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ISTITUTO DI SCIENZE E TECNOLOGIE DELLA COGNIZIONE DEL C.N.R. SEZIONE DI PADOVA «FONETICA E DIALETTOLOGIA» DIALETTOLOGIA E ETNOSEMANTICA a cura di M.T. VIGOLO, M. MADDALON, A. ZAMBONI CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE 2003 Indice Presentazione M. Teresa Vigolo, Marta Maddalon e Alberto Zamboni ISBN 88-87500-07-X Copyright © 2003 by Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del C.N.R. Sezione di Padova «Fonetica e Dialettologia» La riproduzione è autorizzata a condizione che venga citata la fonte: Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del C.N.R. – Sezione di Padova «Fonetica e Dialettologia» Elaborazione testi e riproduzione a cura del CentroStampa di Palazzo Maldura, Facoltà di Lettere e Filosofia – Via B. Pellegrino, 1 – 35137 Padova — 4 — pag. 7 Etnosemantica e dialettologia Marta Maddalon » 9 Classificazioni popolari della natura Marta Maddalon » 13 Pianta-seme. Un percorso culturale ed etnobiologico europeo John B. Trumper – Marta Maddalon » 41 Raccolte fitonimiche: per un modo alternativo di leggere gli etnotesti Nadia Prantera » 57 » 73 L’èrica nei dialetti del Veneto settentrionale I Nomi Volgari Veneti delle Ericacee e la loro Origine Remota Giovanni Tomasi - John B. Trumper » » 91 109 Gli animali, problemi specifici nelle etnoclassificazioni zoologiche Marta Maddalon » 131 Il campo lessico-semantico delle Labiate: proposte per l’analisi e la rappresentazione grafica della percezione popolare Daniela Ielasi — 5 — Il baco da seta: appunti per una raccolta lessicale Nadia Prantera – Maria Tucci » 147 Il baco da seta: un esotico insetto Anna Scola » 155 Animali domestici e selvatici nella zoonimia popolare calabrese Anna Scola » 175 » 187 Alcune etimologie organiche prossime e remote dell’ittionimia veneta John B. Trumper, M. Teresa Vigolo » 215 I concetti di ‘cuore’ John B. Trumper » 267 C’era una volta il mare. Ipotesi etimologiche per “mare”, “palude” e “valle” Glauco Sanga Presentazione I saggi raccolti in questo volume, pur nella loro duplice articolazione sui due versanti del mondo naturale, fitonimico e zoonimico, seguono il comune filo della ricerca integrata tra dialettologia ed etnolinguistica. Ad interventi di carattere generale e metodologico, seguono saggi su famiglie specifiche di piante, come le Labiate o le Ericacee, oppure su animali, quali la spigola o i due lavori riguardanti il baco da seta. Ambienti quali il mare e le paludi o lo stato di domesticazione o meno, sono altri aspetti trattati in due saggi specifici. Qualche curiosità può suscitare la presenza, in chiusura, del testo sui concetti di ‘cuore’; il soggetto, pur riguardando il mondo naturale in senso lato, come organo, o meglio insieme di organi, è stato inserito nel presente volume per la ‘congruità’ dei procedimenti analitici e dei presupposti teorici che sovraintendono all’analisi dei dati. I curatori M. Teresa Vigolo, Marta Maddalon e Alberto Zamboni Padova, Settembre 2003 — 6 — — 7 — Etnosemantica e dialettologia Nuove prospettive per le classificazioni popolari della Natura Marta Maddalon Introduzione La raccolta di saggi, compresa in queste sezioni, ha come filo comune la volontà di riunire esperienze e approcci, in parte diversificati, sotto la tematica unificante dell’analisi di settori d’esperienza legati al mondo naturale, a partire dalla loro realtà linguistica. Dialettologi e etnologi, che sono da sempre i maggiori frequentatori di queste tematiche, hanno camminato insieme di rado e principalmente sul sentiero comune tracciato da certa etnolinguistica. Per il resto, approccio lessicale e approccio demologico, approccio semantico interno e approccio culturale, approccio dialettologico e approccio cognitivo, si sono tenuti separati soprattutto a livello metodologico. Qui, curando e unificando gli interventi di queste sezioni, abbiamo privilegiato, all’opposto, gli approcci misti, le visioni integrate, le mescolanze tra metodi e presupposti. Il fatto che alcune, se non tutte, delle tematiche che verranno affrontate siano oggi più popolari che in passato, non significa che si sia andati molto oltre in una nuova direzione di studi; il fatto che i problemi in gioco siano così vasti e complessi da mettere soggezione a chi vi si applichi con onestà scientifica, temperata da sano realismo, non può costituire motivo per desistere. In primo luogo i nomi delle cose. Di fatto, volendo assumere un approccio apparentemente meno problematico, si potrebbe partire dalla considerazione che questi sono attribuiti loro dall’uomo e, prescindendo dal versante mitico dei riti di denominazione, si potrebbe altresì limitarsi a questa direttrice che va dall’uomo che nomina verso la cosa che è denominata. Noi però riteniamo che non sia legittimo passare sotto silenzio i molteplici riferimenti, più o meno esplicitati, alla ‘necessità’ o, talvolta addirittura all’ ‘obbligo’ che tale operazione determina nei confronti della cosa chiamata in causa dall’operazione stessa del darle un nome. — 8 — — 9 — Sull’altro versante, conoscere, riconoscere e decidere di attribuire un riconoscimento, esplicitato lessicalmente o, al contrario, non farlo deve essere osservato e commentato. Già queste prime osservazioni basterebbero a giustificare, quando non ad invocare, un modello complesso che rappresenti i rapporti tra oggetti e classi di oggetti. Come può un elenco, anche dal punto di vista della rappresentazione grafica, fotografare questo stato di cose? Nessuno storico, ad esempio, racconterebbe la storia di un uomo come se non facesse parte di una comunità o meglio come se egli non partecipasse, con ruoli diversi, a molti gruppi sociali. Eppure, in molti lavori di dialettologia, non è proprio questo che viene proposto? Giustapporre items non è spesso solo un artificio descrittivo, è un presupposto metodologico. A giustificare una riconsiderazione di questo approccio basterebbero le discussioni sulle rappresentazioni della natura di cui si parlerà nel successivo intervento. Un altro punto altamente problematico è quello della “traduzione”, sia al livello linguistico che a quello semantico; questo aspetto nella pratica, sottovalutato, quando non ignorato, trova la sua soluzione nei dizionari o nelle raccolte parziali di lessici, che seguono l’ordine alfabetico e, così facendo, eliminano alla base il problema dei rimandi, delle reti, dei livelli semantici, limitandoli ai riferimenti interni ai vari lemmi. Anche in questo caso l’impianto metodologico denota ben più che un modo di rappresentare dei dati. La considerazione che il lessico è strutturato ha segnato la maggior parte delle ricerche e discussioni semantiche interne, almeno degli ultimi ottant’anni, a partire da Trier e Weissgerber. Quest’impostazione ha influenzato anche le riflessioni al di fuori del dominio linguistico, in particolare, per testare se vi siano delle rispondenze, e corrispondenze, tra organizzazione linguistica e cognitiva. Resta comunque aperto il problema che in nessun caso la conoscenza della realtà extralinguistica da parte dell’uomo è effettuata mediante l’acquisizione di liste o di elenchi né, tanto meno, può essere così descritta e rappresentata. Da qui la necessità di integrare le raccolte tradizionali con la consapevolezza che la raccolta del dato