned as early as the second half of the sixteenth century”,101 e che consiste in una teoria scientifica riduzionista che poggia su due postulati; in primo luogo, assume come modello metodologico quello delle scienze naturali-matematiche, a cui tutte le scienze, anche quelle storiche e sociali, devono conformarsi, e, secondariamente, circoscrive la sua stessa indagine al solo mondo sensibile e fenomenico. Tre sono i dogmi a cui si appella: (1) the assumption that the mathematized science of natural phenomena is a model of science to which all other sciences ought to conform; (2) that all realms of being are accessible to the methods of sciences of phenomena; and (3) that all reality that is not accessible to the sciences of phenomena is either irrelevant or, in the more radical form of the dogma, illusionary.102 Questa impostazione conoscitiva porta con sé due forzature metodologiche: da un alto, viene esaltata la scienza fenomenica (science of phenomenon) a scapito della scienza della sostanza/essenza (science of substance), dall’altro, viene negato “the concern for experiences of the spirit”.103 Il punto cruciale è, per Voegelin, che lo scientismo, sostituendo la realtà sostanziale con quella fenomenica, riduce la complessa realtà individuale e sociale ai soli elementi immanenti, privando di validità quel tipo di conoscenza che esamini anche la dimensione metafisica e spirituale del mondo. L’esito di una ragione così modulata è disastroso, sia epistemologicamente sia politicamente: questo tipo di razionalismo monistico monopolizza la comprensione della realtà, presupponendo di possedere un’intelligenza superiore in grado di conoscere in via assoluta e definitiva la totalità delle cose esistenti. Ne consegue che, per mezzo di un atteggiamento mentale onnipotente e totale, tenta di porre ordine nel mondo, forgiandone uno nuovo in dettaglio e imponendo un’unica ragione sulla realtà politica. Il progetto del razionalismo scientista è, perciò, per Voegelin, delirante in quanto produce una ‘nuova scienza’ che, esplorando solo il mondo fenomenico e le relazioni tra fenome101 E. VOEGELIN, The Origin of Scientism, in ID., Published Essays 1940-1952, cit., p. 168. 102 Ivi, pp. 168-169. 103 Ibidem. 59 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee ni sensibili, pretende, da un lato, di conoscere “the «real» order of nature”, ovvero le leggi universali della realtà naturale, sociale e politica, e, dall’altro, di fondare una conoscenza dell’uomo e dell’universo “that is supposed to replace the knowledge of substance originating in spiritual experience”.104 Una scienza politica, quindi, che non può che sostenere il totalitarismo, formulando sistemi logici che presumono di ridisegnare ‘scientificamente’ una società scevra da difetti. Il pensatore tedesco pone particolare enfasi nel sottolineare come questa impostazione intellettuale neghi, innanzitutto, “questions of metaphysical nature”,105 perché “[the] attribution of «absoluteness» to the new science expresses the will of finding an absolute orientation of human existence through intramundane experience; and the correlate to this new will is the unwillingness to orient existence through openness toward transcendental reality”.106 Nessun mistero viene così lasciato irrisolto e nessuna domanda è senza risposta, perché ogni affermazione inerente alla realtà non empirica è considerata accessoria, superflua e priva di fondamento. Dando risalto al carattere empirico-immanentistico dell’assolutismo monistico scientista, Voegelin evidenzia anche un altro dato essenziale: “the advancement of science after 1700 is the most important single factor in changing the structure of power and wealth on the global scene”:107 il progresso delle scienze modifica la relazione tra società politica e potere in senso razionalisticoutilitaristico, trasformando la struttura sociale ed economica del mondo Occidentale. Voegelin elenca alcuni aspetti fondamentali di tale cambiamento: the ramification of science into technology; the industrialization of production; the increase of population; the higher population capacity of an industrialized economy; the transformation of an agricultural into an urban society; the rise of new social groups – the industrial proletariat, the white-collar employees, and an intellectual proletariat; the concentration of wealth and the rise of managerial class; the everincreasing numbers of men who depend for their economic existence on decisions 104 E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VII, The New Order and Last Orientation, cit., p. 184. 105 E. VOEGELIN, The Origin of Scientism, in ID., Published Essays 1940-1952, cit., p. 168. 106 Ivi, p. 192. 107 Ivi, p. 188. 60 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo beyond their influence; the dependence of national power on a highly developed industrial apparatus; the dependence of the industrial apparatus on the political accessibility of markets of raw material; […].108 La ‘società scientista’ tende, pertanto, a diventare, con tinte sempre più marcate, razionalistica, utilitaristica e calcolatrice ed il senso di ogni situazione è ridotto a relazioni causali, relazioni mezzi-fine, in cui, possedendo il mezzo (la scienza), il fine è logicamente e facilmente raggiungibile. È evidente come per il tramite di un procedimento strutturato “science become an idol that will magically cure the evils of existence and transform the nature of man”.109 Per Voegelin l’‘ossessione scientista’ include perciò il dominio della scienza sulla natura, dell’uomo sulla natura e, infine, dell’uomo sull’uomo, manifestandosi emblematicamente nei movimenti totalitari del XX secolo. Tuttavia, anche i movimenti liberali e progressisti mostrano di essere affetti da “the pathos of autonomy and self-reliance of science”.110 In questi casi, trova espressione la convinzione che le calamità piuttosto evidenti che il progresso tecnico-scientifico porta con sé possano essere corrette per mezzo della scienza stessa: “we have gained the dominion over nature through science; in order to avoid a misuse of this power, runs the argument, we must now gain control over our social environment through a corresponding advancement of social science”.111 Per padroneggiare la storia e per migliorare la società, è necessario che anche le scienze politiche e sociali emulino la metodologia delle scienze naturali, così da programmare e realizzare un ordine socio-politico compiuto in tutte le sue parti. La condanna di Voegelin al razionalismo scientista quale premessa alla moderna politica ideologico-totalitaria, è anche critica del positivismo; un fenomeno storico-culturale che assume nella speculazione voegeliniana un significato ampio, avendo assorbito “a rich tradition of sentiments and ideas”,112 e la cui analisi si sovrappone allo studio critico dello scientismo. 108 Ibidem. 109 Ivi, p. 190. 110 Ivi, p. 192. 111 Ibidem. 112 E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VIII, Crisis and The Apocalypse of Man, 61 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee In effetti, è importante avere presente che il discorso del filosofo tedesco intorno alla dottrina positivista, condotto in Crisis and The Apocalypse of Man, ottava e ultima parte della History of Political Ideas, è legato all’opera più famosa di Voegelin, The New Science of Politics, del 1952. Il volume finale del trattato non costituisce, perciò, una vera e propria conclusione dell’opera, ma piuttosto un ponte verso ricerche e riflessioni svolte negli anni ‘50. Fatta questa precisazione, il positivismo è per Voegelin in prima istanza una perversione della scienza che contraddistingue la modernità intera, in modo marcato dalla seconda metà del XIX secolo.113 Si tratta di una forma particolare di perversione metodologica che snatura il concetto stesso di scienza, subordinandone la validità teorica al metodo. Il modello metodologico di riferimento è, come è stato più volte sottolineato, quello delle scienze naturali le quali determinano lo status e gli standard della scienza politica stessa: osservazione diretta della realtà, verifica sperimentale, certezza e prevedibilità matematica e, infine, formulazione di leggi generali indubitabili sono, quindi, gli obiettivi obbligatori che anche la scienza politica deve perseguire. Da questo presupposto discendono due corollari: in primo luogo, la delegittimazione di tutte le problematiche che non ammettono una risposta “by the methods of the sciences of phenomena”, ovvero l’eliminazione della dimensione metafisica della natura dell’uomo; in secondo luogo, la presunzione di pervenire in tale maniera ad una scienza oggettiva, perché solo le asserzioni “concerning facts of the phenomenal world [are] «objective», while judgments concerning the right order of soul and society [are] «subjective»”.114 Il mondo socio-politico è dunque inteso come speculare a quello fisico, ovvero è visto come una realtà uniforme e omogenea; ne consegue che gli aspetti biologico-fisici dell’individuo prendono il posto della singolarità della persona umana: l’uomo è un dato che non subisce cambiamenti e in questo modo è semplice pianificare e controllare lo sviluppo della società e pervenire ad una legge empirica della storia e dei fenomeni politico-sociali. Ciò che Voegelin mette in discussione è l’idea di rendere ‘scientificit., p. 88. 113 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., pp. 90, 92-93. 114 Ivi, p. 96. 62 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo ca’ la scienza politica con l’impiego di metodi d’indagine il più possibile riconducibili a quelli delle scienze della natura; ciò degrada dal punto di vista teorico la scienza politica e confina la disciplina stessa ad essere una descrizione conformistica e sterile del politico e del comportamento politico. Il dibattito disciplinare statunitense del quale Voegelin è uno dei protagonisti riguarda una crisi metodologico-teorica; una crisi, dunque, della ragione, della cultura e, non da ultimo, della politica, che coinvolge il destino del liberalismo, inteso non solo come dottrina politica, ma come complesso valoriale (etico e spirituale) che abbraccia una tradizione culturale e teoretica precisa. Voegelin (e come lui altri émigré scholars) si confronta con il liberalismo delle democrazie occidentali, cogliendone le aporie logicoepistemologiche, metodologiche, politiche e spirituali che, a suo parere, lo hanno condotto verso il totalitarismo. Le democrazie liberali contemporanee si erano dimostrate fragili ed incapaci di resistere a governi che avevano soppresso la libertà civile e politica; un avvenimento traumatico che, per Voegelin, incombe ancora sul presente e sul futuro della liberal-democrazia: l’esperienza della Repubblica di Weimar, repentinamente collassata sotto i colpi del nascente nazionalsocialismo, obbligava ad una riflessione (anche in terra americana) che non poteva fare a meno di riflettere sulle radici di una crisi che aveva ben presto investito tutto l’Occidente. Al termine della Seconda guerra mondiale e con il profilarsi all’orizzonte della Guerra Fredda, la civiltà occidentale appare al pensatore tedesco ancora incapace di recuperare l’idea di un ordine politico articolato e complesso; se, da un lato, l’organizzazione democratica è ridotta a regole tecniche che riguardano procedure e competenze, dall’altro, il progresso tecnico-scientifico senza pari (a spese di un regresso spiritualreligioso) è sinonimo di potere e onnipotenza. Accanto a ciò, si esaltano gli interessi individuali e cresce la difficoltà di trovare uno spazio comune, condiviso per la dialettica politica, progressivamente ridotta a scontro ultimativo su un’idea di unità politica monolitica. L’indagine voegeliniana sulle radici intellettuali dei moderni totalitarismi va inserita in questo contesto e in questo sentire, tenendo presente che l’involuzione della democrazia liberale è anche un problema che riguarda la logica stessa della modernità, legata al razionalismo scientifico astratto e a filosofie della storia radicalmente immanentistiche. Ecco dunque che le 63 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee fonti storiche, intellettuali e spirituali della svolta ideologica della politica occidentale vanno ricercate nei secoli XVI, XVII, XVIII e XIX, perché in queste fasi della storia è racchiuso il progetto del razionalismo moderno: “realizzare una comunità politica «sotto il segno dell’Uno»”115 grazie alle illimitate possibilità umane. Scientismo e positivismo rivelano il potenziale totalitario di quelle modalità di comprensione che neutralizzano i vari aspetti dell’esistenza; e, affermando l’egemonia metodologica universale delle scienze della natura, pervengono ad una scienza politica che accumula fatti, sopprimendo la riflessione teorica e riducendosi così a doxa. Voegelin sostiene che una scienza politica modulata secondo i dettami scientisti-positivisti, che si basa su un procedimento scientifico matematicoquantitativo-avalutativo e utilitaristico-strumentale, rifiuta la funzione di analisi critica, che essa invece deve avere. Indagando il mondo socio-storico da una prospettiva puramente empirica, espelle dal proprio studio i dati dell’esperienza non riconducibili al mondo fenomenico e confina l’esperienza umana alla sola sfera mondana. Così operando, perde la percezione dei propri limiti e tende a ricostruire il mondo al servizio di un’unica idea: ecco il pericolo della degenerazione epistemologica monistico-scientista subito dalla scienza politica moderna. Un pericolo sperimentato nella sua ferocia nei regimi totalitari, nel momento in cui, per esempio, l’idea di razza, di classe, di partito assurgono ad astrazioni scientifiche tutte immanenti. Stando così le cose, secondo Voegelin è indispensabile rifondare, ‘restaurare’ la scienza politica; ma cosa intende il pensatore tedesco quando parla di “restoration of political science”?116 Non è possibile in questa sede affrontare in dettaglio il progetto voegeliniano di ri-teorizzazione della scienza politica, è tuttavia necessario richiamare alcuni aspetti centrali del nuovo registro metodologico che Voegelin elabora, perché questi sono collegati allo statuto accademico della disciplina, alla riflessione sul monismo e al futuro stesso della democrazia liberale. Un futuro quello dell’epoca democratica che, seguendo il ragionamento di Voegelin, dipende anche dal modo di intendere la scienza.117 115 S. FORTI, op. cit., p. IX. 116 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 89. 117 Sulla ‘nuova scienza politica’ voegeliniana si veda in particolare oltre alle già citate mo- 64 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo È negli anni ‘50 che l’opera voegeliniana di ricostruzione della political science trova una prima sistematizzazione. Se per Voegelin fino alla metà del Novecento la storiografia delle idee fu lo strumento cardine per esaminare l’affermarsi delle ideologie monistico-totalitarie, individuando idee, correnti di pensiero e autori che avevano lasciato un segno importante nella storia della civiltà occidentale, proprio a metà del XX secolo egli abbandonò (per circa un anno) la stesura della History of Political Ideas, dedicandosi alla elaborazione di The New Science of Politics. L’opera fu il frutto delle Walgreen Lectures, ovvero della conferenza tenuta a Chicago, nel ‘51, dal titolo Truth and Representation, e segnò un passaggio fondamentale nel pensiero voegeliniano. In essa vengono affrontati temi rilevanti (il problema della rappresentanza politica, l’interpretazione storica per grandi scansioni epocali, la condanna della modernità secondo il principio dello gnosticismo) che ruotano attorno alla critica al positivismo e alla battaglia metodologica da intraprendere nei confronti dell’assolutezza della scienza politica di matrice positivista. Da un lato, è la storia delle idee a fornire gradualmente a Voegelin materiali e strumenti per il nuovo modello di scienza politica; dall’altro, la stessa historiography of political ideas pur seguendo una ricerca storica non tradizionale, sembra a Voegelin insufficiente per raggiungere un livello ancor più profondo di comprensione. Ciò implica uno strappo con l’approccio interpretativo che governa la History e l’adozione di strumenti concettuali-analitici alternativi all’idea. Voegelin non rinnega gli anni di studio che lo hanno visto impegnato come storico delle idee, ma ridefinisce la propria analisi del mondo storico e dei complessi di ordine politico-spirituale. Vedremo in seguito cosa ciò comporti, ora vogliamo piuttosto concentrarci su alcuni punti essenziali del piano di ‘restaurazione-rinnovamento’ della scienza politica avanzato dal filosofo politico tedesco, proprio perché questo stabilisce alcuni principi basilari per uscire dal disordine logico-scientifico contemporaneo. Per prima cosa, ciò che Voegelin chiede alla scienza politica è di riappropriarsi di una ragione che riconosca “the structure of reality in all its strata from matter to spirit without attempts at reducing causally the phenomena nografie di Sandoz e Cooper, P.J. OPITZ, «La nuova scienza politica»: lo sfondo biografico e teorico di un classico, “Filosofia politica”, VI (1992), pp. 67-77. 65 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee of one realm of being to those of another”.118 Superando la rigidità logica dello scientismo e del positivismo e ripristinando l’importanza vitale delle problematiche metafisiche, cioè di tutte quelle questioni che non possono essere risolte con l’osservazione e la deduzione, si riconquista una scienza politica che sia una theory of politics in grado di interrogarsi criticamente sulla condizione umana dal punto di vista politico e sociale. Questa teoria della politica deve prendere in esame l’esistenza storica dell’uomo ed essere, pertanto, una teoria della storia; ciò implica l’adozione di una filosofia della storia che non miri a “dare un senso complessivo e definitivo alla storia umana”,119 come, per esempio, le costruzioni di Hegel e Marx, ma che vada al di là delle regolarità del mondo fenomenico, per cogliere le forme simboliche attraverso cui l’ordine della società si rivela. Non è quindi sostenibile, per Voegelin, pretendere di conoscere il nucleo intellegibile della storia: “The course of history as a whole is not an object of experience; history has no eidos, because the course of history extends into the unknown future. The meaning of history, thus, is an illusion”.120 Voegelin prende, quindi, le distanze dalle illusorie ambizioni di dare una spiegazione assolutamente certa, vera, esaustiva e scientifica del corso della storia umana. Questo tipo di interpretazioni sono, per di più, monisticamente impostate, seguendo un principio unico per il quale gli eventi storici e le loro conseguenze vengono posti in connessione e riferiti ad un significato ultimo. Un significato, inoltre, immanente, secondo cui la storia stessa viene letta come un’evoluzione progressiva dell’umanità e realizzazione dell’eschaton cristiano in terra. “[T]his illusionary eidos – Voegelin prosegue – is created by treating the symbol of faith [l’eschaton cristiano che assicura il compimento trascendente ovvero trans-storico del destino ultimo dell’essere umano] as if it were a proposition concerning an object of immanent experience”.121 118 E. VOEGELIN, The History of Political Ideas, vol. VII, The New Order and Last Orientation, cit., p. 195. 119 G. CAMMAROTA, La scienza politica come scienza teorica. La teoria della rappresentanza in Eric Voegelin, in R. RACINARO (a cura di), Ordine e Storia in Eric Voegelin, Napoli, ESI, 1988, p. 95. 120 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 185. 121 Ivi, pp. 185-186. Vedi anche D. GERMINO, Eric Voegelin’s Contribution to Contemporary 66 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo La restaurazione della scienza politica dipende, dunque, dal recupero di una theory of politics che sia anche una theory of history, un recupero che non deve perdere di vista le sue radici classiche e cristiane (ossia la metafisica classica e cristiana). È questo un altro elemento essenziale per comprendere la riflessione voegeliniana sul monismo, e il rapporto tra scienza politica e verità. La politike episteme platonico-aristotelica e la successiva radicalizzazione teoretica raggiunta con il cristianesimo attingono ad una dimensione del pensiero in cui è messa in discussione la pretesa di possedere in via assoluta la verità intorno ai vari aspetti dell’esistenza (politica e sociale) e dell’essere. Come ricorda Giuseppe Duso, il richiamo alla filosofia politica dei Greci non è una semplice riproposizione della filosofia antica, ma si configura come un “gesto di pensiero”, “un’arma critica”122 nei confronti delle aporie delle costruzioni teoriche del moderno. Quando Voegelin parla di Greek philosophy fa riferimento al principio antropologico platonico (o verità antropologica), il quale afferma che la società politica debba sì essere un mondo ordinato, ma non a prezzo dell’uomo; questa non deve soltanto essere un microcosmos, ma anche un macroanthropos.123 Da tale principio discende il fatto che l’ordine della società dipende dall’ordine dell’uomo; e, a sua volta, l’ordine dell’uomo dipende dalla costituzione della sua anima. L’ordine (o il disordine) di quest’ultima trae origine dalla ricerca compiuta dall’uomo della saggezza divina – la filosofia nel senso platonico del termine – e si concreta nelle diverse simbolizzazioni della ricerca stessa. Per Voegelin, da questo momento (con la filosofia della Grecia classica e prima ancora con la tragedia di Eschilo) ciò che è decisivo è che “Dio è la misura”, in opposizione all’affermazione di Protagora secondo il quale “l’uomo è la misura”:124 l’apertura dell’anima Political Theory, “The Review of Politics”, 23 (1964), pp. 394-395. 122 G. DUSO, Introduzione, in ID. (a cura di), Filosofia Politica e Pratica del Pensiero. Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Milano, FrancoAngeli, 1988, pp. 20-21: 21. 123 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 136 124 Ivi, p. 142. Voegelin aggiunge: “The truth of man and the truth of God are inseparably one. Man will be in truth of his existence when he has opened his psyche to the truth of God; and the truth of God will become manifest in history when it has formed the psyche of man into the receptivity for the unseen measure. This is the great subject of the Republic; at the center of the dialogue Plato placed the parable of the Cave, with its description of the periagoge, the conversion, the turning around from the untruth of human existence as it prevail in the 67 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee alla complessità dell’Essere non obbedisce a nessuna legge di sviluppo immanente della storia e il suo andamento non può, quindi, essere previsto. Né tanto meno può fondarsi la polis perfetta. Il principio antropologico platonico viene completato dalla verità soteriologica del cristianesimo. Questa emerge con l’allargamento delle esperienze platonico-aristoteliche e viene spiegata da Voegelin con il contrasto tra philia aristotelica e amicitia tomistica. La prima è possibile solo tra eguali e questo sbarra la strada ad una amicizia tra uomo e Dio, così che l’amore del filosofo per il divino è un protendersi verso qualcosa, nella non reciprocità. Proprio l’assenza di mutualità caratterizza la verità antropologica; invece, “the experience of mutuality in the relation with God, of the amicitia in the Thomistic sense, of the grace that imposes a supernatural form on the nature of man” è la caratteristica specifica della verità cristiana.125 La verità soteriologica è l’espressione dell’anima umana che si apre a un Dio che, facendosi Uomo, è presente nel mondo e poi nuovamente assente, ma rappresentato dalla Chiesa. La nuova relazione tra uomo e Dio non deve provocare un’esaltazione dell’essere umano; al contrario, è propria del cristianesimo una de-divinizzazione del mondo: Dio rappresenta la salvezza, deve essere conosciuto e amato, ma non può essere direttamente presente, tanto meno politicamente. Sulla base di quanto detto, si genera, per Voegelin, una specifica tensione tra verità dell’anima e verità politica (tra trascendenza e immanenza) che non deve sfociare nell’eliminazione di nessuno dei due estremi, perché è proprio questa tensione costante e irrisolta a garantire un ordine politico non monolitico, non ipostatizzato in un’idea conclusiva della realtà. Allontanarsi dall’orizzonte (e dal limite) teorico raggiunto dalla filosofia greca e dal cristianesimo equivale ad una “theoretical regression” che causa “the various types of derailment that Plato has characterized as doxa”.126 In epoca moderna ciò equivale ad una vera e propria ‘rivolta’ esistenziale il cui risultato è “the fall into anti-Christian nihilism, into the idea of the superman in one or the other of its variants – be it the progressive Athenian sophistic society to the truth of the Idea” (Ivi, p. 143). 125 Ivi, p. 150. 126 Ivi, p. 152. 68 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo superman of Condorcet, the positivistic superman of Comte, the materialistic superman of Marx, or the Dionysiac superman of Nietzsche”.127 Pertanto, nell’ottica di Voegelin, la nuova scienza politica è “a work of theorization that starts from the concrete, historical situation of the age” che va oltre la descrizione delle istituzioni politiche esistenti e la giustificazione logica dei principi che sorreggono l’organizzazione politica, perché altrimenti la scienza politica si ridurrebbe a servire le forze al potere. È, come sottolinea Dante Germino, una “rational science of politics” sui principi originari dell’ordine umano e socio-politico; una scienza “open and necessarily incomplete” in quanto conoscenza dei limiti della comprensione del mondo reale, che si contrappone alle impostazioni ideologiche scientiste e positivistiche che ambiscono a rendere certo e vero ciò che è “uncertain” e “untruth”.128 Per questo motivo, “the theoretical analysis of politics” di Voegelin include l’esame critico delle radici intellettuali e spirituali del totalitarismo e di quelle speculazioni pseudo-scientifiche che abbattono i limiti della natura umana, cancellando le incertezze dell’esistenza e creando una ‘seconda realtà’distorta che detiene in via assoluta la pratica della verità e la realizzazione del giusto ordine politico.129 Il totalitarismo distrugge, per il filosofo tedesco, il criterio stesso della verità: questa cambia a seconda dei bisogni del potere e diventa, perciò, impossibile distinguere tra ciò che è vero e ciò che è falso. Si costruisce così a tavolino un sistema politico ‘immaginario’ che manipola la conoscenza attraverso un razionalismo mistificatore che istituzionalizza la menzogna. Il contributo voegeliniano alla political science-political theory statunitense è notevole; al di là di condividere o meno il modello prospettato, è fondamentale notare come storia delle idee e nuova scienza politica si integrino a vicenda nella riflessione critica sul monismo. Ripercorrendo la storia intellettuale dell’Occidente, Voegelin arriva ad elaborare una solida alternativa filosofica ad un’indagine del politico che aveva la pretesa di voler sistemare ogni aspetto della vita individuale su basi matematiche e naturalistiche. In questo senso, Voegelin non solo si muove sulla scia di altri 127 Ibidem. 128 D. GERMINO, op. cit., pp. 381-382. 129 Ivi, pp. 378, 382. 69 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee studiosi europei emigrati in terra americana, che desiderano contrastare le derive totalitarie manifestatesi in Europa, per il tramite di una nuova impostazione della scienza politica che contrasti relativismo e storicismo; ma chiarisce anche le analogie con Berlin. Pur profondamente diversi in ragione dei rispettivi contesti politici e filosofici, entrambi sono accomunati da un profonda avversione verso un sapere scientifico monisticamente inteso che di fatto diventa strumento di oppressione politica; entrambi appartengono ad un movimento (ideale) di intellettuali che oppongono resistenza alla possibilità di determinare univocamente e dall’alto che cosa sia vero, che cosa si possa domandare, fare o non fare. Se l’avversione per il monismo si traduce in Berlin, come vedremo nella seconda parte, in un discorso sulla libertà individuale (positiva e negativa), mentre in Voegelin prende la forma di un discorso sull’ordine e sul disordine spirituale dell’uomo, ovvero sull’espulsione del divino dal mondo, entrambi però contribuiscono ad enfatizzare il ruolo dominante di correnti di pensiero (illuminismo e positivismo) e di determinati autori (per esempio Marx) quali cifre della illusoria credenza in un unico fine a cui tutto deve essere subordinato. 2.2 Il monismo nella storia delle idee Nell’ambito della storia delle idee Voegelin evidenzia alcune figure chiave che mettono in risalto i caratteri e le tendenze monistiche del mondo moderno. Si tratta di Comte e Marx, le cui concezioni scientifiche, storiche, politiche e sociali tratteggiano un senso complessivo e conclusivo della storia, individuando un fine dominante e delegittimando le radici metafisiche dell’esistenza umana. Da un simile punto di vista, autori di questo genere aiutano, per Voegelin, a fare chiarezza su “the totalitarian practice of our time”.130 Quanto a Comte, Voegelin ritiene che nella sua opera trovino compimento una serie di idee nate nel Secolo dei Lumi e durante la Rivoluzione francese. In particolare, due sono gli aspetti del pensiero comtiano che egli mette in risalto, perché in questi trova espressione l’idea moderna di 130 E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VIII, Crisis and The Apocalypse of Man, cit., p. 162. 70 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo rigenerare socialmente e politicamente l’umanità intera: la filosofia positiva della storia e la religione positiva dell’umanità. Entrambi qualificano il padre della sociologia come “an astute and perspicacious philosopher of history” e “a spiritual dictator of mankind”.131 La teoria comtiana della legge dei tre stadi (teologico, metafisico e scientifico) da un lato interpreta la storia come un’evoluzione progressiva, determinata da leggi elaborate attraverso l’osservazione dei fatti e sotto il controllo della ragione umana e, dall’altro, identifica lo stadio scientifico come lo stato di perfezione finale dell’umanità, ovvero quella condizione ultima, fondata sulla verità della scienza empirica, sulla spiegazione positiva dei fenomeni naturali per mezzo di leggi generali. Il compimento dell’età scientifica è, poi, caratterizzato dalla “Religion of Humanity”, una religione positiva motore dell’esistenza individuale e collettiva, della quale il pontefice massimo è lo stesso Comte. Voegelin prende una chiara posizione contro questa fede immanente con i propri santi, geni e scienziati, che guidano l’evoluzione del genere umano, la quale predica dogmi dimostrabili e dimostrati attraverso le verità della scienza. Il pensatore tedesco riconosce nel connubio tra scienza positivisticofenomenica e “Religione dell’Umanità” il fondamento dottrinale e religioso di quelle visioni del mondo che inseguono obiettivi esplicativi unitari, immutabili e globali. L’idea comtiana di un ordinamento etico-politico e scientifico-secolare perfetto in cui tutte le parti convergono verso una verità ultima, comune a tutti gli uomini, imprigiona la storia obbligandola a seguire un’evoluzione immanente. Oltre a ciò, l’esistenza individuale è obbligata a una Frageverbot, a un ‘divieto di porre domande’ (tipico anche della concezione marxista), cioè un rifiuto radicale rispetto a qualsiasi interrogativo che trascenda il regno della conoscenza empirica e razionale. La fede positiva nelle verità della scienza, nelle leggi della natura fenomenica, conosciute per il tramite della scienza stessa, considera insensato e inaccessibile chiedersi quale sia l’origine dell’uomo e la sua natura, perché – come mette in luce Voegelin in Crisis and The Apocalypse of Man, riferendosi al pensiero di Comte – “Our intellectual activity is sufficiently excited by the hope of discovering the laws of phenomena, by the simple desire of confirming or 131 Ibidem. 71 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee invalidating a theory”.132 Secondo Voegelin, la rimozione di ogni interrogativo metafisico-teologico denota come la filosofia positiva comtiana esorti a dimenticarsi “the problem of the spirit” e “the interpretation of the universe through a metaphysical system”: teologia e metafisica sono operazioni del pensiero difettose, spiegazioni di eventi incorrette e astratte e, inoltre, del tutto inutili in un’organizzazione sociale che non deve andare oltre gli elementi contingenti dell’esperienza sensibile. Per il filosofo tedesco, la concezione dell’interpretazione della storia secondo la legge dei tre stadi, l’istituzione di un potere spirituale positivo ed immanente e, pertanto, la convinzione che si possa imporre un significato all’esistenza umana, rimuovendo “the tension between the historical existence of man and his transcendental destination”,133 fa di Comte “[an] intramundane eschatologist”.134 Il messianismo moderno del perfezionamento progressivo dell’umanità nel suo stadio positivo lo colloca tra i grandi demiurghi di nuove religioni e di nuovi mondi, i quali hanno la convinzione di salvare l’umanità (e loro stessi) “by divinizing their particular existence and imposing its laws as the new order of society”.135 Il tratto definitorio della concezione comtiana è, per Voegelin, l’instaurazione di un’‘apocalisse dell’uomo’, cioè di una rivelazione del destino ultimo dell’umanità e del mondo, scritta e diretta dall’uomo stesso. Ideologia scientista-positivista, da un lato, e escatologia rivoluzionaria, dall’altro, costituiscono nel caso comtiano (ma non solo) i filoni principali attraverso cui prende forma “the deification of intramundane society”: il tema del totalitarismo è ora sviluppato da Voegelin prendendo in esame la tendenza, tutta moderna, di recidere ogni legame con il trascendente; da ciò discende che, nella prospettiva voegeliniana, il monismo moderno dipende, a livello profondo, da una crisi spirituale che è “the signature of the Western crisis”.136 A questo punto del discorso, è rilevante ribadire che il materiale raccolto per stendere la History of Political Ideas è continuamente sottoposto 132 Ivi, p. 200. 133 Ivi, p. 194. 134 Ivi, p. 174. 135 Ivi, p. 185. 136 Ivi, pp. 213, 185. 72 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo da Voegelin a nuove interpretazioni; negli anni ‘50, la lettura delle fonti intellettuali e religiose delle ideologie totalitarie si arricchisce di un nuovo paradigma analitico, lo gnosticismo: scientismo, positivismo, movimenti ideologici di massa, escatologia intramondana vengono riletti ed approfonditi proprio alla luce del principio gnostico. Se Comte è, quindi, tra i primi filosofi a dare voce in maniera sistematica ad un’ideologia escatologica di salvezza collettiva, differita nel futuro, ma realizzabile in terra; per Voegelin, è Marx il grande ‘messia secolare’ della modernità. E tale caratterizzazione di Marx dipende anche dalla tesi gnostica. Marx è considerato da Voegelin tra i grandi fondatori di ideologie di palingenesi terrena, le quali pretendono di liberare l’uomo da ogni limite e il mondo da ogni male attraverso esperimenti rivoluzionari nei quali il vecchio mondo verrà sostituito da una nuova creazione. Nella concezione del filosofo di Treviri si presentano, pertanto, nella loro interezza le dinamiche di secolarizzazione che interessano l’uomo e l’Occidente. Come nel caso di Comte, l’esame voegeliniano del pensiero di Marx rivela alcune idee specifiche che segnano l’intero sistema marxiano, ovvero il materialismo storico e l’idea di rivoluzione, alle quali si accompagna un’attività conoscitiva impostata secondo una ‘distorsione-falsificazione anti-filosofica’. Anche per Marx la storia ha uno sviluppo intellegibile e segue un’evoluzione progressiva che punta al raggiungimento della salvezza (la società senza classi) tramite l’azione degli uomini, armati degli strumenti della ragione e della scienza. Il linguaggio storico è quello dell’economia, della struttura e della sovrastruttura economica, delle forze produttive e dei rapporti di produzione, che svelano i nessi causali della realtà sociale. All’idea marxiana del cammino dell’uomo verso una futura società perfetta e completamente libera è sottesa l’idea di rivoluzione: è l’azione rivoluzionaria a trasformare la realtà, conducendola alla società comunista, all’emancipazione dal capitalismo. Per Voegelin, è quindi l’idea di rivoluzione a mostrare in toto l’obiettivo marxiano: per mezzo di un atto violento che non si arresta di fronte a nessun ostacolo pur di conseguire “the realm of freedom”, si raggiunge la liberazione dall’oppressione e dalle iniquità dei gioghi istituzionali e sociali del presente. L’esperienza di una rivoluzione permanente e con essa la tensione escatologica verso un paradiso terreno senza classi sono gli obiettivi immediati per forgiare uno Stato nuovo, i cui 73 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee dettagli non sono previsti da Marx, ma la cui realizzazione finale è garantita dalle leggi della storia. La dinamica incessante del progresso non potrà che portare a un futuro migliore, completamente scevro da difetti, nel quale le potenzialità umane siano interamente realizzate. Il Marx così descritto da Voegelin nella History of Political Ideas si avvicina non poco alla lettura berliniana del marxismo quale pericolosa combinazione di determinismo e di scientismo. Occorre tuttavia notare che Voegelin inserisce la concezione di Marx nel processo di disintegrazione spirituale dell’Occidente, sottolineando come il filosofo di Treviri circoscriva il senso ultimo della storia divinizzando l’uomo e proclamando una redenzione attivistica dell’uomo stesso e della società. Il nuovo mondo evocato da Marx si costruisce per mezzo di una rigenerazione tutta immanente: Marx stabilisce un regno della verità in terra con una rivelazione completamente umana; è l’uomo, senza alcun intervento esterno trascendente, soprannaturale, a compiere la sua stessa salvezza. Viene sancita la morte di Dio, l’uomo è trasformato in essere supremo, in ‘superuomo’: sono così rovesciati tutti i rapporti nei quali l’individuo è un essere degradato e assoggettato; e inoltre l’intera classe proletaria è redenta per mezzo del proprio lavoro, ottenendo così l’emancipazione di tutta la società. Tale logos della storia presuppone una “antiphilosophical distortion”; Voegelin definisce questa impostazione marxiana nel modo seguente: “[Marx] has in this act abolished the philosophical approach to the problem of reality on principle. […] he refuses to theorize”;137 il sistema scientifico di Marx rifiuta l’attività conoscitiva critico-filosofica a favore di un sapere che, appellandosi alla stessa presunzione positivistica comtiana, rimpiazza le incertezze delle analisi teoretiche e delle domande metafisiche a favore delle certezze delle scienze empirico-naturali. Tale patologia prende anche il nome di “idophobia”, i quali sintomi sono, appunto, “fear of critical concepts and of philosophy in general”.138 Nell’interpretazione voegeliniana, il marxismo riproduce con tinte ancor più marcate la Frageverbot già incontrata con Comte: il divieto di porre interrogativi filosofici, domande che rimandino a speculazioni metafisiche, include anche la resistenza all’analisi critica del 137 Ivi, p. 322. 138 Ivi, p. 325. 74 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo proprio sistema, che potrebbe altrimenti entrare in crisi. Ne consegue che ogni idea del marxismo è fatta salva come se fosse un dogma. Chi professa ‘il divieto di fare domande’ sa benissimo che le proprie affermazioni non reggerebbero la pressione di un esame filosofico e di un’indagine seriamente analitico-scientifica e, quindi, fa del divieto stesso la parte essenziale dei dogmi che professa, la logica del suo stesso sistema. Per Voegelin, Marx consapevolmente ha perciò elaborato un sistema che pretende di essere scienza quando non lo è; e utilizza questa ‘scienza non scienza’ per mantenere viva la convinzione che sia l’uomo e l’uomo (socialista) soltanto la fonte dell’ordine politico e della sua libertà. Si possono naturalmente avere riserve e avanzare serie obiezioni agli argomenti voegeliniani che qualificano Marx come un attivista mistico rivoluzionario artefice di un homo novus che si fa Dio, ma qui interessa soprattutto richiamare quegli aspetti del ragionamento di Voegelin riconducibili alla critica del totalitarismo e al significato che questo assume. L’analisi svolta dal pensatore tedesco intende mostrare come la rimozione di ogni alternativa speculativa, di domande e di problemi originari conduca a un monismo che è conformismo dittatoriale sul modo di pensare, che si traduce anche in un monismo totalitario antireligioso. Il principale problema con Marx non si esaurisce, secondo Voegelin, nella omissione del linguaggio teorico-filosofico, perché dietro a questo inganno intenzionale del suo pensiero sta una “spiritual disease” che è il vero fulcro della logica del materialismo storico: “What appeared on the level of symptoms as antiphilosophism and idophobia must aetiologically be understood as the revolt of immanent consciousness against the spiritual order of the world”.139 Alla radice delle idee marxiane si trova perciò una “revolt against religion”, o “antitheistic revolt”, che qualifica il marxismo stesso come “gnostic revolt” o gnosticismo attivistico.140 Nella riflessione di Voegelin sulle esperienze monistiche che si sono presentate nella storia si inserisce, dunque, la speculazione gnostica. Come osserva giustamente David Walsh nell’introduzione a Crisis and The Apo139 Ivi, pp. 326, 343. 140 Ivi, pp. 340-341, 368. Sul tema della ‘malattia-rivolta spirituale’ che caratterizza la modernità cfr. M. FRANZ, Eric Voegelin and the Politics of Spiritual Revolt: The Roots of Modern Ideology, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1992. 75 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee calypse of Man, VIII e ultimo volume della History, il filosofo politico tedesco non fornisce ancora una disamina dettagliata del fenomeno gnostico e dello gnosticismo attivistico e rivoluzionario: l’applicazione della tesi gnostica all’analisi del pensiero di Marx è ancora imprecisa, perché ancora egli non ha raggiunto una conoscenza completa relativamente al carattere gnostico insito in molti movimenti ideologici di massa moderni.141 È, infatti, negli anni ‘50 e negli scritti di questo periodo, in particolare in The New Science of Politics del ‘52 e in Wissenschaft, Politik und Gnosis del ‘59, che il discorso sullo gnosticismo viene da Voegelin approfondito e portato a termine.142 In questo lasso di tempo la storia delle idee voegeliniana si trasforma e diviene sempre più un mezzo per fare pensiero politico e filosofia politica; e lo stesso Voegelin è sempre più un filosofo politico (e un filosofo della storia) piuttosto che uno storico del pensiero. Muta di conseguenza anche l’approccio metodologico teso alla ricerca delle radici intellettuali dei movimenti ideologici del nostro tempo. Tra la fine degli anni ‘40 e negli anni ‘50 la storiografia delle idee lascia il passo a una scienza politica declinata come scienza dell’ordine politico e in questa nuova ottica lo studio dei progetti di dominio totale del mondo, volti a superare ogni confine, anche quello tra ciò che è conoscibile e ciò che non lo è, termina in una elaborazione teoretica che svela le radici del disordine politico dell’età contemporanea, ovvero le radici della crisi spirituale-metafisica del mondo occidentale, culminante nei regimi totalitari del XX secolo. L’accento dell’interrogazione voegeliniana è ora posto sul complesso rapporto tra secolarizzazione e crisi della modernità, da un lato, e secolarizzazione e totalitarismo, dall’altro; un rapporto che viene esplorato per mezzo dello strumento analitico dello gnosticismo, quale lente attraverso cui reinterpretare le radici immanentistiche delle ideologie politiche del XIX e XX secolo.143 141 D. WALSH, Editor’s Introduction, in E. VOEGELIN, Crisis and The Apocalypse of Man, cit., p. 18. 