e, prima ancora la considerazione del e per il modello di conoscenza di cui il dato è parte, debbono presiedere ogni indagine, pena la concreta possibilità di non avere il reale quadro di riferimento, quando non di fraintendere alcuni dei risultati. Altri interventi affrontano, da diversi punti di vista, e per diversi settori di esperienza, lo spinoso problema della storia delle parole, inteso come tentativo di ricostruirne (ma ci sembra forse più calzante ripercorrerne) la storia nel tempo e nello spazio - fonetico-fonologico, semantico e culturale. L’etimologia si allarga e si complica alla luce di due ordini di problemi maggiori; l’etimologia profonda richiede di andare al di là dei confini spazio-temporali che spesso gli studiosi si sono imposti o hanno imposto a queste ricostruzioni. Ovviamente, in questo caso, il problema del reperimento delle fonti, ma più ancora quello della esatta interpretazione e del loro uso oculato, è la sfida maggiore sul piano storico-linguistico. D’altro canto, l’abbandono di una visione spesso inutilmente e dannosamente monografica, porta a ripercorrere, come si è proposto di dire, le strade, ma anche i sentieri e i guadi, non più dotati di ponti, che questi concetti devono aver percorso. Percorsi già per loro natura non lineari, visto che la linearità in linguistica è, a parte che nei modelli teorici degli studiosi, un’astrazione. La simultaneità, la parametricità, la connessione sono tutte proprietà che i vari livelli dell’analisi linguistica trovano ora più rispondenti per mettere a punto modelli efficaci e verosimili. La ricerca etimologica non fa eccezione, o meglio, forse trarrà grande vantaggio dallo smettere di fare etimologie, se questo significa aggirarsi in una foresta, fingendo di star percorrendo un’autostrada. Al di là del paradosso, crediamo che i seguenti interventi siano un buon esempio dei vantaggi che si possono avere nel complicare, estendere e connettere i significati che si stanno analizzando, allargando il raggio delle fonti, ricreando le reti semantiche, non solo denotative, collegando i domini cognitivi ad essi associati. L’ulteriore precisazione riguarda i problemi metodologici che questo approccio determina e che verranno appunto discussi. — 10 — — 11 — Un modo per indagare su settori specifici del lessico è quello di procedere alla raccolta di dati, mediante elenchi di domande o interviste, più o meno strutturare, o anche estrapolarli da racconti (etnotesti) raccolti nel corso di inchieste in loco. Al di là di quello che si è detto più sopra sulle ripercussioni che le modalità di raccolta hanno sui risultati finali, un aspetto importante è la riconsiderazione dei metodi. Le raccolte dialettali spesso non si sono poste, o comunque non in modo esplicito, il problema dell’escussione dei dati, rifacendosi alle modalità, sia per la raccolta che per la rappresentazione dei dati, messe a punto nelle maggiori opere del passato, quali i grandi Atlanti o le inchieste, ormai storiche. Uno dei limiti di tali approcci è che troppo spazio è lasciato all’abilità individuale o alla ‘sensibilità’ dell’autore dell’inchiesta. Accanto a lavori di grande interesse e informatività si possono trovare raccolte in cui la meccanicità e la forma alfabetica nascondono, spesso in modo irreparabile, informazioni fondamentali. Una prima tappa è dunque quella di introdurre, in maniera diretta, una discussione sui metodi di raccolta dei dati, anche in ambito dialettologico. La seconda è quella di anteporre, o almeno di affiancare alla raccolta di corpora lessicali una discussione generale sui livelli di classificazione, tentando di mettere in luce i rapporti strutturali che intercorrono tra i lessemi, il loro grado di inclusività, la loro estensione semantica e cognitiva. Alcuni dei lavori compresi in queste sezioni si pongono proprio in questa prospettiva, sia nel caso del lessico fitonimico, che in quello zoonimico, mettendo in luce la strutturazione interna di sistemi. La discussione sulla gerarchizzazione del sistema naturale è davvero molto antica e poco pacifica, soprattutto nel caso di autori le cui opinioni sono spesso state riportate e trasmesse con successive ‘modificazioni’ che, talvolta, ne hanno in parte snaturato il senso, come nel caso del citatissimo Aristotele. Altrettanto complessa, e ugualmente poco pacifica, è la discussione sulle ripercussioni lessicali della strutturazione cognitiva degli elementi presi in esame, e anche questo aspetta di essere indagato in profondo. Alcuni campi fitonimici come quello delle gra- minacee, o quello delle labiate offrono lo spunto per affiancare alle informazioni di carattere generale, un’indagine sulla visione che sovraintende, nell’esperienza dei parlanti, ad aspetti quali il posto, l’uso, e le credenze ad esse legate. La cultura del baco da seta, così come tutte le pratiche connesse alla natura, possono o, a nostro avviso, debbono essere integrate nella ricostruzione dei tempi e modi della loro diffusione o della loro perdita progressiva, sia pratica che linguistica. Famiglie zoologiche particolarmente problematiche, trovano una descrizione (parziale) più soddisfacente, abbandonando una visione biologica stretta. In particolare, prima di passare a presentare corpora consistenti di dati, ciò che si propone è di corredare l’inchiesta di una premessa relativa al modello in cui i dati, raggruppati secondo criteri cognitivi, espressi in forma linguistica (in modo spesso non univoco), vengano forniti con criteri che rispondano all’effettiva esperienza dei parlanti e non criteri di ordine esterno o automatico, come quello alfabetico. Classificazioni popolari della natura Un approccio integrato tra etnosemantica e dialettologia Marta Maddalon 1. Uno studio integrato delle categorie naturali 1.1. L’aumento degli studi di sistemi reali di classificazione utilizzati nelle tassonomie popolari e, più di recente, l’aggiunta alle tradizionali discussioni di ambito antropologico, etnolinguistico, epistemologico, di studi che hanno fatto delle classificazioni etnobiologiche oggetto di analisi, in un quadro più vasto, inserendole nel panorama generale dei problemi, percettivi, psicologici e cognitivi, ha condotto ad un notevole incremento nel dibattito. La discussione è andata così concentrandosi essenzialmente su posizioni che, da un lato, amplificano la natura tendenzialmente variabile “depending on the knowledgeability of the classifier, the variability of the contexts and the entities being classified”, come afferma Ellen1 o che, per contro, sostengono che la creazione di classificazioni tassonomiche sia un portato di natura universale. In posizione intermedia si situano coloro che, pur ritenendo che ciò che sottostà ai modelli di classificazione popolare sia riflesso di un atteggiamento cognitivo pan-umano, rivendicano la sostanziale diversità delle classificazioni biologiche che sono, secondo quanto sostenuto da Atran,2 “domain specific”. Un altro aspetto centrale nell’affrontare il problema delle classificazioni popolari, che tocca il concetto stesso di Natura, nel suo duplice ruolo di protagonista di tali attività e di oggetto di studio, è quello dei correlati culturali che l’accompagnano. L’attività linguistica in genere, e le sue applicazioni al mondo reale, restano di rado, e solo per alcuni aspetti, circoscritti, limitati al piano dell’analisi strutturale interna. 1 2 — 12 — R. Ellen, The cultural relations of classification. Cambridge, 1993. S. Atran, Cognitive foundation of natural history. Cambridge, 1990. — 13 — In una bella recensione a A. Carandini, La nascita di Roma, Dei, Lari, eroi e uomini all’alba di una civiltà, R. Caprini affronta un argomento che, apparentemente solo di riflesso, tocca ciò di cui ci stiamo occupando; in particolare, una delle discussioni riguarda il ruolo, lo spazio ed il tempo nei quali il Mito si inserisce nella Storia. Ad una ipotesi di successione temporale, cioè il mito che interviene DOPO, si oppone l’autore e Caprini3 stessa: la tesi sostenuta va in favore di una sincronicità, di una coesistenza o meglio di una nascita e di un’evoluzione parallela. Allo stesso modo, per quanto riguarda l’idea e le idee sulla natura e della natura, esse non si sono arricchite in un secondo tempo di correlati metaforici o di rappresentazioni mitiche o magiche, questi aspetti sono sempre coesistiti. Un altro spunto interessante che si deve tentare di inserire, in modo problematico, tra i molteplici aspetti del rapporto tra uomo e natura, è quello che riguarda come dice Caradini: “l’unità primordiale fra dèi, uomini, piante, rocce, grotte, acque armi e strumenti” (pag. 81). E ancora “Dove il vero e l’immaginario (erroneamente ritenuto falso) convivono indistinti ...cercare di sceverarli nettamente ... è un modo di procedere del tutto inadeguato, perché in questo genere di realtà è la totalità in primo luogo a contare quindi appunto l’intreccio fra il vero e quanto collettivamente immaginato... Le favole avevano nella protostoria una energia propulsiva e il nostro materialismo, razionalismo e laicismo fanno velo nel capire che sono state proprio quelle magiche parvenze le vere matrici delle azioni umane di allora. In queste circostanze il mito è la realtà e la storia non è che la sua metafora”(pag. 7). Può sembrare azzardato porre sullo stesso piano la spinta a creare miti intorno alla fondazione di popoli e le credenze sulla formazione del mondo naturale ed, in un senso più limitato, sugli elementi che lo compongono; in realtà il punto su cui mi interessa richiamare l’attenzione è quello della non esclusività, e nemmeno della primarietà, del livello denotativo per quanto riguarda i nomi di piante, animali ed elementi naturali. Credo che i diversi tipi di impiego, ben al di là del semplice riconoscimento, lessicalmente formalizzato, dei materiali naturali, siano sempre avvenuti in concomitanza, cosicché, da un lato, le conoscenze popolari non sono facilmente né, talvolta, legittimamente divisibili in ‘scientificamente fondate’ e non. Da un altro punto di vista inoltre, la concomitanza tra conoscenze con statuti così diversi, non crea necessariamente problemi di coerenza nella coscienza dei parlanti, per cui non ha molto senso, almeno per il progresso degli studi etnolinguistici, tentare di chiarire in che modo ciò possa avvenire; semmai è utile tener conto del fatto che riferimenti ad universi di conoscenza (frames) diversi, possono coesistere, e di fatto coesistono, nonché sono disponibili per i parlanti a seconda della situazione d’uso che si presenta. Se agli studiosi della storia, o ad una parte di essi, può interessare di mettere in discussione quale sia, non tanto il confine, quanto il peso delle testi- 3 R. Caprini, Quaderni di Semantica/aXIX, n.2, dicembre 1998. — 14 — monianze ritenute ‘storicamente’ fondate, da quelle basate su credenze mitiche, la stessa cosa si può dire per altre discipline, come fa notare ancora una volta Caprini 1998: 373, parlando di “un deciso risveglio di un movimento anti-scettico nelle scienze umane, particolarmente nelle scienze dell’antichità”. Il maggiore effetto per quanto riguarda non tanto il piano epistemologico, quanto quello dei modelli di analisi e, per quello che ci interessa, dal punto di vista dell’impostazione più efficace della raccolta e dell’interpretazione dei dati, è che non si possono escludere i livelli diversi da quelli immediatamente denotativi, per quanto riguarda il materiale, e che si deve affiancare alla mera raccolta un modello di interpretazione olistico del mondo naturale in cui i singoli elementi sono inseriti. 1.2. Partendo da considerazioni di carattere molto generale, teniamo presente che, sul piano mitico, la maggior parte dei testi contenenti la narrazione delle origini del mondo comprendono parimenti riferimenti all’origine del linguaggio, spesso, come nel caso che forse ci è più familiare, relativamente al dare un nome alle cose create, come si legge nella Genesi (2, 19 e segg.). Ha origine da ciò, probabilmente, il primo dilemma tra motivazione e convenzione, problema non di poco conto, vista la vastità del dibattito che da esso è scaturita nei secoli a venire, fino al giorno d’oggi. Allargando ulteriormente la prospettiva, potremmo aggiungere, come ulteriore parametro, la necessità. La necessità non intesa però come si tendeva a fare molto di frequente in passato, come fattore intrinseco: nell’atto di costruire classificazioni, l’attenzione è posta su ciò che è più immediatamente esperibile, disponibile (la neve per gli esquimesi, la sabbia per gli arabi!), più centrale culturalmente, che serve a fini pratici e immediati. La necessità a cui faccio riferimento qui è piuttosto quella che spinge l’uomo a ordinare ciò che lo circonda, nel senso più esteso e complesso in cui si possa intendere questa attività, o insieme di attività, che lo porta a creare sistemi di rapporti tra gli oggetti, la loro essenza, i loro confini e le loro denominazioni e che pone agli studiosi un compito, altrettanto difficile, anche perché consiste nel tentare di ripercorrere a ritroso, il cammino che la storia delle visioni del mondo ha fatto nella direzione opposta. Se su un piano più astratto il problema dell’organizzazione linguistica, soprattutto nei suoi aspetti semantico-cognitivi, può essere affrontato senza far riferimento, se non in seconda battuta, al livello extralinguistico (biologico, psicologico, culturale ecc.), nel caso che abbiamo scelto di affrontare qui, ossia il livello delle rappresentazioni naturali, è pressoché impossibile tenere divisi i piani. Il rapporto tra le scienze linguistiche e quelle antropologiche è sicuramente uno dei fattori che maggiormente ha aperto la strada a visioni interdisciplinari poiché ha portato in primo piano lo studio e l’analisi del patrimonio di conoscenze etnobiologiche, sia per quanto riguarda i dati che per i modelli interpretativi; questi, del resto, fanno spesso ricorso a questo terreno di scambio e di prova per testare la bontà e l’estendibilità delle teorie che si vanno proponendo. — 15 — 1.3. Ripercorrendo in modo assai rapido le principali tappe, i momenti più rilevanti per lo sviluppo, sia teorico che applicativo, delle singole discipline vorremmo attirare l’attenzione sul fatto che inizialmente le lingue stesse divengono oggetto di osservazione e di classificazione secondo criteri di carattere biologico. Si pensi alla tradizione degli studi che si dedicano alla classificazione genetica delle lingue che percorre tutto l’Ottocento, anche se ha origini ben più antiche. Dall’altro lato, le rappresentazioni del mondo extralinguistico, ed in particolare quello