142 E. VOEGELIN, Wissenschaft, Politik und Gnosis, München, Kosel, 1959; tr. ingl. ID., Science, Politics, and Gnosticism, in ID., Modernity without Restraint, cit. 143 Non è possibile fornire una trattazione esauriente e conclusiva sullo gnosticismo. Della speculazione gnostica si danno qui alcune informazioni che aiutano a comprendere l’uso voegeliniano della categoria dello gnosticismo. Utili per avvicinarsi alla problematica gnostica sono i volumi: Histoire des Religions, sous la direction d’Henri Charles Puech, vol. II, La formation des religions universelles et les religions de salut dans le monde méditerranéen et le 76 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo Lo gnosticismo è un movimento eretico sorto nell’ambito del cristianesimo a partire dal II secolo dopo Cristo nel quale Voegelin scorge i presupposti di quelle concezioni che, dall’umanesimo passando per il XVIII secolo e transitando poi nel XIX, secolarizzano il mondo moderno. Se la gnosi antica rifiutava il mondo materiale nella sua interezza, perché tenebroso, ostile e perciò destinato alla distruzione, e professava una forma di conoscenza (la gnosi) ad appannaggio di pochi eletti, la quale rendeva possibile la salvezza attraverso un’evasione trascendente dal mondo, la gnosi moderna si libera dell’imperfetta e maligna realtà terrestre, eliminando ogni riferimento trascendente a favore di un rigoroso immanentismo e progettando di costruire una realtà rinnovata e purificata attraverso l’azione umana. Lo gnosticismo moderno dà un nuovo significato all’esistenza umana, esaltando il potere assoluto della forza creatrice dell’uomo: l’ordine dell’essere (e con esso l’ordine politico) è sotto il controllo dell’uomo e quindi può essere ricreato a suo piacimento. Tale radicale ‘monismo dell’uomo’ per cui, secondo Voegelin, Dio viene assassinato e sostituito dalla divinizzazione dell’uomo stesso (e di idee e di progetti politici), costituisce la massima espressione di una gnosi secolarizzata. Quest’ultima a sua volta rappresenta il carattere distintivo della modernità: la speculazione gnostica moderna pretende di possedere la conoscenza assoluta del corso dei tempi, di indicarne il fine e di interpretare alla luce di esso i singoli eventi. Il concetto di gnosticismo, quale paradigma di analisi per l’esame del processo di ideologizzazione e secolarizzazione che investe la modernità occidentale, è una delle sezioni più discusse dell’opera di Voegelin. La letteratura critica ha messo in evidenza come il principale rischio nell’uso della categoria di gnosi per comprendere le ideologie politiche moderne e contemporanee sia quello di semplificare eccessivamente un fenomeno assai complesso, che non può essere ricondotto ad un’unica spiegazione; inoltre, il pensatore tedesco presume, di fatto, una continuità tra gnosi antica e gnosi moderna, che appare in verità molto problematica. Augusto Del Noce nell’introduzione all’edizione italiana della New Science of PoProche-Orient, les religions constituées en Occident et leurs contre-courants, Paris, Gallimard, 1972, tr. it. J. DORESSE – K. RUDOLPH – H.-CH. PUECH, Gnosticismo e manicheismo, Roma-Bari, Laterza, 1988; H.-CH. PUECH, En quête de la Gnose, 2 voll., Paris, Gallimard, 1978; tr. it. ID., Sulla tracce della gnosi, a cura di Francesco Zambon, Milano, Adelphi, 1985; G. FILORAMO, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Roma-Bari, Laterza, 1983. 77 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee litics fa notare che tale continuità di fatto non esiste. In alcune importanti osservazioni precisa, infatti, le caratteristiche divergenti tra le due forme di gnosi. Entrambe le forme di gnosi ateizzano il mondo, ma secondo modalità differenti: l’una, la gnosi antica, nega il divino nel mondo terrestre per accentuarne la trascendenza; l’altra, la gnosi moderna cancella, al contrario, ogni aspetto soprannaturale, per esaltare l’immanenza quale dimensione unica dell’uomo. Del Noce continua ritenendo come la gnosi antica fosse a sfondo pessimistico, mentre la gnosi moderna, che nel XVIII secolo concepisce l’idea di progresso, fosse prevalentemente ottimistica; e mette poi in evidenza come la conoscenza delle antiche dottrine dei settari fosse aristocratica, ovvero pochi uomini eletti ne erano dotati, al contrario della gnosi moderna che si rivolge alle masse. È proprio tale appello alle masse a qualificare lo gnosticismo moderno come attivistico-rivoluzionario e, perciò, come un fenomeno del tutto differente dalla forma contemplativa della gnosi antica.144 D’altro canto, se non si può parlare di continuità tra i due movimenti gnostici è pur vero, come nota Zanetti, “che la trattazione voegeliniana della gnosi […] ha alle spalle una tradizione cospicua”,145 prevalentemente di origine tedesca, che inquadra proprio l’idealismo tedesco nell’ambito del movimento gnostico. Voegelin cita a proposito l’opera del 1835 di Ferdinand Christian Baur, Die christliche Gnosis, oder die Religionsphilosophie in ihrer geschichtlichen Entwicklung, in cui, nell’ultima parte, l’autore pone in rilievo come la storia dello gnosticismo si dispieghi dall’antichità al medioevo fino alle filosofie della religione di Jakob Boehme, F.W.J. von Schelling, F.E.D. Schleiermacher e Hegel.146 L’opera di Baur non fu un 144 Cfr. A. DEL NOCE, Eric Voegelin e la critica dell’idea di modernità, in E. VOEGELIN, La Nuova Scienza Politica, Roma, Borla, 1999, pp. 7-28, in particolare pp. 15-18. 145 G. ZANETTI, op. cit., p. 100. Si tenga presente che lo stesso Voegelin in parte rivide la tesi da lui elaborata dello gnosticismo; se infatti quest’ultimo rimane una componente centrale nella teoria della crisi della modernità, il pensatore tedesco sottolinea che ci sono anche altri fattori rilevanti nel processo di immanentizzazione, come la tradizione apocalittica, quella neoplatonica ed ermetica. Sugli sviluppi della riflessione voegeliniana sulla gnosi cfr. P.J. OPITZ, La tesi sullo gnosticismo. Osservazioni sull’interpretazione della modernità del mondo occidentale in Eric Voegelin, “Filosofia politica”, XIII (1999), pp. 225-244. 146 E. VOEGELIN, Science, Politics, and Gnosticism, cit., pp. 251-252. Cfr. anche G. ZANETTI, op. cit., pp. 94-95; E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution, cit., pp. 17-18. Per quanto concerne l’opera di Baur: F.C. BAUR, Die christliche Gnosis, oder die Religionsphilosophie 78 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo episodio isolato, ma si inseriva anch’essa in un filone di studi sulla storia dell’eresia, iniziato nell’illuminismo e proseguito nel XIX secolo.147 La tesi gnostica quindi non era affatto nuova; non solo, numerosi erano anche gli specialisti contemporanei ai quali lo stesso pensatore tedesco sottopose la sua ricerca. Lui stesso afferma che: I want to stress that Gnosticism, as well as its history from antiquity to the present, is the subject of a vastly developed science, and that the idea of interpreting contemporary phenomena as gnostic is not as original as it may look to the ignoramuses who have criticized me for it. Generally I should like to remark that if I had discovered for myself all the historical and philosophical problems for which I am criticized by intellectuals, I would be without a doubt the greatest philosopher in the history of mankind. Before publishing anything on the applicability categories to modern ideologies, I consulted with our contemporary authorities on Gnosticism, especially with Henri Charles Puech in Paris and Gilles Quispel in Utrecht. Puech considered it a matter of course that modern ideologies are gnostic speculations; and Quispel brought the Gnosticism of Jung, in which he was especially interested, to my attention.148 Va poi inoltre ricordato che Voegelin aveva ben chiaro come la speculazione gnostica non fosse un fenomeno rigido e monolitico, bensì multiforme nel sistema di simboli impiegati.149 Nella molteplicità di tipoin ihrer geschichtlichen Entwicklung, Tübingen, C.F. Osiander, 1835. 147 Quale antecedente settecentesco allo studio critico di Baur sulla gnosi Voegelin ricorda l’opera di Johann Lorenz Mosheim, Versuch einer unparteiischen und gründlichen Ketzergeschichte, (1748); quali studi contemporanei a quelli di Baur vengono, invece, citate le opere di Johann August Neander, Genetischen Entwicklung der vornehmsten gnostischen Systeme (1818) e di Jacques Matter, Histoire critique du Gnosticisme et de son influence sur les sectes religieuses et philosophiques des six premiers siècles de l’ère chrétienne (1828). Sul rapporto gnosticismo-idealismo tedesco cfr. anche G. FILORAMO, op. cit., pp. XII-XV. 148 E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, cit., p. 93. Agli studi di Puech, già citati, e a quelli di Quispel, quale in particolare Gnosis als Waltreligion (1951), Voegelin aggiunge quali fonti importanti per l’interpretazione della politica moderna e della storia intellettuale europea secondo la tesi gnostica: H. JONAS, Gnosis und spätantiker Geist, voll. I-II, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1934-1954; H.U. VON BALTHASAR, Apocalypse der deutschen Seele, Salzburg, Pustets, 1937-1939; H. DE LUBAC, Le drame de l’humanisme athée, Paris, Spes, 1945; J. TAUBES, Abendländische Eschatologie, Bern, Francke, 1947; A. CAMUS, L’homme révolté, Paris, Gallimard, 1951; H. JONAS, The Gnostic Religion. The Message of the Alien God and the Beginning of Christianity, Boston, Beacon Press, 1958. Cfr. E. VOEGELIN, Science, Politics, and Gnosticism, cit., p. 253; Eric Voegelin a Hans Jonas (11 giugno 1953), in ID., Selected Correspondence 1950-1984, cit., pp. 167-168. 149 Il ruolo di Gioacchino da Fiore e della sua teologia della storia è, per Voegelin, d’importanza 79 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee logie di gnosticismo e nella varietà di comportamenti gnostici c’è, però, la tendenza a immanentizzare e razionalizzare l’idea di perfezione cristiana nella sua componente teleologica (l’idea di un movimento verso un fine) e assiologica (il fine, il valore da raggiungere, lo stato di perfezione).150 Da questo punto di vista, le varianti dello gnosticismo moderno, ideologico e liberticida, possono essere tre, a seconda di quale fattore subisca il processo di immanentizzazione. Se l’accento è posto sulla componente teleologica del movimento verso un non ancora intellegibile futuro di perfezione, ne consegue un’interpretazione progressista come in Diderot e D’Alembert, o come nelle idee di progresso di Kant e di Condorcet; se l’accento cade sulla componente assiologica di perfezione finale, senza chiarezza circa i mezzi per raggiungere tale stato, ci troviamo di fronte a risultati utopistici, come quelli di Tommaso Moro o dei più recenti utopismi sociali; qualora, invece, il movimento progressivo e l’obiettivo finale siano entrambi chiaramente messi in luce e, quindi, il processo d’immanentizzazione si estenda al simbolismo cristiano nel suo complesso, ne risulta il misticismo attivistico di uno stato di perfezione “to be achieved through a revolutionary transfiguration of the nature of man, as, for instance, in Marxism”.151 L’orizzonte della riflessione voegeliniana è a questo punto delineato e dovrebbe essere chiaro come, per Voegelin, si configuri la gnosi di Marx. Marx eredita l’impostazione gnostica hegeliana, sviluppando un sistema di ragionamento su basi razionali immanenti, gestite direttamente dall’uomo. Questa spiegazione puramente mondana dell’esistenza individuale e dell’ordine politico è una speculazione attivistico-rivoluzionaria in cui l’uomo si trasfigura in superuomo, prendendo coscienza di essere egli stesso Dio. In cruciale. Non è questo il luogo per analizzare dettagliatamente la speculazione gioachimita, né si può entrare nel merito della complessa lettura che Voegelin fa del pensiero di Gioacchino. Ci limitiamo a richiamare che il monaco cistercense elabora, secondo la prospettiva d’indagine voegeliniana, il complesso di simboli che caratterizza l’intera modernità gnostica. Si tratta di quattro simboli: 1) la concezione della storia come sequenza di tre età, la terza delle quali raggiungerebbe un completamento finale; 2) il simbolo del leader che introduce ogni nuova epoca; 3) il simbolo del profeta che annuncia la venuta del nuovo regno; 4) la realizzazione della nuova comunità di perfezione. 150 Voegelin fa qui riferimento a Ernst Troeltsch; cfr. E. VOEGELIN, Science, Politics, and Gnosticism, cit., p. 299. 151 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 186. 80 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo questo sforzo di autosalvazione e autoredenzione, che l’uomo accorda a se stesso attraverso l’azione rivoluzionaria, si realizza in terra il ‘millennio comunista’, forma conclusiva del corso della storia. Il sistema gnostico marxiano ripiega dalla trascendenza e conferisce all’uomo e alla sua azione intramondana un significato di compimento escatologico. Il filosofo di Treviri agisce quindi su due piani, quello della filosofia della storia e dell’essere: da un lato, il significato del corso degli eventi è immanente e, perciò, conoscibile nel suo fine; dall’altro, conoscendo il traguardo da raggiungere, cambia l’ordine stesso dell’essere e dell’esistenza umana, rescindendo ogni legame con la trascendenza e realizzando in terra il piano salvifico. Oltre a Voegelin anche altri autori hanno qualificato il marxismo come gnosticismo mistico e hanno visto in esso il prototipo della gnosi della modernità, cogliendone le implicazioni teologico-religiose. Pensatori del calibro di Hans Jonas, Jacob Taubes, Raymond Aron e Ernst Topitsch (solo per citarne alcuni) hanno riconosciuto, come Voegelin, elementi gnosticoapocalittici nella filosofia materialistico-attivista nel marxismo:152 siamo perciò di fronte a un filone di studi che, pur con le differenze che contraddistinguono le diverse ricerche, mette in luce le radici mitico-religiose e gnostico-immanentistiche del pensiero di Marx. Nel caso di Voegelin, la dinamica dell’atteggiamento gnostico che egli è interessato ad enfatizzare è la perdita del principio trascendente dell’ordine: senza un senso della trascendenza è impossibile avere una comunità politica ben organizzata e, nei casi più estremi, il risultato finale è, infatti, un immanentismo gnostico totalitario, distruttore della realtà in ogni suo aspetto. Tutti i movimenti gnostici intellettuali e di massa (scientismo, progressismo, positivismo, marxismo, comunismo, fascismo e nazionalsocialismo) mirano, secondo il pensatore tedesco, a recidere i legami dell’esistenza (individuale, sociale e politica) con l’origine, cioè con l’essere divino e trascendente, per costruire un’immagine dell’uomo, della società e della storia immanente e conforme 152 H. JONAS, Gnosis und spätantiker Geist, cit.; tr. it. ID., Gnosi e spirito tardo antico, Milano, Bompiani, 2010, pp. 1084-1110; J. TAUBES, Abendländische Eschatologie, cit.; tr. it. ID., Escatologia occidentale, Milano, Garzanti, 1997; E. TOPITSCH, Marxismus und Gnosis, in ID., Sozialphilosophie zwischen Mythos und Wissenschaft, Neuwied-Berlin, Luchterland, 1961; tr. it. ID., Marxismo e gnosi, in ID., Per una critica del marxismo, Roma, Bulzoni, 1977, pp. 27-67; R. ARON, Remarques sur la Gnose Léniniste, in P.J. OPITZ – G. SEBBA (edited by), The Philosophy of Order, Stuttgard, Klett-Cotta, 1981, pp. 263-274; 81 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee ai desideri dell’uomo stesso e alla portata della sua stessa azione. Ciò si traduce in uno sforzo attivistico verso la perfezione nel mondo e del mondo talmente radicale da erigere una realtà totalmente nuova, surrogato della perfezione divina. L’interpretazione voegeliniana del fenomeno gnostico in relazione alla riflessione sul monismo totalitario che qui ci interessa chiarisce alcuni aspetti essenziali delle concezioni ideologiche. Se la gnosi antica è sostanzialmente dualistica, contrapponendo al mondo terreno di tenebra un mondo trascendente di luce, la gnosi moderna sviluppa da tale schema dualistico risultati monistici: la contrapposizione tra “the world of light and the world of darkness, the worlds of God and of Satan, the worlds of Spirit and of Matter”153 è superata in via definitiva, realizzando un paradiso terreno, un perfetto ordine socio-politico, trionfo definitivo dell’unità, della totalità e dell’unilateralità. Nel caso di Marx, lo stadio finale è il prodotto di un monismo materialistico (storico e scientifico) in cui la perfezione celeste è fabbricata in terra volontaristicamente attraverso l’azione rivoluzionaria del proletariato, da un lato, e la trasformazione dell’uomo nel superuomo comunista, dall’altro. La società senza classi è stabilita rigorosamente da leggi scientifiche e in essa non vi è alcun posto per Dio: è un compimento sensibile e immanente, una teleologia escatologica laica della quale Marx conosce la formula storica per mutare strutturalmente il mondo e salvarlo insieme all’uomo. Le ideologie monistiche designano pertanto, per Voegelin, un complesso di idee che rivendicano di conoscere e di spiegare la realtà in ogni singolo aspetto; l’ordine politico è così compreso in termini puramente mondani per mezzo di sistemi scientifici e politici che dominano in via assoluta l’esistenza individuale e collettiva. Negli anni ‘50, il monismo ideologico nella sua variante gnostica appare allo studioso tedesco particolarmente pericoloso, perché in esso si mostrano con più evidenza gli accenti violenti della pretesa, tutta moderna, di sconfiggere le incertezze della condizione umana. La volontà intima di tale progetto è rendere tutto pensabile e possibile in base a un unico principio, a un’unica idea; in concreto, in nome di idee assolute viene realizzata una immaginaria ‘seconda realtà’ (ideologica) 153 E. VOEGELIN, History of Political ideas, vol. IV, Renaissance and Reformation, cit., p. 165. 82 Cap. II - Eric Voegelin e la rilessione sul monismo e conquistata un’apparente verità che svela (fittiziamente) ogni mistero.154 Un mondo irreale costruito con forza violenta e volontaristica dai diversi leader totalitari di turno si sostituisce in via definitiva alla realtà esistente. La distanza tra sogno e realtà si perde e si impone ‘magicamente’ un ordine perfetto che, in quanto tale, non può che essere, assurdo e distorto. Le ideologie gnostico-monistico-liberticide del XIX e XX secolo si radicano, perciò, nel rifiuto del reale e aggrediscono ragione e religione, dando vita ad una mentalità definita da Voegelin “parusistica”, una mentalità che “expects deliverance from the evils of the time through the advent, the coming in all its fullness, of being construed as immanent”.155 Questa è l’estrema manifestazione di una “disease of the spirit”, un disordine intellettuale e spirituale che Voegelin definisce con diversi termini, nosos, morbus animi, aspernatio rationis, appellandosi di volta in volta a Eraclito, Eschilo, Platone e Cicerone.156 È proprio il rilievo dato a questa ‘malattia dello spirito’ a chiarire, da un lato, le radici del totalitarismo novecentesco e a definire, dall’altro, la crisi della modernità: entrambi si situano al culmine di un processo intellettuale che ha imposto il monismo epistemologico delle scienze naturali, un razionalismo scientifico tecnico-strumentale che circoscrive l’esplorazione del mondo ai fenomeni empirici, escludendo il fondamento trascendente dell’esistenza umana, della realtà e della verità. A ciò poi si accompagnano filosofie della storia teleologiche, che hanno l’illusoria ambizione di dare una spiegazione aprioristica ed esaustiva del corso e del significato della storia stessa. Ne consegue una “revolt against reality”, cioè la pretesa di dominare la realtà e di poter instaurare un ordine socio-politico giusto, perfetto e, in quanto tale, finale. Desideroso di lasciarsi definitivamente alla spalle ogni insicurezza, ansia, timore e imperfezione della propria condizione di vita, l’uomo si consegna alla certezza di una ‘magica deformazione della realtà’, istituita in base alla hybris dell’attivi154 Voegelin prende il termine “second reality” da Robert Musil, dall’opera L’uomo senza qualità (1930-1942). Cfr. E. VOEGELIN, Hitler and the Germans, Columbia and London, University of Missouri Press, 1999, pp. 108, 244-245, 252-256. 155 E. VOEGELIN, Science, Politics, and Gnosticism, cit., p. 276. 156 Cfr. E. VOEGELIN, Order and History, vol. I, Israel and Revelation, Columbia and London, University of Missouri Press, 2001, p. 24; ID., Wisdom and the Magic of Extreme, in ID., Published Essays 1966-1985, Baton Rouge and London, Louisiana University Press, 1990, p. 322. 83 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee sta radicale. Si ritrova – come dimostrano per Voegelin “the dream worlds […] be they progressivist, positivist, behaviorist, Marxist, or Fascist” – prigioniero di un incubo, perché – continua lo studioso – “the […] activist dreamers […] want to liberate us from our imperfections by locking us up in the perfect prison of their phantasy”.157 157 E. VOEGELIN, Wisdom and the Magic of Extreme, cit., pp. 321, 315. 84 Cap. III - Monismo e scienza politica CAPITOLO III MONISMO E SCIENZA POLITICA 3.1 Oltre la storia delle idee Voegelin coglie le aporie intellettuali e spirituali che hanno condotto al totalitarismo e nel fare ciò ne analizza in profondità le radici e la natura epistemologica e politica. Per Voegelin, come per Berlin, a fondamento del fenomeno totalitario vi sono istanze monistiche di dominio totale e, come per il filosofo inglese, anche per il pensatore tedesco la storia delle idee diviene un mezzo per indagare le origini della deriva ideologica dell’Occidente e per elaborarne una particolare interpretazione. Anche se, come è stato detto, nel vocabolario politico voegeliniano raramente ricorre il termine monismo, questo è a tutti gli effetti uno dei presupposti speculativi da cui muove l’analisi voegeliniana delle forme di schiavitù politica e della degenerazione della modernità. In questo senso, Voegelin e Berlin, pur presentando diversi percorsi metodologici, culturali e politici, mostrano assonanze interpretative nel comprendere la natura delle ideologie politiche totalitarie. Tra queste, poi, per entrambi, il marxismo sembra essere la variante più pericolosa. Il percorso ermeneutico sviluppato da Voegelin è complesso e articolato, sia dal punto di vista metodologico sia contenutistico: la storia delle idee voegeliniana non si struttura come semplice contestualizzazione di eventi e di concetti, né è una rassegna del pensiero di diversi autori, ma descrive, coniugando storia politica e teoria politica, una vasta trama di attori, di discorsi culturali, politici e sociali dai quali emerge una specifica linea d’indagine. L’indagine al centro della storiografia delle idee di Voegelin è – come ritiene Walsh – “the analysis of the larger movements of order and disorder”, e quindi delle idee che rivelano “the crucial emergence or decline of order”.158 In questo contesto, egli produce un esame penetrante dei movimenti ideologici di massa, moderni e contemporanei, e individua 158 D. WALSH, Editor’s Introduction, in E. VOEGELIN, Crisis and The Apocalypse of Man, cit., p. 2. 85 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee tre principali nodi teorico-storici alla base della crisi ideologica della modernità: scientismo, secolarizzazione e gnosticismo. Questi modelli di pensiero sono reciprocamente coinvolti nella “crisis of the spirit” che ha investito l’Occidente e della quale gli esperimenti totalitari del XX secolo sono la manifestazione più feroce e brutale.159 Obiettivo della riflessione voegeliniana sul totalitarismo ideologico è anche la critica alla modernità: la logica del moderno, legata al razionalismo scientifico astratto e a filosofie universalistiche, ha prodotto, da un lato, un’assoluta immanenza, cancellando la metafisica classica e cristiana e, dall’altro, una ragione che non tiene conto della dimensione divina, quale polo dell’ordine politico. L’uomo è così imprigionato nella sua dimensione mondana-materiale, ridotto a tassello di una totalità indivisa, omogenea, non curante della pluralità delle dimensioni dell’essere. L’essere umano è pertanto vittima di visioni riduzionistiche “which hypostatize society and history as an absolute, eclipsing personal existence and its meaning”.160 Nell’interpretazione di Voegelin è, poi, la vasta famiglia delle dottrine gnostiche a rappresentare la caratteristica principale della modernità e, quindi, il disordine politico (e esistenziale) che la pervade e la domina. La logica gnostica si fonda, infatti, su un rigoroso immanentismo, sul rifiuto da parte dell’essere umano di vivere in tensione con il fondamento della realtà e sulla pretesa di possedere la conoscenza perfetta, per edificare un ordine politico definitivo. La gnosi moderna costruisce un ‘mondo di sogno’, una ‘seconda realtà’ dove tutto è possibile e in cui l’uomo e la società sono rappresentati come onnipotenti e capaci di autoredenzione. Nella diagnosi voegeliniana della crisi di civiltà del moderno lo gnosticismo è, pertanto, l’assolutizzazione della libido dominandi umana: affermando di poter controllare il destino dell’uomo, si rende schiavo l’uomo stesso di sistemi di pensiero, politici e sociali, per mezzo dei quali tiranni e dittatori impongono la propria autorità sul destino dell’umanità intera. La lettura voegeliniana dei movimenti ideologici moderni e contem159 E. VOEGELIN, Crisis and The Apocalypse of Man, cit., p. 162. 160 E. VOEGELIN, Reason: The Classic Experience, in ID., Publishes Essays 1966-1985, cit., p. 290. Sul tema della crisi della modernità la bibliografia è assai imponente; si rimanda qui a due importanti volume: C. GALLI (a cura di), Logiche e crisi della modernità, Bologna, Il Mulino, 1991; ID., Modernità. Categorie e Profili Critici, Bologna, Il Mulino, 1988. 86 Cap. III - Monismo e scienza politica poranei e del totalitarismo si snoda attraverso due passaggi cruciali: gli anni ‘40, incentrati sulla storiografia delle idee e sull’elaborazione della History of Political Ideas, e gli anni ‘50, che vedono la pubblicazione di The New Science of Politics (1952). In queste due fasi della sua produzione scientifica, Voegelin guadagna l’accesso teorico e metodologico a questioni che dominano il discorso sull’ordine politico moderno, quali: la razionalità (scientista-positivista) che connota la modernità, la rilevanza di leggi di sviluppo immanente della storia nella chiusura monistico-totalitaria, il processo di secolarizzazione quale tratto peculiare della crisi del moderno, il rapporto tra trascendenza e immanenza quale nucleo della storia dell’uomo e quindi delle condizioni di ordine o disordine della stessa. Negli anni ‘40, la pur originale storia delle idee voegeliniana è ancorata ad una ricostruzione genealogica delle idee e delle mentalità che avevano contributo al sorgere del totalitarismo: in una successione temporale, non sempre lineare, il pensatore tedesco mette in evidenza, da un lato, diverse situazioni tipiche, che permettono di risalire alle diverse idee politiche, e, dall’altro, fa di alcuni uomini di pensiero i tipi ideali di tutta un’epoca. Da questo punto di vista, pur cogliendo il nesso profondo tra eventi della storia, idee e personalità, Voegelin talvolta sembra cedere all’elencazione degli ideologists o spiritual activists che esprimono la decadenza spirituale e intellettuale della civiltà occidentale. Tuttavia, questo indirizzo di ricerca viene ‘abbandonato’ negli anni ’50; Voegelin stesso ammette: “I had to give up «ideas» as objects of a history and establish the experience of reality – personal, social, historical, cosmic – as the reality to be explored historically. These experiences, however, one could explore only by exploring their articulation through symbols”.161 Cosa realmente significa questa affermazione? Più che di vero e proprio abbandono è più opportuno parlare di un ispessimento filosofico subito dall’indagine voegeliniana nel corso delle ricerche condotte. Voegelin è sempre più incline a uno studio che fondi antropologia filosofica e filosofia della storia e, così procedendo, gli è sempre più chiaro come le idee politiche nascano dal modo in cui l’uomo reagisce a determinate esperienze che si presentano nel corso della vita umana. Al linguaggio delle idee si sostituisce 161 E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, cit., pp. 105-106. 87 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee così quello delle ‘esperienze’ in grado di fornire una risposta più dettagliata agli interrogativi radicali che l’uomo costantemente si pone. Oltre a ciò, l’analisi critica delle esperienze è svolta esaminando i diversi depositi simbolici (per esempio, proprio le idee o le istituzioni politiche, sociali, religiose…) presenti nel corso della storia ed espressione dell’esperienze stesse. I simboli comunicano le esperienze d’ordine (e di disordine) vissute dall’uomo, ovvero il modo in cui gli esseri umani hanno organizzato le proprie esistenze sociali e politiche. A questo punto, la storia non è esclusivamente storia delle idee, ma anche history of experiences and symbolizations: una storia fatta di esperienze e simboli che si interroga anche sul senso della realtà e dell’agire umano. Voegelin si allontana, perciò, dall’ambito della storia delle idee per abbracciare una ricerca filosofico-politica più radicale che lo porta a rivedere l’assetto metodologico e i contenuti della History of Political Ideas. Il risultato di tale nuova prospettiva d’indagine è Order and History, un altro monumentale trattato che rappresenta a tutti gli effetti l’opus magnum di Voegelin: lo scopo è “a philosophical inquiry concerning the order of human existence in society and history”, ovvero tracciare la storia dell’ordine della società umana, dal suo emergere nell’antico oriente fino al periodo presente.162 Il piano inziale di quest’opera della maturità prevedeva lo studio delle organizzazioni imperiali del vicino oriente e la loro esistenza nella forma del mito cosmologico, l’indagine circa il popolo eletto e la sue esperienze d’ordine nella storia, la ricerca riguardante la polis, il suo mito e lo sviluppo della filosofia come forma simbolica del suo ordine, l’analisi degli imperi a multiciviltà e della nascita della cristianità, e infine l’esame del moderno Stato nazionale e della gnosi. Tali temi si sarebbero dovuti distribuire in sei volumi (Israel and Revelation, The World of the Polis, Plato and Aristotle, Empire and Christianity, The Protestant Centuries, The Crisis of Western Civilization), che riorganizzavano gli studi storico-filosofici compiuti per la stesura della History of Political Ideas. I primi tre volumi uscirono tra il 1956 e il 1957, ma poi il progetto voegeliniano andò incontro ad alcuni cambiamenti. Il lavoro si arenò, da un lato, a causa della mole che avrebbe raggiunto, perché, come dimostra la stessa History, era costume di Voegelin 162 E. VOEGELIN, Order and History, vol. I, Israel and Revelation, cit., p. 24. 88 Cap. III - Monismo e scienza politica non presentare soltanto le formulazioni teoriche, ma anche i materiali sui quali le stesse si basavano;163 dall’altro, le assunzioni teoretiche dalle quali era partito avevano subito un ulteriore sviluppo. Nel 1958 Voegelin fu poi chiamato all’Università di Monaco, a occupare la cattedra che era stata di Max Weber e a dirigere l’Institut für politische Wissenschaft, Istituto che diresse fino al 1969.164 Al di là del tracciato teorico-filosofico seguito, l’impalcatura portante dell’opera era lo studio della storia: perennemente proteso ad interrogare la storia e a ridefinire i caratteri della propria ricerca storica, Voegelin desidera discernere nel corso del suo fluire le forme simboliche attraverso le quali gli esseri umani hanno organizzato le loro esistenze socio-politiche. La storia è ora per Voegelin – ed è questo il passaggio che segna l’‘abbandono’ della History of Political Ideas – storia di sistemi di simboli che ordinano di volta in volta, attraverso sedimentazioni più o meno compatte, più o meno differenziate, l’esistenza umana. In questo senso, costante è per l’uomo il pericolo di considerare i simboli trovati come definitivi, unici e assoluti, sottratti alla loro temporalità e contingenza storica e perciò di generare ‘mostri politici’ tirannici, dispotici o totalitari, che tentano di esaurire la questione dell’ordine politico, ovvero di rimuovere la questione del fondamento trascendente dello stesso. Al centro della riforma metodologica di Order and History c’è, ancora una volta, l’affermazione forte che non si può dare un significato alla storia, così come avevano tentato di darlo le filosofie finalistiche del XVIII e XIX secolo, ma ci si deve perennemente interrogare sul suo significato. Questa è la conseguenza di un movimento della storia definito ora dal filosofo te163 “If I went through with the program, the sequel to the first three volumes would have been not another three volumes as planned but perhaps six or seven volumes more. The general public was unfamiliar with the sources that led to certain theoretical insights, so the theoretical insights could not be presented without the sources” (E. VOEGELIN, Autobiographical Reflections, cit., p. 107). 164 Il quarto volume, The Ecumenic Age, fu pubblicato nel 1974; mentre l’ultimo volume, In Search of Order, uscì postumo nel 1987. Negli anni in cui la stesura del trattato fu interrotta, Voegelin sviluppò e precisò la filosofia della coscienza, che in parte già faceva da sottofondo a The New Science of Politics e al primo impianto di Order and History. In The Ecumenic Age venivano spiegate le difficoltà incontrate nell’impresa ed i motivi del cambiamento metodologico-strutturale. Il quinto volume, In Search of Order, doveva costituire la summa della nuova prospettiva teorica, ma fu interrotto dalla morte dell’autore. 89 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee desco come esodo, perché scandito da fratture epocali, frutto del passaggio da forme più compatte a forme più differenziate di esistenza individuale e collettiva165 e di un ordine (politico ed esistenziale) generato dalla tensione verso il fondamento divino della realtà.166 Non è questa la sede per entrare nei dettagli dello studio voegeliniano sui fenomeni d’ordine del corso storico e sui vari simboli che gli uomini usano per interpretare l’ordine stesso, ma se è vero che Voegelin sposta il centro della propria ricerca dalle idee alle esperienze della realtà, che per articolarsi generano una varietà di simboli, è anche fuori di dubbio che costante è l’interesse per il processo di secolarizzazione che investe l’Occidente: dalla History of Political Ideas, passando per The New Science of Politics (1952) e poi per scritti successivi quali Wissenschaft, Politik und Gnosis (1959), fino ai primi volumi di Order and History (Israel and Revelation, The World of the Polis e Plato and Aristotle) Voegelin non perde di vista quanto sia pericoloso perdersi in “modes of existence in untruth”,167 ovvero incorrere in progetti di unità politica monolitica che eliminano il rapporto con la dimensione divina e conducono alla illusoria costruzione di uno Stato perfetto.168 Per il pensatore tedesco, e ciò può piacere o non piacere, soluzioni politiche che escludono, rimuovono, dimenticano o occultano il riferimento ad un fondamento trascendente sono sintomo di disordine politico, sono esperimenti gnostici, prodotti arbitrari della ragione umana, come dimostrano i moderni movimenti rivoluzionari di massa. Quella di Voegelin è certamente una ‘scienza politica-scienza dell’ordine’ densa e fatta di tematiche complesse, nella quale l’indagine storiografica, 165 Afferma Voegelin: “When a society gains a new insight into the true order of personal and social existence, and when it will abandoned the larger society of which it is a part when it gains this new insight, this constitutes an exodus” (E. VOEGELIN, Configurations of History, in ID., Published Essays 1966-1985, cit., p. 104). 166 Sul concetto di esodo in Voegelin cfr. S. CHIGNOLA, Pratica del limite. Saggio sulla filosofia politica di Eric Voegelin, cit., pp. 99-116; G. ZANETTI, op. cit., pp. 71-79. 167 E. VOEGELIN, On Debate and Existence, in ID., Published Essays 1966-1985, cit., pp. 36-51. 168 Come osserva Sandoz: “It is worth stressing that no dislocating break in Voegelin’s thought occurred after the publication of The New Science of Politics in 1952; that work signaled the watershed in the philosopher’s thinking. The meditative horizon opening there is explored, amplified, refined, and productive of major new insights, to be sure […].” (E. SANDOZ, Editor’s Introduction, in E. VOEGELIN, Published Essays 1966-1985, cit., p. XIV). 90 Cap. III - Monismo e scienza politica prima, e filosofica poi, sull’origine intellettuale del totalitarismo, è anche il rifiuto perentorio di qualsiasi dogmatismo e, perciò, uno studio antidogmatico e anti-ideologico del reale, volto a recuperare “the philospoher’s freedom of reason”169 e a superare uno studio della società e del politico inquinato da progressismi, positivismi, ideologie scientiste e metodologie neokantiane. 3.2 Il problema della rappresentanza nell’indagine voegeliniana sul monismo totalitario In questo contesto, la riflessione di Voegelin sulla rappresentanza170 esposta in The New Science of Politics segna un momento importante nell’in169 E. VOEGELIN, Wisdom and the Magic of Extreme, cit., p. 316. 170 Sulla rappresentanza in Voegelin, cfr. G. DUSO, La Rappresentanza: un Problema di Filosofia Politica, Milano, FrancoAngeli, 1988, pp. 156-161; C. GALLI, Eric Voegelin: la rappresentanza, la trascendenza, la storia, in C. CARINI (a cura di), Aspetti e problemi della rappresentanza politica dopo il 1945, Firenze, CET, 1998, pp. 73-107; il saggio è stato ripubblicato nel volume ID., Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 209-236; ID., Immagine e rappresentanza politica, “Filosofia politica”, I (1987), pp. 9-30. Nello sviluppare il tema della rappresentanza Voegelin ha ben presente la riflessione di Hans Kelsen, del quale fu allievo a Vienna. Il rapporto tra i due autori come già detto è complesso e caratterizzato da numerosi ‘scontri’ sotto il profilo metodologico e teorico. Il giurista austriaco mette in discussione proprio la nozione di rappresentanza elaborata da Voegelin, dal momento che per il filosofo tedesco la rappresentanza elementare (“esitenza esterna della società”) – rappresentanza mediante organi eletti – deve dare per scontata l’esistenza di una “struttura esistenziale” (di una “struttura interna della societa”). Per Kelsen, qui Voegelin sbaglia: denunciando l’insufficiente profondità ontologica della rappresentanza elementare, egli finisce per perdere di vista in che cosa realmente consista la rappresentanza democratica, se questa realmente assicuri una forma di governo democratico eletto dal popolo sulla base del suffragio universale. Cfr. H. KELSEN, Una Nuova Scienza Politica, a cura di Federico Lijoi, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 27-91: 36-50. Si vedano anche le lettere che Kelsen e Voegelin si scambiarono durante il 1954; queste infatti hanno come oggetto proprio il concetto di rappresentanza. Cfr. E. VOEGELIN, Selected Correspondence 19501984, Columbia and London, University of Missouri Press, 2007, pp. 206-209, 214-218. Sul rapporto tra rappresentanza democratica di un popolo e sistema parlamentare e sul carattere della democrazia kelseniana cfr.: R. RACINARO, Hans Kelsen e il dibattito su democrazia e parlamentarismo negli anni Venti e Trenta, in H. KELSEN, Socialismo e Stato, Bari, De Donato, 1978, pp. IX-CLV; G. PECORA, La democrazia di Hans Kelsen. Un’analisi critica, Napoli, ESI, 1992; S. LAGI, La «Democrazia» di Hans Kelsen: tra procedura ed etica, “Il pensiero politico”, XXXVI (2003), pp. 239-272; ID., La prima edizione di Essenza e valore della democrazia. Temi e problemi, “Il pensiero politico”, XXXVII (2005), pp. 439-448; ID., Il pensiero politico di Hans Kelsen (1911-1920). Le origini di Essenza e valore della democrazia, Genova, Name, 2008; ID., La forma di governo meno imperfetta: la democrazia di Hans Kelsen, “Il pensiero politico”, XLVIII (2015), pp. 248-260; H. KELSEN, La democrazia, Bologna, Il Mulino, 2013. 91 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee terpretazione che egli dà della chiusura totalitaria della società moderna. Attraverso il concetto di rappresentanza lo studioso tedesco argomenta una riflessione filosofica rivolta sia al passato, alle origini dei tratti costituitivi del pensiero politico totalitario, sia al presente, alla società del suo tempo, interrogandosi sull’ordine politico della democrazia liberale. Per Voegelin, la rappresentanza comprende tre livelli di significato: quello elementare o giuridico-politico formale, quello esistenziale e quello trascendente. La rappresentanza elementare è quella tipica delle istituzioni rappresentative liberaldemocratiche e garantisce “the external existence of a society”.171 È la delega di opinioni e d’interessi a un rappresentante che agisce in nome di altri individui e costituisce il primo tassello formaleprocedurale e funzionale alla convivenza sociale; da sola, però, non è sufficiente a garantire l’ordine politico. Per Voegelin, accanto alla dimensione empirica della delega degli interessi, cioè alla dimensione costituzionale dell’organizzazione del potere e alla sua legittimazione popolare, deve esserci una rappresentanza esistenziale: ogni società per esistere deve esprimere una rappresentanza esistenziale, perché attraverso questa l’ordinamento positivo dà attuazione a un contenuto, a un’idea la quale mantiene in vita la società stessa e dà efficacia all’agire politico della società nella storia. A questo livello il quadro della situazione si complica: se ogni rappresentanza è sempre, oltre che elementare anche esistenziale, vi è il rischio che l’idea (la forma ideale dell’esistenza della società), resa viva ed effettiva dalla rappresentanza, venga realizzata in modo assoluto, fondando un ordine politico monolitico, ovvero totalitario. Voegelin qui chiama in causa la rappresentanza della “Verità”, che consiste proprio in una rappresentanza esistenziale compatta, nella quale identità e unità sono indissociabili. Nella storia molteplici sono stati i tentativi di realizzarla, basti pensare, secondo Voegelin, alla logica hobbesiana e hegeliana dello Stato moderno, in cui lo Stato stesso, pur con le dovute differenze, si pone come inizio e come fine dell’esistenza dell’uomo e, più recentemente, a comunismo e nazismo, chiari esempi di rappresentanza unilaterale, negli intenti e nell’azione, ed immanente della Verità.172 Siamo al cospetto di esperienze che configurano 171 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit, p. 113. 172 S. CHIGNOLA, Pratica del limite. Saggio sulla filosofia politica di Eric Voegelin, cit., pp. 113-119. 