naturale, sono, direi, ideologicamente legate ad una visione complessiva della realtà, sia sul piano iconografico che su quello linguistico, intendendo con ciò il sistema di denominazioni che accompagna la creazione di sistemi tassonomici. Ho già trattato diffusamente la questione in Maddalon 1998: passim, mi limito quindi a ricordare a questo proposito il famosissisimo lavoro di Foucault Le parole e le cose e a riprendere, in breve, alcune notazioni di altri autori meno conosciuti in ambito linguistico, per ricordare quali sono state le tappe maggiori nell’evoluzione delle idee sulla rappresentazione della natura. Possiamo partire da una sintetica sinossi di Lovejoy 1961, in cui viene ricordato il principio di continuità che informa di sé l’idea del mondo naturale, inteso come l’insieme degli elementi che lo compongono: “From the Platonic principle of plenitude the continuity could be directly deduced. If there is between two given types, that type must be realized - and so on ad infinitum; otherwise there would be gaps in the universe, the creation would not be as “full” as it might be, and this would imply the inadmissible consequence that its Source or Author was not “good”, in the sense which that adjective has in Timaeus […] But there were in the Aristotelian metaphysics and cosmology certain far less concrete conceptions which could be so applied as to permit an arrangement of all things in a single order of excellence […] Thus “all individual things may be graded according to the degree to which they era infected with [mere] potentiality”. This vague notion of an ontological scale was to be combined with the more intelligible conceptions of zoological and psychological hierarchies which Aristotle had suggested; and in this way what I shall call the principle of unilinear gradation was added to the assumption of the fullness and the qualitative continuity of the series of forms of natural existence”. (Lovejoy 1961: 58-59). Pensare che il punto di rottura sia costituito unicamente dal passaggio da una visione in cui trovavano posto i due principi fondanti della pienezza, cioè della perfetta compiutezza del ‘systema naturae’, e della gradualità senza fratture, per giungere ad una visione invece in cui entrambi questi principi erano messi in discussione, è troppo semplicistico e fondamentalmente errato. “L’analisi formale delle immagini (intese in senso proprio, come le rappresentazioni iconografiche) mostra invece che esse non erano tutte ispirate neanche al modello della “serie” o “scala”: fa emergere, in particolare che non avevano tutte carattere progressivo e tantomeno erano, tutte, gerarchicamente ordinate. Non a caso, i naturalisti si impegnarono in una controversia, fin qui ignorata, vivacissima e a tratti rissosa”. (Barsanti 1992: 5-6). — 16 — Uno tra i maggiori partecipanti a questa diatriba mette in luce in modo assolutamente inequivoco la natura ad hoc dei metodi proposti per classificare il mondo naturale: “Non dobbiamo quindi considerare i metodi che gli Autori ci hanno presentato sulla Storia Naturale in generale o su alcune delle sue parti, come i fondamenti della scienza e dobbiamo servircene solo come segni convenuti per capirci. In effetti essi non sono altro che rapporti arbitrari e punti di vista particolari sotto i quali abbiamo considerato gli oggetti della Natura (…) Ciascuno di questi metodi non è altro, a dire il vero, che un Dizionario in cui troviamo i nomi elencati secondo un ordine relativo a una determinata idea, e quindi arbitrario quanto l’ordine alfabetico”. (Buffon,1749: 13-14, citato in Barsanti, 1992). Al di là delle ripercussioni effettive sul piano teorico, è interessante, dal nostro punto di vista, rimarcare il riferimento alle classificazioni introducendo il paragone con un dizionario. Linneo, molto chiaramente ed in molteplici occasioni, richiama la necessità di affiancare ad un modello della struttura del mondo naturale un sistema di denominazioni, di pari importanza: “Prius est gradus sapientiae res ipsa nosse; quae notitia consistit in vera idea objectorum; objecta distinguntur et noscuntur ex methodica illorum divisione et convenienti denominatione; adeoque divisio et denominatio fundamentum nostrae scientiae erit”. (Systema Naturae, par.10).4 Il rimando al rapporto tra creazione di modelli tassonomici e modelli di denominazione è un terreno affascinante, oltre che interessante, che meriterà di essere approfondito in dettaglio, su questo versante, oltre che su quello della storia della scienza. L’idea di fondo è che la storia naturale è una ‘lingua’ e che, come dice Linneo è la natura stessa che “esibisce la propria struttura profonda che i corpi naturali possiedono certe caratteristiche “reali” (più o meno “essenziali”, come vedremo) cui corrispondono espressioni linguistiche capaci di raffigurare “perfettamente” ciascuno di essi” (Barsanti 1992: 148). Alla luce della complessità delle riflessioni e delle discussioni sulle corrispondenze, o sulle corrispondenze mancate, tra elementi del mondo naturale e nomi, tra la ‘realtà’ delle discontinuità nel mondo extralinguistico o la creazione di tagli discreti introdotti dal sistema linguistico, in quanto espressione di una visione culturale, sarà opportuno sospendere la discussione. È altrettanto opportuno però tenerla presente, potrei dire in sottofondo, per ricordare che, quale che sia la nostra opinione sul peso da dare al relativismo culturale e quanto darne alla ricerca di universali classificatori, tutto ciò deve essere introdotto nell’indagine, sottraendo magari, come si è detto, la lingua e, per quanto riguarda molta dialettologia, il LESSICO dal suo ‘isolamento’, anche a costo di fargli perdere la centralità di cui ha goduto in tante inchieste! 4 Linneo, Systema Naturae, par. 10, Observationes in regna tria naturae. — 17 — 1.4. Un altro importante aspetto in cui ci si imbatte appena si esca da una visione completamente ‘interna’, è quello delle ricorrenze di modelli classificatori che l’allargamento all’ etnolinguistica introduce nella riflessione, non solo pratica (analisi di repertori concreti), ma anche teorica. Il problema che, apparentemente, può essere di maggiore rilevanza, dal punto di vista culturale, va nella direzione di postulare a livello etnobiologicologico la presenza di criteri di natura molto generale ed astratta, cioè delle permanenze che si situano sopra le diverse manifestazioni, queste sì legate relativamente ad aspetti del luogo e del tempo in cui una determinata civiltà esiste. Ma ciò tocca inevitabilmente anche il piano della rappresentazione linguistica. Che sia fuorviante considerare il livello linguistico come puramente lessematico, cioè come un sistema di denominazioni è appena stato detto. Una delle possibili estensioni ad altri ambiti, che ci può venire in aiuto, è rappresentata dalla visione che il cognitivismo, se pur in una versione non troppo estrema, ci propone. Considerando la questione dal punto di vista cognitivo, sulla base della strutturazione neurologica del cervello, il modello andrebbe rappresentato nel modo seguente: “In cognitive interpretation, one must not suppose that lexemes are directly connected to things of the world. They are connected to concepts, which are in turn connected to percepts, which (through several perceptual