92 Cap. III - Monismo e scienza politica un ordine socio-politico vissuto come acquisito una volta per tutte, nel quale la storia è un vettore lineare con un tragitto progressivo verso un termine ultimo. Per evitare la pretesa che una società politica possa esprimere l’universalità della verità, al significato esistenziale della rappresentanza “must be added the sense in which society is the representative of a transcendent truth”.173 “Representation in transcendental sense” è un tipo di rappresentanza per lo più non compatta, perché si articola in soggettività aperte alla trascendenza: la società diventa rappresentante di qualcosa che va oltre se stessa, verso una realtà trascendente a cui si tende, ma che non si può mai raggiungere e perciò non si consolida mai in una verità ultima. Affinché infatti la rappresentanza trascendentale sia tale, non può ridurre la verità trascendente alla sua rappresentazione storica finita. Se ciò accadesse, “la verità diventerebbe immanente” e l’esperienza umana si chiuderebbe ancora una volta alla sola dimensione terrena, con il pericolo di scivolare verso progetti politici al servizio di ideologie esclusive.174 L’allargamento del contenuto elementare ed esistenziale della rappresentanza all’esperienza della trascendenza è centrale nell’impostazione teorica voegeliniana: la rappresentanza nella sua forma completa chiede non solo un metodo democratico a livello procedurale, ovvero un insieme di regole che riguardano competenze e procedure rispetto al processo di decisone politica, ma anche un’attenzione particolare a ‘che cosa’ dirige lo Stato, a quale sia l’idea attiva operante nella società. Specialmente a livello politico è rilevante l’apertura costante e inesauribile verso il fondamento dell’esistenza: è questa ‘apertura’ che dà luogo ad un ordine non ‘unico’, ipostatizzato, ma articolato. Di conseguenza, è il rapporto tra rappresentanza e verità, tra immanenza e trascendenza (e tra politica e rappresentazione dell’idea) a segnare la distanza tra un assetto politico monistico-totalitario e un’ organizzazione politico-istituzionale non liberticida. Con la teoria della rappresentanza Voegelin individua un campo prettamente politico, più che giuridico, indicando come l’ordine della vita pubblica dipenda dall’equilibrio armonico tra trascendenza e immanenza, 173 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 147. 174 G. CAMMAROTA, La scienza politica come scienza teorica. La teoria della rappresentanza in Eric Voegelin, cit., p. 104. 93 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee tra dimensione spirituale e temporale, tra verità dell’anima e verità della società. L’ordine politico si raggiunge perciò tramite la dedivinizzazione di ogni forma di potere temporale, così da evitare la sacralizzazione di entità politiche intramondane, e mantenendo vivo il dialogo della società e dell’uomo con il divino. A rendere fragili le democrazie liberali contemporanee è perciò, a parere di Voegelin, la convivenza difficile tra immanenza e trascendenza, soprattutto in un’epoca caratterizzata dall’estrema secolarizzazione. Lo stesso fondamentalismo religioso è una manifestazione di questa involuzione, in quanto esprime la volontà di fare coincidere Dio, Chiesa e politica, tentando di dare presenza storica alla trascendenza stessa.175 Il pensatore tedesco è, dunque, perplesso circa il futuro della democrazia liberale: il pericolo di scivolare lungo il crinale del totalitarismo non è scomparso, perché la possibilità di eliminare lo scarto tra cielo e terra, come hanno fatto le moderne ideologie immanentiste, è sempre presente. L’Occidente sta perdendo, agli occhi di Voegelin, l’idea di ordine complesso e articolato:176 la politica presente si limita a ridurre al minimo la tensione tra trascendenza e immanenza, circoscrivendo la propria forma politica alla rappresentanza elementare, relegando alla sola sfera privata il rapporto con il trascendente, concentrandosi su regole tecniche che riguardano procedure e competenze e che finiscono per esaltare diritti individuali e interessi particolari. Eppure “a glimmer of hope” è ancora accesa: la società occidentale non è tutta ‘moderna’, perché ancora in essa è viva la tradizione classica e cristiana. Se così non fosse, già da molto tempo avrebbero trionfato ancora una volta le rivoluzioni più radicali e ‘mondi di sogno’ (gnostici) che perpetuano una distorsione della realtà, in cui ogni forma di dibattito razionale è bandita in virtù di un’unica visione che non ammette opposizione.177 Voegelin fa così notare che all’interno della tradizione occidentale the American and English democracies […] most solidly in their institutions represent the truth of the soul [and] are, at the same time, existentially the strongest powers. 175 C. GALLI, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, cit., p. 215. 176 Ivi, pp. 224, 236. 177 E. SANDOZ, The Voegelinian Revolution, cit., pp. 113-114; E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., pp. 226-227, 241. 94 Cap. III - Monismo e scienza politica But it will require all our efforts to kindle this glimmer into a flame by repressing gnostic corruption and restoring the forces of civilization.178 L’interrogazione voegeliniana sul totalitarismo e la scienza politica da lui elaborata non detta, però, né un progetto politico né principi per un nuovo ordine politico; egli non è interessato a fornire proposte risolutive per le sfide che il mondo occidentale (e con esso la democrazia liberale) si trova costantemente ad affrontare. La ricerca storica e la riflessione filosofica del pensatore tedesco, e lo stesso si può dire per quelle di Berlin, nasce da uno stimolo contingente, da una partecipazione lucida ma appassionata ai problemi del presente: la crisi che nel XX secolo attraversa l’Europa, scossa da due conflitti mondiali, dalla catastrofe del totalitarismo e dal profilarsi della Guerra Fredda. Per rispondere al delirio politico di questo periodo storico e per resistere a nuove derive totalitarie, sia Voegelin sia Berlin riflettono su idee e concezioni ideologiche che, a loro giudizio, avevano contribuito al sorgere di forme di governo liberticide e totalitarie. Sotto il profilo filosofico-politico, l’indagine sulla rappresentanza di Voegelin e quella sulla libertà positiva-libertà negativa di Berlin, sono una risposta (non definitiva) a stimoli politici solo apparentemente contingenti, perché destinati a durare nel tempo. Nel caso di Voegelin, a partire dalla messa in discussione della scienza politica positivista, egli desidera rifondare lo studio del politico, attraverso una ‘restaurazione della scienza politica’. Una scienza politica quella formulata da Voegelin che, come giustamente evidenzia Zanetti, è “ben strana”, ed “ha ben poco a che fare con la disciplina che normalmente si intende sotto questo nome”.179 La presa di distanza dalla scienza politica moderna implica una contrapposizione radicale con la neutralità dell’impostazione weberiana, ossia con la distinzione del sociologo tedesco tra fatti e valori.180 L’analisi critica della realtà politica, del 178 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 241. 179 G. ZANETTI, op. cit., pp. 63, 47. 180 La riflessione di Voegelin su Weber è particolarmente articolata, qui si rinvia ai saggi giovanili del 1925 e del 1930, nei quali Voegelin affronta il carattere problematico della razionalità moderna in Weber, e alla critica dell’impostazione weberiana ne La Nuova Scienza Politica (1952). Cfr. E. VOEGELIN, Über Max Weber, “Deutsche Vierteljahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte”, III (1925), pp. 177-193; tr. ingl. in ID., Published Essays 1922-1928, Columbia and London, University of Missouri Press, 2003, pp. 100-117. ID., Max Weber, “Kölner Vierteljahrshefte für Soziologie”, IX (1930), pp. 1-16; tr. ingl. ID., 95 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee conflitto tra ‘bene’ e ‘male’, nel modo in cui questo è emerso tragicamente e violentemente nel XX secolo, impone, per Voegelin, una reintroduzione dell’etica, tramite l’ontologia (dell’essere e dei valori); una reintroduzione che viene compiuta richiamandosi alla metafisica classica e cristiana, alla filosofia della Grecia classica (e in particolare al pensiero di Platone), da un lato, e alla verità soteriologica del cristianesimo, dall’altro.181 Lo studio del politico viene perciò rifondato attraverso una ricostruzione della scienza politica che sia, come commenta Sandoz, “a restoration of the classical and Judaeo-Christian philosophy of man and human affairs […]”, senza scadere banalmente “[in] the recovery of a tradition in the spirit of the antiquary or the disinterested historicist”.182 Sulla base di quanto detto, è importante ricordare la critica antimetafisica che muove Kelsen all’impostazione metodologica voegeliniana, perché richiama la distanza di metodo che pur si riscontra nell’affinità intellettuale che lega Voegelin a Berlin. L’esame approfondito di Berlin storico delle idee affrontato nella seconda parte del volume metterà in risalto come il pensatore tedesco e il filosofo inglese siano collegati da un filo rosso, cioè da un atteggiamento profondamente critico verso quelle ideologie totalitarie o visioni del mondo monistiche che pretendono di autogiustificarsi per mezzo di un sapere superiore. Entrambi gli studiosi criticano lo scientismo illuminista e positivista, il materialismo storico e in generale quelle forme di conoscenza che presumono di spiegare in via assoluta la vita umana, sociale e politica, fornendo la certezza di realizzare un regno di libertà e di pace. Proclami che si rivelano però utopici e si risolvono in un mondo dalle caratteristiche reali esattamente opposte. Questa assonanza tra Voegelin e Published Essays 1929-1933, cit., pp. 130-147; ID., The New Science of Politics, cit., pp. 98-105; ID., Hitler and the Germans, cit., pp. 257-273. Inoltre, nell’affrontare il rapporto Voegelin-Weber cfr. L. FRANCO, Voegelin e Weber: ambiguità e trasparenza, “Il Mulino”, XXXV (1986), pp. 775-797; P.J. OPITZ, Max Weber e Eric Voegelin, “Filosofia Politica”, VII (1993), pp. 109-127. 181 Cfr. Cap. II, par. 1.1, pp. 67-68. Da questo punto di vista, Voegelin presume di poter conferire alla storia la forma di un grande arco, la cui fase ascendente è data dall’episteme platonicoaristotelica, mentre il cristianesimo viene a fissare l’acme del ciclo, confermando la verità ordinante dell’anima nella sua apertura verso la trascendenza. Ai margini del Cristianesimo ha inizio un terzo momento discendente, quello gnostico. 182 E. SANDOZ, Editor’s Introduction, in E. VOEGELIN, Published Essays 1966-1985, cit., p. XVIII; E. VOEGELIN, The New Science of Politics, cit., p. 89. 96 Cap. III - Monismo e scienza politica Berlin va inquadrata tenendo tuttavia presente come la critica berliniana alle ideologie del XX secolo e alla Weltanschauung monistica muova da una prospettiva antimetafisica; al contrario della riflessione critica voegeliniana, che si fonda su presupposti ontologico-metafisici. Sono proprio questi ultimi presupposti che Kelsen contesta, confrontandosi con la nozione di scienza voegeliniana:183 a parere del giurista, la realtà deve essere descritta e resa comprensibile su base rigorosamente empirica, senza ricorrere a valori morali metafisici. Kelsen sostiene che: [l]a scienza può solo descrivere e spiegare; non può giustificare la realtà. La scienza ha la tendenza intrinseca a essere indipendente dalla politica e, in quanto conoscenza razionale ed obiettiva della realtà, non può presupporre, nella descrizione e nella spiegazione del proprio oggetto, l’esistenza di un’autorità trascendente, che sia al di là di ogni possibile umana esperienza.184 Secondo Kelsen, richiamarsi ad una sfera trascendente, così come faceva l’allievo Voegelin, rende vano lo sforzo weberiano dell’avalutatività della scienza, proiettando lo sguardo al di là dell’esperienza strettamente ‘scientifica’: la scienza politica viene posta nuovamente sotto il giogo della teologia e della speculazione metafisica e, quindi, resa nuovamente schiava di valori assoluti.185 Si può naturalmente essere d’accordo o no con l’obiezione kelseniana, ma più che entrare nel merito della complessa controversia tra maestro e allievo, ci interessa sottolineare l’aspetto filosofico-politico dell’impresa speculativa del pensatore tedesco. Voegelin analizza il ruolo più squisitamente filosofico della scienza politica (“a philosophically astute and a highly original renovation of the spirit of philosophizing”),186 caratterizzata da una ragione non astratta ed esatta, in cui la tensione verso il trascendente 183 Per quanto riguarda la riflessione kelseniana sulla nuova scienza politica di Voegelin cfr. H. KELSEN, Una Nuova Scienza Politica, cit. 184 H. KELSEN, Religione secolare. Una polemica contro l’errata interpretazione della filosofia sociale, della scienza e della politica moderne come “nuove religioni”, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2014, p. 364. 185 Cfr. H. KELSEN, Una Nuova Scienza Politica, cit., pp. 1-2; P. DI LUCIA - L. PASSERINI GLAZEL, Prefazione all’edizione italiana. Religione senza un Dio?, in H. KELSEN, Religione secolare, cit., pp. XI-XII. 186 E. SANDOZ, Editor’s Introduction, in E. VOEGELIN, Published Essays 1966-1985, cit., p. XVIII. 97 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee implica per sua stessa natura un’idea di ‘verità’ che non si lasci piegare a definizioni assolute. Sotto il profilo della conoscenza del politico, significa anche prendere consapevolezza dei valori e dei limiti a cui la facoltà stessa del conoscere è sottoposta. Non esiste un punto di vista privilegiato dal quale si possa afferrare con orgogliosa certezza l’ordine politico perfetto, perché l’uomo vive immerso, a livello politico-sociale, in una realtà che non è un oggetto, ma qualcosa di mutevole, che non si dà mai una volta per tutte, aprendosi a Dio.187 L’ordine politico non può essere racchiuso in un concetto, in un’idea, bloccato in un risultato immutabile, ma consiste proprio nell’apertura dell’anima alla realtà trascendente; un’apertura che non si consolida mai in una conoscenza piena dell’uomo e della società in cui vive e che non obbedisce a nessuna legge di sviluppo immanente. Il richiamo religioso-metafisico voegeliniano che pure denuncia l’inefficacia, l’insufficienza e la pericolosità di qualsiasi monismo, decreta però anche una prospettiva metodologica differente rispetto a quella di Berlin, perché si riferisce ad un universo concettuale distante da quello del filosofo inglese. La necessità di una rappresentanza trascendentale è poi affermata criticando il razionalismo scientista, il dogmatismo, il relativismo e il totalitarismo, sia nazista sia comunista (quest’ultimo ben più pericoloso a causa della dialettica della storia), senza però perorare apertamente la causa della libertà individuale. Quest’ultima è, per Voegelin, costantemente sotto la minaccia del relativismo se l’individuo non si apre criticamente alla trascendenza. La scienza politica voegeliniana si riscopre proprio nella trascendenza ed è perciò un’interrogazione continua del rapporto tra ordine politico e fondamento dell’esistenza: alla sterilità del razionalismo scientista-positivista della scienza politica moderna, ovvero all’idea anch’essa tutta moderna di una “scienza auto-fondata su una ragione immanente”,188 Voegelin contrappone una ricerca senza sosta ed approdo (zetesis), rivolta alla ricorrente tensione (helkein) verso il fondamento trascendente dell’ordine politico, tensione che nutre e costruisce l’ordine stesso. Questo tipo di rinnovamento della scienza politica è al centro della comprensione dei movimenti di palingenesi terrena, dei loro processi rivoluzionari e quindi del totalitarismo: se 187 G. ZANETTI, op. cit., pp. 63, 66-67. 188 Ivi, p. 72. 98 Cap. III - Monismo e scienza politica nella History of Political Ideas Voegelin si interroga sulla civiltà occidentale, valutando proprio le irruzioni di immanenza e trascendenza nella storia umana, con particolare attenzione alle “forces of innerwordly religiosity”, cioè alla secolarizzazione dello spirito e ai disordini ideologico-dogmatici dell’età moderna e contemporanea, nella Nuova Scienza Politica (e nella produzione scientifica successiva) egli mette in risalto “the reassertion of the spirit”, ovvero una scienza che, non dimenticandosi di essere collegata all’ontologia e alla metafisica, possa penetrare il significato profondo della storia, andando al di là di ciò che semplicemente appare e oltre la corruzione epistemologica del monismo.189 189 Cfr. E. VOEGELIN, History of Political Ideas, vol. VII, The New Order and Last Orientation, cit., p. 195. 99 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee CAPITOLO IV ISAIAH BERLIN E LA STORIA DELLE IDEE 4.1. Isaiah Berlin: ilosofo e storico delle idee Nel 1988 Isaiah Berlin,190 ormai anziano e altrettanto celebre intellettuale a livello internazionale, giunse nella città di Torino per ricevere il Premio Senatore Giovanni Agnelli e in quella occasione tenne un lungo discorso di ringraziamento successivamente pubblicato in italiano con il titolo Sulla ricerca dell’ideale.191 Potrebbe apparire quanto mai curioso la scelta di introdurre la figura e l’opera di Berlin in rapporto alla riflessione sul monismo iniziando da un evento che risale alla fine degli anni ‘80 e che certamente non rappresenta il momento più alto e memorabile della sua carriera, già all’epoca costellata 190 Isaiah Berlin nacque a Riga in una agiata famiglia di commercianti ebrei. Trasferitosi poco più che bambino con i genitori in Inghilterra, compì i suoi studi universitari a Oxford, entrando a far parte – primo ebreo nella storia di quell’istituzione – del prestigioso All Souls College. Durante la Seconda guerra mondiale ebbe incarichi diplomatici sia in America, sia in Unione Sovietica che lo portarono ad entrare in contatto con insigni personalità del tempo quali Arthur Schlesinger, George Kennan, Anna Achmatova, per citarne alcuni. Nel 1958 divenne Chichele Professor di Teoria politica e sociale all’All Souls College e nel 1966 fu tra i fondatori del Wolfson College (Oxford). Storico delle idee, filosofo e diplomatico, Berlin fu tra i personaggi più in vista dell’ambiente intellettuale inglese del XX secolo. La biografia più nota e apprezzata su Berlin rimane quella scritta da Michael Ignattieff, della quale ci siamo avvalsi nella traduzione italiana: M. IGNATIEFF, Isaiah Berlin. Ironia e libertà, Roma, Carocci, 1998. Si vedano inoltre: I. BERLIN, In libertà. Conversazioni con R. Jahanbegloo, tr. it. Roma, Armando Editore, 2012 e S. LUKES, op. cit. I due ultimi libri citati consistono essenzialmente in lunghe interviste rilasciate da Berlin e quindi sono particolarmente interessanti proprio perché permettono di ‘leggere’ la vita del pensatore inglese attraverso il suo sguardo più intimo e personale. Sulle frequentazioni di Berlin nel periodo americano si vedano le interessanti pagine di F. S. SAUNDERS, La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle arti e delle lettere, Roma, Fazi editore, 2004, p. 37 ss. In generale, su Isaiah Berlin e la sua produzione intellettuale rimandiamo anche alla Isaiah Berlin Virtual Library, il cui catalogo e le cui iniziative relative allo studio e alla divulgazione dell’opera dello studioso inglese sono consultabili all’indirizzo web: http://berlin.wolf.ox.ac.uk/. 191 In questo caso ci siamo avvalsi direttamente della traduzione italiana del testo: I. BERLIN, Sulla ricerca dell’ideale, Roma, Edizioni Morcelliana Edizioni, 2007. 101 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee di ben più importanti riconoscimenti. Tuttavia, il discorso che egli lesse in quella occasione era un tentativo di affrontare alcuni dei temi che lo avevano maggiormente appassionato e quindi di illustrare il suo percorso intellettuale con il suo consueto (e molto criticato) gusto per le grandi sintesi concettuali.192 Dalle parole del pensatore inglese emergeva con forza il problema del pluralismo dei valori e dei fini e, insieme a ciò, la sua profonda diffidenza per quelle concezioni filosofiche, etiche, conoscitive e politiche che cercavano di ricondurre la complessità (e pluralità) della vita entro un unico, rigoroso schema esplicativo.193 Dopo aver evocato il suo ‘incontro’ con la filosofia avvenuto a Oxford, Berlin ripercorreva la storia del pensiero filosofico soffermandosi in particolare sul razionalismo del ‘600 e del ‘700 che, a suo giudizio, si era caratterizzato per la fiducia di poter “stabilire un grande sistema armonioso tenuto insieme da nessi inscindibili e suscettibile di essere formulato in termini esatti”, applicando allo studio della realtà umana quel metodo scientifico che tanti risultati sorprendenti e rivoluzionari era riuscito a dare nell’indagine della natura.194 In questo senso, per Berlin, si era mosso il filosofo illuminista Condorcet che, in base ai dettami del razionalismo illuminista, aveva affermato di poter “riorganizzare razionalmente la società” a partire da una chiara individuazione dei bisogni umani.195 La certezza di poter discernere il senso e la direzione della storia sarebbe poi stata incarnata, sebbene in maniera differente, da Hegel e da Marx: non esistevano verità atemporali: esisteva lo sviluppo storico, il mutamento continuo […]. La storia era un dramma in molti atti […] sia nel regno delle idee, sia nella realtà […]. Tuttavia, dopo rovesciamenti inevitabili, fallimenti, ricadute, ritorni alla barbarie, il sogno di Condorcet sarebbe divenuto realtà.196 Ciò che Berlin contestava apertamente a questo tipo di visione era il 192 Si veda a proposito S. VECA, Introduzione a I. BERLIN, Sulla ricerca dell’ideale, cit., pp. 29 ss. 193 Ibidem. 194 Ivi, pp. 29-33. 195 Ivi, p. 33. 196 Ivi, p. 37. 102 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee suo carattere teleologico, l’idea che esistesse un fine ultimo capace di dare senso e significato al Tutto, alla vita, alla realtà nelle sue più sfaccettate declinazioni. Sin dagli anni ‘30, ossia sin dai suoi primi ‘passi’ nel mondo della storia delle idee, Berlin aveva preso una posizione ben precisa e critica verso questo tipo di concezioni, poiché in esse egli vedeva la pretesa e la ferma volontà di individuare una risposta unica, un senso unico alla complessità dell’esistenza; una tendenza monistica che egli considerava una sinistra e pericolosa minaccia alla libertà, in particolare alla libertà individuale, alla libertà di pensiero e alla libertà di scelta.197 È indubbio, come del resto è concorde nel ritenere la ricca e importante letteratura fiorita attorno all’opera del pensatore inglese,198 che la critica al monismo abbia caratterizzato l’intero percorso intellettuale di Berlin ma è altrettanto vero che, in una prospettiva storica, essa svolse un ruolo primario e centrale nell’opera berliniana in un lasso di tempo preciso, compreso fra gli anni ‘40 e la fine degli anni ‘50, ed è proprio su questo periodo che ci soffermeremo nella nostra analisi. A partire infatti dagli anni ‘60 Berlin si sarebbe infatti sempre più concentrato sul problema del pluralismo.199 L’intellettuale inglese elaborò la sua riflessione sul monismo attraverso la storia delle idee, disciplina alla quale cominciò ad avvicinarsi, maturando un progressivo distacco dalla corrente del positivismo logico o empirismo 197 Ivi, pp. 33-37. 198 Tra i lavori fondamentali dedicati al pensiero di Berlin ricordiamo: B. BAUM – R. NICHOLS (edited by), Isaiah Berlin and the Politics of Freedom:“Two Concepts of Freedom” 50 Years Later, New York and London, Roudledge, 2013; P. BHIKU, Isaiah Berlin, in ID., Contemporary Political Philosophy, Oxford, Martin Robertson, 1982; J.L. CHERNISS, A Mind and its Time: the Development of Berlin’s Political Thought, Oxford, Oxford University Press, 2013; G. CROWDER, Isaiah Berlin. Liberty and Pluralism, Cambridge, Polity Press, 2004; di quest’ultima opera ci siamo avvalsi della versione italiana in: ID., Isaiah Berlin, Bologna, Il Mulino, 2007; G. CROWDER – H. HARDY, (edited by), The One and the Many: Reading Isaiah Berlin, Amherst, New York, Prometheus Books, 2006; J. GRAY, Isaiah Berlin: An Interpretation of his Thought, Princeton, Princeton University Press, ristampa del 2013; C.J. GALIPEAU, Isaiah Berlin’s Liberalism, cit; R. HAUSHEER, Introduction to I. BERLIN, Against the Current: Essays in the History of Ideas, edited by H. Hardy, London, Hogarth Press, 1979; J. REED, The Continuing Challenge of Isaiah Berlin’s Political Thought, in “European Journal of Political Theory”, 8 (2009), pp. 253-262; A. WALICKI, Encounters with Isaiah Berlin: Story of an Intellectual Friendship, Wien, Peter Lang, 2011. 199 Si veda J. CRACRAFT, Berlin for Historians, in “History and Theory. Studies in the Philosophy of History”, 41 (2002), pp. 297-298. 103 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee logico che era stata introdotta a Oxford dal filosofo A.J. Ayer.200 Nella città oxoniense il giovane Berlin si misurò, per alcuni anni, con questioni allora particolarmente in voga tra i positivisti logici, ossia la “teoria della conoscenza” e “la teoria del linguaggio”, condividendo con questi la medesima tendenza anti-metafisica. Una tendenza che, come avrebbe ricordato lo stesso Berlin, si andava ad inserire in un ambiente intellettuale profondamente refrattario all’idealismo e a Hegel.201 Del resto, molti e molti anni più tardi, in un altro profilo autobiografico fondamentale per comprendere la sua identità di storico delle idee e filosofo, ossia My Intellectual Path, Berlin avrebbe affermato con tono deciso di non aver mai creduto in nessuna verità metafisica.202 Tuttavia, diversamente dai suoi colleghi, come Stuart Hampshire e A.J. Ayer, Berlin maturò l’idea, alla quale sarebbe rimasto sempre fedele, che “no abstract or analytical point exists out of all connection with historical thought, that every thought belongs, not just somewhere, but to someone, and this at home in a context which is not purely prescribed”.203 L’allontanamento dal positivismo logico non significò però il ripudio della filosofia tout court: Berlin era e rimase prima di tutto un filosofo, sebbene con un interesse e una attrazione indubbi per la dimensione storica, per la “immaginazione storica”.204 La storia delle idee – disciplina nata negli Stati Uniti tra gli anni ‘10 e ‘30, grazie soprattutto all’opera di Arthur Ocken Lovejoy205 – permetteva a Berlin – di coniugare queste due ‘anime’. 200 Il positivismo logico, rappresentato da filosofi come G.E. Moore, B. Russell e L. Wittgenstein viene comunemente considerato la versione inglese del positivismo del Circolo di Vienna, la cui concezione venne introdotta nell’ambiente intellettuale di Oxford proprio da Ayer con il suo Language, Truth and Logic del 1936. C.P. BERTELS – E. PETERSMA, I Filosofi del Novecento, Roma, Armando Editore, 1995, pp. 71 ss. Si veda a proposito G. CROWDER, Isaiah Berlin, cit., pp. 41-42. Inoltre, AA.VV., Dizionario di filosofia: gli autori, i concetti, le opere, Milano, Rizzoli, 1994. 201 I. BERLIN, In libertà, cit., p. 48. 202 I. BERLIN, My Intellectual Path, in ID., The Power of Ideas, edited by H. Hardy, Princeton, Princeton University Press, 2002, pp. 2 ss. 203 B. WILLIAMS, Introduction, to I. BERLIN, The Concept of Scientific History (1961), cit., 1980, p. XII. 204 Ibidem. Si veda a riguardo anche il commento di A. RYAN, Berlin and History, in G. CROWDER – H. HARDY, op. cit., p. 159. 205 Relativamente a Lovejoy e alla storia delle idee in ambito americano rimandiamo al Cap. I del nostro volume. 104 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee Nella Oxford del primo dopoguerra la storia delle idee era una disciplina ai margini, alla quale Berlin aveva cominciato ad accostarsi attraverso il filosofo idealista R.G. Collingwood (1889-1943). Quest’ultimo era un intellettuale abbastanza isolato, refrattario alla collaborazione con scuole e gruppi accademici, e i suoi interessi spaziavano dalla filosofia alla storia fino alla archeologia.206 Egli era un convinto idealista e non a caso fu proprio Collingwood a tradurre in inglese e far conoscere nel suo paese l’opera di Benedetto Croce.207 Proprio per le sue convinzioni e per la tenacia con cui in vari scritti difese il punto di vista e la tradizione idealiste, Collingwood divenne uno dei bersagli preferiti di Ayer, al quale però replicò, come avvenne nel suo Essay on Methaphysics del 1940, cercando di mettere in luce quelli che riteneva fossero i limiti e le contraddizioni del positivismo logico.208 È certo che Berlin frequentò le lezioni di filosofia della storia tenute da Collingwood durante il Trinity Term del 1931 e, secondo il principale biografo di Berlin, Michael Ignatieff, fu proprio Collingwood a esercitare una notevole impressione sul giovane studente.209 Questa affermazione merita di essere approfondita soprattutto perché, come abbiamo precedentemente osservato, Berlin era ben lontano (e lo sarebbe sempre stato) dal subire il ‘fascino’ della filosofia idealista. Attraverso Collingwood, Berlin conobbe la figura di Giambattista Vico che, insieme a Hamann e Herder, avrebbe poi rappresentato ai suoi occhi uno dei ‘campioni’ della prima reazione all’illuminismo, ossia di quella corrente di pensiero che egli avrebbe definito Contro-illuminismo, e che avrebbe costituito uno dei punti di riferimento 206 Per una introduzione all’opera e al pensiero filosofico di Collingwood cfr: J. CONNELY – P. JOHNSON–S. LEACH, R. G. Collingwood. A Research Companion, London, Bloomsbury, 2014. Inoltre, T.A. HARTIN, Collingwood’s Idea of History: the Development and Form of Historical Inquiry, Honor Thesis, Richmond University, Spring 1984, pp. 562. 207 Cfr. A. VIGORELLI, Lettere di Robin George Collingwood a Benedetto Croce (1912-1939), “Rivista di Storia delle Filosofia”, 46 (1991), pp. 545-563. 208 M. DUBNOV, Isaiah Berlin, the Journey of a Jewish Liberal, New York, Palgrave Macmillan, 2012, p. 70. 209 M. IGNATIEFF, op. cit., p. 69. Dubnov ricorda però che Berlin ammise il suo ‘debito’ nei confronti di Collingwood soltanto in occasione di un convegno che si tenne a Gerusalemme nel 1974. M. DUBNOV, op. cit., p. 72. Cfr. Y. Yavel, Philosophy and History in Action: Papers Presented at the First Jerusalem Philosophical Encounter, December 1974, Jerusalem, Magnes Press, 1978. 105 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee essenziali nella sua riflessione sul concetto di pluralismo.210 Proprio da Collingwood, secondo Peter Skagestad, il giovane Berlin avrebbe appreso una speciale sensibilità per la ricerca storica come storia dei pensieri dell’uomo e quindi come “self-knowledge”, una visione che, a sua volta, sarebbe stata probabilmente ispirata a Collingwood dall’opera vichiana.211 Sebbene molte fossero le ragioni di distanza tra Collingwood, imbevuto di cultura idealista e incline anche ad un certo moralismo di tipo cristiano, e Berlin, quest’ultimo sviluppò nel tempo un gusto e un interesse per la dimensione storica delle idee che molto probabilmente gli provennero proprio dallo schivo e riservato filosofo oxoniese. Come suggerisce M. Dubnov, la figura di Collingwood potrebbe quindi aver esercitato un ruolo non indifferente nel distacco di Berlin dalla filosofia analitica e nel suo successivo 210 P. SKAGESTAD, Collingwood and Berlin: a Comparison, “Journal of the History of Ideas”, 66 (2005), pp. 99-112. La nostra ricerca si concentra su un periodo ben definito della produzione intellettuale di Berlin, ossia gli anni ‘50, quindi non prenderemo in considerazione gli scritti da lui dedicati al Contro-illuminismo. Ci pare tuttavia importante chiarire brevemente il significato di questo termine. Nel 1973, Berlin pubblicò sul prestigioso Dictionary of the History of Ideas di Philip P. Wiener (New York, Charles Scribner and Sons) il lemma Counter-Enlightenment. Con tale espressione Berlin indicava una vera e propria reazione alla temperie dell’illuminismo: se quest’ultima, a suo giudizio, si era caratterizzata per il primato del diritto naturale, della Ragione, ritenuta comune a tutti gli uomini, per la critica feroce alle istituzioni, incluse quelle religiose, il Contro-illuminismo parlava di istinto, rifiutava l’idea che esistessero leggi uniformi, comprensibili razionalmente, sottese alla realtà umana e sociale e ribaltava totalmente la prospettiva cosmopolita valorizzando, invece, il carattere nazionale. È stato fatto notare che il modo in cui Berlin delineava il Contro-illuminismo, quale corrente di pensiero e movimento culturale, sembrava ampiamente recuperare alcuni dei tratti salienti generalmente attribuiti al Romanticismo. Del resto, alcune delle figure cardine del Controilluminismo, alle quali Berlin si richiamava, ossia Hamann, Herder, Schelling, possono essere ricondotte al periodo romantico. Il personaggio che invece sembrava avere una collocazione alquanto particolare nell’alveo del Contro-illuminismo era quella di Giambattista Vico sia perché italiano, sia perché apparteneva ad un momento storico molto antecedente al Romanticismo. H. CHISIK, Historical Dictionary of the Enlightenment. Historical Dictionaries of Ancient Civilizations and Historical Eras, no. 16, Lanham, Maryland, Toronto, Oxford, The Scarecrow Press, 2005, pp. 127-128. Sulla storia del lemma Counter-Enlightenment prima di Berlin, si veda ad esempio R. WOLKER, Isaiah Berlin’s Enlightenment and Counter Enlightenment. Remarks as public Lecture delivered by the Department of History and Jewish Studies Program at the Central European University, Budapest, 2000, disponibile all’indirizzo web: http://web. ceu.hu/jewishstudies/pdf/02_wokler.pdf, pp. 1-9. Il saggio The Counter-Enlightenment fu successivamente pubblicato da Berlin come opera autonoma nella raccolta intitolata Against The Current. Essays in the History of Ideas, cit. 211 P. SKAGESTAD, op. cit., pp. 101 ss. 106 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee avvicinamento alla storia delle idee.212 Un primo, decisivo passo in tal senso avvenne nel 1933 quando l’editore H. P. Fisher propose a Berlin di scrivere uno studio monografico su Karl Marx che fosse chiaro, efficace e che potesse essere letto anche dal grande pubblico. Il lavoro di ricerca che avrebbe svolto per la biografia di Marx gli avrebbe offerto gran parte del “materiale” sul quale egli avrebbe ragionato nei decenni successivi.213 Il risultato fu una analisi che non solo illustra alcune delle componenti essenziali dello stile argomentativo e di scrittura di Berlin storico delle idee ma che contiene anche una serie di riflessioni, suggestioni, elementi dai quali egli avrebbe tratto ispirazione per elaborare il suo concetto di monismo e la sua critica ad esso. Bisognerà però aspettare gli anni ‘50 e i primi anni ‘60 per leggere alcuni tentativi di riflessione sistematica da parte di Berlin su che cosa significasse, per lui, occuparsi di storia, nello specifico di storia delle idee, ossia il suo saggio sulla Historical Inevitability, The Sense of Reality che, in origine, costituiva la base della lezione su Realism and History che Berlin tenne presso lo Smith College (U.S.A) nel 1953 e The Concept of Scientific History del 1961.214 Tuttavia, anche il suo Karl Marx. His Life and Environment, pubblicato nel 1939, è in buona parte esemplificativo di una certa sensibilità, di una certa lettura del pensiero e delle idee (filosofiche e politiche) che avrebbero trovato piena espressione nelle opere successive. Non vorremmo tanto soffermarci sui limiti e le mancanze dello scritto giovanile di Berlin, sui quali la letteratura si è già pronunciata, bensì sul modo in cui l’autore, prendendo le distanze dal positivismo logico di Ayer, si ‘impossessava’ del pensiero politico e della figura di Marx cercando anzitutto di dare ad entrambi spessore storico, collocandoli in un particolare contesto storico, culturale e intellettuale. Nel libro sul filosofo di Treviri è possibile già intravvedere il percorso intellettuale che Berlin avrebbe intrapreso, ossia il suo modo di declinare la storia delle idee. Marx veniva calato nella realtà del suo tempo 212 Cfr. M. DUBNOV, op. cit., pp. 72-76. 213 D. KELLY, The Political Thought of Isaiah Berlin, “The British Journal of Politics and International Relations”, 4 (2002), pp. 29 ss. Cfr. M. IGNATIEFF, op. cit., pp. 30 ss. 214 Questi sono, secondo J. CRACRAFT, op. cit., p. 292, i tre saggi che meglio sintetizzano il pensiero di Berlin sul significato e il senso degli studi di tipo storico. 107 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee e ampio spazio veniva dato da Berlin anche al dato biografico, al rapporto di Marx con il padre, a quello con le sue radici ebraiche e alla sua personalità. Altrettanto rilevante diventava l’analisi del periodo trascorso dal teorico del materialismo storico a Parigi, alle sue frequentazioni, alle letture che aveva fatto, al ruolo da lui svolto nell’Internazionale Socialista.215 L’opera di contestualizzazione che Berlin si era proposto di realizzare con il suo studio su Marx non si limitava però alla rivalutazione del dato storico, concreto, biografico, essa voleva mostrare come il pensiero politico e filosofico di Marx potesse essere pienamente compreso se posto in rapporto alla tradizione intellettuale a lui precedente. Nel fare questo Berlin sceglieva la via – che sarebbe poi diventata una componente essenziale e tipica di tutta la sua opera – delle grandi sintesi concettuali: egli poneva innanzitutto a confronto l’eredità razionalista inaugurata dall’illuminismo con il “German Historicism” emerso quale reazione al Secolo dei Lumi, per poi concentrarsi sull’opera di Hegel, alla luce della quale, a suo giudizio, il pensiero di Marx diventava pienamente comprensibile.216 Berlin esaminava il concetto hegeliano di “History”, di “Spirit”, di “laws of History”, di “historical development”, di “necessity of conflicts”, per poi argomentare quanto profondo fosse il debito intellettuale di Marx nei confronti del “metaphysical historicism” di Hegel.217 L’analisi del pensiero hegeliano diventava così funzionale a comprendere la concezione materialistica della storia che, secondo Berlin, riproponeva a suo stesso fondamento “the central Hegelian conception […] although it is transposed into semi-empirical terms”.218 Berlin sottolineava l’apporto rivoluzionario e innovativo dell’opera di Marx, sempre nell’ottica del confronto intellettuale tra quest’ultimo e una pluralità di voci e di eredità culturali precedentemente ricordate. Egli riteneva così che fosse fondamentale portare alla luce la vicinanza tra la concezione filosofica di Marx e quella di Hegel che, a suo giudizio, consisteva 215 I. BERLIN, Karl Marx. His Life and Environment, 4th Edition, with a Foreword by A. Ryan, Oxford, Oxford University Press, 1978. 216 Ivi, pp. 49-60. 217 Ivi, pp. 31-41. 218 Ivi, p. 91. 108 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee in due aspetti di primaria importanza: la elaborazione da parte di entrambi di un “cosmic scheme” capace di spiegare (e nel caso di Marx anche di cambiare) la realtà e, legato strettamente a questo aspetto, la comune convinzione che il processo storico seguisse una direzione precisa, che esistesse una “historical necessity”. All’opera di Marx, secondo Berlin, era quindi sottesa l’idea (hegeliana) che la “rationality [is the] entailing knowledge of the laws of necessity” e la cui conoscenza rendeva gli uomini “free”.219 Ma proprio in una simile concezione della storia, ossia nell’idea che questa seguisse delle leggi e quindi un percorso necessario – sebbene, ovviamente, tale necessità venisse declinata e interpretata in maniera differente da Hegel e da Marx – Berlin individuava una delle implicazioni filosofiche, politiche e morali più pericolose presenti nell’opera dei due pensatori, ossia la convinzione che si fosse davvero liberi nel momento in cui si era coscienti della “historical necessity” e quindi delle leggi che regolavano il processo storico e la vita stessa degli uomini: His use [Berlin si stava riferendo a Marx] of such notions as freedom and rationality, his ethical terminology, seem to rest on some such views as following […]. If you know in what direction the world process is working, you can either identify your self with it or not, if you fight it, you thereby compass your own certain destruction, being necessarily defeated by the forward advance of history […]. Only a wholly rational being is wholly free to choose between alternatives: where one of these irresistibly leads to his own destruction, he cannot choose it freely, because to say that an act is free […] is to deny that is contrary to reason.220 Nella visione marxiana di “world process” e “historical development” Berlin ravvisava non solo l’influsso della lezione hegeliana ma anche una potente negazione del principio di libertà; proprio da questo punto di vista egli esprimeva un giudizio critico verso i due filosofi tedeschi. È da sottolineare come considerazioni pressoché identiche sarebbero state formulate da Berlin molti anni più tardi in Two Concepts of Liberty, dove egli sarebbe tornato ad evidenziare quello che, ai suoi occhi, era il pericoloso e perverso ‘cortocircuito’ tra il concetto di libertà, razionalità e necessità presente nel 219 Ivi, pp. 114-115. 220 Ivi, p. 114. 109 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee pensiero di Marx.221 In generale, già nell’opera del 1939, prendeva forma l’idea che le concezioni filosofiche volte a interpretare la realtà attraverso un modello onniesplicativo recassero in sé i germi di un pensiero illiberale, sinistro, pericoloso, che alcuni anni più tardi Berlin avrebbe giustappunto definito monistico.222 Ciò che ci interessa non è tanto discutere la validità e la condivisibilità o meno della interpretazione berliniana di Marx: a riguardo, ad esempio, appare penetrante il commento di D. Kelly che accusa Berlin di aver fatto una sorta di “caricatura” di Marx schiacciando quest’ultimo eccessivamente su Hegel.223 Potremmo altrettanto convenire con chi ci ricorda (pedantemente) come il Marx di Berlin fosse distante sia “dalla militanza tipica della marxiologia scientifico-socialista del primo dopo-guerra” – ma ci saremmo potuti aspettare qualcosa di diverso da un intellettuale liberale come Berlin? – sia dalla accurata disamina degli aspetti filologici che avrebbe caratterizzato gli studi su Marx dopo la Seconda guerra mondiale.224 Del resto, autorevoli studiosi hanno rimproverato a Berlin di non essersi mai misurato seriamente con i testi storici. Rimarrebbe infatti seriamente deluso chi si avvicinasse all’opera di Berlin pensando di leggere volumi ricchi di note, citazioni e minuziosi rimandi testuali: in questo senso anche il suo studio su Marx non costituisce un’eccezione.225 Vorremmo piuttosto sottolineare come nell’opera del 1939 cominciasse a prendere (timidamente) forma l’identità di Berlin quale storico delle idee in un duplice senso. Innanzitutto dalla analisi che egli dedicava a Marx (e in particolare dal raffronto che egli tracciava tra quest’ultimo e Hegel) emergeva quanto importante fosse per Berlin il problema della libertà e della libertà individuale, quale questione filosofica, politica ed etica con cui egli 221 Su questo aspetto cfr. D. KELLY, op. cit., pp. 25-48. 222 Ivi, p. 30. 223 Ivi, pp. 27-29 e p. 30. D. Kelly ricorda come già l’ex allievo di Berlin a Oxford, G.A. Cohen avesse mosso sostanzialmente lo stesso tipo di critica in Isaiah’s Marx and Mine, pubblicato nel 1978. 224 B. BONGIOVANNI, Introduzione a I. BERLIN, Karl Marx, tr. it. Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. XIV. 225 P. ANDERSON, A Zone of Engagement, London, Verso, 1992, p. 234. 110 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee si sarebbe confrontato tutta la vita.226 Un confronto che nasceva di fondo dalla convinzione che “le idee centrali, le grandi idee che hanno occupato il mondo occidentale hanno una sorta di vita propria”.227 Tuttavia, le pagine accurate dedicate da Berlin, ad esempio, agli anni trascorsi da Marx a Parigi, alle letture che quest’ultimo aveva fatto, all’ambiente culturale con il quale l’esule tedesco era entrato in contatto (compresi i liberali russi),228 esprimevano la convinzione che le idee (filosofiche, morali, politiche) possedevano una loro dimensione storica e che, proprio per questo, era essenziale comprendere il contesto nelle quali esse nascevano e si sviluppavano: Se sei interessato alle idee, se queste ti importano [– avrebbe detto Berlin nelle sue Conversations con R. Jahanbegloo –] non puoi non essere interessato alla loro storia, perché le idee non sono monadi, non sono nate nel vuoto, ma hanno relazioni con altre idee, credenze, forme di vita, punti di vista: i punti di vista, le Weltanschauungen, si influenzano reciprocamente e fanno parte di quello che si è soliti chiamare ‘clima intellettuale’; formano la gente, la sua azione e il suo modo di sentire, tanto quanto fattori materiali e mutamenti storici.229 Lo storia delle idee, nella prospettiva di Berlin, non era uno studio filosofico nel senso stretto del termine, poiché essa riconosceva la dimensione storica delle idee, il ‘peso’ del contesto nelle sue varie forme e declinazioni, ma non era neppure interamente storica nella misura in cui essa affermava l’esistenza di questioni, problemi, domande capaci di ‘attraversare’ le epoche, questioni “eterne”, attorno alle quali gli uomini si erano sempre interrogati e avrebbero continuato a farlo. La natura duplice della storia delle idee e quindi la natura duplice del ‘mestiere’ dello storico delle idee, in bilico fra due mondi, sarebbe stata così sintetizzata da Berlin nelle sue Conversations: Come presero vita le loro idee? In quale epoca? In che luogo? In che tipo di società? Le loro idee potranno essere interessanti di per se stesse, ma sono le loro idee, e 226 Cfr. il fondamentale G. CROWDER, Isaiah Berlin, cit., pp. 35 ss. 227 I. BERLIN, In libertà, cit., pp. 62-63. 