layers) are connected to sense organs, which gets stimulated by ‘things’, nouns-or rather noun phrases- are thus several steps removed from ‘things’! (Lamb, 1998: 240-1). Come si vede, il nodo problematico è costituito dalla parola direttamente; la biunivocità, per quanto da tutti rigettata, almeno in linea teorica, informa ancora molte inchieste dialettologiche. Ciò che è più pericoloso quindi, dal punto di vista della comprensione e dell’interpretazione dei dati, è la centralità o, come dice Cardona,5 l’autonomia della lingua, o ancora, come ho proposto più sopra, del lessico; oltre a problemi di carattere generale, infatti, ciò provoca talvolta fraintendimenti clamorosi, ma inevitabili, sia quando si imbocchi la direzione sbagliata nella ricostruzione di una trafila semantica, sia che si prescinda dalla rete di rapporti tra lessemi, sul piano etimologico o, ancora, su quello cognitivo o quello semantico.6 Tornando brevemente al modello proposto in Lamb 1998, per quanto riguarda il livello del significato, possiamo partire dall’osservazione che ci riporta alla molteplicità di livelli che intercorrono tra un lessema e il fatto che esso sia associato a “qualcosa” che esiste nel mondo reale. Un LESSEMA, oltre ad essere connesso non tanto con un oggetto del mondo extralinguistico, quanto con un CONCETTO, a sua volta correlato con G. Cardona, 1990. Questo argomento è stato toccato innumerevoli volte nei lavori di natura semantica e dialettologica del gruppo di ricerca costituito da Trumper, Vigolo, me medesima et al. Si confronti ad es. l’affermazione in Trumper-Maddalon-Vigolo-Misiti, 2000:150 “In senso linguistico la spiegazione etimologica non è percorrere pedissequamente la distanza che apparentemente separa un punto A da un punto B, quanto ricostruire, con un adeguato modello lessico-semantico …. la complessa serie di momenti sincronici che si susseguono, creando l’effetto del mutamento diacronico”. 5 6 — 18 — una o più immagini che lo rappresentano, è costituito anche dai suoni eventualmente ad esso connessi e percepiti dal sistema uditivo, dalle sensazioni tattili e da tutte le percezioni che esso può produrre. Questo per quanto riguarda un primo livello; in seconda battuta un lessema è in correlazione con altri concetti: “Thus many connections have been built within the mental system on the basis of experiences … The perceptual system is in turn connected to sense organs, and these have direct relationships to things of the world. And so it is only through other mental modalities-conceptual, perceptual, and motor- that lexemes have relationships to those referents of the world outside. From a cognitive point of view, the meanings of lexemes are represented as distributed network representations in other modalities to which their lexical nections are directly or indirectly connected”. (op.cit.:142). Sia che si consideri il problema dal punto di vista suggerito dai più recenti approcci di stampo cognitivistico, rimanendo al livello delle proiezioni sul piano semantico, cioè individuando l’insieme dei modelli che possono concorrere alla formazione di un significato complesso (cfr. per un applicazione concreta di un’analisi di questo tipo Maddalon-Trumper, 1995), sia che ci si rifaccia al modello appena illustrato da Lamb, in cui sono chiamate in causa anche le proiezioni su altri domini percettivi, la conclusione evidente è che non è più possibile limitarsi ad un’analisi esclusiva lessema ↔ significato. Il problema della denominazione non è in alcun modo riconducibile dunque, neanche nelle visioni più ingenue, alla semplice etichettatura; ancor prima però, andrà posto il problema di specificare che cosa vada ascritto, rispettivamente, ai livelli dell’identificazione e della classificazione, ammesso, come mi pare opportuno, che sia il caso di considerarli separatamente. Alcune delle osservazioni di Ellen, che riporto qui in forma sintetica, possono essere utilmente riprese; egli sostiene che alcune delle possibili confusioni sull’argomento devono essere ascritte al fatto che gli strumenti cognitivi, individualmente posseduti dai singoli vanno tenuti distinti dal modo collettivo in cui effettivamente sono posti in atto (riguardo a credenze, rappresentazioni e pratiche sociali ecc.). Le classificazioni di qualsiasi tipo hanno lo scopo di connettere cultura, psicologia e le oggettive discontinuità del mondo extralinguistico. Altri aspetti che vanno tenuti distinti sono la conoscenza astratta del mondo, da un lato, e gli schemi pragmatici che i parlanti utilizzano per tracciare il loro percorso al suo interno, dall’altro. “Our propensity to classify in the ways we do results from the possession of certain innate cognitive skills [...], plus an ability to organise our perceptions through culture (aided by language) based on models draw from somatic experience [...], and from social and perceptual experience of the material world. [...] Classifications as things, therefore, are not the inventions of individuals, but arise through the historically contingent character of cultural transmission, linguistic constraints, metaphorical extensions, and shared social experience in relation to individual cognitive practice” (Ellen, Draft, Venezia 1997, in stampa). — 19 — Non escludo che questo ulteriore problema sia presente nella coscienza dei dialettologi che raccolgono dati, soprattutto in relazione al lessico. È però meno facile e meno ovvio di quanto si possa pensare coniugare gli interessi di un’inchiesta lessicale con il fatto che, pur utilizzando singoli parlanti, scelti naturalmente per la loro competenza specifica, si debba al contempo considerare che essi sono i detentori solo di una parte della conoscenza della comunità e che sono portatori di una dose di variazione che è imprescindibile dal sistema. Queste riflessioni sono importanti ma recano anche ulteriori complessità sul piano generale, poiché, se si vuole tenerne conto, ricordano allo studioso che il quadro generale dovrà essere frutto di un suo lavoro di interpretazione e di sistemazione dei dati, certamente sulle direttrici che i parlanti gli forniranno, spesso però non in maniera diretta o palese. Non potranno, o meglio non dovranno, essere alcuni parlanti ad essere caricati della ‘responsabilità’ di rivelargli i nomi dialettali delle cose, o peggio, “come si dice in dialetto x, y, z”, al di fuori di un modello di riferimento, ma anche della creazione implicita di rimandi biunivoci che un’opera di mera traduzione implica! Una visione problematica della possibilità di creare dei modelli, più o meno generali, dei processi di conoscenza è presente in molti degli studiosi che si occupano di etnoclassificazioni e di culture etniche in senso lato. Queste critiche ad approcci che, talvolta sottovalutando le effettive difficoltà, propugnano decisamente l’esistenza di modelli comuni, sono molto utili non foss’ altro perché arricchiscono un dibattito tutt’altro che pacifico con punti di vista importanti. In particolare è interessante quanto afferma Ingold7 riguardo alla capacità di trasmettere o anche solo di parlare delle conoscenze di una comunità, soprattutto in relazione al saper fare: “… it is possible to understand local people’s inability to formulate their traditional knowledge in anything other than the most vague and general