228 I. BERLIN, Karl Marx. His Life and Environment, cit., pp. 61 ss. 229 I. BERLIN, In libertà, cit., pp. 62-63. 111 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee bisognerà chiedersi quali furono le pene e i tormenti che subirono una volta messe in circolazione. Come maturarono nelle loro teste le loro idee e i loro scritti? Non si può parlare di idee nella più pura astrazione, senza riferirsi alla storia, ma non è neanche possibile parlarne in termini di contesto storico concreto, come se le idee non avessero alcun senso al di fuori di esso.230 Per Berlin, le idee si radicavano nella storia ma, al contempo, avevano una sorta di “vita trans-storica”; certe visioni e categorie erano così in grado di esercitare una qualche forma di influsso su periodi successivi. Del resto, Berlin insistette sempre sul potere e sulla forza delle idee: nei suoi Two Concepts of Liberty (1958), egli avrebbe infatti citato Heine, secondo il quale “philosophical concept nurtured in the stillness of a professor’s study could destroy a civilization”.231 Il modo in cui Berlin intendeva la storia delle idee sembra, secondo Peter Skagestad, riecheggiare la lezione di Collingwood e in particolare il concetto collingwoodiano di “absolute presupposition” (“presupposizioni assolute”). In Essay on Methaphysics il filosofo idealista, in polemica con il positivismo logico di Ayer, aveva infatti affermato che ciascuna epoca e ciascuna società possedevano categorie interpretative proprie, la cui comprensione presupponeva anche la conoscenza e la consapevolezza del dato storico, soprattutto laddove una determinata categoria lasciava il posto ad un’altra.232 La vicinanza tra il teorico del monismo e il filosofo idealista appare altresì indicativa di quanto filosofica fosse la visione che Berlin aveva della storia delle idee.233 La convinzione che le idee avessero un impatto, una influenza, un peso al di fuori del contesto in cui esse generavano costituiva, a 230 Ivi, p. 63. 231 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 119. 232 Su questo aspetto, oltre a P. SKAGESTAD, op. cit., anche M. RICCIARDI, Isaiah Berlin, su libertà e pluralismo, “Ragion Pratica”, 26 (2006), p. 10. Sebbene, come abbiamo precedentemente ricordato, Berlin non avesse mai dichiarato un debito intellettuale esplicito nei confronti di Collingwood, è da ricordare che in una lettera a Shiela Grant Duff, datata dicembre 1932, Berlin parlava di lui in toni di grande ammirazione: lo definiva un filosofo “continentale”, “eccitante e rischioso” e uomo di vasta cultura. I. BERLIN, Flourishing. Letters 1928-1946, edited by H. Hardy, London, Chatto & Windus, 2004, p. 44. 233 I. BERLIN, In libertà, cit., p. 65. 112 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee mio giudizio, il presupposto delle ampie “genealogie di idee”,234 in cui Berlin si cimentò e, al contempo, del suo impegno nel comprendere le radici culturali e intellettuali più profonde di quel monismo (epistemologico, filosofico e politico) che, a giudizio suo (e di Voegelin), aveva caratterizzato il fenomeno totalitario. Nella prima parte del nostro studio, ricordavamo come Voegelin non avesse mai preteso di definirsi uno storico. La stessa considerazione può essere estesa a Berlin che, con una malcelata ‘civetteria’, amava ripetere, a chi lo interrogava su questo aspetto, di non essere un “historian”. Del resto, come abbiamo sottolineato precedentemente, nessuna delle sue opere (così come quelle di Voegelin) possono essere in alcun modo definite storiche nel senso stretto del termine. Se per ricerca storica intendiamo un esame approfondito delle fonti, una attenta disamina a partire dalla distinzione tra fonti primarie e secondarie, il problema contenutistico e metodologico di misurarsi con il “vero” e con il “falso”, allora è indubbio che Berlin (così come Voegelin) non fu mai uno storico.235 Se per ricerca storica intendiamo tomi paludati e studi monografici corredati da ricchi e raffinati rimandi testuali, allora – ancora una volta – resteremmo molto delusi da Berlin nei panni dello storico.236 Il rilievo stesso che egli dava al contesto storico, pur riconoscendone l’importanza, non è neppure lontanamente paragonabile, ad esempio, a quello ad esso attribuito da uno dei suoi principali critici, Quentin Skinner,237 e dalla Scuola 234 P. ANDERSON, op. cit., p. 234. 235 F. CHABOD, Lezioni di metodo storico, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 3-7. 236 H. HARDY – K. HIRUTA, Editing Berlin, Interpreting Berlin, Introduction to H. HARDY (edited by), The Book of Isaiah: Personal Impressions of Isaiah Berlin, Oxford, The Boydell Press, 2009, p. 138. 237 Skinner attaccava quelle che riteneva fossero, all’epoca, le due “mitologie” imperanti nella storia delle idee: la prima, secondo la quale era unicamente il contesto, con i suoi fattori sociali, economici e politici, a determinare il testo e la seconda che, invece, vedeva nella logica interna al testo la chiave di volta per la sua comprensione. Contro queste due impostazioni Skinner rivendicava l’importanza di ricostruire le intenzioni degli autori, i contesti storici nella loro specificità e originalità, evitando l’errore di leggere e studiare il passato per trovare risposte relative alla realtà presente, poiché in questo modo si finiva per proiettare la nostra concettualità, le categorie tipiche della nostra realtà e contemporaneità, su figure e periodi storici distanti da noi. Berlin sembrava proprio replicare alle posizioni di Skinner quando, nelle sue Conversazioni con R. Jahanbegloo, affermava che, per lui, era impossibile parlare e discutere delle idee (politiche, sociali, filosofiche etc.), focalizzando primariamente e quasi esclusivamente la propria attenzione sul contesto storico. Cfr. Q. SKINNER, Meaning and 113 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee di Cambridge, eppure la dimensione storica, per Berlin, era rilevante e ciò emergeva già dal suo studio giovanile su Marx.238 Negli anni anni ‘50, Berlin avrebbe provato a chiarire ciò che, secondo lui, era l’essenza della ricerca storica e la profonda differenza tra questa e la ricerca scientifica. Avrebbe ripetuto che la storia riguardava prima di tutto gli uomini, la realtà umana, nella sua vivente complessità e contro ogni tentativo scientista avrebbe affermato che la ricerca storica era essenzialmente e profondamente diversa da quella scientifica. Il modo in cui Berlin pose la distinzione tra studio della storia e studio della natura, tra ricerca storica e ricerca scientifica, è essenziale per meglio comprendere la sua concezione della storia delle idee e, attraverso essa, la sua riflessione sul monismo. In tal senso vorremmo soffermarci su tre scritti molto significativi, il testo The Sense of Reality (scritto in origine nel ‘53), la parte finale di Historical Inevitability (anche’esso del 1953), al quale dedicheremo ampio spazio successivamente, e infine il saggio The Concept of Scientific History del 1961. Understanding in the History of Ideas, “History and Theory”, 8 (1969), pp. 3-53 e I. BERLIN, In libertà, cit., pp. 24-25. Sul confronto tra le posizioni di Skinner e Berlin si veda l’interessante M. BODE, op. cit., pp. 72 ss. A Skinner Bode replica che non solo la particolare visione berliniana della storia delle idee dovrebbe essere, a sua volta, opportunamente contestualizzata ma soprattutto come l’accusa rivolta al pensatore inglese (peraltro da più fronti) di non essere stato uno storico delle idee rigoroso non tiene conto del fatto che, per Berlin, la storia delle idea era prima di tutto un modo di fare filosofia “by other means”. 238 Nella intervista rilasciata agli inizi degli anni ‘90 a S. Lukes, Berlin avrebbe sintetizzato così la sua contro-replica a Skinner: “Quentin Skinner sostiene giustamente che le idee si possono comprendere pienamente solo se si comprende in quali circostanze politiche sono state prodotte, contro chi erano dirette e chi intendevano favorire, quali furono le conseguenze di determinate idee. È tutto vero. Però l’essenza delle idee in quanto tali non emerge dalle analisi storiche di Quentin Skinner. Se avesse ragione non saremmo capaci di comprendere Platone o Aristotele. Non sappiamo che tipo di città fosse Atene né che aspetto avesse […]. Tuttavia le idee in se stesse sono rimaste. Hanno stimolato ed emozionato gli uomini per più di duemila anni. Se le condizioni di Skinner non sono soddisfatte, com’è possibile tutto questo? La comprensione delle idee non può dipendere soltanto da una comprensione adeguata del contesto”. Ci sembra che nella risposta a Skinner e alla cosiddetta scuola contestualista di Cambridge, Berlin fosse non poco debitore della lezione di Collingwood. I. BERLIN, Tra Filosofia e storia delle idee. La società pluralista e i suoi nemici, cit., pp. 63-64. 114 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee 4.2 Ricerca storica e ricerca scientiica secondo Berlin (1953-1961) Alla base della Elizabeth Cutter Morrow Lecture che Berlin lesse allo Smith College nel ‘53 e intitolata Realism in History c’era uno scritto dal titolo (molto significativo e potremmo dire anche ‘molto berliniano’) di The Sense of Reality.239 Era un sano senso della realtà che lo storico doveva possedere e proprio sulla base di questo, per Berlin, era necessario rendersi conto che la volontà di trasformare la ricerca storica in una scienza, sul modello di quelle naturali, aveva una spiegazione culturale ben precisa che, a suo giudizio, affondava le radici nella storia intellettuale europea tra ‘600 e ‘800: egli usava così la storia delle idee per ragionare sulla identità dello studio storico in rapporto a quello scientifico. Nel ‘600 e nel ‘700 lo sviluppo prodigioso del sapere matematico e scientifico aveva contribuito a generare la convinzione che fosse possibile in maniera analoga a ciò che accadeva nelle scienze esatte, disvelatrici del mondo naturale, comprendere la direzione generale della storia.240 Le osservazioni di Berlin ricordano non poco quelle di Voegelin nella sua History of Political Ideas: entrambi individuavano nella rivoluzione intellettuale operata dallo sviluppo delle scienze esatte e del metodo scientifico uno dei momenti di svolta fondamentali nella storia delle idee europea e occidentale. Sebbene durante l’‘800 si fosse profilata una vasta reazione contro la temperie culturale settecentesca, l’idea che la storia seguisse un suo percorso, che ci fosse bisogno di qualcosa per scoprire “historical laws” era, per Berlin, riuscita a sopravvivere con un innegabile successo.241 Richiamandosi evidentemente alla sua biografia intellettuale su Karl Marx, il pensatore inglese contestava esattamente questo principio, ossia che comprendere il movimento e la realtà storica significasse individuare un disegno, un insieme di leggi generali ad essi sottesi. E in tal senso, la vicinanza tra Voegelin e Berlin storici delle idee emerge ancora una volta con una certa efficacia: pur con le necessarie e debite distinzioni e pur 239 I. BERLIN, The Sense of Reality, in ID., The Sense of Reality. Studies in the Ideas and their History, edited by H. Hardy, with an Introduction by P. Gardiner, London, Pimlico, 1996. Si veda a proposito nello stesso volume H. HARDY, Editor’s Preface, p. X. 240 I. BERLIN, The Sense of Reality, cit., pp. 8, 28-29. 241 Ivi, p. 9. 115 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee ricordando la specificità dei loro profili e percorsi intellettuali, entrambi rifiutavano decisamente l’idea che il processo storico seguisse leggi oggettive e razionalmente discernibili. Berlin sviluppava così la sua riflessione, muovendo dalle considerazioni appena delineate, con l’obiettivo di chiarire quelle che, a suo giudizio, erano le peculiarità della ricerca storica, ossia l’attenzione al dato esperienzale (“experience of life”) e, insieme ad essa, “insight”, “simpathy, interest and imagination”.242 Lo studio della storia, secondo Berlin, richiedeva osservazione, conoscenza dei fatti e comprensione, ossia la capacità (e la qualità) di cogliere la psicologia e il carattere degli esseri umani: “it requires – scriveva Berlin – scrupulous observation, accurate knowledge of facts, but it is more than this: it is a form of understanding and not of knowledge of facts in ordinary sense”. Secondo questa prospettiva – che presupponeva la volontà di rivendicare la particolarità e la originalità della ricerca storica così come Voegelin aveva avanzato la stessa pretesa nei confronti della scienza politica – lo storico era quindi colui che riusciva, a differenza dello scienziato, nell’intento di riportare alla luce “a form of life”:243 This is an essential factor in making us admire and trust – scriveva Berlin – some historians more than others. It is when an historian so describes the past that we are conscious of having brought before us not merely attested facts, but revelation of a form of life, of a society [...] sufficiently similar to what we ourselves understand by human life or society or men’s intercourse, that we can continue – extrapolate – for ourselves, go on by ourselves, understand why this man did this, and the nation that […] because those of our faculties have been brought into play which operate similarly in our understanding of our own society, as opposed to some inductive or deductive conclusions – it is then that we recognise what we have been given as being, and, not the dry rattle of mechanical formulae or of a loose heap of historical bones.244 Lo studio della storia non poteva prescindere dai fatti, ma non si riduceva ad una sorta di mera ‘tassonomia’; in esso Berlin credeva di scorgere “a perpetual oscillation between horror of saying more that we know for certain, which leads one to say as little as possible as near nothing at all 242 Ivi, p. 20. 243 Ivi, p. 22. 244 Ivi, p. 25. 116 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee […] and per contra the attempt to describe the past in real terms, to give it the look of life, something recognisible human, even at the inevitable risk of saying more than we can know by accredited «scientific» methods”.245 Lo storico doveva trovare un equilibrio fra queste due tendenze e inclinazioni anzitutto avendo ben presente “the sense of reality” o “of the history” che – scriveva Berlin – “enables us to detect the relationships of actual things and persons is acquiatance with particulars, while all theories deal with attributes and idealised entities – with the general”.246 Chi si occupava di storia (e quindi della vita e delle idee degli uomini) doveva saper guardare al particolare e saper rapportare il particolare ad un contesto più ampio, senza per questo cercare di spiegare la realtà storica in termini di schemi, leggi o modelli come, invece, avveniva per l’indagine del mondo naturale nelle scienze esatte.247 In particolare, la abilità di non cadere nel ‘tranello’ di schematismi ed eccessive astrazioni significava, per Berlin, evitare di scambiare e fraintendere “the knowledge of a small portion of the scene to cover the entire scene”.248 In maniera fortemente analoga a Voegelin, anche secondo l’intellettuale inglese, era stato proprio questo l’errore (epistemico e filosofico) principale commesso dai “great system-builders” dell’800, ad esempio da Marx che parlava di “historical laws”. Voegelin criticava il tentativo di uniformare e ‘piegare’, snaturandola, la scienza politica ai canoni del metodo scientifico e in maniera simile Berlin insisteva sulla necessità di distinguere lo studio della storia e delle vicende umane da quello che riguardava il mondo della natura. La commistione fra queste due dimensioni costituiva infatti, per Berlin, una clamorosa violazione del “sense of reality”: parlare di leggi della storia era, a suo giudizio, improprio ed errato sia dal punto di vista filosofico, sia da quello storiografico.249 Il tema del “senso della realtà” come idea-guida per lo storico sarebbe stata nuovamente al centro della attenzione e della analisi di Berlin in 245 Ivi, p. 27. 246 Ivi, p. 35. 247 Ibidem. 248 Ivi, pp. 35-39. 249 Ivi, pp. 81-83. 117 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee Historical Inevitability e in The Concept of Scientific History. Il primo saggio, sul quale avremo modo di discutere ampiamente nelle prossime pagine, era anzitutto un affresco delle concezioni deterministiche, di come esse si fossero sviluppate e di quelle che Berlin considerava fossero le loro implicazioni filosofiche, etiche e politiche più sinistre e pericolose. Lo scritto, come del resto la netta maggioranza della produzione intellettuale del pensatore inglese, nasceva in origine quale testo di una Lecture che egli lesse nel 1953 alla London School of Economics and Political Sciences, in occasione di una serie di conferenze dedicate al padre del positivismo ottocentesco, Auguste Comte. Da un lato, Berlin elaborava una critica serrata alle varie forme di determinismo e in generale a tutte quelle concezioni filosofiche (metafisiche o scientiste che fossero), volte a trovare una spiegazione univoca alla complessità della realtà, una causa ultima o qualche legge universale, valida e oggettiva che permettessero di spiegare il processo storico e prevederne perfino gli indirizzi futuri; dall’altro, egli rivendicava la peculiarità degli studi storici e della figura dello storico (delle idee). Era nella parte finale di Historical Inevitability che Berlin tornava a interrogarsi sulla natura della ricerca storica, ricordando anzitutto che lo storico doveva possedere e usare “imagination” o il “power of sympathy or of understading in order to avoid the injustice that springs from an unsufficient grasp of the aims and codes and customs of cultures distant from us in time or space”.250 Nel rivendicare simili qualità e capacità come componenti essenziali del ‘mestiere’ dello storico, Berlin prendeva criticamente le distanze da coloro che pensavano di avvicinarsi al mondo della storia, di fare ricerca storica seguendo gli stessi criteri impiegati dai fisici, dai biologi o dai geologi:251 History is not identical with imaginative literature, but it is certainly not free from what, in a natural science, would be rightly condemned as unwarrantably subjective and even, in an empirical sense of the term, intuitive. Except on the assumption that history must deal with human beings purely as material objects in space […] its method can be scarcely be assimilated to the standards of an exact natural science.252 250 I. BERLIN, Historical Inevitability, in ID., Four Essays on Liberty, cit., p. 66. 251 Ivi, pp. 66 ss. 252 Ivi, p. 90. 118 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee Il pensatore inglese sottolineava così, contro quella che egli riteneva la pericolosa degenerazione scientista degli studi storici, come questi ultimi, a differenza delle trattazioni scientifiche, si caratterizzassero per la impossibilità da parte dello storico di prescindere completamente da qualsiasi forma di “moral or psychological insight and evaluation which is involved in viewing human beings as creatures with purposes and motives”.253 In polemica con chi parlava di storia come una disciplina da uniformare ai canoni delle scienze esatte, Berlin difendeva così l’elemento “subjective”, ossia la centralità dell’elemento umano nella ricerca storica. Ma ciò non significava che questa non potesse ambire a chiarire, illuminare, a formulare spiegazioni generali soddisfacenti, ossia ad essere una fruttuosa branca del sapere umano. Essa infatti – sottolineava Berlin – si misurava anzitutto coi “facts” che, a loro volta, dovevano essere letti, ragionati, interpretati. Lo storico, a suo giudizio, non poteva mai prescindere dai “facts”, dalla loro varietà, complessità e perfino contraddittorietà e ad essi doveva continuamente tornare in un dialogo costante: The same fact can be arranged in many patterns, seen from many perspectives, displayed in many lights, all of them equally valid, although some will be more suggestive or fertile in one field than in another […]. Yet through it all the facts themselves will remain relatively «hard» […] and whenever obsession by a given pattern causes a given writer to interpret the facts too artificially, to fill the gaps of knowledge too smoothly, without sufficient regard to empirical evidence, other historians will instinctively perceive that some kind of violence is being done to the facts, to the relation between evidence and interpretation is in some way abnormal.254 Pur riconoscendo l’importanza del dato empirico, egli riteneva altresì irragionevole e assurda la pretesa di chi voleva dare vita a descrizioni e indagini storiche del tutto a-valutative, ossia a chi rimaneva “ostaggio” dei fatti sui quali incentrava la propria indagine: 253 Ivi, p. 91. Historical Inevitability generò un ampio e vivace dibattito. Si vedano, ad esempio, i commenti al testo berliniano contenuti in J.A. PASSMORE, History, the Individual and Inevitability, “Philosophical Review”, 68 (1958), pp. 93-102, in A. SEN, Determinism and Historical Predictions, “Enquiry”, New Dehli, 2 (1959), pp. 113-114. In generale, è utile riferirsi a I. HARRIS, Berlin e i suoi critici, in I. BERLIN, Libertà, a cura di H. Hardy, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 361 ss. 254 I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., p. 70. 119 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee and we are further told that we should practice such objectivity out of respect for some imaginary scientific canon which distinguishes between facts and values and sharply, so sharply that it enables us to regard the former as being objective, inexorable and therefore self-justifying, and the latter merely as a subjective gloss upon events – due to the moment, the milieu, the individual temperament – and consequently unworthy of serious scholarship, of the great, hard edifice of dispassionate historical construction.255 E proprio contro una simile concezione della ricerca storica Berlin affermava che: to this we can only answer that to accept this doctrine is to do violence to the basic notions of our morality, to misinterpret our sense of the past, and to ignore the most general concepts and categories of normal thought. The time will come when men will wonder how this view, which combines a misunderstanding of empirical methods with cynicism exaggerated to the point of eccentricity, can ever be achieved such remarkable fame and influence and respectability.256 Per Berlin era infatti rilevante comprendere come quelle categorie si fossero storicamente formate e nell’affermare ciò il pensatore inglese sembrava richiamarsi, sebbene implicitamente, all’opera di Collingwood e alla sua teoria degli “absolute principles”.257 Contro coloro che ambivano a elaborare schemi e modelli oggettivamente validi per spiegare la realtà storica, Berlin ricordava la centralità dei fatti: erano gli schemi a doversi ‘piegare’ ai fatti, non viceversa; e in ciò, a nostro giudizio, egli dimostrava una sensibilità intellettuale profondamente empirista; contro però coloro che professavano una sorte di ‘religione’ dei fatti, invocando indagini rigorose e neutrali, simili alle scienze esatte, Berlin sottolineava che la ricerca storica riguardava gli uomini, la loro realtà, la loro vita, i loro pensieri e quindi, per sua stessa natura, essa non poteva in nessun modo prescindere dall’elemento valutativo. Qualsiasi tentativo di ragionare in termini di modelli e di spiegazioni a-valutative, di nessi causaeffetto, significava, per Berlin, porsi al di fuori della storia ed entrare nel mondo della materia inanimata, nel mondo della Natura, oggetto proprio 255 Ivi, p. 77. 256 Ibidem. Sulla sostanziale avversione di Berlin all’idea che lo storico “di professione” dovesse essere assimilato ad uno scienziato, cfr. B. WILLIAMS, Introduction, cit., pp. 2 ss. 257 Cfr. G. CROWDER, Isaiah Berlin, cit., pp. 41 ss. 120 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee dell’indagine scientifica.258 Il problema della unicità della ricerca storica e della sua diversità fondamentale da quella scientifica rivestì un ruolo indubbiamente importante nella produzione intellettuale di Berlin almeno fino ai primi anni ‘60, quando pubblicò The Concept of Scientific History (1961).259 Egli tornava a riflettere su questo tema e, allo stesso tempo, sembrava voler elaborare una sorta di giustificazione teorica del modo in cui, nel decennio precedente, si era occupato attivamente di storia delle idee in opere come The Hedgehog and the Fox, Russian Thinkers e la stessa Historical Inevitablity. L’incipit del saggio pubblicato nel 1961 era pressocché identico, nei toni e nei contenuti, a quello di The Sense of Reality. Ancora una volta era alle grandi rivoluzioni scientifiche e sperimentali del ‘600 e del ‘700 che, secondo Berlin, doveva essere ricondotto il principio, che si era affermato in Europa, secondo cui “history could be made respectable by being assimilated to one of the natural sciences”.260 Era proprio questo processo di “assimilazione” che Berlin contestava riconoscendo innanzitutto che se la scienza tendeva per sua stessa natura a elaborare “general propositions or laws”, nella misura in cui lo scopo dello scienziato era la formulazione di vere e proprie teorie esplicative oggettivamente e universalmente valide, la ricerca storica, invece, si misurava con “particular facts”. 261 Le scienze naturali erano orientate a scoprire le leggi generali che regolavano e connettevano fenomeni fisici e che poi, una volta individuate, venivano configurate e rappresentate tramite “models”.262 In questo senso, puntualizzava Berlin, i fenomeni naturali “can be described in terms of the degree to which these differences can be systematically described, the simplicity of the models, and the range of their application largely determine their success or failure of a given science to perform its task”.263 Lo storico aveva ugualmente bisogno di usare “models”, ma in un senso 258 Si veda a proposito I. BERLIN, The Sense of Reality, cit., p. 9. 259 I. BERLIN, The Concept of Scientific History (1961), in ID., Concepts and Categories, cit. 260 Ivi, p. 103. 261 Ivi, pp. 111-113. 262 Ivi, p. 115. 263 Ibidem. 121 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee per Berlin del tutto differente da quello che caratterizzava le scienze esatte perché il rapporto tra storia e dati empirici era differente da quello fra dati empirici e scienza.264 Tale diversità era ricondotta da Berlin a due aspetti primari, (in parte già delineati in Historical Inevitability): anzitutto, al fatto che, a differenza dello scienziato, lo storico era chiamato a confrontarsi con una quantità enorme ed estremamente variegata di dati e, inoltre, alla natura stessa della ricerca storica che, a suo giudizio, riguardava essenzialmente la “vita degli uomini studiata da altri uomini”.265 Relativamente al primo dei due aspetti appena indicati, Berlin osservava che per lo storico “the facts to be fitted into the scientific grid and subsumed under the adopted laws or models […] are too many, too minute, too fleeting, too blurred at the edges”.266 La consapevolezza di una simile difficoltà doveva servire, secondo Berlin, ad acquisirne un’altra, ancora più importante, ossia che lo storico era chiamato a elaborare una particolare forma di “generalizations”, che si adattasse al proprio e particolare tipo di ricerca. Ciò – sottolineava Berlin – era possibile laddove veniva condotta una schietta “operation of common sense”: emergeva così, ancora una volta, il carattere sostanzialmente empirista della riflessione berliniana.267 A sua volta, per Berlin, l’essenza della ricerca storica divergeva completamente dal mondo della scienza perché “historical explanation is related to moral and aesthetic analysis not merely as organisms in space”:268 essa riguardava il mondo (variegato, plurale, articolato) degli uomini e proprio per questa ragione lo storico doveva possedere la “imaginative projection of [oneself] into the past”.269 In altri termini, Berlin tornava a ribadire che la ricerca storica non poteva essere completamente a-valutativa, non poteva ambire – sul modello delle scienze esatte – a spiegare la realtà umana e storica sulla base di relazioni strettamente causali, che lo storico non poteva in nessun modo rapportarsi 264 Ivi, pp. 116-119. 265 Ivi, pp. 119-129. 266 Ivi, p. 119. 267 Ivi, p. 116. 268 Ivi, p. 134. 269 Ivi, pp. 132-135. 122 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee al “materiale umano” come uno scienziato si relazionava al mondo inanimato. Era alla luce di queste considerazioni su quanto differente la ricerca storica fosse da quella scientifica che Berlin rivendicava per lo storico non il compito di scoprire “general laws” – come, a suo giudizio, avevano pensato di poter fare, ad esempio, gli storici della temperie positivista quali Taine – bensì di “understand the relation of parts to wholes”.270 In nessuno dei saggi fin qui discussi, Berlin esplicitava a quali pensatori si fosse ispirato nella sua riflessione sulle differenze – per lui molto rimarchevoli – tra ricerca storica e ricerca scientifica e del resto la scarsità di note e riferimenti testuali precisi non ci aiuta in tal senso. Possiamo soltanto avanzare qualche ipotesi interpretativa. Le considerazioni fin qui sviluppate da Berlin sembrano richiamare alla mente quel Wilhelm Dilthey che fu un punto di riferimento importante per lo stesso Eric Voegelin e che distinse, dando il via allo storicismo tedesco, tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”.271 Nella ferma critica di Berlin ad ogni tentativo di trasformare lo studio della storia in una vera e propria scienza potremmo inoltre ravvedere una netta presa di distanza da tutta la tradizione storiografica positivista e anche l’espressione della sua personale polemica contro chi, come ad esempio il celebre studioso inglese E.H. Carr, andava difendendo in quel periodo una visione della ricerca storica centrata sul principio di avalutatività.272 270 Ivi, p. 123. 271 Un utile riferimento in termini di storia della storiografia è il recente: F. BENIGNO, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Roma, Viella, 2013. 272 Tra coloro che accolsero il testo di Berlin in maniera particolarmente critica ci fu proprio lo storico inglese, di orientamento marxista, Edward Hallett Carr. Quest’ultimo e Berlin erano diversissimi sotto molteplici punti di vista – non ultimo quello politico – e la loro stessa concezione della storia rifletteva bene tale diversità. Come abbiamo appena visto, Berlin rivendicava per lo storico il diritto e la capacità di esprimere giudizi e valutazioni, mentre Carr riteneva di potere considerare la storia come una vera e propria scienza, attribuendo allo storico il compito principale di analizzare i nessi causali che si erano verificati nel passato e che potevano, una volta conosciuti, permettere di comprendere il futuro. Cfr. E.H. CARR, What is History?, London, Macmillan, 1961. La figura e l’opera di Carr venivano evocati da Berlin in due distinti punti di Historical Inevitability, cit., p. 81 p. 87. Berlin ravvisava una “internal contradiction in the views of those who believe in the historical conditioning of historians and yet protest against moralizing by them, whether they do so contemptuously like Mr. Carr”. Ivi, p. 87. Cfr. A. HOLACECK, Ethical Historiography: the Berlin-Carr Debate and Revolutionary Realism of Alexander Herzen, Honor Thesis, Class 2010, Wesleyan 123 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee Ancora più rilevante ci sembra il commento di Peter Skagestad, secondo il quale la distinzione tra scienza e storia, che Berlin elaborava nei tre saggi appena discussi, era non poco debitrice nei confronti di Collingwood. In due opere del 1936, Human History e History or Re-enactment of Past Experience,273 il traduttore inglese di Croce aveva parlato infatti degli studi di carattere storico come conoscenza dei pensieri degli uomini e di come tali pensieri venissero incarnati nelle azioni umane, laddove la ricerca scientifica era primariamente interessata ai fatti in quanto tali, rispetto ai quali lo scienziato era chiamato a porsi con distacco, ossia dall’esterno. Al contrario dello scienziato, per Collingwood, lo storico doveva saper “rievocare” il passato e quindi saper penetrare nelle idee e nei pensieri degli uomini. Sia in Collingwood, sia in Berlin la storia, a differenza delle scienze naturali, era quindi prima di tutto “knowledge of life”.274 Per Skagestad, lo stesso concetto di “rievocazione” (“re-enacment”), così centrale nel pensiero di Collingwood, era stato in un certo senso ‘assorbito’ e rielaborato da Berlin.275 In The Concept of History, per sottolineare l’originalità della ricerca storica, Berlin parlava infatti della “imaginative projection”, già evocata in The Sense of Reality, come “the attempt to capture concepts and categories that differ from those of the investigator by means of concepts and categories that cannot be but his own. [It] is a task he can never be sure he is even beginning to achieve, yet is not permitted to abjure”.276 College, U.S.A., pp. 3 ss. 273 Riediti postumi in The Idea of History (1940). 274 P. SKAGESTAD, op. cit., pp. 99-112. L’autore, per sua stessa ammissione, elabora la sua interessante comparazione tra Collingwood e Berlin traendo ispirazione da lavori precedenti, in particolare da: M. IGNATIEFF, op. cit, pp. 58, 203; R. HAUSHEER, Introduction to I. BERLIN, The Crooked Timber of Humanity: Chapters in the History of Ideas, Princeton, Princeton University Press, 1999, XIII-LIII; B. WILLIAMS, Introduction, cit., e J. GRAY, op. cit., p. 163. I riferimenti sono tratti da P. SKAGESTAD, op. cit., p. 100. 275 Ivi, pp. 101-103. 276 I. BERLIN, The Concept of Scientific History, cit., pp. 115-116. Il brano citato è riportato anche da P. SKAGESTAD, op. cit., p. 102. Skagedad ricorda come in una delle sue opere “mature” quale Three Critics of the Enlightenment: Vico, Hamann and Herder Berlin avrebbe criticato la concezione collingwoodiana di “re-enactment”, affermando che essa si basava in maniera del tutto impropria sulla convinzione che lo storico, in modo “semi-mistico”, fosse in grado di penetrare nella coscienza delle personalità, delle quali studiava la vita e il pensiero. 124 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee Lo storico, come emergeva da The Concept of Scientific History, doveva capire il modo in cui, ad esempio, avevano ragionato le grandi figure e personaggi del passato, quali fossero state le loro categorie di pensiero, i concetti che avevano utilizzato per leggere la loro realtà ma, al contempo, doveva riuscire a veicolare quei concetti e renderli intellegibili nel suo presente attraverso le sue proprie categorie di pensiero. In ciò il ‘mestiere’ dello storico era diametralmente opposto a quello dello scienziato.277 Con il saggio del 1961 Berlin sintetizzava una serie di suggestioni e considerazioni sulla natura della storia e della ricerca storica in contrapposizione alle cosiddette scienze esatte che, a nostro giudizio, erano già in parte presenti nel suo libro su Karl Marx del 1939 e in maniera più sistematica ed evidente nei due testi degli anni ‘50, precedentemente ricordati. La sua critica a chi praticava la ‘religione’ dei fatti così come a chi praticava la ‘religione’ della teoria, la enfasi sull’empatia che, a suo avviso, lo storico doveva saper provare e dimostrare per il materiale studiato e soprattutto l’immagine della ricerca storica che al proprio centro poneva gli uomini e che quindi doveva confrontarsi con un grado di complessità e di varietà molto diversa da quella con cui si confrontava lo studioso della natura, erano egualmente rivolti contro chi voleva rendere la storia una scienza esatta. Nei saggi fin qui discussi egli prendeva una chiara posizione contro chi voleva piegare la ricerca storica ai canoni della ricerca scientifica, rivendicando altresì una idea della storia come comprensione e conoscenza della vita umana che, in quanto tale, era, per Berlin, plurale, e ricca di sfaccettature. Ciò però non significava che lo storico dovesse rinunciare alle generalizzazioni, egli doveva piuttosto essere consapevole della loro particolarità perché queste – osservava Berlin – avevano una struttura, un senso, un modo di essere formulate in rapporto alla realtà empirica molto differenti da quelli tipici delle scienze esatte: indicativo di ciò era lo stesso Insomma, Berlin accusava Collingwood di aver elaborato una teoria della conoscenza storica dai tratti inequivocabilmente “metafisici”. Nel suo articolo, Skagestad prende le distanze da una simile lettura del principio di “re-enactment” non solo sottolineando opportunamente l’analogia tra questo stesso principio e la concezione berliniana di ricerca storica, così come essa emergeva da The Concept of Scientific History, ma anche contestando allo stesso Berlin di aver frainteso il pensiero e la metodologia di Collingwood. P. SKAGESTAD, op. cit., p. 104. 277 I. BERLIN, The Concept of Scientific History, cit., pp. 115-116. 125 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee principio della “imaginative projection”.278 Berlin sottolineava quindi la differenza e la distanza tra storia e scienza sia relativamente al loro metodo di indagine, sia relativamente all’oggetto del loro studio. Tuttavia se ci fermassimo a questa considerazione rischieremmo di dare una lettura parziale della riflessione berliniana sul significato e la peculiarità della ricerca storica. C’è infatti un aspetto fondamentale da prendere in considerazione: Berlin – come del resto lo stesso Voegelin – non era, né cercava di essere un metodologo o un teorico degli studi storici. La sua severa critica a coloro che volevano trasformare lo storico in uno scienziato era mossa da una esigenza filosofica e filosofico-politica piuttosto che metodologico-storiografica. La stessa scelta di occuparsi di storia delle idee adottando una forma testuale molto particolare, quella dell’essay, sembra indicativa di tale tendenza. Secondo J. Ferrell, il “saggio” era particolarmente congeniale a Berlin sia perché gli consentiva di sviluppare una vera e propria “strategia persuasiva” nei confronti del lettore – una strategia che, come cercheremo di dimostrare, era finalizzata a costruire un discorso sul monismo quale ‘cuore’ ideologico del totalitarismo – sia perché, permettendogli di muoversi con libertà da un argomento all’altro, sembrava dare piena espressione alla sua avversione verso tutte quelle costruzioni teoriche che cercavano di fornire spiegazioni ultime, sistematiche e magari con pretese di universalità.279 Negli scritti fin qui esaminati, tale avversione, a ben vedere, era diretta contro il carattere monistico del Concept of Scientific History, ossia contro la volontà di racchiudere la complessità della realtà storica e umana entro un modello generale, di provare a spiegare quest’ultima attraverso schemi esplicativi cosiddetti scientifici che, per Berlin, non solo erano del tutto impropri, perché propri di un’altra disciplina, ma anche perché impedivano di guardare agli essere umani come “active beings, pursuing ends, shaping their own and others’ lives, feelings, reflecting, imagining, creating in constant 278 Ivi, pp. 115 ss. 279 J. FERRELL, Isaiah Berlin as Essayst, “Political Theory”, 40 (2012), pp. 603-610. Ferrell ricorda che in una lettera del 1952, indirizzata all’amico Jacob Talmon, Berlin scriveva con tono irritato: “now I must sit down to the hideous task of writing a book”; la frase è riportata in I. BERLIN, Enlightening: Letters 1946-1960, edited by H. Hardy and J. Holmes, London, Chatto & Windus, 2009, p. 354, citata in J. FERRELL, Isaiah Berlin as Essayst, p. 608. 126 Cap. IV - Isaiah Berlin e la storia delle idee interaction and intercommunication with other human beings”.280 Queste ultime considerazioni, che troviamo formulate in The Concept of Scientific History, appaiono, come vedremo, sostanzialmente identiche alla parte finale di Two Concepts of Liberty, dedicata alla celebre contrapposizione tra monismo e pluralismo.281 Nei saggi di storia delle idee pubblicati negli anni ‘50, da The Hedgehog and the Fox a Two Concepts of Liberty e dei quali ci occuperemo tra breve, Berlin individuava infatti nelle concezioni filosofiche e politiche monistiche la volontà di trovare (e imporre) una spiegazione univoca alla realtà sociale, umana, politica. Non a caso, come abbiamo già potuto appurare e come vedremo più avanti nel dettaglio, Berlin riteneva che le radici del monismo nella filosofia, nella politica e nella morale potessero essere ricondotte, in qualche misura, alle correnti scientiste, che a loro volta egli poneva in diretto rapporto ad una certa tradizione razionalista e illuminista, che a suo giudizio aveva contribuito e non poco a ‘contaminare’ nel lungo periodo la concezione stessa della ricerca storica.282 In tal senso, gli scritti di Berlin fin qui analizzati appaiono rilevanti per comprendere non solo la sua specifica visione della ricerca storica – aspetto di non secondaria importanza dato che egli si dedicò per tutta la vita alla storia delle idee – ma anche come quella stessa visione fosse correlata e rimandasse, nel profondo, al problema del monismo.283 280 I. BERLIN, The Concept of Scientific History, cit., pp. 132-133. 281 Ci stiamo riferendo all’ultima sezione del saggio intitolata The One and the Many. 282 A testimonianza del legame nell’opera di Berlin tra la riflessione sulla natura della ricerca storica e quella di carattere più propriamente teorico-politico è sufficiente ricordare come, ad esempio, in The Sense of Reality, egli individuasse proprio in un sano “senso della realtà” quel principio che doveva “guidare” non solo lo storico ma anche l’uomo politico, lo statista. I. BERLIN, The Sense of Reality, cit., pp. 52 ss. Il tema del “senso della realtà” applicato alla politica e il problema di saper valutare il peso dei fatti, piuttosto che cercare di ‘adattare’ e distorcere questi ultimi alla luce di teorie ritenute onniesplicative, riemergeva in un articolo di Berlin, intitolato Realism in Politics. Egli sottolineava la assoluta peculiarità della conoscenza scientifica e quindi, a suo giudizio, la assoluta erroneità di chi cercava di applicare il metodo, i canoni e la forma mentis propri della scienza non solo allo studio della storia ma anche alla realtà sociale e politica; errore nel quale, a suo giudizio, erano caduti non pochi pensatori e non pochi uomini d’azione. Il pensatore inglese scorgeva nelle persone la tendenza e l’attitudine mentale ad applicare particolari modelli di indagine ai più svariati campi del sapere e dell’agire umani, ma ciò, a suo giudizio, implicava la (ostinata) convinzione che esistessero una chiave di lettura e un principio universalmente validi e capaci di spiegare la realtà in tutte le sue sfaccettature. I. BERLIN, Realism in Politics, “Spectator Archive”, December 17th (1954), pp. 774-776. 283 Nella sua analisi della concezione berliniana di ricerca storica, Hauley si richiama ad una 127 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo CAPITOLO V ISAIAH BERLIN E LA RIFLESSIONE SUL MONISMO 5.1 Isaiah Berlin e il Cold War Liberalism È stato spesso ripetuto – peraltro correttamente – che la riflessione di Berlin sulle radici ideali del totalitarismo debba essere storicamente ricondotta nell’alveo del cosiddetto Cold War Liberalism, al quale Berlin appartenne insieme, ad esempio, a Raymond Aron e Karl Popper. Sul piano intellettuale, tutti e tre si confrontarono con il totalitarismo verso il quale nutrirono una profonda avversione ma senza per questo creare una vera e propria scuola di pensiero o una dottrina politica strutturata. La letteratura è infatti sostanzialmente concorde nel ritenere che il Cold War Liberalism fu prima di tutto un “frame of mind” che, secondo T. Hardin: [It] had no room for the theory of history or foundational truths advanced by ideological cold warriors like Samuel Hungtington or Francis Fukuyama. It was epistemological sceptical, pluralist, and committed to a version of constitutional government that could ensure not only negative freedom but also provide some kind of social minimum, which its proponents saw as a condition for a stable civil association.284 La definizione tracciata da Hardin, che riconduce al Cold War Liberalism anche Micheal Oakeshott e Friederich von Hayek, sembra essere debitrice della riflessione che su tale argomento è stata elaborata da Jan Werner Müller nel suo saggio del 2008, Fear and Freedom: On Cold War Lecture che il pensatore inglese tenne a Princeton nel 1973, all’interno dei Geuss Seminars, dal titolo Two Notions of the History of Culture: the German vs the French Tradition. Una ampissima parte delle considerazioni contenute in quella Lecture erano già state sviluppate da Berlin nei tre saggi sul senso della ricerca storica, dei quali abbiamo precedentemente discusso. Fu in quella occasione però, come sottolinea Hauley, che Berlin affermò: “I am no Historian” e in effetti la sua visione della storia delle idee e le implicazioni anti-monistiche della sua riflessione sulla specificità della ricerca storica testimoniano ampiamente quanto quelle parole fossero lungi dall’essere una mera boutade. R.P. HAULEY, Berlin and History, in G. CROWDER – H. HARDY, op. cit., pp. 159 ss. 284 T. NARDIN, op. cit., p. 1. 129 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee Liberalism, nel quale lo studioso individua cinque aspetti fondamentali condivisi da Berlin, Popper e Aron e rappresentativi del Cold War Liberalism: 1. l’idea che la conoscenza umana sia fallibile; 2. la rivendicazione che non esiste nessuna certezza storica; 3. la comune avversione al marxismo, criticato per la sua pretesa di predire lo sviluppo sociale ed economico; 4. la comune volontà di comprendere le radici ideali dei regimi liberticidi della prima metà del XX secolo, sebbene questo tentativo di comprensione, secondo Müller, abbia a che fare con “a pshycological Verstehen and even Einfühlung” piuttosto che con “a plan to map out the structural changes that had made the rise of totalitarianism possible”; 5. infine la comune opposizione al comunismo sovietico e allo stalinismo.285 Pur tenendo in debita considerazione gli elementi di vicinanza tra Berlin e gli altri Cold War Liberals, è altrettanto opportuno sottolineare quanto la sua posizione avesse un carattere personale e originale. Il suo stesso spirito anti-stalinista e anti-sovietico, che svolse un ruolo significativo nello sviluppo della riflessione sul monismo,286 è infatti ricco di sfumature e di sfaccettature che impediscono di considerarlo solo e soltanto come una mera espressione del Cold War Liberalism. Anzitutto, esempio efficace della vicinanza di Berlin a questa particolare corrente di pensiero è il suo lungo pamphlet Generalissimo Stalin and the Art of Government del 1952, scritto sotto pseudonimo,287 nel quale la strategia politica del dittatore russo, fatta di violente repressioni e improvvise “fughe in avanti”, era descritta come un metodo brutale quanto efficace di controllare il popolo e il partito.288 A testimonianza, peraltro, del ‘pedi285 J.W. MÜLLER, Fear and Freedom cit., pp. 45-64, in particolare p. 20, ricorda infatti opportunamente come “Berlin, Aron and Popper all considered themselves engaged in an anti-Marxist war of ideas. Even when they spoke out against totalitarianism it was clear that Stalinism had been the critical template for their models of totalitarianism”. 286 Certamente la riflessione di Berlin sulle radici ideali e culturali del totalitarismo non può essere sic et simpliciter ‘appiattita’ sul suo spirito anti-comunista e anti-stalinista ma, come sottolinea il suo biografo, da esso non è possibile prescindere. M. IGNATIEFF, op. cit., p. 58. 287 La scelta di pubblicare lo scritto sotto pseudonimo “O. Utis” fu dettata dalla preoccupazione di proteggere la incolumità dei suoi parenti e amici che vivevano ancora in Russia. G. CROWDER, Isaiah Berlin, cit., p. 70. 288 I. BERLIN, Generalissimo Stalin and the Art of Government, in ID., The Soviet Mind: Russian Culture under Communism, edited by H. Hardy with a Foreword by S. Talbott, Wa- 130 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo gree’ anti-sovietico di Berlin è opportuno ricordare anche le sue altolocate frequentazioni nel periodo in cui lavorò per il British Diplomatic Service a Washington, New York e Mosca: negli U.S.A., Berlin conobbe e strinse amicizia con John Schlesinger, George Kennan, l’esule ebreo-italiano Max Ascoli, Hamilton Fish Armostrong, ossia figure intellettuali e politiche di spicco che, pur nella loro diversità, erano tutti convinti oppositori della Russia di Stalin.289 Diversamente però dai suoi sodali americani, Berlin intese il suo anticomunismo prima di tutto come “una questione privata”, privo di qualsiasi traccia di russofobia, così come di intenti apologetici nei confronti della superpotenza americana.290 In particolare, la sua preferenza per il sistema liberal-democratico occidentale e anglo-americano non significò mai una adesione acritica a quel mondo, né al sistema capitalista inteso à la Hayek. Del resto, in maniera abbastanza analoga a Popper e Aron, anche Berlin espresse la propria ‘simpatia’ per il welfare state e, in generale, per forme di sostegno sociale a favore dei ceti più disagiati.291 Per meglio comprendere la personale e sfaccettata attitudine che Berlin ebbe verso il cosiddetto ‘mondo libero’ e il paese che ai tempi della guerra fredda ne era il principale rappresentante ideologico, ossia gli Stati Uniti, vorremmo riferirci ad un articolo, The Intellectual Life of American Universities, che Berlin pubblicò nel 1949, e nel quale, con uno stile sottilmente ironico, criticava l’indirizzo pratico e fondamentalmente moralistico assunto dal sistema universitario americano, caratterizzato sempre più dalla diffusione di discipline “socially useful”, ritenute indispensabili al “common good”.292 Ai suoi occhi, in America, stava prendendo corpo una pericolosa mentalità che considerava tutte quelle discipline e quegli interessi intellettuali shington, Brookings Institution Press, 2004, pp. 92-111. 289 J.L. CHERNISS, Isaiah Berlin: a Mind and his Time, cit., pp. 79 ss. Si veda anche a proposito la corrispondenza di Berlin in I. BERLIN, Enlightening letters 1946-1960, cit. 290 J.L. CHERNISS, Isaiah Berlin: a Mind and his Time, cit., p. 90. 291 J.W. MÜLLER, Fear and Freedom cit., p. 55. Cfr. A. RYAN, Berlin, Mill and Progress, in L. BROCKNISS – R. ROBERTSON (edited by), Isaiah Berlin and the Enlightenment, Oxford, Oxford University Press, 2016, p. 122. 292 I. BERLIN, The Intellectual Life of American Universities, (1949) ora in ID., Enlightening Letters, cit., pp. 749-760. 131 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee non direttamente riconducibili ad un simile schema educativo come un pericoloso “time-wasting”.293 In ciò Berlin vedeva una minaccia allo sviluppo dell’individuo, della diversità individuale e soprattutto una minaccia alla “curiosity”, quale motore della conoscenza e della crescita personale.294 Con Political Ideas in the Twentieth Century, apparso originariamente nel 1950 per la rivista americana “Foreign Affairs”, Berlin continuava a interrogarsi sulla minaccia alla diversità individuale e in particolare sulla forma estrema che essa aveva assunto nei sistemi totalitari del ‘900. Già in questo saggio possiamo cogliere sia la sostanziale avversione di Berlin per lo scientismo – che peraltro avrebbe caratterizzato di lì a poco anche il suo ragionamento sulla natura della ricerca storica – sia il suo modus operandi, quello dello storico delle idee che si interrogava sulle origini del monismo filosofico, politico, morale. Nell’illuminismo Berlin individuava una delle ‘cifre’ della cultura politica ottocentesca, l’elemento che aveva accomunato socialismo e liberalismo. Tuttavia, uno dei principi fondamentali di quella corrente di pensiero, ossia la fiducia nella capacità umana di risolvere razionalmente tutti i problemi, era stata, per Berlin, portata alle sue estreme conseguenze e distorta durante il ‘900. L’obiettivo non era più quello di individuare problemi e fornire soluzioni, bensì eliminare l’idea stessa di problema: It was left to the twentieth century to do something more drastic than this. For the first time it was conceived that the most effective way of dealing with questions, particularly those recurrent issues which had perplexed and often tormented original and honest minds in every generation, was not by employing the tools of reason, stillness those of the more mysterious capacities called «insight» and «intuition», but by obliterating the questions themselves.295 Un processo che era stato radicalizzato dai sistemi totalitari, con la loro pretesa di realizzare un “nuovo ordine”, intrinsecamente giusto e nuovo e che, in quanto tale, doveva rimuovere la necessità stessa da parte dell’individuo di interrogarsi, di indagare, di porsi domande e problemi sulla realtà 293 Ivi, pp. 753-755. 294 Ivi, p. 755. 295 I. BERLIN, The Political Ideas of the Twentieth Century, in ID., Four Essays on Liberty, cit., p. 23. 132 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo che lo circondava: The method has the simplicity of genius: it secures agreement on matters of political principle by removing the psychological possibility of alternatives, which itself depends, or it is held to depend, on the older form of social organization, rendered obsolete by the revolution and the new social order. And this is how Communist and Fascist states – and all other quasi and semi-totalitarian societies and secular and religious creeds – have in fact proceeded in the task of imposing political and ideological conformity.296 E la finalità di un simile stato di cose era, per Berlin, rendere gli individui del tutto imperturbabili e indifferenti dinanzi a “questions which, when raised and discussed, endanger the stability of the system”.297 Per Berlin, la repressione del dissenso, dell’opposizione, di quello che con una espressione milliana potremmo definire il “pensiero non conformista”, consisteva innanzitutto nel far credere (e nell’imporre con la forza tale credenza ai più riottosi) che non esistessero più problemi fondamentali sui quali discutere, riflettere, confrontarsi e scontrarsi. Nel secondo dopoguerra era l’Unione Sovietica, secondo Berlin, ad incarnare al massimo grado lo spirito (totalitario) appena descritto. Egli insisteva particolarmente proprio sul tema della rimozione dei problemi intesa come lotta alla capacità (e alla possibilità) stessa degli individui di porre a se stessi interrogativi, questioni, dubbi e lo faceva perché, a suo giudizio, un processo analogo – sebbene in maniera ‘edulcorata’, non sistematicamente repressiva e lesiva della dignità individuale – aveva preso forma nel cosiddetto ‘mondo libero’. È all’interno di questa considerazione che andrebbe letta la sua critica, precedentemente ricordata, al sistema educativo e universitario americano, centrato sul principio di “social usefulness”. Nella tendenza, per lui in atto in Occidente, a spostare l’attenzione verso i metodi per risolvere i problemi, ossia nell’affermarsi di una ragione puramente strumentale – che egli considerava una degenerazione dello scientismo illuminista in maniera fortemente analoga al Voegelin di History of Political Ideas – Berlin scorgeva (con paura) la volontà di creare una sorta di armonia sociale del tutto artificiale, volta a instillare nelle persone 296 Ivi, pp. 23-24. 297 Ivi, p. 24. 133 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee la confortante sensazione di non aver più alcun bisogno di interrogarsi, chiedere, porre agli altri e a se stessi questioni e problemi, poiché per ciascun problema esisteva una soluzione razionale e valida. Pur non volendo mettere in dubbio la onestà e la bontà delle iniziative filantropiche e sociali, Berlin osservava scettico che: tensions (within or between individuals or groups or nations) that need to be released, wounds, conflicts, fixations, phobias and fears, psychical and psycho-physical abnormalities of all sorts which require the aid of specialized healers – doctors, economists, social workers, teams of diagnosticians or engineers ot the masters of the craft of helping the sick and the perplexed – individual and collective sources of physical wisdom of every kind. To the degree to which such suffering exists and can be treated by the applied sciences – genuine physical or mental sickness, poverty, social and economic inequality […] which men and money can cure or alleviate. […] But the reverse of this coin is the tendency – difficult to avoid, but disastrous – to assimilate all men’s primary needs to those that are capable of being met by the these methods: the reduction of all questions and aspirations to dislocations which expert can set right.298 Secondo una simile prospettiva, non esistevano problemi ma soltanto soluzioni e, più precisamente, esistevano e venivano presi in considerazione soltanto problemi che potevano essere risolti con strumenti ad hoc. Di fondo, e pur con le dovute e debite distinzioni, Berlin era convinto che questa visione accomunasse paradossalmente il mondo sovietico a quello democratico-capitalista. Le differenze tra i due regimi erano innegabili sotto molti punti di vista, eppure egli affermava che: “the resistance to it, whether in the forms of attacks on American «materialism» […] or on communist or nationalist fanaticism […] derives from an obscure realization that both these tendencies – which spring from a common root – are hostile to the development of men as creative and self-directing beings”.299 Berlin sembrava così pensare che nel mondo occidentale fosse largamente penetrata, sebbene in forme e modalità particolari, la volontà per lui tipica dei regimi totalitari di rimuovere l’idea stessa di problema, con la conseguenza, per lui inevitabile, di creare sì società più regolate ma anche più propense al conformismo, alla uniformità di pensiero e quindi contrarie alla 298 Ivi, p. 35. 299 Ibidem. 134 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo diversità individuale. E nel profondo, dietro a tale tendenza – sia nella sua versione drammaticamente repressiva, ossia quella totalitaria, sia nella sua versione ‘accettabile’, ‘pacifica’, ossia democratica e occidentale – Berlin sembrava scorgere una idea ancora più sotterranea e più radicata, la certezza, che egli in parte riconduceva alla temperie dello scientismo illuminista, per cui era possibile trovare una soluzione unica, valida e razionale ai problemi posti dalla vita reale.300 Secondo noi, in Political Ideas of the Twentieth Century, Berlin si misurava proprio con tale convinzione – la cui critica fu centrale nella sua riflessione sul monismo e quindi sulle radici ideali e intellettuali del totalitarismo – ponendola in rapporto ai pericoli e alle ‘ombre’ che egli vedeva profilarsi nelle democrazie occidentali. Qui, osservava Berlin, stava prendendo forma e forza un vero e proprio “paternalistic state” che, seppur “best intentioned”, avrebbe ridotto sempre più la libertà dell’individuo e combattuto la diversità individuale “in the interest (the very real interest) of his welfare or of his sanity, his health, his security, his freedom from want and fear”.301 Per Berlin, l’interesse per il bene comune, per la sorte dei più deboli, era del tutto legittimo, positivo e comprensibile, ma ancor più importante era arginare le derive del paternalismo, comprendere altresì la rilevanza della diversità, della pluralità che egli, già in questo saggio del 1950, legava saldamente al principio della libertà.302 Berlin criticava così l’idea, per lui sottesa alla mentalità del paternalismo moderno, che potessero esistere soluzioni uniche, generali, universalmente valide ai dilemmi sociali, umani e morali. Se la ricerca storica doveva essere sempre ricerca sugli uomini da 300 Contro ciò Berlin aveva già cominciato ad esprimersi attraverso una prima ‘incursione’ nell’ambito della storia delle idee con il suo studio monografico su Karl Marx; nei primi anni ‘50 egli continuava in questo suo impegno nei saggi fin qui analizzati. Cfr. Cap. I del nostro volume. 301 I. BERLIN, The Political Ideas of the Twentieth Century, cit., p. 38 302 Ibidem. Sulla connessione tra difesa della libertà e difesa del pluralismo in Berlin è stato scritto molto, cfr. C. CROWDER, Isaiah Berlin, cit; J. FERRELL, Isaiah Berlin’s Liberalism and Pluralism in Theory and Practice, “Contemporary Political Theory”, 8 (2009), pp. 295316; W.J. GALSTON, Moral Pluralism and Liberal Democracy: Isaiah Berlin’s Hetherodox Liberalism, “The Review of Politics”, 71 (2009), pp. 85-99; E. MYERS, From Pluralism to Liberalism: Rereading Isaiah Berlin, “The Review of Politics”, 72 (2010), pp. 599-625. 135 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee parte di altri uomini, evitare schematismi, saper collegare il particolare al generale avendo ben presente le sfaccettature e la particolarità della realtà umana, così nella politica e nella società era necessario recuperare la consapevolezza della complessità e della varietà, sebbene ciò non significasse rinunciare alla necessaria organizzazione del corpo sociale: what is required is less mechanical, less fanatical application of general principles, however rational or righteous, more cautious and less arrogantly self-confident application of accepted, scientifically tested, general solutions to unexamined individual cases. [E questo perché, secondo Berlin] no solution can be guaranteed against error, no disposition is final. And therefore a loose texture and toleration of a minimum of inefficiency, even a degree of indulgence in ideal talk, ideal curiosity, aimless pursuit of this or that without authorization […] may allow more spontaneous, individual variation (for which each the individual must in the end assume full responsibility), and will always be worth more than the neatest and most delicately fashioned imposed pattern.303 Era il Berlin filosofo della politica, liberale e anti-dogmatico che parlava in queste pagine e in quanto tale egli prendeva le distanze da quelle concezioni che, ai suoi occhi, mettevano in pericolo, in particolare se attuate con eccessivo zelo e rigore, la libertà e la diversità individuali, la “eccentricità”, la possibilità stessa per “individuals and minorities” di raggiungere i propri obiettivi.304 Contro la logica del “paternalistic State” Berlin osservava che l’ubbidienza alla autorità e alle istituzioni non era dovuta sulla base della loro infallibilità (o presunta tale), bensì in nome della loro necessità e utilità. Ma tale consapevolezza, a suo giudizio, ne implicava un’altra, ancora più importante in termini filosofici e politici, ossia che lo Stato e i detentori del potere non avevano alcun diritto o prerogativa di ridurre e minacciare lo spazio della libertà individuale.305 Nelle riflessioni di Berlin c’era molto del pensiero e della etica liberali di John Stuart Mill così come dell’utilitarismo di Jeremy Bentham: c’era la difesa milliana della eccentricità e della necessità di resistere al 303 I. BERLIN, The Political Ideas of the Twentieth Century, cit., p. 40. 304 Ibidem. 305 Ibidem. 136 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo conformismo,306 c’era un richiamo alla concezione benthamiana dell’ubbidienza politica,307 e, al contempo, al pensiero di Kant, feroce critico dello “Stato paternalistico”.308 Berlin sembrava così riallacciarsi ad una grande tradizione di pensiero europeo molto risalente309 e tuttavia Political Ideas of the Twentieth Century può essere ricondotta anche nelle ‘maglie’ del Cold War Liberalism. Con quella corrente Berlin sembrava condividere infatti la diffidenza verso le tecniche di controllo sociale, verso forme eccessive di “regulations” – tra le quali quelle attuate dal regime sovietico erano, per lui, una delle espressioni più emblematiche ed estreme.310 Berlin metteva in guardia dai pericoli insiti nel paternalismo, ossia nella creazione di una società fortemente regolata e osservata, e nel fare questo, secondo noi, egli prendeva una posizione chiara contro quelle concezioni, quelle logiche, quei progetti politici e sociali che proponevano una “soluzione finale” e che per questo erano da ritenersi, a suo giudizio, monistici. A testimonianza della particolarità del suo anti-stalinismo e anti-sovietismo, Berlin sembrava quindi suggerire che anche il mondo occidentale uscito dalla Seconda guerra mondiale recava in sé i germi del monismo (filosofico e politico). In altri termini, l’individuazione (di una certa parte) dell’illuminismo quale matrice comune del socialismo e del liberalismo nell’800 e, sebbene nella sua forma degenerata, distorta e alterata, anche dei sistemi totalitari e financo di quelli paternalistici e occidentali, non era un esercizio di storia intellettuale; essa aveva una valenza teorico-politica ben precisa nella misura in cui Berlin era interessato a mostrare come, pur nella loro diversità, i regimi totalitari, da un lato, e lo stato paternalistico dall’altro condividevano, per alcuni aspetti, una connotazione monistica e quindi 306 J.S. MILL, On Liberty, 1859. 307 J. BENTHAM, An Introduction to Principles of Morals and Legislation, 1823 (second edition). 308 Kant è spesso evocato da Berlin in Two Concepts of Liberty, cit., ad esempio, pp. 138, 158-159. 309 Nel caso specifico di Kant e Mill, una tradizione di stampo liberale. Cfr. G. BEDESCHI, Storia del pensiero liberale, Soveria-Mannelli, Rubbettino, 2015. 310 J.L. CHERNISS, Isaiah Berlin: a Mind and his Time, cit., p. 90. Sempre J. CHERNNISS, Berlin’s Early Political Thought, in C. CROWDER – H. HARDY, op. cit., p. 107. 137 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee lesiva, sebbene con gradi e forme differenti, della libertà individuale.311 In tal senso, il saggio sulle Political Ideas of the Twentieth Century andava ad inserirsi a pieno titolo nella riflessione di Berlin sul monismo filosofico e politico che, come quella di Voegelin, prendeva forma attraverso la storia delle idee e sembrava presupporre una convinzione profonda di fondo, ossia che le idee avessero una loro, speciale forza e un loro speciale potere sulla vita (e sulle forme di vita) degli uomini.312 Una convinzione alla quale Berlin rimase fedele per tutta la vita e che, per sua stessa ammissione, egli aveva maturato non tanto a contatto con la filosofia di Oxford, ossia con il gruppo dei positivisti logici di Ayer, bensì attraverso la lettura dei pensatori russi, con i quali iniziò a confrontarsi a partire dal suo studio su Karl Marx. His Life and Environment. Come cercheremo di mostrare nel prossimo paragrafo, l’indagine di Berlin sul monismo fu infatti, sin dal suo inizio, strettamente legata alla storia intellettuale del mondo russo. 5.2 Tolstoj “volpe” e “riccio” In maniera nettamente controcorrente rispetto al suo tempo, e molto probabilmente in virtù delle sue radici famigliari e culturali, Berlin distinse sempre tra Stato sovietico e Russia. Verso quest’ultima, la sua letteratura, la sua lingua, la sua arte, Berlin nutrì sempre una profonda ammirazione e un altrettanto sincero e duraturo interesse, testimoniato dai suoi studi su figure come Tolstoj, Turgenev, Herzen, Belinskij: egli fu infatti storico delle idee filosofiche, politiche e anche letterarie.313 L’attenzione profonda che Berlin dimostrò per tutta la vita nei confronti del mondo russo è un aspetto essenziale della sua ricerca sulle radici intellettuali dei regimi liberticidi e anche 311 Il saggio del ‘50 mostrava inoltre, e ormai in maniera chiara, come Berlin avesse intrapreso il ‘cammino’ della storia delle idee e, come attraverso essa, stesse affermando il suo proprio e personale modo di “fare” filosofia e pensiero politico cfr. M. BODE, op. cit., p. 72. 312 Cfr. I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., pp. 118-120. 313 I. BERLIN, Three Strands in My Life, “Jewish Quarterly”, 27 (1979), pp. 5-7. Risaliva al 1951 la sua traduzione in inglese di Turgenev, First love. 138 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo sui possibili antidoti contro di essi. L’‘incontro’ di Berlin con i pensatori russi risaliva alla fine degli anni ‘30, quando egli cominciò a preparare lo studio monografico su Marx, attraverso il quale si avvicinò agli illuministi francesi, ai socialisti come Proudhon, ed anche a Plechanov, commentatore e seguace del filosofo di Treviri, e ai “precursori della Rivoluzione russa”. Il suo interesse per la storia delle idee e la volontà di dedicarsi ad essa si legarono alla ‘scoperta’ di questi autori e si rafforzarono nel corso degli anni ‘40 anche grazie alle esperienze in ambito diplomatico che egli ebbe prima a Washington e poi a Mosca. Nella città russa, dove si recò nel 1945 e nel 1956, ebbe infatti l’occasione di conoscere Anna Achmatova e Boris Pasternak che lasciarono su di lui una impressione profonda e durevole.314 Fu di ritorno da questi paesi che egli decise di abbandonare definitivamente la filosofia – la disciplina che dal 1946 insegnava al New College di Oxford –315 per la storia delle idee: da quel momento in poi, come avrebbe ricordato, egli cominciò ad interrogarsi sistematicamente sul concetto di monismo e a misurarsi con il problema della libertà.316 Tuttavia, già il suo studio su Marx rappresentò, a nostro avviso, un primo momento di distacco sia dal positivismo logico, sia dalla filosofia analitica. Ha perfettamente ragione D. Kelly quando ricorda come in quella prima opera (l’unica a carattere monografico che ci abbia lasciato Berlin) fosse ravvisabile una serie di problemi e un certo tipo di approccio al pensiero di grandi pensatori che avrebbero caratterizzato successivamente l’intera riflessione dell’intellettuale inglese. In senso lato, al di là dei problemi di datazione, e quindi di individuare con certezza matematica un “prima” e un “dopo” nella ricca produzione del pensatore inglese, Berlin sottolineò in più occasioni quanto anche la sua curiosità per il mondo russo avesse influito su quella svolta: “mi resi conto – avrebbe confessato Berlin a S. Lukes negli anni ‘90 – che intendevo leggere Bakunin, Belinskij, e Herzen. Desideravo conoscere le ragioni delle loro idee, più che risolvere problemi filosofici”.317 314 Su questo aspetto: I. BERLIN, Personal Impressions. Updated Edition, edited by H. Hardy, with a new Foreword by H. Lee and N. Annan, London, Paperback, 2014. 315 I. BERLIN, Tra filosofia e storia delle idee, cit., p. 48. 316 Ivi, p. 28 e ID., My Intellectual Path, cit., pp. 5-7. 317 I. BERLIN, Tra filosofia e storia delle idee, cit., p. 56. 139 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee L’incarico di Fellow che egli ricevette dall’All Souls College nel 1950 sancì ufficialmente il suo passaggio dalla filosofia analitica alla storia delle idee, che al tempo, però, continuava ad essere considerata, in ambito accademico oxoniense e inglese, una disciplina molto ‘esotica’.318 Esiste dunque, per stessa ammissione di Berlin, un nesso profondo tra la sua scelta di misurarsi con la storia delle idee e il suo interesse per il mondo intellettuale russo. La stessa definizione di monismo e pluralismo, che Berlin elaborò in maniera sistematica nel suo celebre Two Concepts of Liberty, sarebbe in parte non del tutto chiara e comprensibile se prescindessimo da questo aspetto. Negli anni ‘50 Berlin maturò la sua ricerca sul monismo non solo muovendo da una analisi critica di certe parti della tradizione razionalista e illuminista, così come di altre tradizioni intellettuali di cui ci occuperemo successivamente, ma anche dalla lettura di artisti e pensatori russi per lui molto significativi. Nella sua intervista a S. Lukes, Berlin avrebbe individuato due saggi in particolare che avevano, in un certo senso, “segnato il suo passaggio dalla filosofia alla storia delle idee”; il primo, di cui abbiamo già parlato, era Political Ideas of the Twentieth Century, il secondo era The Hedgehog and the Fox – il cui protagonista era giustappunto uno dei maggiori scrittori dell’800 russo, Tolstoj – e che venne pubblicato per la prima volta nel 1951 per la rivista “Slavonic Studies”.319 Due osservazioni preliminari sono tuttavia necessarie: The Hedgehog and the Fox testimoniava non solo quanto, per Berlin, le idee avessero un indubbio potere ma anche come esse non potessero mai essere scollegate dagli individui, dalle persone fisiche e concrete che le avevano professate. In tal senso, lo scritto del 1951 conteneva in sé già un chiaro richiamo a quella particolare visione di conoscenza storica che Berlin avrebbe formulato nel 1953, ad esempio, in Historical Inevitability. Inoltre, come sottolinea A. Kelley, proprio questo saggio denotava un interesse per la cultura russa che appariva del tutto eccentrico e atipico per quel periodo. Berlin prendeva infatti nettamente le distanze da quel mondo anglo-americano che guardava alla Russia come culla del fanatismo, di pensatori e uomini politici così 318 Ivi, pp. 56-57. 319 Il saggio apparve come opera autonoma nel 1953: I. BERLIN, The Hedgehog and the Fox. An Essay on Lev Tolstoj’s View of History, London, Weidenfeld and Nicolson. 140 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo sconfinatamente innamorati delle loro idee da compiere in nome di esse atti tremendi, di rottura e carichi di violenza. Non erano infatti pochi gli osservatori occidentali che consideravano la passione russa per le idee e le ideologie come sintomo di una sostanziale insanità mentale e di un eccesso di temperamento. Con The Hedgehog and the Fox Berlin cercava di proporre una lettura di quella realtà completamente diversa, ben più articolata, e in tal senso egli non faceva altro che continuare sulla strada già intrapresa pochi anni prima, nel 1948, quando, sempre sulle pagine di “Slavonic Papers”, aveva dedicato un saggio a Russia and 1848. Qui aveva ricondotto la intransigenza intellettuale e morale degli intellettuali russi durante il trentennio successivo alla fine dell’ondata rivoluzionaria del 1848 (che però non aveva riguardato direttamente l’Impero zarista) non ad una qualche forma di malsana inclinazione al fanatismo ma ad un particolare processo storico e culturale che aveva esercitato su di loro un impatto indelebile, alla luce del quale, secondo Berlin, era possibile in parte comprendere il successivo sviluppo della storia russa.320 L’Impero russo dopo il 1848 veniva dipinto da Berlin come un luogo di repressione; ogni forma di idea liberale era stata spazzata via sotto lo Zar Nicola I e gli intellettuali del tempo, in una simile situazione di isolamento e di provvedimenti repressivi, non avevano avuto altra scelta, secondo Berlin, che “ripiegarsi su se stessi”.321 Separati dall’Europa occidentale, i giovani russi si erano così imposti una severa disciplina che, ai loro occhi, rappresentava anzitutto una risposta al fallimento dei tentativi rivoluzionari occidentali.322 Berlin tornava a misurarsi con questo tema alcuni anni più tardi, in una serie di saggi apparsi sotto il titolo di A Marvellous Decade e risalenti al biennio 1955-1956:323 egli parlava della intelligentsia russa tra gli anni ‘30 e 320 I. BERLIN, Russia and 1848, in ID., Russian Thinkers, edited by H. Hardy and A. Kelley with an Introduction by A. Kelley, London, The Hogarth Press, 1978. 321 I. BERLIN, Russia and 1848, cit., pp. 2 ss. 322 Ivi, pp. 8 ss. 323 A Marvellous Decade consisteva in quattro distinti saggi (The Birth of the Russian Intelligentsia, German Romanticism in St. Petersburg and Moscow, Vissarion Belinskij, Alexander Herzen), pubblicati su “Encounter” tra il 1955 e il 1956 e che riproducevano i testi letti da Berlin in occasione delle Northcliffe Lectures che egli tenne nel 1954 presso lo University College di Londra. Tutti e quattro gli scritti berliniani furono successivamente riediti sotto il titolo di A Remarkable Decade in ID., Russian Thinkers, cit. ed è a questa versione che abbiamo 141 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee la fine dei sommovimenti del 1848, dei dilemmi morali e politici che essa si era posta sul destino del proprio paese dopo la sconfitta di Napoleone, delle soluzioni che aveva provato a trovare, alimentate, secondo Berlin, dal desiderio di scoprire una verità assoluta e dall’influsso che su di essa era stato esercitato dall’idealismo hegeliano, con cui erano entrati in contatto quei giovani russi abbastanza abbienti da studiare nella università tedesche.324 In maniera evidentemente analoga a Russia and 1848, nei saggi sulla Marvellous Decade Berlin cercava così di mostrare come una certa tendenza alla intransigenza e alla serietà estrema con cui la intelligentsia russa aveva abbracciato particolari idee e ideologie – che, a suo giudizio, avrebbero poi pervaso, se non tutto, una ampia parte del mondo intellettuale russo fino al 1917 – non derivava da una perversa inclinazione dell’animo russo (perversa almeno secondo i prevalenti stereotipi e canoni anglo-americani), bensì da fattori ideali, culturali e storici che avevano preso forma nella metà dell’800. Come sottolinea A. Kelley, il ritratto che nella prima metà degli anni ‘50 Berlin dava della realtà russa era soprattutto teso a mostrare i problemi morali e politici con cui la intelligentsia si era confrontata, forte dell’influsso su di essa esercitato dalle correnti culturali europee, che proprio alcuni intellettuali russi avevano assorbito e che poi avevano portato nel proprio paese, “russificandole”. Nel delineare un simile affresco, attraverso la storia delle idee, Berlin prendeva le distanze da tutti quegli osservatori occidentali che sovrapponevano l’immagine della Russia a quella della Repubblica sovietica e stalinista. Per questa ragione, secondo A. Kelley, Berlin fu il primo intellettuale del secondo dopoguerra a far conoscere al mondo di lingua inglese i grandi personaggi e i principali movimenti culturali russi precedenti alla Rivoluzione.325 Il trait d’union che collega idealmente Russia and 1848 e A Marvellous Decade è, a nostro avviso, proprio The Hedgehog and the Fox. Era in questo fatto riferimento. Cfr. H. HARDY, Editorial Preface to I. Berlin, Russian Thinkers, cit., p. IX. 324 I. BERLIN, The Birth of the Russian Intelligentsia, in ID., A Remarkable Decade, in ID., Russian Thinkers, cit., pp. 114 ss e ID., German Romanticism in St. Petersburg and Moscow, in ID., A Remarkable Decade, in ID., Russian Thinkers, cit., pp. 136 ss. 325 A. KELLEY, A Complex Vision. Introduction to I. BERLIN, Russian Thinkers, cit., pp. XIII-XVI. Di questa stessa opinione anche A. WALICKI, Berlin and the Russian Intelligentsia, in C. CROWDER – H. HARDY, op.cit., pp. 49 ss. 142 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo scritto che Berlin parlava del monismo quale visione etica e filosofica attraverso l’opera e il pensiero di Tolstoj, nei quali però Berlin ravvisava anche una sotterranea, ma non per questo meno interessante, tendenza pluralista. Nel saggio berliniano, la massima di Archiloco per cui “the fox knows many things, but the hedgehog knows one big thing”, che sintetizzava ai suoi occhi la distinzione tra monisti e pluralisti, stava ad indicare infatti la differenza tra coloro che leggevano e comprendevano la realtà nei termini di una “single central vision, one system, […] in terms of which they understand, think and feel” e coloro che, al contrario, guardavano alla realtà nella loro incommensurabile e immensa pluralità e diversità, “who pursue many ends, often unrelated and even contradictory, connected, if it all, only in some de facto way, [… Be] related to no moral or aestethic principle”.326 Consapevole del rischio di cadere nella trappola di facili quanto sterili schematismi, Berlin guardava alla massima del poeta greco anzitutto come un punto di vista, una prospettiva di analisi e di ricerca nella storia delle idee.327 In questo caso, tale ricerca riguardava l’universo letterario e artistico russo, in particolare l’opera di Tolstoj, il suo celebre romanzo Guerra e Pace, in cui Berlin individuava una vera e propria “filosofia della storia”.328 Tolstoj veniva dipinto come un artista e un pensatore “ossessionato” dalla storia, dal senso della storia, dal rapporto tra la storia e la vita degli esseri umani; nella “filosofia della storia” del romanziere russo Berlin vedeva e leggeva una doppia inclinazione, una doppia tendenza: una pluralista e una monista. Dietro la creazione di Guerra e Pace, pubblicata per la prima volta nel 1865, c’era anzitutto, secondo Berlin, un rifiuto deciso dell’idea che potessero essere individuate leggi necessarie e oggettive sottese alla storia umana. Ciò che però, nell’interpretazione di Berlin, “opprimeva” e assillava ancora di più il grande romanziere era il modo in cui la storia degli uomini veniva narrata e spiegata. Come emergeva da lettere, articoli e testimonianze molto antecedenti alla stesura di Guerra e Pace, Tolstoj, secondo Berlin, riteneva del tutto insoddisfacente e soprattutto priva di una vera e propria 326 I. BERLIN, The Hedgehog and the Fox (1953), versione online disponibile sul sito della Princeton University: https://press.princeton.edu/chapters/s9981.pdf. Nella nostra analisi ci siamo avvalse di questa versione del testo berliniano. 327 Ivi, p. 437. 328 Ivi, pp. 437-438. 143 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee legittimazione la preferenza che gli studiosi, nelle loro analisi storiche, sembravano aver sempre attribuito alla sfera politica e pubblica, poiché essi avevano finito per ignorare e “sacrificare” quella grande varietà di elementi e fattori che faceva altresì parte della vita umana.329 Nelle prime pagine di The Hedgehog and the Fox, veniva così sottolineata una certa inclinazione in Tolstoj a valorizzare il carattere plurale della esperienza storica e umana. Berlin riteneva che forte di questa convinzione Tolstoj avesse infine deciso, già negli anni ‘50, di dedicarsi alla scrittura di un romanzo storico che desse voce alla “real texture of life, both of individuals and communities” da opporre alla “unreal picture presented by historians”.330 Guerra e Pace diventava così per Berlin un poderoso ritratto non solo della Russia che affrontava la minaccia napoleonica ma ancor più l’espressione della visione che il suo creatore aveva della storia. Berlin ricordava, ad esempio, come nella ricostruzione della battaglia di Austerlitz, Tolstoj sottolineasse il contrasto tra ciò che veniva raccontato nei dispacci ufficiali e il modo in cui i singoli personaggi percepivano la propria personale situazione, senza che nessuno di loro – dal Principe Brigation fino al più umile dei soldati – avesse una chiara consapevolezza di ciò che stava realmente accadendo o sarebbe accaduto.331 Lo stesso tipo di contrasto riemergeva, secondo Berlin, dalle pagine dedicate all’incendio di Mosca del 1812 che aveva consegnato a Napoleone una città quasi totalmente distrutta. Tolstoj descriveva le persone non come eroi o martiri bensì come semplici, comuni mortali, preoccupati delle loro faccende e dei loro problemi individuali. E a proposito di ciò, per enfatizzare ancora di più la visione che il romanziere russo aveva delle “vere” dinamiche della storia e di quanto esse fossero ben diverse dalle versioni ufficiali che venivano date dai potenti e dagli storici di professione, Berlin osservava come “those who went about their ordinary business without feeling heroic emotions or thinking that they were actors upon the well-lighted stage of history were the most useful to their country or community, while those 329 Ivi, pp. 446-447. 330 Ivi, p. 447. 331 Ivi, p. 448. 144 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo who tried to grasp the general course of events and wanted to take part in history, those who performed acts of incredible self-sacrifice […] were the most useless”.332 Da Guerra e Pace, secondo Berlin, emergeva quanto centrale la “unconscious activity” fosse nella visione tolstojana della storia e quindi quanto sterili fossero, per il romanziere, i tentativi di chi voleva spiegare la storia e in particolare i grandi eventi solo e soltanto sulla base di “rational means” e di precisi nessi strettamente causali.333 Nella interpretazione berliniana, l’importanza della “attività inconscia” stava lì a testimoniare come per Tolstoj la vita umana fosse così articolata, varia e molteplice da rendere del tutto assurdo qualsiasi tentativo di spiegarla – e quindi ‘imbrigliarla’ – in grandi costruzioni teorico-esplicative. Era il Tolstoj “volpe” quello che Berlin stava descrivendo in queste pagine del 1951: since no theories [per Tolstoj] can possibly fit the immense variety of possible human behaviour, the vast multiciplicty of minute, undiscoverable causes and effects which form the interplay of men and nature which history purports to record. Those who affect to be able to contract this infinitive multiciplity within their ‘scientific’ laws must be either deliberate charlatans or blind leaders of the blind.334 Tuttavia, secondo Berlin, da Guerra e Pace, così come da tutte le opere di Tolstoj e dalla sua stessa esistenza – che nella sua ultima fase fu all’insegna di un profondo misticismo – emergeva anche un altro aspetto, altrettanto centrale nella concezione che il romanziere aveva della storia; un aspetto diametralmente opposto a quello pluralista fin qui evocato, ossia una sorta di inclinazione al monismo. Nella interpretazione di Berlin la “volpe” Tolstoj lasciava così il posto al “riccio” Tolstoj: in quest’ultimo il pensatore inglese ravvisava infatti sia la consapevolezza della varietà estrema della vita e quindi una profonda diffidenza verso tutte quelle teorie e quei pensatori che cercavano di spiegare la storia e le azioni umane in termini “scientifici”, sia una urgenza egualmente sincera non solo di comprendere “the historian’s 332 Ivi, p. 449. 333 Ibidem. 334 Ivi, p. 450. 