terms. This fact has often been judged by outsiders, including government officials, as a measure of its inadequacy or inauthenticity” (op. cit.). Una notazione importante, che si può collegare a quest’osservazione, è appunto quella che spesso la conoscenza pratica, materiale, di processi di produzione o di costruzione di prodotti o manufatti non è adeguatamente resa linguisticamente. È esperienza comune per i raccoglitori più sensibili a questi problemi notare la mancanza o, almeno, la scarsità delle descrizioni dei singoli processi, delle azioni e talvolta anche di alcuni strumenti impiegati. Questa disparità tra fare e dire 8 è la stessa che ho già rimarcato per la mancata lessicalizzazione di tipi di piante ed animali, anche in presenza, in modo cognitivamente inequivoco, di nodi concettuali o di livelli tassonomicamente pertinenti. Non mi pongo nemmeno lontanamente il pro- Ingold, Intervento al convegno “I saperi naturalistici” Venezia 1997, (in stampa). La bibliografia sull’argomento è molto estesa sul versante antropologico, mentre maggiore è la tendenza a passare il problema sotto silenzio, in ambito dialettologico, nel cui caso questi effetti sono spesso attribuiti alla inadeguatezza degli informatori. 7 8 — 20 — blema di poter dire qualcosa di definitivo su un argomento su cui si incentrano tante discussioni, mi limito a segnalare l’utilità di tener presente la sua esistenza, quando si sta per cedere alla tentazione di colmare buchi o normalizzare paradigmi. Come ho già commentato in Maddalon, 1998 (passim), la constatazione che possano esistere allo stesso tempo sistemi di classificazione descritti come estremamente ‘poveri’ e imprecisi, accanto ad altri estremamente articolati, presso popolazioni che hanno livelli di conoscenza o vivono in ambienti, in senso generale, simili, non può essere passato sotto silenzio. La prima e imprescindibile osservazione riguarda però la necessità di aver sgombrato il campo previamente dalla possibilità che si tratti effettivamente di differenze nei modelli, e non di fraintendimenti portati da quel sottoprodotto dell’analisi che è l’ “inadeguatezza classificatoria”. 2. I problemi dei nomi e delle cose 2.1.Esaminare in dettaglio tutti i punti messi in luce nell’introduzione richiederebbe uno spazio ben maggiore di quanto se ne abbia a disposizione qui; per non parlare delle difficoltà di toccare tutti gli ambiti che vengono di volta in volta chiamati in causa. Una scelta di profilo un po’ più realistico è di concentrarci su alcuni di essi, usando come filo conduttore il rapporto tra il compito del raccoglitore di dati linguistici dialettali, relativi a determinati settori del lessico, e gli apporti che discipline quali l’etnolinguistica, l’antropologia e la storia della scienza, tra le altre, possono fornire al problema generale del conoscere e riconoscere le cose e le pratiche connesse alla natura. La “pacificità” del rapporto tra classificazioni biologiche e quelle popolari non è più, per fortuna, un portato indiscutibile di molte inchieste dialettali, nonostante la permanenza di ‘sacche di resistenza’. Come avviene spesso però i tempi tra l’accettazione di un assunto e la sua attuazione, con le modifiche di impostazione che ne conseguono, possono anche essere lunghi. Che, originariamente, la distinzione tra rappresentazioni popolari e scientifiche del mondo naturale non esistesse, è un’osservazione non tanto banale, quanto dettata dal senso comune; così come quella che la divergenza tra le due è stata graduale e tutt’altro che lineare. Non sempre però le viene data la necessaria attenzione, visto che la maggior parte delle inchieste e delle raccolte si situano nel presente in sincronia, e si confrontano con una frattura ormai compiuta, non solo sul piano della classificazioni quanto, in senso generale, su quello culturale tout court. Alcuni dei problemi teorici nascono da molto lontano; il primo passo consiste di solito nell’affrontare il problema del significato inserendovi dimensioni che usualmente vengono, volutamente o meno, escluse o limitate, nelle inchieste tradizionali. Come ho già accennato nell’introduzione, il punto non è solo l’esclusione delle connessioni al di là del semplice livello denotativo, quanto l’assunzione che: 1) questo (significato) sia direttamente ricavabile da un processo di traduzione quasi automatico, 2) che il livello linguistico sia preminente su quello extralinguistico. In particolare, questo secondo aspetto si rifà alla visione — 21 — strutturalista classica, da Saussure in poi, su questo lato dell’oceano e sull’altro (fino al relativismo worfiano e non solo). ‘Il pensiero aspetta l’intervento ordinatore del linguaggio’ è l’assunto dal quale si parte per una discussione che segna il dibattito per decenni e determina in modo significativo lo sviluppo di una certa parte delle teorie semantiche. Come sempre, lo scopo non è quello di confutare in toto un approccio che solo in alcuni dei suoi esegeti, passati e presenti, viene riproposto in senso riduttivo e ormai improduttivo, almeno nella misura in cui non riesce a proporre nuove soluzioni ai vecchi problemi la cui soluzione, a sua volta, si presentava già ‘problematica’ ai maggiori studiosi di semantica del passato (si pensi alle osservazioni sollevate da Hjelmslev o da Bloomfield). Il punto, come ho accennato più sopra, è, in senso generale, l’impossibilità di escludere dalla discussione tutto ciò che di nuovo sappiamo sul funzionamento della mente, in risposta proprio a quanto auspicato da Bloomfield, che nella sua sezione dedicata alla semantica in Language, si riferiva proprio all’impossibilità di fare ulteriori assunzioni fintantoché non si fosse in possesso di maggiori informazioni sui processi messi in atto dal cervello nel riconoscere, o reagire, ad un dato significato linguistico. Un forte e fondato dubbio sul fatto che si possa impostare la discussione sul rapporto tra oggetti della realtà extralinguistica e loro denominazioni partendo dall’assunto che sia solo e unicamente la lingua a determinare la loro realtà, mediante l’attribuzione di un nome, viene dal fatto che esistono quelle che, nelle etnoclassificazioni, vanno sotto il nome di ‘categorie coperte’. È maggiormente a questi studi che si deve lo sviluppo di un’attenzione per l’analisi dei modelli più adatti a rappresentare il rapporto tra l’uomo e il mondo (naturale e non solo) che lo circonda. Lo studio dei modelli di rappresentazione della natura, ad esempio, trova la sua giustificazione nel fatto che ciò che deve emergere è che questi modelli non sono né esclusivamente dei modelli linguistici per rappresentare la realtà, unicamente mediante della lingua né, al contrario, sistemi di concetti discreti a cui attaccare etichette linguistiche. 