145 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee task” ma anche ciò in cui “history consists”.335 In Tolstoj Berlin credeva di scorgere un bisogno profondo di conoscere la verità: Tolstoj’s purpose is the discovery of the truth, and therefore he must know what history consists of, and recreate only that. History is plainly not a science, and sociology, which pretends that it is, is a fraud; no genuine laws of history have been discovered, and the concepts in current use – cause, accident, genius – explain nothing […] Why do the events the totality of which we call history occur as they do? Some historians attribute events to the acts of individuals, but this is no answer: for they do not explain how these acts ‘cause’ the events they are alleged to ‘cause’ or ‘originate’.336 In Guerra e Pace prendeva forma con incredibile potenza la critica di Tolstoj a tutte quelle scuole di pensiero che spiegavano gli eventi storici in nome del potere, di fattori puramente economici e sociali o della grandezza di un singolo individuo, poiché tutte queste spiegazioni erano, per l’artista russo, prive di una consapevolezza per lui altresì fondamentale, ossia la impossibilità di identificare tutte le possibili cause e fattori che condizionavano o, in alcuni casi, determinavano la storia e la vita degli uomini.337 Nella prima parte del suo saggio Berlin aveva sottolineato quanto una simile convinzione fosse intimamente collegata ad una visione pluralista della realtà e quindi alla “volpe” che, a suo giudizio, viveva in Tolstoj. Invece, nella seconda parte del saggio, egli cercava di dimostrare come quella stessa concezione della storia, così fortemente difesa dallo scrittore russo, implicasse, al contempo, una ricerca monistica del significato della vita: per Berlin la critica mossa a spiegazioni delle vicende umane basate su rapporti strettamente causali non significava infatti, neppure per un istante, che Tolstoj rivendicasse l’assoluto libero arbitrio o l’assenza di qualsiasi principio capace di unificare, spiegandola, l’intera esistenza:338 Tolstoj’s central thesis […] is that there is a natural law whereby the lives of human beings no less than that of nature are determined; but those men, unable to face this inexorable process, seek to represent it as a succession of free choices, to fix responsibilities for what occurs upon persons endowed by them with heroic virtues 335 Ivi, pp. 451-452. 336 Ivi, p. 452. 337 Ivi, p. 456. 338 Ibidem. 146 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo or heroic vices, and called by them great men […]. They are ordinary human beings who are ignorant and vain enough to accept responsibility for the life of society […] than recognize their own insignificance and impotence in the cosmic flow which pursues its course irrespective of their wills and ideals.339 E proprio attraverso questa ottica che, per Berlin, Tolstoj poteva non solo parlare di un “inexorable determinism” ma anche credere in “true on irrefutable theoretical grounds”, quando, ad esempio, tratteggiava la figura di Napoleone in Guerra e Pace.340 In Tolstoj, Berlin credeva di scorgere così una forte ambivalenza: da un lato, la certezza che la realtà storica e umana fosse variegata, plurale, concreta, e quindi impossibile da contenere in una teoria che la spiegasse secondo parametri strettamente causali, e che potesse abbracciare tutte le possibili combinazioni sottese agli eventi storici; dall’altro, la urgenza e la necessità, altrettanto radicate, di trovare una spiegazione unica, finale e oggettiva a tutto ciò che esisteva; in Tolstoj convivevano così due anime, quella della “volpe” e quella del “riccio”. La prima, per Berlin, era incarnata dallo scrittore che nei suoi romanzi sapeva tratteggiare con maestria gli uomini e le donne nelle loro singolarità, nei loro caratteri irripetibili, dando corpo alle loro idee e sentimenti come se fossero individui reali e vivi. Il secondo, invece, era incarnato dall’uomo, dal filosofo e dal mistico che credeva – o aveva bisogno di credere – in una visione unificante della realtà: Tolstoj perceived – scriveva Berlin – reality in its mutliciplity, as a collection of separate entities round and into which he saw with a clarity and penetration scarcely ever equalled [...]. The celebreted lifelikeness of every object and every person in his world derives from this astonishing capacity of presenting every ingredient of it in its fullest individual essence, in all its many dimensions […]. Yet what he believed was the opposite. He advocated a single all embracing vision; he preaches not variety but simplicity, not many levels of consciousness but reduction to some single level – in War and Peace, to the standard of the good man.341 Il contrasto che Berlin ravvisava in Tolstoj era quindi tra due opposte concezioni: la prima che vedeva nella realtà (umana e storica) pluralità e 339 Ibidem. 340 Ivi, p. 458. 341 Ivi, p. 466. 147 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee diversità, gioie e dolori, gli individui che si facevano carico delle proprie responsabilità così come dei propri progetti da conseguire e realizzare, e la seconda, di segno diametralmente opposto, quasi “metafisica”, che invece vedeva dietro quella pluralità, di cui spesso il romanziere russo sembrava denunciare la vanità e vuotezza, un disegno, un principio capace di governare il Tutto, ma che, pur essendo vivo e reale, Tolstoj riteneva quasi del tutto incomprensibile da parte degli uomini.342 Che cosa emerge di così interessante dalla interpretazione dell’opera e della figura di Tolstoj, carica di eleganza e di sensibilità letterarie, che Berlin dava in The Hedgehog and the Fox? A nostro avviso, l’aspetto essenziale non consiste tanto nella attendibilità scientifica della analisi che Berlin elaborava e quindi nella sua capacità di cogliere il ‘vero’ Tolstoj. Si potrebbe anche essere totalmente in disaccordo con quanto il pensatore inglese andava scrivendo dell’autore di Anna Karenina e tuttavia dovremmo ammettere che il suo ritratto del romanziere russo, la lettura che egli dava di Guerra e Pace, rappresentavano già nei primi anni ‘50 un esempio efficace di ciò che per Berlin significava “fare” storia delle idee e un tassello importante della sua riflessione sul monismo (e per converso sul pluralismo). Due degli scritti berliniani sul significato della ricerca storica e sulla differenza tra questa e la ricerca scientifica risalivano, come abbiamo precedentemente osservato, proprio ai primi anni ‘50. In The Hedgehog and the Fox, che precedeva di soli due anni Historical Inevitability, Berlin parlava di Tolstoj, ci raccontava la sua vita, le sue idee, la sua filosofia della storia utilizzando quel processo di empatia, di “imaginative projection”, la cui importanza egli avrebbe sempre rivendicato: egli presentava Tolstoj e il suo pensiero da dentro e i passi che abbiamo citato offrono un esempio eccellente di ciò che concretamente, ossia sulla carta, significasse questo procedimento. Non entreremo nel merito di quanto corretto esso fosse; non è nostro interesse e la letteratura critica che ricordavamo nel primo capitolo ha messo bene in evidenza le debolezze metodologiche e scientifiche della storia delle idee à la Berlin. Al contrario, ciò che ci preme sottolineare è come le riflessioni di Berlin sul significato della ricerca storica dovrebbero essere considerate in stretto rapporto con quelle che, negli stessi anni, egli stava elaborando attorno al problema del monismo. 342 Ivi, p. 467. 148 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo Nel saggio del 1951, Tolstoj incarnava due visioni contrapposte che scaturivano, secondo Berlin, da un bisogno umano, psicologico, personale e che poi si rifletteva e si articolava nella sua arte. Emergeva abbastanza chiaramente quanto Berlin preferisse il Tolstoj “volpe” al Tolstoj “riccio”, eppure egli guardava a quest’ultimo con una sorta di compassione, simpatia e indulgenza. Restava però aperto un problema molto significativo per il pensatore inglese, ossia comprendere come quel bisogno si fosse articolato e avesse trovato espressione concreta nella storia, nelle menti degli uomini, da quali correnti di pensiero esso fosse stato nutrito, plasmato, trasformato fino a diventare parte essenziale delle ideologie e dei regimi totalitari del ‘900.343 Berlin avrebbe provato a delineare una possibile risposta in Historical Inevitability, nel quale individuava un nesso profondo tra monismo, concezioni deterministiche e minaccia alla libertà individuale, preparando così il ‘terreno’ al più celebre Two Concepts of Liberty. 5.3 Isaiah Berlin e il determinismo Dalle considerazioni fin qui svolte si evidenziano alcuni punti di contatto importanti tra Voegelin e Berlin storici delle idee: le differenze tra i due sono indubitabili, sotto molteplici punti di vista, tuttavia per entrambi la storia delle idee diventava un mezzo per misurarsi con il problema del monismo e quindi interrogarsi sulle radici intellettuali e ideali del totalitarismo: tra queste entrambi i pensatori individuavano, ad esempio, la tradizione dello scientismo illuminista. In particolare, Historical Inevitability rappresenta un punto di riferimento essenziale per comprendere quanto e in quale misura la critica berliniana a quella particolare tradizione di pensiero (e non solo) presenti interessanti analogie con quella voegeliniana. L’interesse di Berlin per il determinismo quale visione filosofica risaliva a molto tempo prima della sua Auguste Comte Lecture. Come osserva M. Ricciardi, già negli anni ‘30, Berlin aveva preso chiaramente le distanze proprio dal determinismo di Ayer, secondo il quale il comportamento degli esseri umani era soggetto alle stesse leggi che regolavano l’intero mondo 343 A. KELLEY, op. cit., pp. XV ss. 149 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee naturale e, in opposizione all’idea, anch’essa difesa da Ayer, che tutti gli enunciati dovessero avere una traduzione strettamente logica, Berlin aveva affermato che il linguaggio doveva anzitutto aderire alla vita mentale e morale delle persone.344 Già molti anni prima del suo passaggio alla storia delle idee, Berlin aveva quindi individuato nel determinismo, quale visione filosofica, un problema non indifferente per chi come lui riteneva che il concetto di libertà individuale non fosse solo una mera parola e che la realtà umana e morale non potessero essere ridotte a semplice appendice del mondo naturale.345 Nella sua lezione alla London School of Economics del ‘53 Berlin analizzava lo sviluppo e le caratteristiche delle principali concezioni deterministiche nella storia delle idee e sviluppava attorno ad esse un ragionamento critico che, come vedremo, era volto a sottolineare il loro contenuto illiberale e potenzialmente liberticida. L’avversione al determinismo inteso quale minaccia alla libertà era lungi dall’essere originale. È infatti Joshua Cherniss a ricordare come essa fosse ben presente nelle opere di pensatori, contemporanei a Berlin, quali Karl Popper, Raymond Aron e Friederich von Hayek.346 In questo paragrafo vorremmo piuttosto analizzare la critica contro la Historical Inevitability nell’ottica di un confronto generale tra Berlin e Voegelin storici delle idee. Il 13 giugno 1953 il pensatore inglese inviava a Lincoln Schuster, co-editor (insieme a Richard Simon) della Simon & Schuster, ossia la casa editrice che un anno più tardi avrebbe pubblicato Historical Inevitability sotto forma di saggio, una lettera in cui egli affermava e sottolineava tutta la sua contrarietà alla idea di inevitabilità storica, “as a kind of Moloch which makes people think that to resist to history is 344 M. RICCIARDI, op. cit., pp. 15-16. Relativamente al dibattito che si svolse su tali questioni tra Ayer e Berlin cfr. I. BERLIN, J.L. Austin and the Early Beginnings of Oxford Philosophy, in ID., Personal Impressions, cit. e A.J. AYER, Freedom and Necessity, in ID., Philosophical Essays, London, Macmillan, 1946. 345 M. RICCIARDI, op. cit., p. 15. Anche J.L. CHERNISS, Isaiah Berlin, A Mind and its Time, cit., p. 107. 346 Ivi, p. 109. 150 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo both useless and in some way immorale”.347 Una contrarietà che presupponeva in Berlin la convinzione, di cui abbiamo già discusso, che il metodo scientifico, volto a individuare leggi universalmente valide e oggettive, non fosse applicabile, né estendibile alla conoscenza del processo storico o della vita umana in generale: la critica di Berlin al determinismo storico si collegava quindi ad un certo modo di intendere l’essenza e la originalità della ricerca storica rispetto a quella strettamente scientifica. Esistono a nostro avviso due livelli di lettura fondamentali nel saggio di Berlin: il primo è quello che può essere ricondotto alla storia delle idee, attraverso la quale Berlin distingueva tra varie forme di determinismi che si erano affermate nel tempo e il secondo, quello più propriamente filosoficopolitico, che vedeva nello sviluppo di tali concezioni una tappa fondamentale in un lungo percorso storico costellato di sistemi e ideologie oppressive e liberticide fino ai regimi sorti nella metà del ‘900. Berlin attribuiva all’idea di poter comprendere e disvelare le leggi del divenire storico e di poter, sulla base di esse, fare vere e proprie predizioni, un enorme e durevole fascino sulla mente degli uomini.348 C’è chi aveva individuato nel “Progress” nello “World Spirit”, nella “Race” o nella “Reason”, nel “Party” o nella “Social Class” il principio in grado di determinare la vita degli uomini e il corso della storia; c’è chi aveva parlato di forze metafisiche, chi di forze sociali ed economiche, chi infine aveva invocato l’esistenza di grandi personalità, individui fuori dal comune, capaci, con le loro azioni e le loro decisioni, di determinare il destino dei loro simili e della storia.349 Tutte queste teorie e concezioni, sebbene particolari, tra loro differenti, nate e affermatesi in contesti storici e culturali diversi, erano però accomunate, secondo Berlin, da una medesima idea di fondo, ossia che la realtà storica, umana, nella sua immensa complessità, potesse essere compresa, nelle sue manifestazioni passate, presenti e future, sulla base di un principio unificante e onniesplicativo. E in questo senso, a suo giudizio, il determinismo, in tutte le sue declinazioni, aveva una connotazione filosofica ed epistemica profonda347 I. BERLIN, Letter to Lincoln-Schuster, contenuta in ID., Enlightening, cit., p. 379. 348 I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., p. 43. 349 Ivi, pp. 43-45. 151 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee mente monistica.350 Tuttavia, per Berlin, questo fondamento comune aveva percorso storicamente diverse direzioni: egli individuava così un determinismo “teleological”, uno “metaphysic” e infine uno “scientific”. Nella sua declinazione teleologica il determinismo assumeva i contorni di una visione filosofica e conoscitiva che attribuiva agli individui, agli esseri umani un fine, uno scopo, una funzione in base ai quali la loro vita e lo stesso corso della storia diventavano “intelligible”.351 In tal senso “historical explanation, must consist, above all, in the attribution of individuals, groups, nations, species, each to its own proper place in the universal pattern”.352 In altri termini, qualsiasi fenomeno umano, dalla fondazione di una civiltà alla caduta di un Impero, veniva spiegato come espressione di “rise and fall of states or movements or classes or individuals as if they obeyed to some irresistible rhythm, a rising or falling wave of some cosmic river, an ebb or tide in human affairs”.353 Non meno fortunato si era rivelato, per Berlin, il determinismo nella sua accezione strettamente metafisica, che non cercava di spiegare la realtà in base a fini e scopi, bensì in rapporto alla esistenza di una “realtà senza tempo”, perfetta e contrapposta a quella della “appearence”, ossia al disordine, al caos, al conflitto del mondo, della vita umana, anch’essi soltanto apparenti, transitori perché riflesso di una (nascosta) armonia profonda ed eterna. Per chi abbracciava questa Weltanschauung spiegare la realtà e la storia significava disvelare, portare alla luce, proprio quella “self-consistent, eternal, ultimate structure of reality, compresent timelessly, as it were, with the confused world of senses”, in virtù della quale qualsiasi cosa poteva essere correttamente compresa, perché era questa stessa “structure” a determinare il Tutto.354 Infine esisteva una “versione” del determinismo che poteva essere ricondotta alle scienze naturali e, più precisamente, a quel filone di pen350 Ivi, pp. 45-47. 351 Ivi, pp. 44-48. 352 Ivi, p. 52. 353 Ivi, p. 53. 354 Ivi, p. 55. 152 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo siero scientista che, per Berlin, si dipanava dall’età moderna fino al cuore tecnocratico del ‘900.355 Come aveva già chiaramente affermato in Political Ideas of the Twentieth Century la Rivoluzione scientifica del ‘600 e del ‘700 aveva lasciato una impressione e una influenza durevoli sul pensiero filosofico, sociale e politico europeo di quel tempo. Dinanzi alle grandi conquiste intellettuali di Galileo Galilei e poi di Isaac Newton, alla fecondità dimostrata dalla ricerca e dal sapere scientifico, si era affermata l’idea che la storia, la politica, la società, in una parola sola, l’uomo, potessero essere studiati applicando ad essi lo scrupoloso metodo scientifico. Una simile convinzione, sebbene sotto una forma originale e non del tutto assimilabile al contesto storico e culturale in cui essa era emersa, aveva non solo attraversato tutto il Secolo dei Lumi ma era rifiorita nell’800.356 Nel ‘700 la fiducia nella correttezza del metodo scientifico si era indissolubilmente legata alla convinzione che fosse possibile calcolare, misurare, avere una conoscenza esatta e precisa della realtà umana, sociale, politica, poiché – sulla base dei risultati raggiunti dal sapere scientifico – “nothing in nature is transcendent, nothing is purposive; everyting is measurable; the day will dawn when – osservava Berlin con una non indifferente punta di ironia – in aswer to all painful problems now besetting us, we shall be able to say with Condorcet, «calculemus», and return the answers clearly, exactly, and conclusively”.357 Nei pensatori illuministi, fra i quali Berlin ricordava D’Holbac,358 Condorcet, D’Alembert, prendeva così forma una concezione deterministica di carattere “scientifico”, che si basava su di una (per Berlin del tutto supposta) analogia tra mondo umano e storico, da un lato, e mondo naturale dall’altro: 355 Si veda a proposito il suo Political Ideas of the Twentieth Century, cit. 356 I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., pp. 56-57. 357 Ivi, p. 57. 358 Era proprio a D’Holbac che Berlin dedicava un capitolo del suo Freedom and Its Betrayers. Six Enemies of Human Liberty. Il testo raccoglieva le Lectures tenute da Berlin per il programma radiofonico della B.B.C. nel 1952. Gli altri nemici della libertà erano – significativamente – Rousseau, Hegel, Fichte, Saint Simon e De Maistre. Rimandiamo a I. BERLIN, Freedom and Its Betrayers. Six Enemies of Human Liberty, edited by H. Hardy, with a New Foreword by E. Krauze, updated edition, Prinecton, Princeton University Press, 2003. 153 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee come la scienza era riuscita ad individuare le leggi che regolavano la natura, in modo del tutto analogo sarebbe stato possibile conseguire un risultato altrettanto ambizioso nell’indagine della realtà storica, politica, sociale.359 L’illuminismo diventava così per Berlin uno dei punti nodali nello sviluppo della visione deterministica e quindi, secondo lui, monistica. In altri termini, dalla grande rivoluzione scientifica dell’epoca moderna si era affermata una vera e propria certezza, alla quale Berlin – così come lo stesso Voegelin – attribuiva esiti dirompenti, ossia che potesse essere individuato un principio, un modello, in grado di spiegare la realtà umana con lo stesso grado di oggettività e universalità con cui era possibile spiegare la realtà naturale. L’interpretazione assai critica che Berlin dava in queste pagine dell’illuminismo e in particolare dello scientismo illuminista richiama alla mente quella voegeliniana discussa nella prima parte del nostro lavoro. Sia Voegelin, sia Berlin riconoscevano proprio in questa particolare tradizione di pensiero un carattere monistico. Pur in un assetto speculativo differente (per esempio, nella critica di Berlin alla tradizione illuminista è assente qualsiasi riferimento al problema dello smarrimento della dimensione trascendente che, invece, è ben presente in Voegelin), entrambi guardavano con sospetto a quelle elaborazioni scientiste che affermavano la validità di un metodo esclusivo per comprendere la realtà e di conseguenza per realizzare un ordine politico perfetto.360 Numerosi e autorevoli studiosi sono stati concordi nel ritenere che la lettura berliniana dell’eredità illuminista fosse inaccurata e molto parziale. Del resto, la stessa critica può essere estesa anche a Voegelin.361 Nello spe359 I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., pp. 65 ss. Proprio in questa opera, la riflessione sul determinismo di carattere “scientifico”, le cui radici Berlin riconduceva all’illuminismo, andava ad integrarsi con quella, già precedentemente discussa, sulla distinzione tra storia e scienza, tra ricerca storica e ricerca scientifica. 360 Ivi, p. 73. 361 P. GAY, The Enlightenment: An Interpretation, vol. 2., New York, W.W. Norton & Company, 1996; M. LILLA, Wolves and Lambs, in M. LILLA – R. DWORKIN – R. SILVERS (edited by), The Legacy of Isaiah Berlin, New York, Palgrave Macmillan, 2001, pp. 36 ss. Inoltre, C. HATIER, Isaiah Berlin and the Totalitarian Mind, cit., pp. 768-771. Tutti e tre gli studiosi, fra i principali dell’opera berliniana, rimproverano al pensatore inglese di aver fatto una sorta di “caricatura” dei philosophes francesi. Berlin viene così accusato di aver sovrapposto due piani di indagine e di riflessione altresì separati, ossia la sua particolare visione dell’illuminismo – che implicava un certo modo di intendere la libertà e al contempo una riflessione più ampia 154 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo cifico, è stata evidenziata la eccessiva facilità con cui Berlin poneva sullo stesso piano, come se appartenessero davvero ad una medesima scuola di pensiero, filosofi illuministi altresì differenti tra loro e gli è stato infatti rimproverato di aver sottovalutato, per non dire taciuto, la vena scettica e tutt’altro che monistica insita in molti autorevoli esponenti dell’illuminismo, compreso Condorcet, che invece Berlin reputava uno schietto esponente del monismo.362 In queste pagine vorremmo invece partire da un presupposto differente, ossia considerare la lettura che Berlin dava dell’illuminismo, così come di altre visioni, concezioni, tradizioni filosofiche, al di là e indipendentemente dalla sua oggettiva accuratezza e credibilità scientifica. Vorremmo piuttosto sottolineare come tale interpretazione, anche e forse soprattutto in virtù di alcune storture e forzature, fosse funzionale alla sua riflessione sul monismo e, quindi, sulle ideologie e sui sistemi politici liberticidi del ‘900. I punti di contatto tra Berlin e Voegelin relativamente al problema del monismo possono essere colti e apprezzati proprio nella misura in cui si accantoni il tema della validità scientifica della loro storia delle idee e si guardi invece a quest’ultima come una riflessione sul (e contro il) monismo e, in senso lato, come il loro particolare modo di “fare” pensiero politico. Per Berlin, la fiducia nella applicabilità ed “esportabilità” del metodo scientifico allo studio e alle comprensione del mondo umano, sociale, politico aveva poi trovato una piena espressione – sebbene con modalità teoriche particolari, non identiche a quelle tipiche dell’illuminismo – nel diciannovesimo secolo, nel secolo del positivismo e di Auguste Comte, che Berlin considerava il discepolo di illustri rappresentanti del determinismo in chiave scientifica quali Condorcet e St. Simon.363 Non era un caso che proprio nella temperie positivista, da Berlin descritta come “imbevuta” di scientismo, fosse nata una disciplina quale la sociologia che, a suo giudizio, aveva un carattere deterministico poiché vedeva nel comportamento umano e sociale il risultato di fattori esterni che sul tema del monismo – alla effettiva storia dell’illuminismo e della filosofia illuminista. 362 I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., pp. 56 ss. 363 Ivi, p. 79. 155 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee potevano essere spiegati attraverso un metodo rigorosamente scientifico.364 Era stato Comte, osservava Berlin, a svolgere nell’800 un ruolo decisivo nello sviluppo di una simile concezione. Con una argomentazione e toni che ricordavano ancora una volta quelli utilizzati proprio da Voegelin nella sua History of Political Ideas, Berlin attribuiva al filosofo positivista francese l’obiettivo molto ambizioso di elaborare “an all-embracing pyramid of scientific knowledge” che potesse spiegare qualsiasi cosa.365 E ciò, sottolineava Berlin, presupponeva la convinzione (deterministicoscientifica) che “men are not unique, or in need of individual treatment, but, on the contrary, like the inhabitants of the animal, vegetable and mineral kingdom, belong to types and obey general laws”.366 Nella loro storia delle idee Berlin, sia Voegelin attaccavano duramente questa particolare visione epistemica e filosofica. Insieme a Comte, secondo Berlin, altri due filosofi dell’800 avevano contribuito, sebbene da prospettive filosofiche e teorico-politiche differenti, ad affermare e difendere una concezione sostanzialmente deterministica della realtà umana, storica, politica e sociale, ossia Hegel e Marx: il primo, per Berlin, rappresentava il determinismo nella sua versione idealista, laddove il secondo, insieme a Comte, il determinismo di carattere “scientifico”. Come per gli altri scritti berliniani precedentemente discussi – e in maniera analoga a Voegelin – anche in Historical Inevitability l’interesse principale del pensatore inglese era concentrare la propria attenzione (e critica) sugli elementi che, a suo giudizio, avvicinavano intellettuali e filosofi non necessariamente appartenenti allo stesso secolo o alla stessa scuola di pensiero. Questo modo di declinare la storia delle idee trovava la sua piena legittimità nella convinzione nutrita da Berlin che le idee appartenevano sì ad un particolare contesto storico ma possedevano anche una natura “trans-storica”.367 In Historical Inevitability, Berlin sembrava richiamarsi al suo studio del 1939 e in particolare ad una linea interpretativa che egli aveva già allora espresso chiaramente: in una prospettiva di storia delle idee, a suo giudizio, 364 Ivi, pp. 79-80. 365 Ivi, p. 79. 366 Ibidem. 367 Si veda il Cap. IV. 156 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo esistevano importanti analogie e punti di contatto tra il padre dell’idealismo tedesco e il filosofo di Treviri. Entrambi, secondo Berlin, ritenevano che l’uomo, la storia, la società, la politica potessero essere pienamente compresi a partire da una “natura più ampia” che per Hegel era “spirituale”, mentre per Marx era “materiale”. Secondo Berlin, nelle concezioni filosofiche e filosofico-politiche che i due pensatori tedeschi avevano elaborato, la vita umana appariva sottoposta a (e determinata da) “forze” più grandi e più complesse di ciascun singolo individuo e che, giunte ad un certo grado e livello di “sviluppo”, non potevano far altro che deflagrare in grandi cambiamenti, dal carattere – ad esempio per Marx – rivoluzionario.368 Berlin sintetizzava così la componente deterministica che egli considerava comune all’opera di Hegel e di Marx: then (as both Hegel and Marx notoriously believed) the crucial moments of advance are reached; these always take form of violent, cataclysmis leaps, destructive revolutions which, most often with fire and sword, establish a new order upon the ruins of the old. Inevitably, the foolish, obsolete, purblind, home-made philosophies of the denizens of the old establishment […] are swept away.369 Nella connotazione sostanzialmente deterministica che, a suo giudizio, era sottesa sia all’opera di Hegel sia a quella di Marx, Berlin ravvedeva un’altra implicazione filosofica, etica, psicologica e politica rilevante, ossia la convinzione che l’“historical process” (per Hegel legato alla realizzazione dello Spirito, per Marx alla vittoria della classe proletaria sull’iniquo sistema capitalista) potesse essere compreso solo da pochi uomini intelligenti, ossia pochi eletti: “both Hegel and Marx – scriveva Berlin – conjure up an image of peaceful and foolish human beings, largely unaware of the part they play in history, building their homes with touching hope and simplicity upon the green lopes of what seems to them a peaceful mountain side”, alla quale venivano contrapposti coloro che erano invece ben consapevoli di quale “direction in which the world is inexorably moving” e che, forti di tale consapevolezza, erano disposti a seguirla (e annunciarla).370 Già nel saggio giovanile del 1939, Berlin aveva dichiarato quali erano, 368 I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., pp. 60-61. 369 Ivi, p. 61. 370 Ibidem. 157 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee per lui, le implicazioni filosofiche, etiche e politiche più sinistre in una simile Weltanschauung; quattordici anni più tardi egli tornava a riaffermarle ma in un contesto di riflessione ben più ampio e articolato che riguardava la natura e il significato delle concezioni deterministiche nella storia delle idee. Che fossero teleologiche, metafisiche o scientifiche, che si ispirassero a qualche principio religioso o alla esaltazione del metodo scientifico applicato alla realtà umana o sociale, che fossero professate da D’Holbac, Comte o Marx, tutte le declinazioni e le forme assunte dall’atteggiamento deterministico erano accomunate da un elemento di grande rilievo, e questo sì per Berlin pericoloso e inquietante: “the elimination of the notion of individual responsibility”.371 Il pensatore inglese poteva così scrivere: If the history of the world is due to the operation of identifiable forces other than, and little affected by, free human wills and free choices (whatever these occur or not), then the proper explanation of what happens must be given in terms of the evolution of such forces. And then there is the tendency to say that not individuals, but these larger entities, are ultimately «responsible».372 Una volta messo in discussione il principio di responsabilità individuale, per Berlin, azioni come “lodare”, “biasimare”, esprimere un qualsiasi tipo di giudizio, un giudizio di valore, perfino provare sentimenti come il rimorso per un gesto o il rimpianto per una decisione non presa, l’idea di poter operare una qualsiasi scelta erano destinati a perdere di senso e significato. La stessa ricerca storica, nella quale, per Berlin (che in tal senso non poco era stato influenzato da Collingwood), si sarebbe dovuto dimostrare doti come l’empatia, la “imaginative projection”, la capacità di emettere un giudizio, sarebbe venuta letteralmente meno, perché dal punto di vista deterministico – soprattutto se portato alle sue estreme conseguenze – la realtà e la vita dei singoli individui non potevano essere diversi da ciò che necessariamente e inevitabilmente dovevano essere.373 Berlin vedeva nelle concezioni e nelle filosofie deterministiche un contenuto illiberale, non perché esse proclamassero la soppressione dei 371 Ivi, p. 63. 372 Ivi, pp. 63-64. 373 Ibidem. 158 Cap. V - Isaiah Berlin e la rilessione sul monismo diritti di libertà, ma perché, in nome della “necessity”, delle “laws” e della “inevitability”, rendevano letteralmente superfluo quel principio che, a suo giudizio, era alla base di qualsiasi forma di libertà, del concetto stesso di libertà, ossia la responsabilità individuale.374 Il liberalismo di Berlin non era quindi una dottrina politica in senso stretto; esso consisteva prima di tutto in una adesione personale al principio della responsabilità individuale, a prescindere dal quale, a suo giudizio, non poteva esistere nessuna morale: egli sembrava così appropriarsi della lezione kantiana sul significato di morale. E allo stesso tempo, proprio in queste pagine, la difesa del principio della responsabilità individuale e, in ultima analisi, della libertà individuale contro le concezioni deterministiche significava anche rivendicare l’esistenza, l’importanza e il senso stesso della ricerca storica che, per Berlin, non aveva a che fare con il mondo inanimato, soggetto alle leggi della necessità, bensì con quello degli uomini.375 In Historical Inevitability possiamo così cogliere pienamente alcune delle caratteristiche del pensiero liberale di Berlin: esso non aveva nessuna connotazione sistematica, veniva a definirsi in contrapposizione alle concezioni deterministiche, e quindi al monismo filosofico, etico, conoscitivo al quale, per Berlin, proprio quelle stesse concezioni appartenevano. Il pensatore inglese non parlava di totalitarismo, almeno non dichiaratamente e scopertamente; tuttavia il suo saggio del ‘53 era percorso da una questione fondamentale, ossia capire su quale ‘terreno ideale’ si fossero innestati ideologie e regimi politici dispotici fino ad arrivare, appunto, a quelli totalitari. Parte integrante (forse perfino preponderante) di questo ‘terreno ideale’ sembravano essere concezioni dal carattere deterministico che, per Berlin, non potevano essere pienamente comprese a prescindere da un certo scientismo illuminista e positivista. In Historical Inevitability la storia delle idee veniva a manifestare chiaramente la sua doppia valenza: essa era lo strumento per indagare il determinismo e quindi, attraverso esso, il monismo, ma al contempo il modo in cui Berlin commentava e criticava le concezioni deterministiche, e quindi il modo in cui egli declinava la storia delle idee, diventavano funzionali ad esprimere la sua visione filosofica e 374 Ivi, pp. 61-68. 375 Ivi, pp. 68 ss. 159 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee politica che parlava di libertà anzitutto come responsabilità individuale e che, neppure troppo nascostamente, poneva la libertà quale valore e principio da difendere contro, in questo caso, quelle visioni (non solo filosofiche ma inevitabilmente anche politiche) che, a suo giudizio, riconducevano la vita umana nella sua complessità, morale, sociale e politica entro uno schema onniesplicativo, che parlava di leggi del processo storico, di fini ultimi verso i quali tendere o ancora di una “reality” vera da contrapporre alla “appereance”. Nel pensiero di Berlin, il legame tra la sua indagine sulla lunga genealogia di idee e visioni che, a suo giudizio, aveva contribuito a nutrire sistemi e ideologie oppressivi e il suo spirito liberale sarebbe emerso con grande forza, alcuni anni più tardi, nei suoi Two Concepts of Liberty. 160 Cap. VI - Monismo e libertà positiva CAPITOLO VI MONISMO E LIBERTÀ POSITIVA 6.1 La libertà in una prospettiva monistica Negli anni ‘50 fare storia delle idee significava, per Berlin, indagare il percorso e la traiettoria compiuti nei secoli da quelle idee, concezioni, ideologie che condividevano un carattere monistico. La sua riflessione su questo problema aveva una connotazione teorico-politica e ideologica forte: essa rifletteva la sua idealità liberale. Quest’ultima emergeva già, a nostro giudizio, da Historical Inevitability ma, ancor più, da Two Concepts of Liberty, in cui l’indagine sul monismo si andava a legare a quella sulla (celebre e altrettanto contestata) distinzione tra libertà positiva e libertà negativa. Distinzione che veniva tracciata su due livelli di analisi strettamente intrecciati, quello della storia e delle idee e quello della filosofia politica, e nella quale sembravano riversarsi e ‘precipitare’ le considerazioni, i rilievi e le critiche delle sue opere precedenti. Nelle prossime pagine vorremmo anzitutto mostrare come la concezione della libertà positiva fosse strettamente collegata alla questione di monismo e come nella Prolusione del 1958 Berlin elaborasse una contrapposizione diretta tra libertà positiva e libertà negativa che ne presupponeva un’altra, più profonda, quella tra monismo e pluralismo. A nostro giudizio, le finalità sottese a questo tipo di ragionamento erano essenzialmente due: da un lato, analizzare (e denunciare) quella che, secondo Berlin, era la distruzione del significato più profondo e umano di libertà nei regimi liberticidi e, dall’altro, difendere altresì una visione liberale e pluralistica di libertà non solo come risposta a ciò che era accaduto nel passato ma anche in rapporto al nuovo ordine politico forgiato dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La distinzione che Berlin poneva tra libertà negativa e positiva è ben conosciuta: laddove la prima era intesa dal pensatore inglese, in linea con la tradizione liberale di Constant, Burke, Paine, Tocqueville, Mill, come “area of non-interference”, ossia come quello “spazio” ideale nel quale 161 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee ciascun individuo poteva essere al riparo da ingerenze ed eventuali abusi commessi dalla autorità pubblica, la seconda assumeva, invece, i contorni della libertà in senso più schiettamente democratico, ossia la libertà come “self-government”, in altri termini come governo di se stessi.376 Se alla libertà in senso negativo era sottesa la domanda “«How far does government interfere with me?»”, a quella in senso positivo era invece sottesa una domanda, per Berlin, profondamente differente, ossia “«who rules me?»”.377 Ora, è indubbio che nella Prolusione del 1958, letta in onore del conferimento della cattedra Chichele di Political Theory, Berlin esprimesse una chiara e personale adesione al concetto negativo di libertà, ossia alla libertà in senso liberale, ma il senso della distinzione da lui elaborata e del suo atteggiamento critico nei confronti della libertà positiva vanno molto al di là di un simile (facile) schematismo. Entrambi dovrebbero essere collocati e compresi in un contesto di riflessione che era anzitutto – e continuava ad essere – orientata a comprendere il rapporto tra monismo, da un lato, e le ideologie e sistemi totalitari dall’altro. Tra questi, il comunismo sovietico rappresentava il principale bersaglio del pensatore inglese: molti anni più tardi, nella sua intervista a S. Lukes, Berlin avrebbe ammesso che Two Concepts of Liberty era indirizzato contro il regime sovietico, e che esso era prima di tutto scaturito dalla: “mia indignazione per tutti gli inganni marxisti, per tutte quelle chiacchiere sulla vera libertà, per il gergo stalinista e comunista della libertà autentica. Popper ha ragione: questi discorsi costano vite innocenti”.378 E per sottolineare con ancora maggiore forza quanto affermato, Berlin aggiungeva che il messaggio politico della sua Prolusione era (e doveva essere considerato) dichiaratamente “antimarxista”.379 In tal senso, senza per questo voler scivolare in interpretazioni eccessivamente unilaterali e riduzionistiche, la Prolusione può essere ricondotta a pieno titolo nell’alveo del Cold War Liberalism. Era anzitutto al monismo nella sua versione sovietica che Berlin pensava alla fine degli anni ‘50 ed 376 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 123. 377 Ivi, pp. 130-131. 378 I. BERLIN, Tra filosofia e storia delle idee, cit., p. 62 379 Ibidem. 162 Cap. VI - Monismo e libertà positiva è anche alla luce di una simile considerazione che dovrebbe essere interpretata la sua concezione della libertà positiva. Tuttavia, ci pare opportuno sottolineare come la critica alle implicazioni monistiche della libertà in senso positivo non significasse in alcun modo che Berlin fosse contro la libertà democratica e a favore solo e soltanto di una libertà liberale.380 La storia delle idee mostrava, secondo Berlin, come il significato originario di libertà positiva fosse stato alterato, distorto, piegato, usato e interiorizzato da ideologie oppressive e liberticide. In quale modo era possibile che fosse avvenuto ciò? Questa era una delle domande fondamentali che Berlin si poneva nel suo famoso saggio. Alla base della libertà positiva c’era, a suo parere, il desiderio e la volontà dell’individuo di essere “his own master”, ossia – per usare un termine di reminescienza roussoviana – il desiderio di una perfetta autonomia.381 Secondo una prospettiva di storia delle idee, per Berlin, il principio del “self-government” era stato declinato nel tempo come l’affermazione del “True self”, “higher” rispetto a quello “false” e “lower”, e inoltre come l’imposizione dell’“Ideal self” su quello “empirical”.382 Tale distinzione, che veniva ricondotta dal pensatore inglese ad alcuni dei principali filosofi del ‘700 illuminista (ma non solo), possedeva, a suo giudizio, una forte implicazione monistica che emergeva in modo compiuto laddove la realizzazione del “True self” e il conseguimento della piena autonomia, venivano a identificarsi totalmente con “specific principle or ideal in order to attain the selfsame end”.383 Principio o ideale che potevano essere quelli professati da un dittatore, da un folle visionario o da un Leader totalitario. Berlin cercava dunque di spiegare e dimostrare la connessione tra un certo modo di concepire la libertà positiva, la visione monistica e l’esistenza di ideologie e sistemi liberticidi individuando, come era suo solito, alcuni grandi idee e grandi pensatori che avevano lasciato una impronta durevole nella storia 380 Nella intervista condotta da S. Lukes, così Berlin si esprimeva: “la libertà negativa è fondamentale, ed è fondamentale anche la libertà positiva. Sono entrambe forme di libertà di grandissimo valore che tutti vogliamo. Io non sono affatto contrario alla libertà positiva, correttamente intesa. Ma non sono la stessa idea, e possono entrare in conflitto”. Ibidem. 381 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 131. 382 Ivi, p. 132. 383 Ivi, p. 134. 163 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee delle idee (filosofiche e politiche). Le origini della distinzione fra “True self” e “False self” potevano essere ricondotte – secondo Berlin – a Kant, uno dei maggiori esponenti del razionalismo illuminista tedesco, secondo il quale la libertà comportava anzitutto la capacità di ciascun individuo di resistere e controllare i propri desideri e quindi, in ultima analisi, la capacità di seguire la ragione.384 In Kant, la libertà costituiva la condizione per esercitare un comportamento pienamente morale e in ciò Berlin ravvedeva uno dei principi cardine dell’“umanesimo liberale” e uno dei motivi alla base della critica radicale che il Filosofo di Königsberg aveva condotto contro ogni forma di paternalismo, ossia contro ogni forma di autorità che ponesse sotto tutela la vita dei cittadini, e contro la quale lo stesso Berlin si era scagliato nel suo Political Ideas of the Twentieth Century.385 Tuttavia, nella idea che esistesse una connessione profonda, necessaria tra ragione e libertà, Berlin sembrava individuare una implicazione pericolosa proprio per il principio di libertà (negativa) e quindi per la libertà individuale.386 Nell’ottica di Berlin, il rapporto tra ragione e libertà, o meglio l’idea che si potesse essere liberi per mezzo e attraverso la ragione, sembrava essere stato declinato secondo due direzioni sostanzialmente monistiche, a loro volta strettamente intrecciate l’una all’altra, e che in questa sede tratteremo separatamente soprattutto per ragioni di sistematicità e chiarezza espositiva. Da un lato, c’erano stati pensatori che si erano principalmente posti il problema di come raggiungere l’autodeterminazione in termini politici e sociali attraverso la legge, dall’altro pensatori che avevano concettualmente collegato il principio della autodeterminazione alla comprensione della “necessità razionale” che, a loro giudizio, era sottesa a tutte le cose. In entrambi i casi, per Berlin, si perveniva ad una concezione di libertà che finiva per tradire il suo stesso significato.387 Al primo gruppo appartenevano autori, filosofi, pensatori storicamente distanti l’uno dall’altro, Spinoza, Locke, Rousseau, Fichte, T.H. Green e 384 Ivi, pp. 138 ss. 385 Ivi, p. 138; si veda Cap. IV, par. 2.4. del nostro volume. 386 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., pp. 146 ss. 387 Su questo specifico aspetto torneremo tra breve. 