2.2. Ad occuparsi del versante più concreto del rapporto tra rappresentazioni linguistiche e sistemi culturali è stata sempre tradizionalmente la dialettologia, all’interno delle scienze linguistiche in senso più stretto. Come fa notare Cardona “I dialettologi hanno familiarità con i sistemi di denominazione e ridenominazione di singole specie, ma usualmente non hanno necessità di studiarli all’interno di una teoria della denominazione etnobiologica” (Cardona 1990: 77). soché esaurita: non credo siano all’ordine del giorno scoperte di lemmi mai raccolti in nessun’ inchiesta, anche presso la più sperduta delle comunità! Con la morte progressiva, ed inevitabile, degli informatori più anziani, che significa di fatto la scomparsa del loro modello di conoscenza (parziale ma organico), ciò che si trova spesso nelle inchieste un po’ indiscriminate è la permanenza, parziale e disorganica, di elementi lessicali la cui trama cognitiva si è slabbrata e confusa. A questo si aggiunga che, talvolta, non vi è da parte del raccoglitore nemmeno la consapevolezza che questa trama esisteva e quindi basta ben un elenco, esempio massimo di discretezza, per rappresentarla. È vero invece, al contrario, che postulare un sistema di conoscenze da studiare da molteplici punti di vista, di cui quello linguistico è un aspetto, mi sembra un approccio più proficuo. Come ho accennato in Maddalon 2001, questo chiama pesantemente in causa il problema pratico delle inchieste. Affrontare in modo integrato anche le raccolte dialettologiche può infatti portare a scoprire, in questo caso sì, perfino lessemi che erano sfuggiti a questionari basati su liste; senza commettere l’errore di mettere al centro la singola scoperta del relitto dialettale, come ho già detto, indagando settori di conoscenza nel loro complesso, i parlanti possono richiamare dei lessemi che sono di più difficile reperibilità con domande dirette. Il duplice effetto che si ottiene invece con inchieste basate su più momenti e su una differenziazione dell’approccio escussivo è, da un lato, quello di ritrovare, a livello lessicale, tracce di momenti precedenti che sono utili al dialettologo per catturare la storia dialettale, e dall’altro lato ancora al dialettologo e al linguista storico per trovarvi prova di fasi precedenti dell’evoluzione linguistica, a livello fonetico o morfologico, che sono reperibili solo in queste permanenze. A livello semantico e etnolinguistico l’utilità è data dalla possibilità, che si esplica in due direzioni: di lavorare su settori organizzati e non su singoli elementi, e di affrontare i singoli lessemi all’interno del modello che non è comunque immediatamente disponibile ma va ricreato, stando ben attenti a non introdurvi, come byproducts, una visione che non è quella dei parlanti (della comunità), ma quella sovraimposta dall’esterno. Tra gli studi italiani che si pongono nei confronti delle classificazioni naturali in una prospettiva in parte analoga a quella che propongo, vi è ad esempio quello di Giannelli (Giannelli 1999),9 si confrontino le sue osservazioni: “Risulta evidente – com’era del resto atteso – la disparità qualitativa fondamentale rispetto alla classificazione ‘scientifica’ (da testo di botanica), da vedere essa stessa non come un assoluto, ma come prodotto storico. […] Questo divario introduce il tema dei modi della categorizzazione concettuale della ‘realtà (del mondo sensibile) e della sua soggettività, e del rapporto con la verbalizzazione, la messa in parole” (op. cit. pag. 235). Questo è vero soprattutto per il passato e per la maggior parte degli studi più tradizionali, ancor oggi. Una riflessione, forse non peregrina, è però quella che nulla vieta che la dialettologia cominci ad occuparsene o, anche, nulla vieta che gli studiosi applichino i portati di altre discipline agli ambiti tradizionalmente di pertinenza della dialettologia. Il taglio dei lavori contenuti in questo volume tenta di darne dimostrazione. Del resto la ricerca delle “parole di una volta” è ormai pres- 9 L. Giannelli, Dare nomi alle cose. Percezione della realtà e verbalizzazione nell’ambiente di Macchia. In RID, 23, 2000, pagg. 235-264. — 22 — — 23 — 3. Ancora e sempre sulle classificazioni! 3.1. Nella sua imponente opera Scienza e civiltà in Cina, Needham fa riferimento all’elaborazione di un sistema della “scala delle anime”. Egli ricorda anche l’impiego da parte di Aristotele del termine yuchv, per definire il principio che differenziava gli organismi viventi (e[myucoi) dalla materia non vivente (a[yucoi), concludendo che vi dovevano essere altri tipi di psyche, ovvero di ‘anima’. Egli fa notare che fino ad ora nessuno aveva messo in risalto il fatto che i cinesi avevano elaborato uno schema simile, per rispondere allo stesso scopo. no dall’altro, quanto piuttosto: “sono propenso a considerarli come risultati indipendenti, anche se molto simili, di riflessioni sui medesimi fenomeni” (op. cit.: 30). Il biologo Wang Khuei’ del periodo Ming nel Li Hai Chi’ (probabilmente intorno al XIV secolo d.C.) così si esprime: “ … Sostanze che possiedono forma possono avere doti naturali senza sensibilità; così l’erba, il legno e certi minerali hanno doti naturali ma non sensibilità. Il rapporto cielo-terra produce spiriti sottili (chhi) dotati di forma (hsing), dando origine alle doti naturali (hsing) e alla sensibilità (chhing). Uccelli, animali, insetti e pesci (così) possiedono sia doti naturali (hsing) sia sensibilità (chhing). Le loro secrezioni e le loro escrezioni hanno spiriti (chhi) simili a quelli del cielo; le loro piume, la loro pelliccia, le squame e i carapaci hanno forma (hsing) simile a quella della terra …” (citato in Needham, op. cit. pag. 30). . Un’osservazione che si può fare riguardo all’ideologia che sottostà alle denominazioni in antico e che, per quello che ci può interessare trattando di classificazioni popolari, si può estendere anche ai modelli etnobiologici, è quella che sia i primi che i secondi non sono affetti dalla proliferazione nominalistica che caratterizza periodi successivi della storia della scienza (cfr. la breve discussione precedente a proposito di Linneo e il suo tempo). Un problema si poneva, come fa notare Longo 10 quando si tratti di denotare taxa superiori. “In quei casi Aristotele poteva reperire denominazioni classificatorie nell’uso tradizionale, o poteva trovarsi nella necessità di ricorrere [in loro assenza] ad innovazioni linguistiche” (op. cit.), come vedremo nel mio intervento a proposito degli insetti. Proviene però probabilmente da questo impianto la tendenza a mantenere non nominalizzati i livelli maggiori (ei\dh ajnovnima) che, almeno nel caso delle classificazioni popolari, potrebbe trovare una sua giustificazione nel fatto che i livelli di inclusività sembrano privilegiare ed attestarsi su quello intermedio, come è stato largamente discusso in altri lavori sulle etnoclassificazioni.11 Un’ altra notazione interessante, che ci viene da Kuan Tzu, ci illustra il tipo di rapporto che il saggio aveva con la natura e introduce un altro versante imprescindibile nelle classificazioni, cioè il dare nomi: “Cap. 37: le cose generalmente si presentano portando con sé i loro nomi. Il saggio le segue e le giudica (controllo semimagico grazie alla conoscenza dei loro veri nomi). Poiché così la realtà non è dannosa, non ci sarà disordine nella Natura e il Cielo e la Terra saranno condotti all’ordine (controllati)”. “Cap. 37: Raccogliere (tsuan) e selezionare (hsüan) è il modo per graduare le cose”. Visto che Aristotele (384-322 A.C.) precedette Hsün Tzu (305-235 A.C.) di non molti anni, ma che ovviamente la via della seta non era ancora aperta, fa notare Needham, è praticamente impossibile pensare che si tratti della derivazione dell’u— 24 — O. Longo, Venezia 1997 in stampa La questione è ben nota agli addetti ai lavori, per una breve discussione sul problema teorico si può vedere anche Maddalon 1998. 