164 Cap. VI - Monismo e libertà positiva molti altri, accomunati però, secondo Berlin, dalla convinzione che l’ubbidienza a leggi razionali avrebbe reso l’uomo libero. Il pensatore inglese ricordava allora il padre della Ethica more geometrico demonstrata che parlava della costrizione quale forma di libertà, ogni qualvolta essa veniva esercitata nell’“interesse” di chi la subiva o Locke, secondo il quale “where there is no law there is no freedom”.388 L’esempio principale di questo filone di pensiero, per Berlin, era però Rousseau la cui fondamentale preoccupazione era stata individuare quella forma di organizzazione politica e sociale che permettesse agli uomini di rimanere liberi (autonomi), pur sottomettendosi alle leggi (ossia ad un principio eteronomo). La soluzione delineata dal Ginevrino era stata il Contratto sociale sulla base del quale le leggi cessavano di essere strumenti di oppressione, trasformandosi nella espressione della volontà generale.389 Berlin osservava così che “liberty, so far from being incombatible with authority, becomes virtually identical with it”.390 Se la legge era razionale, se si richiamava ai dettami della ragione, ubbidire ad essa significava essere veramente liberi.391 E questa stessa idea di libertà era, per Berlin, caratteristica del razionalismo illuminista e di tutte le “declarations of the rights of man in the eighteenth century, and of all those who look upon society as a design constructed according to rational laws of the wise lawgiver” o di qualsiasi altra entità e soggetto che rivendicasse per sé il monopolio della ragione.392 Berlin sembrava poi identificare un secondo gruppo di pensatori che, a suo giudizio, parlavano sì di ragione e libertà ma più precisamente in rapporto alla possibilità di individuare la “necessità razionale” insita nella realtà umana, sociale e politica. Fra questi, ancora una volta, Berlin identificava una certa parte degli illuministi, i quali, come peraltro aveva già affermato in Historical Inevitability, avevano proposto di estendere il prodigioso metodo scientifico allo studio della società, poiché la conoscenza razionale e 388 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 147. 389 Ivi, p. 148. 390 Ibidem 391 Ibidem. 392 Ibidem. 165 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee quindi oggettiva di quest’ultima avrebbe permesso di capire quali erano i veri fini dell’uomo, trasformando radicalmente il mondo e liberando l’uomo dal peso della ignoranza.393 Questo stesso principio, secondo Berlin, riemergeva nei pensatori del secolo successivo, i quali, pur nella loro originalità e peculiarità, sembravano condividere con i filosofi del secolo precedente la convinzione che la storia, la società umana seguissero particolari leggi e regolarità, e che la comprensione (razionale) di queste ultime potesse rendere gli uomini liberi, felici ed emancipati: Herder, Hegel, Marx – scriveva Berlin – substituted their own vitalistic models to social life for the older, mechanical ones, but believed, no less than their opponents, that to understand the world is to be freed. […] One must also understand history, that is, the peculiar laws of continuous growth, whether by «dialectical» conflict or otherwise, that govern individual and groups, in their interplay with each other.394 Nell’illuminismo così come nell’idealismo, nel materialismo scientifico e finanche nel positivismo ottocentesco, Berlin individuava non solo una Weltanschauung sostanzialmente deterministica ma anche la certezza che la comprensione razionale di ciò che esisteva era la condizione per essere liberi, poiché solo attraverso tale comprensione gli uomini avrebbero potuto riconoscere “their own part in the working of a rational world”, e quindi la direzione della storia e della umanità.395 A ben vedere, Berlin aveva affermato tutto questo non solo nel suo saggio sulla inevitabilità storica ma anche nel suo Karl Marx. His Life and Environment del ‘39. Nella Prolusione del ‘58 il filosofo di Treviri e il suo pensiero tornavano a rivestire un ruolo importante nel ragionamento di Berlin sul significato di libertà positiva. Alla base del materialismo storico c’era infatti, secondo Berlin, la convinzione che solo una corretta visione della reale natura delle istituzioni politiche ed economiche alle quali gli uomini erano soggetti in un particolare momento storico, ossia la corretta comprensione – che poteva essere raggiunta soltanto ad un certo “livello di sviluppo sociale” – di quanto tali istituzioni non fossero né oggettive, 393 Ivi, p. 142. 394 Ibidem. 395 Ibidem. 166 Cap. VI - Monismo e libertà positiva né universali, avrebbe avviato un processo di liberazione e trasformazione. Così Berlin sintetizzava il messaggio politico e rivoluzionario di Marx: we are enslaved by despots – institutions or beliefs or neuroses – which can be removed only by being analysed and understood. We are imprisoned by evil spirits which we have ourselves – albeit not consciously – created, and can exorcise them only by becoming conscious and acting appropriately: indeed, for Marx understanding is appropriate action. I am free, and only if, I plan my life in accordance with my own will.396 Il punto, per Berlin, era che in Marx, una volta compreso il senso delle cose, la direzione della storia, una volta raggiunta la comprensione delle leggi sottese alla realtà sociale ed economica, la volontà stessa si sarebbe inevitabilmente adeguata alle “necessities of things”.397 In tal senso, Berlin poteva osservare che in Marx “knowledge liberates not by offering us more open possibilities amongst which we can make our choice, but by preserving us from the frustration of attempting the impossible”.398 È C. Hatier a sottolineare come, per Berlin, la concezione filosofica e politica di Marx “is nothing but the assertion that there is an inherent logic of history, a telos in the Aristotelian sense that indicates the possibility of giving sense and meaning to the past and present, as well as predicting the future”.399 E questa considerazione può essere parimenti estesa al Marx del quale Berlin parlava nello studio monografico del ‘39, a quello di Historical Inevitability e infine, appunto a quello di Two Concepts of Liberty. In tutte e tre queste opere l’interpretazione critica del pensiero di Marx rappresenta, a nostro avviso, uno dei punti di contatto più profondi tra la riflessione di Berlin e quella di Voegelin sul monismo. In Marx Voegelin criticava i progetti di palingenesi totale, laddove Berlin sottolineava piuttosto la connessione, per lui del tutto perversa, fra necessità e libertà ma, al di là di 396 Ivi, pp. 143-144. 397 Ivi, p. 144. 398 Ibidem. 399 C. HATIER, op. cit., p. 770. Secondo lo studioso inglese l’interpretazione berliniana in chiave monistica di Marx avrebbe influenzato profondamente un altro celebre pensatore anti-marxista quale Tzvetan Todorov che in Facing the Extreme: Moral Life in Concentration Camps descriveva la concezione marxista del destino umano in termini di “iper-determinismo”. C. HATIER, op. cit., pp. 770-771. 167 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee queste distinzioni, entrambi pensavano di scorgere nell’opera del filosofo di Treviri la tendenza monistica a dare delle realtà una spiegazione univoca, assoluta, esaustiva, scientificamente comprovata, la tendenza a proporre e legittimare uno schema onniesplicativo. Al contempo, ci sembra che il Marx interpretato da Berlin finisse per assomigliare (e non poco) a Spinoza, che in effetti veniva evocato, in alcuni passi della Prolusione, come uno dei grandi esponenti di quella lunga progenie di pensatori che dall’antichità classica in poi avevano parlato della vera libertà quale comprensione della necessità razionale che regolava il mondo.400 Tuttavia, aspetto ben più importante, è osservare come la particolare lettura (molto simile a quella di Voegelin) che Berlin dava in queste pagine del filosofo di Treviri era funzionale a riflettere sul significato di libertà positiva in rapporto al problema del monismo. Il tipo di libertà alla quale si perveniva seguendo la via razionalista e deterministica era, per Berlin, quello della autodeterminazione, laddove con questo termine si finiva per indicare una condizione nella quale l’individuo era libero nella misura in cui comprendeva la necessità razionale delle cose, si conformava ad essa e quindi era perfettamente padrone di sé e autodeterminato, perché consapevole che non avrebbe mai potuto – razionalmente – volere ed essere altrimenti: To want necessary laws to be other than what they necessarly are – osservava Berlin commentando in realtà la visione filosofica deterministica alla quale egli riconduceva Marx – is to be insane […]. The notion of liberty contained in it is not the «negative» conception of the field (ideally) without obstacles […] but the notion of self-direction or self-control. I am a rational being; whatever I can demonstrate to myself as being necessary, as incapable of being otherwise in a rational society […]. I cannot, being rational, wish to sweep out of my way.401 In altri termini, che si parlasse della libertà come ubbidienza a leggi razionali e quindi giuste, che si parlasse della libertà come consapevolezza della necessità razionale delle cose, si continuava a far riferimento, secondo Berlin, a concezioni fondamentalmente monistiche perché basate sull’idea che la complessità, i conflitti, i dilemmi, i problemi della realtà umana, sociale, morale e politica potessero essere compresi attraverso una formu400 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., pp. 147 ss. 401 Ivi, p. 144. 168 Cap. VI - Monismo e libertà positiva la, uno schema, un modello oggettivo, universalmente valido e vero, che per tutti i problemi e i dilemmi ci fosse una unica soluzione corretta, che esistesse una unica risposta giusta ai problemi (lo scientismo illuminista, l’Idealismo di Hegel, le leggi del materialismo storico in Marx etc.), così come fosse possibile un unico grande, incommensurabile scopo verso il quale tendere (la creazione di una società razionale, la realizzazione dello Spirito nel mondo, la vittoria del proletariato etc.).402 Nella Prolusione del ‘58 la riflessione che Berlin sviluppava attorno al concetto positivo di libertà – indipendentemente dai limiti che tale riflessione aveva – non si inquadrava soltanto nel contesto della storia delle idee, ma aveva una forte connotazione teorico-politico nella misura in cui essa poneva la libertà positiva, in particolare il carattere monistico che Berlin vi ravvedeva, in rapporto con i regimi liberticidi e totalitari o, per usare le sue stesse parole, con le concezioni “nationalistic, communist, authoritarian and totalitarian” del passato e del presente.403 Muovendo infatti dal presupposto – per Berlin alla base della libertà positiva – che si potesse esser liberi, autodeterminarci attraverso la ragione, che cosa accadeva – si chiedeva il pensatore inglese – se un Partito, un Capo carismatico, un movimento politico pretendevano di limitare i diritti delle persone proprio in nome della ragione? Che cosa accadeva se quello stesso Partito, affermando di conoscere esattamente la direzione della storia, compiva azioni estreme, lesive della più elementare dignità umana? In altri termini, che cosa accadeva se quel “True Myself”, il cui riconoscimento, per Berlin, costituiva il fondamento stesso del concetto di libertà positiva, finiva per essere incarnato da una totalità, da un gruppo o da un Leader supremo che si assumevano il compito (ben gravoso) di imporre la ragione e quindi la libertà anche ai più recalcitranti e scettici? Queste erano, a nostro parere, alcune delle domande profonde che caratterizzavano i Two Concepts of Liberty: the real self may be conceived as something wider than the individual (as the term is normally understood), as a social «whole» of which the individual is an element or aspect: a tribe, a race, a church, a state, the great society of the living and the dead 402 Ivi, pp. 131-144. 403 Ivi, p. 181. 169 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee and the yet unborn. This entity is then identified as being the «true» self which, by imposing its collective, or «organic», single will upon its recalcitrant «members», achieves its own, and therefore their, «higher» freedom.404 In una simile prospettiva, l’uso della violenza e della costrizione nei confronti dei singoli individui finiva così per essere giustificato come mezzo necessario per portare alla luce la loro “latent rational will”, il loro “true purpose”, ossia quella parte di loro che, “although it is belied by all that they overtly feel and do and say, is their «real» self, of which their poor empirical self in space and time may know nothing or little”.405 Era sulla base di una simile convinzione che, per Berlin, la tortura, la oppressione, la tirannia, ogni forma di violenza non solo diventavano comprensibili ma, paradossalmente, anche giuste, perché strumenti per far trionfare in ciascun individuo il “True self”, il “Rational self” e, attraverso esso, rendere tutti veramente e completamente liberi, liberi nell’unico modo in cui essi potevano essere, ossia liberi attraverso l’autorità.406 Con questo ragionamento, così evocativo del mondo distopico immaginato da George Orwell in 1984,407 Berlin descriveva quella che, secondo lui, era la logica di ogni ideologia totalitaria. Una logica che egli sembrava ricondurre alla visione monistica insita, a suo giudizio, in un certo modo di intendere la libertà. Con ciò Berlin non voleva certamente affermare che la libertà in senso positivo portasse, se realizzata, al totalitarismo, bensì che il carattere monistico che essa possedeva era diventato storicamente funzionale a ideologie e regimi liberticidi. Un contenuto monistico che Berlin storico delle idee riconduceva – in maniera analoga a Voegelin – agli influssi dello scientismo illuminista, di quello positivista, e nello specifico a grandi protagonisti del pensiero filosofico dell’800, quali Hegel, Comte e Marx. 404 Ivi, p. 132. 405 Ivi, p. 133. 406 Ibidem. 407 Cfr. L.M. BASSANI-M. MINGARDI, Dalla Polis allo Stato. Introduzione alla storia del pensiero politico, Torino, Giappichelli editore, 2015, pp. 78 ss. 170 Cap. VI - Monismo e libertà positiva 6.2 Deinire il monismo attraverso il suo esatto opposto: il pluralismo in Two Concepts of Liberty In Two Concepts of Liberty, Berlin poneva la libertà positiva in collegamento con il problema dell’“autogoverno razionale” e quindi, in ultima analisi, con quella frattura tra “True and Empirical self”, le cui radici ideali venivano da lui individuate nell’opera di Kant. Per il pensatore inglese, l’implicazione monistica del concetto positivo di libertà consisteva proprio nella pretesa, per lui comune a tutte quelle teorie, dottrine, visioni che parlavano di libertà attraverso la ragione, di aver individuato l’unico modo corretto, universale, razionale e oggettivo di comprendere come essere liberi. In altri termini, sottesa alla libertà positiva era l’idea (monistica) che fosse possibile individuare la vera ed unica forma di libertà che, una volta realizzata, avrebbe permesso a tutti di vivere nella completa armonia. In tal senso, nella Prolusione del ‘58, Berlin non faceva altro che sviluppare ed esplicitare una riflessione che però veniva da molto lontano. Dai suoi esordi con Karl Marx. His Life and Environment a Historical Inevitability, da The Sense of Reality ai suoi studi sugli intellettuali russi, Berlin aveva cercato di (di)mostrare come la convinzione, per lui radicata profondamente nella mente umana,408 che si potesse alla fine giungere ad una armonia finale in grado di conciliare tutti i fini, tutte le idee, tutte le aspirazioni attraverso la realizzazione di un grande unico e veritiero principio, fosse infondata e foriera di esiti pericolosi. Infondata perché, a suo giudizio, essa contraddiceva il più elementare “senso della realtà” (e su tale concetto sarebbe tornato a scrivere anche in molte opere successive al 1958)409, pericolosa perché, in nome di un armonia finale, perfetta, definitiva si sarebbe potuto (e per lui, così come per Voegelin, era stato fatto) commettere qualsiasi tipo di azione, assumere qualsiasi tipo di scelta. Era nella parte finale di Two Concepts of Liberty che Berlin cercava di trovare una sintesi efficace a questa concatenazione di ragionamenti: 408 In particolare vedi I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., pp. 167 ss. 409 Si pensi, ad esempio, ad suo saggio Concept of Scientific History, di cui abbiamo parlato nel Cap. IV. 171 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee One belief, more than any other, is responsible for the slaughter of individuals on the altars of the great historical ideals – justice or progress or the happiness of future generations, or the sacred mission or emancipation of a nation or race or class, or even liberty itself, which demands the sacrifice of individuals for the freedom of society. This is the belief that somewhere, in the past or in the future, in the divine revelation or in the mind of an individual thinker, in the pronouncements of history or science, or in the simple heart of an uncorrupted good man, there is a final solution.410 In Two Concepts of Liberty, ciò che Berlin respingeva non era tanto l’idea positiva di libertà quanto una certa forma di mentalità monistica che egli pensava di scorgere in essa, ossia una certa tendenza al dogmatismo. In tutte le opere fin qui discusse la riflessione di Berlin sul monismo diventava quindi il pensiero critico (di un liberale moderatamente scettico ed empirista) su quelle idee, teorie, visioni, dottrine che avevano, a suo giudizio, alimentato il dogmatismo e quei sistemi e ideologie liberticide dietro i quali esso si celava. È alla luce di simili considerazioni che possiamo cogliere a pieno il senso delle seguenti parole: It is, I have no doubt, some such dogmatic certainty that has been responsible for the deep, serene, unshakeable conviction in the minds of some of the most merciless tyrants and persecutors in history that what they did was fully justifies by its purpose. I do not say that the ideal of self-perfection – whether for individual or nations or churches or classes – it is to be condemned in itself, or that the language which was used in its defense was in all cases the result of a confused or fraudolent use of words, or of a moral or intellectual perversity […]. But equally it seems to me that the belief that some single formula can in principle be found whereby all the diverse ends of men can be harmoniously realized is demonstrable false.411 A nostro avviso è nell’ultima parte del passo appena citato che Berlin lasciava dichiaratamente e apertamente l’ambito della storia delle idee per quello proprio della filosofia politica. Era da questa prospettiva che il pensatore ribadiva la sua personale avversione al monismo e, al contempo, tornava a definirlo abbracciando l’ideale ad esso opposto, ossia il pluralismo e in particolare il pluralismo dei valori che egli riconduceva al concetto negativo di libertà.412 410 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 167. 411 Ivi, pp. 168-169. 412 Ivi, pp. 169-171. 172 Cap. VI - Monismo e libertà positiva Nella storia delle idee Berlin aveva individuato quei principi, visioni, teorie che, a suo giudizio, erano presupposti dal concetto positivo di libertà. Ma, ancora più nel profondo, egli riteneva che quei principi, visioni e teorie fossero accomunati dalla convinzione monistica di poter individuare un unico criterio in base al quale comprendere la realtà, in base al quale trovare la soluzione finale alla complessità del mondo e conciliare i fini degli uomini in unico disegno perfetto. L’idea che si potesse giungere alla concezione corretta di libertà rispondendo alla questione “chi governa?”, la domanda capitale che, per Berlin, caratterizzava il concetto positivo di libertà e lo distingueva da quello negativo, rifletteva pienamente, ai suoi occhi, tale esigenza di perfezione e verità.413 Al contrario, se si partiva dal presupposto del tutto differente, ossia che gli “human goals are many, not all of them commensurable, and in perpetual rivarly with one another”, allora, secondo Berlin, era necessario riconoscere due conseguenze di grande rilievo: da un lato, si doveva per forza rinunciare ad interrogarsi su quale fosse il principio ultimo che da solo spiegasse la realtà e indicasse quale via percorrere per raggiungere la vera libertà, la vera felicità, la vera pace, la vera armonia; dall’altro – sul piano più propriamente politico – si doveva comprendere quali fossero le condizioni utili a garantire e salvaguardare l’esigenza, per Berlin, propria della natura umana, di “choose between ultimate values”.414 La principale fra tali condizioni, a suo parere, era porre limiti al potere, all’autorità dei governanti. Con ciò egli non voleva sostenere che la libertà individuale fosse l’unico “dominant criterion of social action”, che i principi come giustizia, felicità, sicurezza non avessero alcuna importanza, né tanto meno desiderava propugnare l’idea di una libertà illimitata.415 Egli affermava piuttosto che tra monismo e pluralismo, il secondo era da preferire perché esso, a suo giudizio, “with the measure of «negative» liberty that it entails, seems to me truer and more human ideal than the goals of those who seek in the great, disciplined, authoritarian structures the ideal of «positive» self- 413 Ivi, pp. 168 ss. 414 Ivi, p. 171. 415 Ivi, p. 169. 173 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee mastery by classes, or peoples, or the whole of mankind”.416 Nelle pagine finali di Two Concepts of Liberty, Berlin esplicitava quella che potremmo definire la premessa ideologica sulla quale, a nostro avviso, si basavano tutti i suoi scritti fin qui discussi, ossia la sua adesione, in un periodo storico caratterizzato dalla guerra fredda e dalla contrapposizione fra due modi opposti di concepire il significato di libertà e democrazia, al pluralismo dei valori e al concetto negativo di libertà.417 Sulla compatibilità tra pluralismo e liberalismo nell’opera di Berlin si è scritto molto e rimandiamo alla principale letteratura esistente a riguardo.418 In questa sede, vorremmo più semplicemente soffermarci sulla contrapposizione – innegabile – tra libertà positiva-monismo, da un lato, e libertà negativa-pluralismo dall’altro. Berlin non voleva – per sua stessa ammissione – prendere alcuna posizione contro l’idea positiva di libertà, eppure tra questa e quella negativa, egli parteggiava sostanzialmente per la seconda, per una libertà in senso liberale, proprio perché egli ravvedeva in essa una connotazione pluralistica.419 In maniera analoga ai pensatori classici della tradizione liberale europea 416 Ivi, p. 171. 417 Cfr. il commento di J. CHERNISS, Berlin’s Early Political Thought, cit., pp. 108 ss. 418 Oltre a C. CROWDER, Isaiah Berlin, cit., a J. GRAY, Isaiah Berlin, cit., e agli altri autori citati in precedenza, cfr. A. RYAN (edited by), The Idea of Freedom. Essays in Honor of Isaiah Berlin, Oxford, Oxford University Press, 1979; Q. SKINNER, The Idea of Negative Liberty, in R. RORTY – J.B. SCHNEEWIND – Q. SKINNER (edited by), Philosophy in History, Cambridge, Cambridge University Press, 1984; E. MACK, Isaiah Berlin and the Quest for Pluralism, “Public Affairs Quarterly”, 7 (1993), pp. 141-151; C.J. GALLIPEAU, op. cit.; W.J. GALSTON, Liberal Pluralism, Princeton, Princeton University Press, 2002; M. LILLA – R. DWORKIN – R. SILVERS (edited by), op. cit.; A. ZAKARAS, A Liberal Pluralism: Isaiah Berlin and J. S. Mill, “The Review of Politics”, 75 (2013), pp. 69-96. Per una panoramica sintetica ed efficace delle principali obiezioni mosse all’idea berliniana di libertà e di pluralismo cfr. I. HARRIS, op. cit., pp. 364-372. La maggioranza degli studi di carattere prettamente filosofico elaborati attorno al concetto berliniano di pluralismo sembra concorde nel ritenere che la connessione stabilita da Berlin, sin da Two Concepts of Liberty, fra liberalismo e pluralismo non sia davvero solida, perché sembrerebbe ‘aprire le porte’ al relativismo e allo scetticismo. Nella letteratura critica più recente la posizione di Zakaras sembra però offrire un punto di vista alternativo; egli infatti ritiene che tale collegamento sia di carattere essenzialmente “psicologico”, piuttosto che filosofico. A. ZAKARAS, op. cit., pp. 69-96. Si veda inoltre A. PLAW, Re-visiting Berlin. Why Two Liberties are Better Than One, “Journal of International Politics”, 1 (2005), pp. 138-157. 419 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., pp. 170-172. 174 Cap. VI - Monismo e libertà positiva – e altresì in maniera diversa da Voegelin – la questione filosofica, politica ed etica fondamentale per Berlin era la difesa della libertà individuale e quindi la difesa degli individui dagli abusi del potere, perché egli riteneva che proprio in questo modo essi avrebbero potuto sviluppare ciò che pensavano potesse essere “a fullfilled human life”.420 Ci pare che l’eco della lezione liberale di Mill fosse ben presente in queste (come in altre) pagine di Two Concepts of Liberty.421 Del resto, era lo stesso Berlin a richiamarsi esplicitamente alla idea, propugnata da Mill nel suo On Liberty, degli “experiments in living”, che comportava – in entrambi i pensatori inglesi – una concezione fallibilistica della natura e della vita umane, ossia la “permanent possibility of error”, il cui riconoscimento era, secondo Berlin, uno dei presupposti filosofici del pluralismo di fini e valori e quindi, per converso, della sua critica al monismo.422 Al contempo, l’adesione al pluralismo e al principio (milliano) degli “esperimenti di vita”, con il carico di errori, fallimenti e delusioni che questi potevano generare, significava, per Berlin, accettare la ineliminabilità dell’antagonismo e del contrasto tra le persone.423 A loro volta, sia il pluralismo dei fini e dei valori, sia il conflitto, quali aspetti caratteristici della vita sociale, politica, umana, presupponevano, nell’ottica di Berlin, il riconoscimento di un principio sostanziale che, a suo giudizio, le concezioni monistiche con la loro “sete” di perfezione e armonia non possedevano, anzi negavano in modo deciso, ossia la libertà individuale: To assume – scriveva Berlin – that all values can be graded on one scale, so that it is a mere matter of inspection to determine the highest, seems to me to falsify our knowledge that men are free agents, to represent moral decision as an operation which a slide-rule could, in principle, perform.424 420 Ivi, p. 170. 421 Abbiamo già sottolineato infatti all’inizio del Capitolo IV come l’idea berliniana di libertà negativa contenga non pochi riferimenti alla tradizione del pensiero liberale europeo, in particolare ad autori come Constant, Von Humboldt, Tocqueville e lo stesso Mill. 422 I. BERLIN, Two Concepts of Liberty, cit., p. 170. 423 Ibidem. 424 Ivi, p. 171. 175 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee E questo, a ben vedere, era stato il problema filosofico e inevitabilmente politico che accomunava tutti le opere berliniane fin qui esaminate. La letteratura ha a lungo dibattuto sul concetto berliniano di pluralismo dei fini e dei valori, considerato da molti il vero e principale lascito filosofico dell’opera del pensatore inglese.425 A noi preme invece sottolineare due aspetti in particolare: la Prolusione del ‘58, con la sua difesa del pluralismo, mostrava con forza quanto la riflessione di Berlin sul monismo si poggiasse su di un presupposto ideologico (e politico) ben preciso, alla luce del quale diventa ancor meglio comprensibile perché certi pensatori (quali, ad esempio, Marx) risultassero, in alcuni aspetti della loro opera, fondamentalmente distorti o fraintesi da parte di Berlin, ossia un presupposto di tipo liberale. Un liberalismo antidogmatico, pluralista, imbevuto di una buona dose di scetticismo, fallibilista, diffidente verso le costruzioni metafisiche e i principi eccessivamente generali.426 Una visione che egli condivideva con molti esponenti del Cold War Liberalism, ma che, a ben vedere, non era certamente nata con quest’ultimo e che anzi era ben più risalente: una visione, le cui radici affondavano nella storia del pensiero politico europeo del ‘700 e dell’800, in pensatori e intellettuali che Berlin stesso citava come propri punti di riferimento: Burke, Paine, Mill, Von Humboldt, Constant, Tocqueville, solo per fare alcuni nomi. Negli anni ‘50 Berlin aveva cercato di ricostruire le grandi genealogie di idee che, in particolare dal ‘600 fino al ‘900, avevano costituito e alimentato il monismo (filosofico, etico, conoscitivo, politico). Tuttavia, proprio quella indagine presupponeva l’adesione di Berlin ad una certa idealità politica in aperta opposizione ai sistemi totalitari e in particolare, per sua stessa ammissione, al mondo sovietico.427 Dalla prospettiva di storia del pensiero politico, la riflessione sulla natura e sulla genealogia del monismo da noi delineata diventava così la particolare risposta che da liberale anti-dogmatico Berlin dava negli anni ‘50 alle ideologie liberticide del suo secolo. Al contempo, proprio nella sua idealità liberale è facilmente ravvisabile un elemento importante di divergenza da Voegelin. Il problema filosofico e politico principale per Berlin 425 Cfr. C. CROWDER, Isaiah Berlin, cit. e la letteratura indicata nella nota precedente n. 418. 426 J. CHERNISS, Berlin’s Early Political Thought, cit., p. 108. 427 Cfr. l’Incipit di Two Concepts of Liberty, cit., pp. 118-121. 176 Cap. VI - Monismo e libertà positiva era la libertà e, al contempo, comprendere quei grandi complessi di idee che nella storia avevano rigettato sia il principio della libertà individuale, sia il principio di responsabilità individuale e, in ultima analisi, il pluralismo di fini e valori. Negli scritti berliniani degli anni ‘50 la storia delle idee diventava infatti un mezzo per “fare” filosofia e pensiero politico e mettere così in evidenza come alla base del totalitarismo ci fosse quella “volontà di domino totale”, profondamente monistica, di cui però anche Voegelin parlava nei suoi studi. Più precisamente, a questa “volontà di dominio totale”, Voegelin rispondeva da scienziato della politica che cercava di dare un nuovo “ispessimento” filosofico al suo percorso di storia delle idee con The New Science of Politics, in cui esponeva la sua teoria della rappresentanza, laddove Berlin rispondeva con la sua teoria dei due concetti di libertà e, in stretto rapporto a ciò, con la sua difesa del pluralismo in contrapposizione al monismo. Il primo reagiva sul piano filosofico e teorico-politico alla esperienza del totalitarismo valorizzando il rapporto tra politica ed “elemento trascendente”, il secondo, schierandosi a favore della libertà individuale e della “freedom of choice”. Il punto è che, a nostro giudizio, entrambi questi aspetti non sarebbero pienamente comprensibili se prescindessimo dalle loro histories of ideas. 177 Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe" CAPITOLO VII ERIC VOEGELIN E ISAIAH BERLIN: IL “RICCIO” E LA “VOLPE” 7.1 La complessità di una comparazione Si è soliti dire che definire comporti inevitabilmente delimitare. Nel nostro caso allora dovremmo riconoscere che cercare di definire Eric Voegelin e Isaiah Berlin quali storici delle idee comporti inevitabilmente tracciare tra di loro una linea di confine, che ci consenta di cogliere (delimitandole) le loro specifiche identità di storici delle idee. Se guardiamo con attenzione entrambi è innegabile – come la stessa letteratura ha sottolineato e come abbiamo ricordato nelle nostre Considerazioni introduttive – che esista una linea di confine (delimitazione) tra i due, tra le loro opere, le loro sensibilità. Cominciamo quindi da una sintesi ragionata delle differenze che intercorrono tra i due pensatori. Ad uno sguardo d’insieme, Voegelin e Berlin – nel lasso di tempo da noi preso in esame, ossia tra la metà degli anni ‘30 e la fine degli anni ‘50 – si confrontano (insieme a molti altri intellettuali) con il problema del totalitarismo, ma avendo obiettivi e muovendo da presupposti intellettuali spesso molto diversi. Da un lato Voegelin, che cerca innanzitutto di rifondare la scienza politica per renderla nuovamente credibile e dissociarla in maniera decisa e definitiva da una serie di ‘scorie’ intellettuali che, a suo giudizio, hanno finito per renderla, nel passato, ‘ancella’ di un potere liberticida; dall’altro Berlin, che non solo non ha nessun interesse per la political science, ma che non ha nessuna pretesa, né desiderio di rifondare o ripensare alcunché, tanto meno un ambito disciplinare e scientifico così complesso e articolato. Come emerge dalla prima parte del nostro lavoro, sia l’ambizione di ricostituire una scienza politica che sappia recuperare il rapporto tra fondamento dell’esistenza e ordine politico, sia la riflessione critica verso le derive totalitarie e liberticide di una certa modernità paiono rimandare ad un Voegelin che cerca, a modo suo, regole e punti fermi capaci di guidare 179 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee (invece di relativizzare) le questioni ultime: una ricerca che, a ben vedere, è sostanzialmente estranea a Berlin. C’è indubbiamente nell’opera di Voegelin un bisogno di individuare dei punti fermi, sebbene non di certezze assolute e granitiche nel senso monistico del termine, che non compare in quella di Berlin. In stretto rapporto a ciò, attraverso la nostra analisi, è emerso come il problema della modernità, in senso lato, e, nello specifico, il problema di ripensare la modernità nella cultura occidentale siano di grande rilevanza per Voegelin, soprattutto tra la fine degli anni ‘40 e i primi anni ‘50, mentre sono pressoché assenti in Berlin che, negli scritti qui presi in considerazione, non sviluppa, a nostro avviso, alcun ragionamento su questo tema. L’idea voegeliniana di una modernità che ha perso, o per meglio dire rimosso, il “trascendente” a favore di un’“immanentizzazione del Divino” (con esiti, per Voegelin, del tutto catastrofici), che ha cancellato il “metafisico” è qualcosa di profondamente estraneo non solo all’orizzonte concettuale e intellettuale di Berlin, ma alla sua stessa sensibilità. Come è stato spiegato nella prima parte del nostro lavoro, Voegelin si interroga a lungo (forse potremmo dire per tutta la vita) su quel processo di rimozione del “Divino”, del “trascendente” e del “metafisico” dalla vita umana. Una rimozione la cui responsabilità dovrebbe essere individuata, a suo giudizio, nello scientismo illuminista e positivista, nello gnosticismo: a queste temperie culturali e alla loro influenza di lungo periodo egli attribuisce l’affermarsi di un’idea per lui estremamente perniciosa, perché poi messa in atto da movimenti e partiti politici: l’idea che la mente umana e il metodo scientifico possano disvelare, spiegare, comprendere e quindi permettere di controllare tutto, che l’uomo sia in grado di realizzare qui ed ora la perfezione e l’armonia, facendosi egli stesso super-uomo e finendo per sostituirsi a Dio: “l’ideologia positivista-scientista si salda all’idea escatologica di un’apocalisse umana intramondana”. In opere quali The New Science of Politics Voegelin pone poi queste correnti di pensiero in diretto rapporto allo sviluppo del cosiddetto gnosticismo moderno la cui principale “colpa” è proprio di portare alle estreme conseguenze quel processo di “immanentizzazione del Divino”, tutto teso a esaltare “il potere assoluto della forza creatrice dell’uomo”. A ben vedere, l’“immanentizzazione del trascendente” – per Vogelin caratteristica dei regimi totalitari del XX secolo e, in senso lato, della mo180 Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe" dernità – è uno degli “effetti” di lungo periodo più perversi – e che egli esamina con gli strumenti concettuali dello storico delle idee – scaturiti da quel monismo epistemologico e filosofico insito (come per Berlin) in una parte della grande tradizione culturale europea e occidentale. Qui, a nostro avviso, è possibile cogliere a pieno la ‘vicinanza’ e al contempo la ‘distanza’ intellettuale tra Voegelin e Berlin impegnati egualmente a misurarsi con il problema della genesi del totalitarismo. Nelle vesti di storici delle idee, i due pensatori individuano nello scientismo una delle radici intellettuali del totalitarismo ed entrambi ravvedono in esso un carattere monistico, nella accezione berliniana del termine. Nello specifico, sia nello scientismo di matrice illuminista, sia in quello più propriamente positivista Voegelin e Berlin credeno di vedere la volontà (e la fiducia) di trovare una formula, un principio onniesplicativo attraverso cui comprendere la realtà nei suoi molteplici aspetti e poterla dominare. Tuttavia, la critica di Voegelin all’illuminismo appare ben più netta e radicale di quella berliniana che – non dimentichiamolo mai – non è anti-illuminista tout court bensì critico verso quella che egli considera una “deriva” compiuta da una certa parte del Secolo dei Lumi.428 Consapevoli di questa rilevante differenza tra i due, ci preme sottolineare come la critica del pensatore tedesco al carattere monistico di alcune concezioni epistemiche e filosofiche del ‘700 e dell’800 assuma una forma non del tutto coincidente con quella del pensatore inglese: per Voegelin tale carattere rimanda inevitabilmente, come abbiamo osservato nella prima parte del nostro studio, alla negazione da parte dell’uomo di tutto ciò che è “metafisico” e “trascendente”, laddove in Berlin esso si collega più direttamente alla negazione del pluralismo (così come questo viene definito in Two Concepts of Liberty) e di ogni forma di libertà e responsabilità individuali. Relativamente alle considerazioni appena espresse, possiamo quindi cogliere con una certa chiarezza come nel caso di Berlin la riflessione sulle radici intellettuali del totalitarismo abbia una implicazione di tipo liberale, di un liberalismo riconducibile per molti aspetti al Cold War Liberalism e per altri alla tradizione del liberalismo classico. In tal senso, proprio i vari e interessanti elementi di diversità, che si 428 Su questo aspetto rimando alla importante precisazione contenuta in M. IGNATIEFF, op. cit., p. 218. 181 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee sono ‘dipanati’ sotto i nostri occhi, acquisiscono, a nostro giudizio, un rilievo particolarmente forte sul piano del pensiero politico se prendiamo in esame il problema della rappresentanza in Voegelin e quello della libertà (in senso positivo e negativo) in Berlin. In The New Science of Politics, il pensatore tedesco affronta il problema della rappresentanza in rapporto alla tenuta dei sistemi liberal-democratici che non hanno saputo far fronte all’ascesa del totalitarismo e che, anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, appaiono ai suoi occhi tutt’altro che solidi. Egli identifica così tre tipologie di rappresentanza e invita ad “allargare” la “rappresentanza elementare ed esistenziale” a quella più propriamente “trascendente”, ossia a quel tipo di rappresentanza che, a suo giudizio, sola e soltanto rimanda ad una conoscenza dell’uomo nella sua complessità, ad una apertura verso la trascendenza, e che rifiuta l’idea di poter individuare un singolo criterio in grado di spiegare l’intera realtà umana. È nel quadro di una simile riflessione che Voegelin pensa alla creazione di una società antitetica a quella monistico-totalitaria, ossia pensa ad una società “pluralistica”. Di pluralismo parla anche Berlin nel 1958, ma in termini ben diversi da quelli di Voegelin. Prima di tutto, il concetto di pluralismo in Voegelin è sostanzialmente collegato alla questione della/e rappresentanza/e, laddove in Berlin alla distinzione tra libertà positiva e libertà negativa. Inoltre, in The New Science of Politics Voegelin parla della debolezza dei sistemi liberal-democratici post-bellici, che egli identifica proprio con la difficoltà a recuperare il rapporto tra “immanenza e trascendenza”, mentre Berlin in Two Concepts of Liberty tesse – e, in tal senso, emerge la sua vicinanza ai Cold War Liberals – una difesa di quella che potremmo definire una concezione prima di tutto anche se non esclusivamente liberale della libertà, prendendo una posizione dichiaratamente anti-stalinista e anti-sovietica. Tra gli anni ‘40 e ‘50 è nel regime sovietico che Berlin vede la realizzazione piena della logica e della visione monistico-totalitaria dopo la fine della Seconda guerra mondiale. È la Russia sovietica ad essere il suo bersaglio polemico principale, sebbene – come abbiamo osservato – egli abbia un atteggiamento tutt’altro che accomodante e accondiscendente verso le democrazie liberal-occidentali e le loro (per lui) pericolose inclinazioni paternalistiche e tecnocratiche. Ora, tenendo presente queste ultime considerazioni, Voegelin e Berlin 182 Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe" sembrano prendere, rispettivamente, le sembianze del “riccio” e della “volpe”. Laddove il primo elabora una vera e propria dottrina della rappresentanza che, a sua volta, non sarebbe pienamente comprensibile se non facessimo riferimento al suo impegno per una ri-fondazione della scienza politica, il secondo, che invece rimane ‘ancorato’ ad un certo modo di interpretare il ‘mestiere’ di storico delle idee, è piuttosto interessato a individuare le origini intellettuali della libertà positiva e negativa. È indubbio che Voegelin (in maniera analoga a Berlin) non pretenda di indicare i “principi di un ordine politico nuovo”, eppure egli sembra voler tracciare una via attraverso la quale irrobustire i sistemi liberal-democratici ricostituiti dopo il crollo dei regimi totalitari, rendendoli all’altezza delle sfide del loro tempo. Berlin pare piuttosto interessato a raccontarci (e usiamo questo termine in maniera deliberata) quale tipo di libertà si adatta di più, secondo lui, ad una vita umana degna di questo nome, poiché fondata sul rispetto delle libertà individuali, del pluralismo dei valori e dell’idea che si possano compiere scelte anche sbagliate. È certo che entrambi siano due intellettuali anti-dogmatici: del resto, in questa sede, abbiamo deciso di sviluppare una riflessione su Voegelin e Berlin storici delle idee profondamente critici verso quelle concezioni e correnti di pensiero (monistiche) che, a loro giudizio, hanno ‘nutrito’ i totalitarismi proprio perché, tra le tante ragioni, profondamente dogmatiche. Tuttavia, il loro anti-dogmatismo è di segno abbastanza diverso: Voegelin è anti-dogmatico pur cercando e credendo nella possibilità di individuare qualche forma di verità e certezza. Osserva correttamente a riguardo Jan Werner Müller: Voegelin’s quest for certainty is in many way intertwined with the post-war liberalism firmly relying on some form of transcendence, «objective reason», natural law or other forms of certainty – the very opposite, in short, of liberalism concerned with interminable conflict, uncertainty, value pluralism.429 429 J.W. MÜLLER, Fear and Freedom cit., p. 31. Proprio nelle sue Foundations of Democracy, Kelsen finiva per porre il pensiero di Voegelin e in particolare la teoria della rappresentanza trascendente in diretto rapporto con quello dei grandi teorici del neogiusnaturalismo cristiano come Maritain, Brunner e Niebuhur, bersagli delle accese critiche di Kelsen, convinto sostenitore, invece, di una fondazione laica, positivistica e relativistica della democrazia. Nel concetto voegeliniano di rappresentanza infatti Kelsen vedeva lo stesso bisogno di assoluto 183 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee Berlin non manifesta mai questo tipo di esigenza. Da tutte le sue opere qui prese in esame emerge, invece, in tutta la sua chiarezza e forza, la vena, per alcuni aspetti, un po’ scettica del pensatore inglese. Ad uno sguardo di insieme, sia Voegelin, sia Berlin sono favorevoli al principio di libertà così come esprimono una sostanziale simpatia verso le istituzioni liberal-democratiche anche se, nel caso del pensatore tedesco, tale adesione è molto più problematica rispetto a quella berliniana e non presuppone alcuna esaltazione della libertà individuale che, invece, riveste un ruolo di primo piano nell’opera dello storico delle idee inglese. Se poi passiamo dal piano dei contenuti a quello della forma, ci accorgiamo inoltre che le differenze tra il “riccio” Voegelin e la “volpe” Berlin sono altrettanto rimarchevoli: Voegelin ha uno stile classicamente accademico; le sue opere hanno rimandi testuali, apparati bibliografici che permettono, come abbiamo cercato di sottolineare nella prima parte del nostro lavoro, di rintracciare e ricostruire i suoi punti di riferimento intellettuali principali. Del resto, sarebbe sufficiente ricordare che la sua poderosa History of Political Ideas viene inizialmente concepita come un “college textbook” capace di “rivaleggiare” con il celebre manuale di G. Sabine. Berlin si colloca su una posizione diametralmente opposta: anzitutto, come abbiamo già avuto modo di osservare, coloro che vogliano comprendere l’esatto percorso genealogico del pensiero di Berlin quale storico delle idee e filosofo politico attraverso i rimandi e richiami espliciti da parte di quest’ultimo nei confronti di determinati autori e figure – come, invece, possiamo fare per il “riccio” Voegelin – andrebbe incontro ad una cocente delusione. Dagli scritti berliniani qui discussi possiamo evincere, con una certa sicurezza, l’influenza (per usare un termine ed una categoria cara agli storici delle idee) che su di lui è stata esercitata dal magistero dei grandi pensatori liberali europei, Burke, Von Humboldt, Tocqueville, Mill, e possiamo anche concordare con chi, come B. Yack, lo ha accusato di aver distorto (e travisato) in senso monistico alcuni dei grandi rappresentanti della tradizione illuminista, ma certamente non riusciremo a rintracciare con precisione matematica le sue fonti (o soltanto una parte di esse).430 Semplicemente, i che egli attribuiva ai neogiusnaturalisti. H. KELSEN, Foundations of Democracy, “Ethics”, LXVI (1955), pp. 1 ss. 430 B. YACK, The Significance of Isaiah Berlin’s Counter-Enlightenment, “European Journal 184 Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe" suoi saggi non sono ricchi di note nè di riferimenti bibliografici. Questo aspetto ha probabilmente contribuito ad alimentare la critica che gli è stata rivolta, ossia di non essere mai stato realmente interessato ad analizzare in modo approfondito le opere di un certo autore o lo sviluppo di una certa concezione filosofica, quanto a riflettere e proiettare su determinati pensatori le sue convinzioni e la sua idealità.431 A ulteriore testimonianza della distanza di forma tra il “riccio” Voegelin e la “volpe” Berlin, ricordiamo inoltre che, con l’eccezione del suo studio su Karl Marx. His Life and His Environment, il pensatore inglese non ha mai prodotto una ricerca di tipo tradizionalmente monografico.432 Il suo stile argomentativo e di scrittura preferito e prevalente è quella del saggio e, in alcuni casi, quello delle lettere personali: basti ricordare i monumentali volumi pubblicati in tutti questi anni che raccolgono l’ampio e variegato carteggio berliniano.433 L’“essay”, piuttosto che la monografia, permetterebbe a Berlin, secondo J. Ferrell, di esprimere nel migliore dei modi la sua attitudine intellettuale, quella che a noi piace definire la sua anima da “volpe”, l’attitudine di chi si cimenta con più argomenti, che vuole porre questioni, interrogativi, stimoli, piuttosto che giungere a formulazioni conclusive, che cerca di guardare ad un concetto cogliendone molteplici sfaccettature che, al contempo, cerca anche di rendere la propria riflessione accessibile ad un pubblico più ampio.434 Dovremmo allora dedurre che Voegelin e Berlin percorrano due traiettorie intellettuali completamente disgiunte per non dire antitetiche? Come of Political Theory”, 12 (2013), pp. 49-55. 431 M. LILLA, op. cit., pp. 36 ss. 432 Berlin avrebbe voluto elaborare uno studio sistematicamente monografico sul Romanticismo in una prospettiva di storia delle idee ma non riuscì mai a tradurre in pratica le sue intenzioni. Il suo famoso e più volte edito The Roots of Romanticism non è infatti altro – come molte altre opere di Berlin – che la raccolta delle lezioni (The Mellon Lectures) da lui tenute a Washington nel 1965. I. BERLIN, The Roots of Romanticism, Princeton, Princeton University Press, 2001. 433 I. BERLIN, Flourishing, cit.; ID., Enlightening, cit.; ID., Building. Letters (1960-1975), edited by H. Hardy and M. Pottle, London, Vintage Publishing, 2016. 434 J. FERRELL, Isaiah Berlin as Essayst cit., pp. 8 ss. Nel suo saggio, Ferrell sottolinea come le frequenti critiche mosse a Berlin di non essere riuscito a sviluppare una giustificazione davvero convincente e solida (“inconsistent”) della sua concezione di monismo e del rapporto tra pluralismo e liberalismo non sembrano tenere in debita considerazione l’impatto che, proprio in termini concettuali e argomentativi, la scelta stessa dell’“essay” ha molto probabilmente avuto sul pensatore inglese. 185 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee abbiamo anticipato nella nostra Introduzione e abbiamo cercato di mostrare nel corso della nostra analisi, siamo invece convinte che il “riccio” e la “volpe” finiscano per ‘incontrarsi’ e comunicarci qualcosa di interessante, al di là di quelle linee di divisione e separazione alle quali abbiamo fatto riferimento precedentemente, sul dibattito teorico-politico che si sviluppa in Europa e America nel periodo post-bellico attorno alle radici intellettuali profonde del totalitarismo. 7.2 Contro il monismo: punti di contatto tra Eric Voegelin e Isaiah Berlin Che cosa troviamo quando attraversiamo idealmente (e in fondo è proprio quello che abbiamo cercato di fare con il nostro lavoro) la linea di demarcazione e di ‘confine’ – che pure esiste – tra Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee? In questo ultimo paragrafo vorremmo proporre una sorta di sintesi ragionata di tutta una serie di elementi e considerazioni che sono emersi dalla nostra analisi. In un suo saggio, Contemporary Political Philosophy as an AntiEnlightenment Project, D. Rasmussen offre una ricostruzione sintetica e chiara di quella che egli definisce la reazione e la dichiarata “hostility” che una parte considerevole del pensiero filosofico europeo contemporaneo avrebbe dimostrato sempre più nei confronti dell’illuminismo a partire dalla prima metà del ‘900. Egli comincia con menzionare il monumentale Dialectic of the Enlightenment di Horkheimer e Adorno, nel quale il fascismo è considerato, per molti aspetti, il “prodotto” della cultura illuministica, per giungere poi ai Cold War Liberals, quali Aron, Popper, Talmon e lo stesso Berlin, che invece all’illuminismo sembrano attribuire la colpa di aver preparato il ‘terreno’ al bolscevismo e al comunismo sovietico.435 Del pensatore inglese, Rasmussen afferma che: according to Berlin, the Enlightenment was «monist», meaning that its proponents believed that the world and everything in it forms a systematic, coherent whole and 435 D.C. RASMUSSEN, op. cit., pp. 1-3. Cfr. J. SVENUNGSSON, After Utopia. On the Postwar Debate on History and Ideology, “Storiografia”, 18 (2014), pp. 209-216. 186 Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe" is subject to a set of universal and eternal laws that are knowable by human beings.436 In questo affresco, emerge anche la figura di Voegelin, la cui critica contro la temperie illuminista viene così sintetizzata: [he] blamed the philosophes for focusing on the profane and rational rather than the sacred and the mysterious, thereby dissolving the transcendental glue that held Western civilization together.437 Secondo tale prospettiva, Berlin e Voegelin apparterrebbero ad un medesima quanto variegata corrente culturale che nella metà del XX secolo si è scagliata contro un comune bersaglio polemico, l’illuminismo e le sue “responsabilità” di lungo periodo, ma che, al suo interno, si caratterizza per la presenza di intellettuali che, a ben vedere, hanno ben poco in comune gli uni con gli altri: dai marxisti Adorno e Horkheimer ai liberali come Berlin e Talmon fino ai “conservative and Christian” quali Voegelin.438 Se volessimo continuare nella metafora berliniana del “riccio” e della “volpe” potremmo allora affermare che il “riccio” Voegelin e la “volpe” Berlin vivono e si muovono nello stesso spazio senza però mai incontrarsi. E, invece, sulla base della nostra analisi, siamo convinte proprio del contrario. Intanto, sia Voegelin, sia Berlin, pur con le debite peculiarità che abbiamo sottolineato, operano una scelta (di metodo e di contenuto) comune e ben precisa: si occupano di storia delle idee perché entrambi pensano che le idee (politiche, religiose, filosofiche etc.) abbiano un peso estremamente rilevante. Quello che nella prima parte del nostro lavoro viene affermato relativamente a Voegelin, ossia che “nella prospettiva voegeliniana studiare le idee significa obbligatoriamente allargare lo sguardo sulla storia e tenere presente che le idee stesse sono legate all’uomo: le idee non solo appartengono alla realtà socio-politica, ma sono prima di tutto fenomeni umani, connesse all’ambito delle esperienze umane” ci sembra valere, in larga misura, anche per Berlin. Entrambi dimostrano infatti una chiara sensibilità verso l’intreccio uomini-idee. Del resto, nel 1961, Berlin scrive – in una sorta di continua polemica a distanza con la scuola del positivismo logico di 436 D.C. RASMUSSEN, op. cit., p. 3. 437 Ivi, p. 5. 438 Ibidem. 187 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee Ayer – che “no abstract or analytical point exists out of all connection with historical thought, that every thought belongs, not just somewhere, but to someone, and this at home in a context which is not purely prescribed”.439 È indubbio che nella elaborazione e maturazione di questo particolare approccio al significato della storia delle idee i due pensatori si siano ispirati (dichiaratamente Voegelin, non del tutto dichiaratamente Berlin) a figure e opere differenti: per comprendere, ad esempio, la storia delle idee secondo Voegelin è essenziale far riferimento alla rivoluzione metodologica operata nel tardo ‘800 da Wilhelm Dilthey, così come alle ricerche condotte da intellettuali quali Max Scheler, Helmut Plessner o Georg Misch, laddove, a nostro giudizio, quella berliniana ha un debito non indifferente nei confronti delle intuizioni e della sensibilità di Robert G. Collingwood. Tuttavia, sia il “riccio” Voegelin sia la “volpe” Berlin non solo rivendicano il legame idee-uomini ma, con altrettanta forza, anche quello tra idee e storia, o meglio tra idee e contesto storico. Per Voegelin è centrale “il contesto in cui le idee stesse si sviluppano, comprendendone la funzione e la transizione da un complesso di idee ad un altro. Dunque, nella versione voegeliniana, la storia delle idee si pone al di fuori di qualsiasi impostazione idealistica, la quale asserisce l’assoluta indipendenza delle idee stesse dai contesti nei quali vengono generate, perché le idee non si possono considerare svincolate dalla storia e dalla loro storicità”. A ben vedere possiamo estendere questo ragionamento allo stesso Berlin, secondo il quale “non si può parlare di idee nella più pura astrazione, senza riferirsi alla storia”.440 Certamente, se avviciniamo la “lente di ingrandimento” noteremo che il modo attraverso il quale Voegelin fa storia delle idee non è identico a quello di Berlin, così come appaiono diverse le loro scelte e strategie stilistiche e argomentative. Ciò nonostante, ad uno sguardo di insieme, il “riccio” Voegelin e la “volpe” Berlin appaiono più vicini di quanto non si possa credere: entrambi sottolineano l’importanza e il “peso” delle condizioni storiche pur affermando, con modalità proprie e originali, che lo studio e la comprensione delle idee non può essere ridotto unilateralmente allo studio e all’analisi del contesto, 439 I. BERLIN, The Concept of Scientific History, cit., p. XII. 440 I. BERLIN, In Libertà, cit., p. 63. 188 Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe" come se – per citare Berlin – esse “non avessero alcun senso al di fuori di esso”.441 In stretto rapporto a questo primo importante elemento di affinità tra il “riccio” Voegelin e la “volpe” Berlin si colloca, a nostro giudizio, la critica che entrambi muovono ad un certo modo di intendere la scienza e in particolare alla fiducia di poter usare il metodo conoscitivo tipico della scienza per comprendere la società, la politica, la storia. È opportuno altresì ricordare che Voegelin attacca l’uso, per lui del tutto acritico e improprio, che la scienza politica ha fatto della metodologia tipica delle scienze esatte, laddove Berlin muove una critica analoga agli studi di carattere più propriamente storico. Tuttavia, pur tenendo presente i diversi contesti storico-culturali nei quali i due attaccano la presunta universale applicabilità del metodo scientifico, sia Voegelin sia Berlin, in un lungo lasso di tempo che va dagli anni ‘30 alla fine degli anni ‘50, difendono e argomentano due concetti fondamentali: 1. il sapere scientifico segue regole di indagine e obiettivi conoscitivi profondamente e radicalmente diversi da quelli che caratterizzano la scienza politica (nel caso di Voegelin) e il sapere storico (nel caso di Berlin); 2. la storia delle idee riguarda il mondo degli uomini e quindi non può in alcun modo adottare un metodo di indagine scientifico-naturalistico. Insomma, entrambi mettono in guardia dalla tentazione di pensare che il metodo conoscitivo tipico delle scienze esatte, con la sua ambizione di trovare una spiegazione univoca, oggettiva e universale ai fenomeni naturali, possa essere applicato a saperi che riguardano la realtà umana, sociale, politica, etica etc. Se ci fermassimo a questo aspetto, per noi rilevante, non saremmo però ancora giunte al nocciolo del problema: la produzione intellettuale di Voegelin e quella di Berlin che abbiamo preso in esame non solo sembrano basarsi su di un certo modo (molto critico) di intendere la applicabilità del metodo scientifico e il significato della storia delle idee ma, ancor più in profondità, sembrano condividere un’altra importante convinzione. Nonostante tutte le differenze che intercorrono tra loro e che abbiamo cercato di evidenziare, per entrambi i pensatori tentare di trasformare lo studio della realtà storica, politica, etica, umana (nel senso lato del termine) in un sapere uniformato alle regole e ai canoni interpretativi delle 441 Ibidem. 189 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee scienze naturali ed esatte sia non solo scorretto sul piano epistemologico, ma soprattutto molto pericoloso sul piano filosofico e politico. Ogni qual volta infatti decidiamo di percorrere questa strada cadiamo, sia per Voegelin, sia per Berlin, nella ‘trappola’ del monismo epistemologico, filosofico e politico: per i due pensatori la comprensione delle radici intellettuali profonde del totalitarismo e, in particolare, di quella Weltanschauung monistica ad esso sottesa presuppone la consapevolezza di quanto distorta (per loro) sia la visione della realtà umana che otteniamo se cerchiamo di utilizzare acriticamente il metodo conoscitivo di tipo scientifico quale unico metodo di indagine corretto e universalmente applicabile. Le scienze naturali, secondo Voegelin e Berlin, sono orientate a scoprire le leggi sottese al mondo naturale, leggi che sono tali perché uniformi, valide universalmente, oggettive, razionalmente e sperimentalmente dimostrabili, capaci, ad esempio, di spiegare e rendere intellegibile la complessità dei fenomeni fisici attraverso la sintesi operata da una formula matematica. Sia Voegelin, sia Berlin rifiutano l’idea che – esattamente come nella scienza – anche in altri ambiti del sapere e quindi anche nello studio della realtà politica, storica, sociale sia possibile individuare, con la precisione dell’entomologo o del fisico, leggi, formule o principi che possano permetterci di comprendere il senso di tutto ciò che esiste: dove gli uomini stanno andando e dove andranno, che rendano intellegibile la realtà umana nelle sue numerose sfaccettature e che quindi consentano anche di controllarla. È proprio nella convinzione di potere comprendere l’essenza ultima della realtà umana (sociale, politica, etica) e quindi di poter esercitare su di essa lo stesso tipo di controllo che siamo in grado di operare sul mondo inanimato studiato, ad esempio, nelle scienze naturali, che i due pensatori individuano uno dei caratteri portanti di quella visione monistica per loro caratteristica del totalitarismo: per entrambi, comprendere tutto significa controllare tutto, ossia significa ‘ridurre’ – prima sul piano epistemologico e filosofico, poi su quello più propriamente politico – la realtà umana, sociale, politica ad un insieme di “cose”, di “oggetti” manipolabili e modificabili: nel caso specifico e concreto di un regime liberticida e totalitario le “cose” sono gli esseri umani, ossia le persone nelle mani del supremo manipolatore, del Leader o del Partito o di qualsiasi altro Soggetto che, per dirla con il Berlin di Two Concepts of Liberty, sa esattamente e oggettivamente ciò che è giusto 190 Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe" e ciò che è sbagliato e proprio in base a ciò può “costringere” gli individui più ribelli, riottosi e recalcitranti “ad essere liberi”. Contro un certo modo di intendere e di utilizzare il metodo scientifico e quindi contro un certo modo di leggere la realtà attraverso esso e le sue categorie, Voegelin e Berlin abbracciano invece la storia delle idee: è indubbio che in Voegelin tale disciplina sia funzionale ad una rifondazione della scienza politica e sia perciò una tappa, in ogni caso significativa, della sua elaborazione teorica, che mira a rendere nuovamente feconda la scienza politica stessa e a porre nuovamente al centro di essa l’uomo; mentre in Berlin questo tipo di obiettivo è del tutto assente. Tuttavia, entrambi ritengono che proprio attraverso la storia delle idee sia possibile individuare il ‘terreno’ ideale dal quale ha preso forma il totalitarismo. Lungo questa linea di ragionamento, diventa quindi per noi molto rilevante soffermarci proprio su quelle idee, concezioni e pensatori che, secondo Voegelin e secondo Berlin, hanno alimentato una Weltanschauung monistica sia sul piano epistemologico, sia sul piano filosofico-politico. A noi pare che tale questione accomuni nel profondo il “riccio” Voegelin e la “volpe” Berlin e, proprio in virtù della importanza che essa riveste nelle loro opere, diventa possibile problematizzare quella interpretazione che colloca i due pensatori entro correnti di pensiero distanti l’una dall’altra. Perfino se ci limitassimo ad una sommaria giustapposizione delle opere voegeliniane con quelle berliniane fin qui esaminate, potremmo rilevare una coincidenza interessante e tutt’altro che di circostanza: entrambi riconducono allo scientismo di matrice illuminista e positivista un certo modo monistico di intendere la realtà umana, storica e politica. Per entrambi, il “credo scientista” si sviluppa con sorprendente successo e intensità tra il ‘600 e ‘700, in virtù dei prodigiosi traguardi raggiunti dalla rivoluzione scientifica e grazie alla temperie illuminista. Sia Voegelin, sia Berlin attribuiscono ai philosophes una delle maggiori responsabilità nella costruzione di quel monismo epistemologico, filosofico e politico, senza il quale, a loro giudizio, non sarebbe comprensibile il totalitarismo. Alcuni pensatori illuministi ci vengono così dipinti da Voegelin e da Berlin come sostenitori della “verità assoluta” della scienza, e quindi certi di poter comprendere razionalmente la realtà sociale, umana, politica e, al contempo, di poter individuare con la sicurezza tipica delle scienze gli strumenti idonei a cambiarla in meglio, 191 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee per renderla così sempre più prossima alla perfezione, sempre più razionale. Questo tipo di lettura (sicuramente parziale e distorcente) dello scientismo illuminista emerge con la stessa, eguale forza sia dalla History of Political Ideas, sia da Historical Inevitability e Two Concepts of Liberty. Egualmente, sia Voegelin, sia Berlin attribuiscono al positivismo un ruolo altrettanto decisivo nel successivo sviluppo dello scientismo durante l’800. Innanzitutto, entrambi tendono a considerare il positivismo ottocentesco una sorta di prosecuzione e, per alcuni aspetti, estremizzazione di una certa parte della tradizione illuminista: in esso ritorna la fiducia nella “verità della scienza”, nella universalità del metodo scientifico e nel concetto di perfettibilità. Sia Voegelin, sia Berlin fanno riferimento, per esempio, a Auguste Comte nelle cui concezioni filosofiche ravvedono alcuni dei caratteri (per loro) portanti di una Weltanschauung monistica. Del pensatore francese viene sottolineata la fiducia totale nella “verità della scienza” e nella conseguente possibilità di individuare quelle leggi e quei principi – conoscibili razionalmente e con la precisione degna delle scienze esatte – che regolano lo sviluppo dell’umanità verso una condizione di perfezione “fondata sulla spiegazione positiva dei fenomeni naturali”. La frase con la quale Berlin, in Historical Inevitability, descrive in estrema sintesi il pensiero di Comte, ossia “una piramide di conoscenze scientifiche che potessero spiegare qualsiasi cosa” è altrettanto indicativa della posizione di Voegelin verso il padre della sociologia.442 Sia il pensatore tedesco, sia quello inglese vedono in Comte (e in tutto il positivismo) l’atteggiamento mentale e speculativo di chi è convinto che la realtà umana si caratterizzi per una trama di leggi e comportamenti regolari, ripetibili, razionalmente comprensibili che possono essere svelati e chiariti come accade nell’indagine del mondo naturale. Nella filosofia positiva di Comte, sia Voegelin, sia Berlin colgono una serie di elementi che, a loro giudizio, riemergono dall’opera dell’altro grande protagonista della cultura ottocentesca: Karl Marx. Per i due storici delle idee, diventa essenziale misurarsi, come abbiamo visto, con il materialismo scientifico: la convinzione che esistano leggi oggettive, razionalmente e scientificamente conoscibili, capaci di regolare il processo economico, sociale e politico, 442 I. BERLIN, Historical Inevitability, cit., pp. 132-133. 192 Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe" e che, a loro giudizio, è il ‘cuore’ stesso della filosofia di Marx, starebbe lì a dimostrare nella storia delle idee come la concezione scientista abbia conosciuto una vera e propria rinascita nell’800. Abbiamo già sottolineato i tanti e importanti elementi di distanza tra Voegelin e Berlin storici delle idee; vorremmo ribadirne alcuni per tornare poi con maggiore efficacia e incisività proprio sugli aspetti che rendono, a nostro giudizio, le opere da loro elaborate e pubblicate tra la fine degli anni ‘30 e gli anni ‘50 un tentativo di riflettere sulle radici ideali del totalitarismo. L’attacco frontale che Voegelin e Berlin muovono a Comte e Marx ha infatti implicazioni teorico-politiche in parte differenti, che possono essere comprese se teniamo in debita considerazione l’originalità e la specificità del percorso intellettuale intrapreso dai due storici delle idee. Voegelin prende innanzitutto le distanze da Comte perché nella concezione epistemicofilosofica del sociologo, nella sua volontà di individuare le leggi sottese alla società e nella sua vena, per così dire, scientista, egli ravvisa una forma di “messianismo moderno e intramondano”, ossia una concezione che parla di un destino ultimo di perfezione da realizzare, sebbene non nell’immediato, sulla terra e da parte dell’uomo stesso. Voegelin sembra così guardare a Comte come uno dei “primi filosofi a dare voce in maniera sistematica ad un’ideologia escatologica di salvezza collettiva”. Ideologia escatologica che ha reciso qualsiasi legame con il “trascendente”. La stessa lettura che il pensatore tedesco propone del filosofo di Treviri può essere ricondotta a questo tipo di ragionamento: la componente scientista del pensiero di Marx è parte integrante, secondo Voegelin, di un “messianismo moderno” che parla di una vera e propria “palingenesi”, il cui obiettivo sarebbe “di liberare l’uomo da ogni limite e il mondo da ogni male attraverso esperimenti rivoluzionari nei quali il vecchio mondo verrà sostituito da una nuova creazione”. In altri termini, la critica di Voegelin a Comte e Marx deve essere inserita in quel più ampio ragionamento critico sulla volontaria cancellazione della dimensione “trascendente” dalla speculazione filosofica che, secondo il pensatore tedesco, trova nello scientismo illuminista, nel positivismo e nello gnosticismo tre momenti cruciali. Tutto ciò è assente in Berlin: egli mette in discussione la filosofia di Comte e di Marx nei suoi elementi prima di tutto deterministici perché è nella volontà, per lui comune al sociologo francese e al filosofo tedesco, di 193 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee individuare le leggi che regolano e determinano la realtà sociale, economica e politica che Berlin individua una enorme e pericolosa minaccia (filosofica, etica e politica) al principio per lui fondamentale, ossia alla responsabilità e alla libertà individuali. Insomma, a voler tenere nuovamente conto delle differenze tra Voegelin e Berlin, potremmo affermare che mentre il primo critica Comte e Marx da “riccio”, il secondo fa la stessa operazione, ma da “volpe”. Eppure, a noi pare che – pur con le debite distinzioni appena sottolineate – la interpretazione di Comte e Marx proposta da Voegelin e Berlin mostri come la vicinanza tra le loro storie delle idee sia molto più sostanziale. Sebbene con finalità teorico-politiche peculiari, sia Voegelin, sia Berlin individuano infatti nello scientismo illuminista e positivista (così come, nello specifico, nell’opera di Comte e Marx) due concezioni epistemiche e filosofico-politiche assolutamente centrali per comprendere l’affermarsi nella storia di una Weltanschauung monistica e quindi le radici intellettuali e profonde del totalitarismo. Dalla analisi fin qui condotta è così emerso come i due pensatori attacchino la convinzione di poter estendere il metodo scientifico all’indagine della realtà umana e di poter individuare un principio, un modello o delle leggi capaci di spiegare la complessità di ciò che esiste, ossia di trovare una formula onniesplicativa che in quanto tale – monisticamente – possa anche offrire una soluzione definitiva ai problemi (reali) degli uomini. È in una simile pretesa monistica che sia Voegelin, sia Berlin, il “riccio” e la “volpe”, colgono una implicazione filosofica e politica di straordinario rilievo, dagli esiti per loro pericolosissimi, e che ha, a loro giudizio, trovato una espressione estrema proprio nei regimi liberticidi del XX secolo: la certezza di possedere l’unica possibile comprensione corretta della realtà umana, politica, sociale e, collegata a ciò, la certezza altrettanto granitica (dogmatica) di aver individuato “the final solution”, per dirla con Berlin, e quindi di poter creare un sistema politico e sociale perfetto qui ed ora, per dirla con Voegelin, non potrà altro, per entrambi, che contribuire a generare e giustificare un potere privo di limiti. Chi afferma di detenere la “final solution”, perché ha correttamente inteso, ad esempio, il “corso della storia” allora – sia per Berlin, sia per 194 Cap. VII - Eric Voegelin e Isaiah Berlin: il "riccio" e la "volpe" Voegelin – sarà disposto a compiere qualsiasi azione e a imporre, una volta conquistato il potere, qualsiasi sacrificio pur di seguire quel particolare “corso” che condurrà al trionfo della Razza Ariana o della Nazione o di qualsiasi altro principio che si ritenga oggettivamente, universalmente giusto e vero. Chi avanza la pretesa, ad esempio, di essere riuscito ad individuare, con precisione scientifica, il significato ultimo sotteso alla storia e alla vita degli uomini, si troverà – per Berlin – nella posizione di esigere qualsiasi cosa dai suoi “seguaci”, di costringere gli altri ad essere liberi nel modo in cui soltanto egli sa essere quello giusto e corretto e – per Voegelin – di farsi egli stesso Dio, promettendo e realizzando, a qualsiasi costo, progetti di “palingenesi totale”. In entrambi i casi – sembrano volerci dire il “riccio” Voegelin e la “volpe” Berlin – il monismo epistemologico e filosofico è parte integrante di quello politico e trova la sua realizzazione nei regimi e nelle ideologie totalitari. Se guardiamo a Voegelin e Berlin come storici delle idee allora vedremo che, al di là di tutte le debite e importanti differenze da noi sottolineate, quel “running parallel” al quale fa riferimento fugacemente J.W. Müeller sembra essenzialmente riguardare la loro riflessione sulle radici intellettuali del totalitarismo: i due pensatori però finiscono per ‘incontrarsi’ nel momento in cui entrambi individuano in una Weltanschauung monistica il carattere portante ed essenziale dei regimi totalitari. La “volpe” Berlin e il “riccio” Voegelin, impegnati in una riflessione sul monismo, appaiono così più vicini di quanto non si potrebbe pensare. Del resto, la famosa e amara frase pronunciata da Voegelin sul senso ultimo della logica totalitaria, ossia che “the […] activist dreamers […] want to liberate us from the imperfections by locking us up in the perfect prison of their phantasy” potrebbe essere stata pronunciata dallo stesso Berlin.443 443 E. VOEGELIN, Wisdom and the Magic of Extreme, cit., p. 315. 195 Bibliograia BIBLIOGRAFIA Opere di Eric Voegelin: Anamnesis. On the Theory of History and Politics, Columbia and London, University of Missouri Press, 2002. Autobiographical Relections, Columbia and London, University of Missouri Press, 2006; tr. it. S. CHIGNOLA (a cura di), La politica: dai simboli alle esperienze. 1. Le religioni politiche. 2. Rilessioni autobiograiche, Milano, Giuffrè, 1993. Bakunin’s Confession, “The Journal of Politics”, 8 (1946), pp. 24-43. Der autoritäre Staat. Ein Versuch über das österreichische Staatsproblem, Wien, Springer, 1926; tr. ingl. The Authoritarian State. 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STRAUSS L., Natural Right and History, Chicago and London, University of Chicago Press, 1953. 208 Indice dei nomi INDICE DEI NOMI Achmatova A., 101, 139 Adorno T., 51, 186 Agostino santo, 57 Almond G., 38 Anderson P., 110n, 112n Arendt H., 51, 67n Armstrong Fish H., 131 Aron R., 81, 81n, 129, 150 Ascoli M., 131 Ayer A.J., 104, 105, 107, 112, 138, 150, 150n, 188 Bakunin M., 55, 55n Balthasar H.U. von, 44n, 79n Bassani L.M., 170n Baum B., 103n Baur F.C., 78, 78n, 79, 79n Bedeschi G., 13n, 137n Belinskij V., 138, 139, 141n Benigno F., 123n Bentham J., 136, 137, 137n Berdyaev N., 44n Bernasconi R., 25n Bertels C.P., 104n Bhiku P., 103n Bianco F., 30n Boas G., 43 Bode M., 16n, 114n, 138n Boehme J., 78 Bongiovanni B., 110n Bonvecchio G., 9n Brecht A., 38n, 39n, 51 Brentano F., 20n Brockniss L., 131n Brunner E., 183n Brunner O., 19n Bulhof I.N., 30n Burke E., 161, 176, 184 Cacciatore G., 30n Calabrò G., 24n Cammarota G., 66n, 93n Camus A.,79n Cantillo G., 30n Carini C., 91n Caroniti D., 54n Carr E.H., 123, 123n Chabod F., 113n Cherniss J.L., 103n, 131n, 137n, 150n Chignola S., 19n, 23n, 53n, 90n, 92n, Chinard G., 43 Chisik H., 106n Cicerone, 83 Coker F.W., 38n Collingwood R.G., 105, 106, 107, 112, 114n, 120, 124, 125n, 158, 188 Commons J.R., 20n Comte A., 44n, 54, 57, 58, 69, 70-74, 118, 149, 155, 156, 158, 170, 192, 193, 194 Condorcet N. de., 69, 80, 102, 153, 155 Connely J., 105n Cook S., 25n Cook T.I., 37, 37n Cooper B., 12n, 19n, 50, 50n, 54n, 65n Cornford F.M., 44n Cracraft J., 103n, 107n Croce B., 105n, 124 Crowder G., 103n, 104n, 111n, 120n, 129n, 130n D’Alembert, 80 Del Noce A., 77-78, 78n Dempf A., 44n D’Holbac P.H.T., 153, 158 Di Lucia P., 97n Dickinson J., 22n Diderot D., 80 Dilthey W., 30, 30n, 31-33 Diotallevi L., 15n 209 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee Dopsch A., 19n Doresse J., 77n Dubnov M., 105n, 107, 107n Duff Grant Shiela, 112n Dunning W., 37, 37n, 41-42 Durkheim E., 15n Duso G., 67, 67n, 91n Dworkin R., 154n, 174n Dyzenhaus D., 9n Engel-Janosi F., 43 Eraclito, 83 Eschilo, 67, 83 Far J., 36n Federici M.P., 19n Ferrell J., 126, 126n, 135n, 185 Fichte J.G., 153n, 164 Filoramo G., 77n, 79n Fischer J., 33, 33n Forti S., 10n Franco L., 96n Franz M., 75n Frenske H., 10n Freud S., 19n Fukuyama F., 129 Galipeau C.J., 13n, 103n Galli C., 26n, 86n, 91n, 94n Galston W.J., 135n, 174n Gardiner P., 115n Garosci A., 44n Garrard G., 17n, 18n Gay P., 154n Gebhardt J., 32, 32n, 33n Germino D., 66n, 69, 69n Gioacchino da Fiore, 79n, 80n Goodenough E.R., 44n Gouhier H., 44n Gray J., 103n, 124n, 174n Green T.H., 164 Grifith E.S., 38, 38n, 40 Groethuysen B., 33 210 Guardini R., 10, 10n Gunnell J.G., 14, 36n, 37, 37n, 38n, 39n, 40n, 51, 51n, 52n Haberler G., 14 Hallowell J.H., 14n, 38n, 54, 54n, 55n Hampshire S., 104 Hannerz U., 15n Hardy H., 103n, 104n, 112n, 113n, 115n, 119n, 126n, 129n, 130n, 137n, 139n, 141n, 142n, 143n, 153n, 185n Harris I., 119n, 174n Hartin T.A., 105n Hartmann H., 19n Hatier C., 11, 11n, 154n, 167, 167n Hauley R.P., 129n Hausheer R., 17n, 103n, 124n Hayek F. von, 129, 150 Hegel G.W.F., 66, 78, 142, 153n, 156, 157, 166, 169, 170 Heilke T.W., 25n Herder J.G., 105, 106n, 166 Herzen A., 138, 139 Hiruta K., 113n Holaceck A.,123n Horkheimer M., 51 Huizinga J., 44n Humboldt A. von, 175n, 176, 184 Husserl E., 20n Iggers G.G., 30n Ignatieff M., 101n, 105, 105n, 124n, 130n, 181 Jaeger W., 44n Jahanbegloo R., 101n, 111, 113n James W., 20n Jaspers K., 33, 44n Johnson P., 105n Jonas H., 79n, 81, 81n Jung C.G., 79 Kant I., 80, 137, 137n, 159, 164, 171 Kaufmann E., 24n Kelley A., 140, 141n, 142, 142n, 149n Indice dei nomi Kelly D., 107n, 110, 110n, 139 Kelly R., 45n Kelsen H., 9, 9n, 19, 22n, 23-24, 24n, 38n, 91n, 96-97, 97n, 183n, 184n Kennan G., 101n, 131 Krauze E., 153n Kries E., 19n Morganti C., 10n Mosheim J.L., 79n Müller J.W., 13, 13n, 14, 14n, 129, 130, 130n, 131n, 183, 183n Murray G., 44n Musil R., 83n Myers E., 135n Lagi S., 9n, 91n Lami G.F., 19n Leach S., 105n Leibholz G., 26n Levy D.J., 25n Lieb F., 44n Lijoi F., 91n Lilla M., 154n, 174n, 185n Lippincott B., 39n, 54n Litt T., 26n Locke J., 164, 165, 166 Lovejoy A.O., 43-44, 44n, 45, 105 Lubac H. de, 44n, 79n Lukes S., 114n, 139, 140, 162, 163n Nardin T., 12n, 13n, 129n Neander J.A., 79n Neumann F., 51 Nichols R., 103n Niebuhr R., 44n, 183n Nietzsche F., 69 Mack E., 174n Maistre J. de, 153n Mali J., 17n, Mandelbaum M., 45n Marcuse H., 51 Maritain J., 10, 10n, 44n Marx K., 54, 57-58, 66, 69, 70, 73-76, 80-82, 84, 102, 107, 108, 109, 110, 111, 114, 117, 139, 156, 157, 158, 166, 167, 168, 169, 170, 176, 192, 193, 194 Mastellone S., 9n Matter J., 79n McIlwain C., 37, 37n Merkl A., 19n Mill J.S., 136, 137n, 161, 175, 175n, 176, 184 Mingardi M., 170n Mink L., 44n, 45n Misch G., 33 Mises L. von, 19n Molinelli R., 10n Moore G.E., 104n Opitz P.J., 65n, 78n, 81n, 96n Paine T., 161, 176, Parsons T., 40n Pasquino G., 15n Passerini Glazel L., 97n Passmore J.A., 119n Pasternak B., 139 Pecora G., 91n Peirce C.S., 20n Pennock J.R., 38n Perelman C., 15n Petersma E., 15n Platone, 83, 96, Plaw A., 174n Plessner H., 33, 33n Popper K., 13, 129, 130, 130n, 131, 150, 162, 186 Pottle M., 185n Protagora, 67 Przywara E., 44n Puech H.-C., 76n, 77n, 79, 79n Quispel G., 79, 79n Racinaro R., 66n, 91n Rasmussen D.C., 17n, 18n, 186, 186n, 187 Reed J., 103n Ricciardi M., 112n, 150, 150n 211 S. Lagi, N. Stradaioli - Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee Richter M., 45n Ringer F.K., 30n Robertson R., 103n, 131n Roehrssen C., 24n Rorty R., 174n Rossi G., 23n Rossi P., 30n Rousseau J.J., 153n, 164, 165 Rudolph K., 77n Rüsen J., 31n Russell B., 104n Ryan A., 108n, 131n, 174n Sabine G.H., 22, 35, 37, 37n, 38, 38n, 41, 42 Sander F., 26n Sandoz E., 13n, 19n, 26, 26n, 27n, 65n, 78n, 90n, 94n, 96, 96n, 97n Santayana G., 20n Saunders F.S., 101n Scheler M., 33, 33n, 44n Schelling F.W.J von, 78 Schleiermacher F.E.D., 78 Schlesinger A., 101n, 131 Schlick M., 19n, Schmitt C., 9, 9n, 26n Schneewind J.B., 174 Schumpeter J., 19n, 34 Schuster L., 150, 151n Sebba G., 81n Seidelman R., 36n Sen A., 119n Sigieri di Brabante, 55, 55n, 56 Sigwart H.J., 32n Silvers R., 154n, 174n Skagestad P., 106, 106n, 112, 112n, 124, 124n, 125n Skinner Q., 113, 113n, 114n Smend R., 26n Spann O., 19n Spinoza B., 164, 168 St. Simon H. de., 155 Sternhell Z., 18n Stradaioli N., 9n Strauss L., 10, 10n, 14n, 51, 67n 212 Svenungsson J., 186n Swoboda H., 19n Talmon J., 126n, 186, 187 Taubes J., 79, 81, 81n Tocqueville A. de, 161, 175n, 176, 184 Tolstoj L., 138, 140, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149 Topitsch E., 81, 81n Toynbee A.J., 44n Troeltsch E., 80n Tzvetan T., 167n Veca S., 102n Verdross A., 19n Vicentini C., 30n Vigorelli A., 105n Voltaire, 57 Waelder R., 19n Walicki A., 103n, 142n Walsh D., 75, 76n, 85, 85n Weber M., 14n, 89, 95n, 96n Wieser F., 19n Wild J., 44n Williams B., 120n, 124n Wilson D.J., 44n Wilson F.G., 38, 38n, 39n Wittgenstein L., 104n Wolker R., 17n, 106n Wright B.F., 38, 38n, 39, 39n Yack B., 184, 184n Yavel Y., 105n Zakaras A., 174n Zambon F., 77 Zanetti G., 19n, 27n, 28, 28n, 78, 78n, 90n, 95, 95n, 98n Finito di stampare Centro Editoriale Toscano settembre 2017 POLITEIA Scienza e Pensiero 1 - SERGIO AMATO, Il problema «partito» negli scrittori politici tedeschi (1851-1914). 2 - SALVO MASTELLONE (a cura di), Il pensiero politico europeo (1945-1989), nuova edizione. 3 - SALVO MASTELLONE, A History of Democracy in Europe. From Montesquieu to 1989, introduction by Michael E. Good. 4 - VITTORIO CONTI, “Consociatio Civitatum”. Le repubbliche nei testi elzeviriani (1625-1649). 5 - MICHAELA VALENTE, Bodin in Italia. “La Démonomanie des sorciers” e le vicende della sua traduzione. 6 - SERGIO AMATO, Gli scrittori politici tedeschi e la rivoluzione francese (1789-1792). 7 - MARCO SAGRESTANI, Lo scrutinio di lista in Toscana (1882-1891). Dalla competizione possibile alla competizione mancata. 8 - ROBERTO STURLA, Democrazia e uguaglianza in America: un dibattito nella Francia prerivoluzionaria (1770-1788). 9 - MARCO FERRARI, La “Restauration”. Ideologia e linguaggio (1814-1830). 10 - M.ANTONIETTA FALCHI PELLEGRINI, Horkheimer: la critica del dominio politico. 11 - SALVO MASTELLONE (a cura di), Gramsci: il partito politico nei ”Quaderni“. 12 - ALESSANDRO LEVI, Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, premessa di Salvo Mastellone, nota di Arturo Colombo. 13 - MICHELE MILLOZZI (a cura e con introduzione di), Giano bifronte. L’eredità storica del Novecento. 14 - ALDO NICOSIA, Sismondi. Costituzionalismo e libertà. 15 - ALBERTO DE SANCTIS, La democrazia “puritana”di Thomas Hill Green. Con alcuni scritti inediti. 16 - SAFFO TESTONI BINETTI, Il pensiero politico ugonotto. Dallo studio della storia all’idea di contratto (1572-1579). 17 - KARL KAUTSKY, La rivoluzione sociale. Riforma e rivoluzione sociale (1902). Con uno studio introduttivo di Sergio AmAto, Parlamentarismo e socialdemocrazia nell'evoluzione del pensiero politico di Kautsky. 18 - FAUSTO PROIETTI, Il tema del comune nel dibattito politico francese (1807-1830). 19 - SILVANA D’ALESSIO, Contagi. La rivolta napoletana del 1647-’48: linguaggio e potere politico. 20 - MARIA CORONA CORRIAS (a cura e con presentazione di), Carlo Cattaneo. Temi e interpretazioni. 21 - FRANCESCO BERTI, La ragione prudente. Gaetano Filangeri e la religione delle riforme. 22 - EUGENIO CHIESA, Scritti e discorsi 1893-1929, a cura di F. Conti, S. Moroni. 23 - ALESSANDRO ARIENZO, Alle origini del conservatorismo politico inglese.George Saville e la Restaurazione Stuart. 24 - MARCO FERRARI (a cura di), Dinamiche del potere e dell’ideologia nell’Europa contemporanea (1814-1989). 25 - SAFFO TESTONI BINETTI (a cura di), Il potere come problema nella letteratura politica della prima età moderna. 26 - NUNZIA DI MASO, Il repubblicanesimo di Vincenzo Cuoco. A partire da Machiavelli. 27 - NICOLA D’ELIA, Democrazia e ‘modello inglese’. Eduard Bernstein scrittore politico nell’esilio di Londra (1890-1901). 28 - MARCO BARDUCCI, Oliver Cromwell negli scritti italiani del Seicento. 29 - SALVO MASTELLONE (a cura di), Mazzini e gli scrittori politici europei (1837-1857). 30 - ALBERTO DE SANCTIS, Il socialismo morale di Aldo Capitini (1918-1948). Con alcuni scritti inediti. 31 - FIORENZA TARICONE, Il sansimoniano Michel Chevalier: industrialismo e liberalismo. 32 - SHEYLA MORONI, Giovanni Giuriati. Biograia politica. 33 - MARIA CORONA CORRIAS (a cura di), Paola Maria Arcari. Ritratto a più voci. 34 - ANDREA CATANZARO, Paradigmi politici nell'epica omerica. 35 - ALDO NICOSIA, Jacques Necker. Dalla monarchia assoluta alla monarchia esecutiva. Vol.I 36 - MARCO BARDUCCI, Anthony Ascham ed il pensiero politico inglese (1648-1650). 37 - FILOMENA CASTALDO, L’evento, l’innovazione, la pratica virtuosa. Arendt legge Machiavelli. 38 - SARA LAGI, Georg Jellinek storico del pensiero politico (1883-1905). 39 - ANNA MARIA LAZZARINO DEL GROSSO (a cura di), Miti e metafore nella storia del pensiero politico. 40 - JEAN-YVES FRÉTIGNÉ, Giuseppe Mazzini. Il pensiero politico. 41 - CLAUDIA GIURINTANO, La «Res Publica» (1931-1933) di Francesco Luigi Ferrari. 42 - ANDREA CATANZARO, L ’attore e il regista. L’uomo politico nei Moralia di Plutarco. 43 - MICHELA NACCI (a cura di), Figure del liberalsocialismo. 44 - ALDO NICOSIA, Jacques Necker. Dalla monarchia assoluta alla monarchia esecutiva. Vol.II 45 - ALBERTO DE SANCTIS (a cura di), Un dibattito politico su religione e socialismo (1908-1910). 46 - LUCA SARTORELLO, Le due Repubbliche. Bartolo e Machiavelli in un Dialogo inedito di Francesco Sansovino. 47 - ALBA ROSA SURIANO, Il Teatro indipendente nella società politica egiziana. Nascita, evoluzione e prospettive. 48 - A. M. LAZZARINO DEL GROSSO (a cura di), Garibaldi nel pensiero politico europeo. 49 - MARCO BARDUCCI, Grozio ed il pensiero politico e religioso inglese (1632-1678). 50 - FEDERICA FALCHI, Giuseppe Mazzini: la democrazia europea e i diritti delle donne (1837-1860). 51 - SALVO MASTELLONE, Tre democrazie. Sociale (Harney); Proletaria (Engels); Europea (Mazzini) (Londra, 1850-1855). 52 - ZEFFIRO CIUFFOLETTI, SIMONE VISCIOLA (a cura di), Risorgimento. Studi e rilessioni storiograiche. 53 - NICOLETTA STRADAIOLI, Europa e Stati Uniti: Eric Voegelin e la storia delle idee politiche. 54 - SALVO MASTELLONE, Da Savonarola ad Adam Smith. Ideologie in Europa. A cura di M. Barducci, V. Conti. 55 - ALBERTO DE SANCTIS (a cura di), La religione nelle idee politiche contemporanee. 56 - SERGIO AMATO, Sul patriottismo costituzionale tedesco tra Settecento e Novecento. 57 - ROBERTO STURLA, Il modello olandese nella Francia del Settecento fra commercio, federalismo e libertà, con riproduzione anastatica del volume del 1788 : aux bataves sur le stathouderat pAr le comte de mirAbeAu. 58 -ALESSANDRA TAIUTI, Contro il dominio: lavoro e libertà nel pensiero politico di Max Ascoli. 59 -REGINA LUPI, Francesco D'Aguirre. Riforme e resistenze nell'Italia del primo Settecento. 60 -SARA LAGI, Adolf Fischhof e Karl Renner: la questione nazionale austriaca (1869-1917) 61 -SALVO MASTELLONE, Da Sieyès a Marx. Ideologie in Europa (1789-1870). A cura di M. Barducci. 62 -MILENA BIANCO, L'associazionismo politico inglese e la democrazia europea. 63 - SALVO MASTELLONE, Il lessico democratico europeo - Londra 1835-1848. 64 - ADELINA BISIGNANI, Tocqueville e la democrazia in Europa. 65 - STEFANO QUIRICO (a cura di), L'Italia liberale di Giuseppe Saracco e Maggiorino Ferraris. 66 - FIORENZA TARICONE, Louis Blanc e Mme D'Agoult (Daniel Stern): socialismo e liberalismo. 67 - MARIA A. FALCHI (a cura di), Verità e forme del potere nella rilessione politica contemporanea. 68 - ALBERTO DE SANCTIS, Leonard T. Hobhouse: libero scambio e giustizia sociale. 69 - FEDERICA FALCHI (a cura di), Declinazioni della democrazia: tra recente passato e futuro prossimo. 70 - GABRIELE CARLETTI, Francesco Soave. Un illuminista controrivoluzionario. 71 - ADELINA BISIGNANI, Intellettuali e stato. Corporativismo, liberalismo e democrazia nell'Italia del Novecento. 72 - ANDREA CATANZARO, Hobbes e Omero: una traduzione “politica”? 73 - CARLO MORGANTI, Comunità e Stato, Europa e Occidente. La politica secondo Guardini. 74 - SARA LAGI - NICOLETTA STRADAIOLI, Eric Voegelin e Isaiah Berlin storici delle idee. Una riflessione sul monismo.