10 11 — 25 — Queste osservazioni sono importanti perché ci riportano ai due corni del problema della denominazione a cui ho già fatto accenno. La necessità e l’inevitabilità assumono nelle visioni onnicomprensive dei modelli tradizionali un significato ben più denso che nel loro senso letterale. Ho scelto queste due citazioni perché, tra le altre, indicano l’attenzione all’operazione del nominare, in questo senso con il significato di conoscere i nomi che le cose portano con sé, come se si trattasse di disvelare ciò che è già parte delle cose e non aggiunto o creato, a posteriori. Vorrei aggiungere anche una precisa osservazione che ci viene ancora una volta da una cultura molto lontana dalla nostra, ma che trovo di grandissimo interesse, vista l’attenzione per la lingua da parte dei Dogon al punto che, talvolta, prefigura perfino problemi della moderna sociolinguistica (cfr. Calame-Griaule, Ethnologie et Language). Ricordando quanto appena detto nel breve rimando a proposito della tradizione cinese, si è osservato che una delle forme di rapporto che può stabilirsi tra uomo e mondo naturale è dato dal ‘chiamare’. “È noto che non si può pronunciare il nome di un assente senza provocare importanti movimenti del mondo invisibile. La spiegazione che generalmente si dà di questo fatto è che, pronunciando il nome, si evoca la cosa o l’essere che lo porta, lo si obbliga in qualche modo a presentarsi, il che non è privo di inconvenienti … Gettare un nome significa gettare una forma, un supporto e la forma migliore e il supporto più adatto a ricevere la forza vitale dell’essere” (pag. 154). l’elaborazione della sua visione delle cose. Tornando al problema del modello, mi pare interessante l’osservazione (op. cit.: 346- 347) che contrappone un approccio geometrico, apparentemente più adatto per lo studio del modello, ad uno algebrico che, in quanto più astratto, non si esaurisce nello studio delle dimensioni nello spazio o di determinati valori numerici. L’accenno a tradizioni così lontane, spazialmente e temporalmente, non può che essere sommario ma, nelle sue linee generali, riguarda la visione che informa di sé il modello. A partire dalla considerazione, ormai pacifica, che la visione degli antichi non costituisce una fase primitiva, imprecisa, delle conoscenze della natura, ciò che Needham mette in luce è che la differenza tra la visione cinese antica e quella aristotelica può essere sintetizzata nel fatto che per i primi l’ordine naturale è fluido è continuo e non opporrebbe, come per i greci, un “mondo ideale, di forma statica, capace di perdurare quando si fosse dissolto il mondo della rozza realtà” (pag. 347, nota b). Andrebbe precisato che ciò che comunemente si attribuisce, senza ulteriori precisazioni, ad Aristotele, costituisce spesso una specie di sinossi tra le idee di più autori, Platone, Plotino, quando non addirittura la loro mediazione tramite Porfirio.12 La ‘meccanicità’ attribuita sempre da Needham alla visione aristotelica, in contrapposizione con quella cinese, è meno evidente a paragone semmai di un’ attenzione per le ‘cause’(aitia) mentre, come si è più volte accennato, e come sarà ripreso anche nel mio altro intervento, non è affatto presente un interesse per una gerarchizzazione forte. Come fa notare Dierauer (pagg. 16-17) D’altro canto però questo stato di cose non è privo di conseguenze, tra le quali la maggiore è che le parole, i nomi, le rappresentazioni mediante disegni, divengono a loro volta “obbliganti”; creano cioè un rapporto che è anche un obbligo, per l’appunto. “Quant à Théophraste, il semble s’être spécialement concentré, et plus qu’Aristote, sur la psychologie et le comportement animal. … Ainsi que je l’ai déjàremarqué, j’admettrais volontiers que cette œvre a été assimilée au livre IX de H.A.” L’altro aspetto che emergeva dalla citazione di Kuan Tzu è l’uso che si configura, come si precisa in seguito, per selezionare. La distinzione e la selezione conducono necessariamente alla creazione di gradazioni, ossia di sistemi. Il problema del tipo di modello che sovrintende l’organizzazione naturale è, non occorre dirlo, uno dei massimi problemi della filosofia della scienza e della filosofia in genere. È interessante rimarcare l’inquadramento teorico che sempre Needham propone per illustrare, ad esempio, quali siano le differenze tra l’approccio aristotelico e quello cinese antico. Egli afferma che, nella storia delle idee, una migliore comprensione del concetto di sistema naturale porta a rigettare una visione meccanicistica dell’organizzazione dell’universo di stampo newtoniano. Ciò ha caratterizzato il dibattito scientifico lungo tutta la sua storia, facendo sì che almeno una corrente di studi andasse oltre alla polemica, sterile, tra meccanicismo e vitalismo. Needham, richiamando questa problematica, avanza il dubbio che anche in questo caso sia da mettere in conto l’influsso che la conoscenza della scuola Neoconfuciana, da parte di studiosi come Leibeniz, abbia esercitato un certo peso sul— 26 — È assai probabile, secondo gli studiosi, che le parole di Aristotele (a lui attribuite), che insistono sull’unità del mondo e sui parallelismi comportamentali, psicologici e affettivi tra UOMO e ANIMALI, siano da ricercarsi piuttosto nella sua ripresa da parte di Teofrasto. Pur non potendo andare oltre in questa complessa discussione, ribadisco la necessità di evitare generalizzazioni troppo semplificatrici di un mondo (in questo caso quello occidentale antico) che era lungi dall’essere omogeneo. Da tutte queste osservazioni, ciò che interessa mettere in luce è, sul piano più generale, l’importanza di incentrare attenzione e interessi teorici, che si ripercuotono però anche sul piano concreto, alla questione dell’organizzazione degli elementi naturali. Anzi, credo sia un’osservazione abbastanza banale, soprattutto per chi ha dimestichezza con i lavori di stampo più decisamente antropologico, in contrappo12 Vista l’importanza di ripercorrere con esattezza le fasi e le tappe del pensiero degli antichi sulla Natura, un altro suggerimento è che questo percorso diventi argomento di riflessione interdisciplinare, al di fuori dell’ambito dei filosofi o degli storici della scienza — 27 — sizione con le ricerche etnografiche o dialettologiche che, se qualcosa si perde con l’evoluzione culturale sui tempi lunghi, questa è una visione organica della Natura. Del resto, come ho già osservato, non è certo un approccio ‘lessicale’ che può aiutare a cogliere l’organizzazione del sistema, così come non è il modo migliore per determinare la deriva culturale che può dar conto di quanto si mantiene e quanto è stato perso, quanto è vitale e quanto è ormai permanenza cristallizzata.13 Se si ha presente questo problema, si capirà l’importanza di considerare, e quando è possibile di immettere, anche queste dimensioni nel quadro in cui si tenta di inserire ogni elemento o gruppo di elementi di un lessico settoriale. 3.3. Un grosso interesse è dedicato da molti studiosi, come ho già precisato, al rapporto che esiste tra i modelli di classificazione biologica e quelli popolari, nonché al modificarsi di questi alla luce dello sviluppo industriale, che modifica e sposta di conseguenza il tipo di sguardo che l’uomo getta sulle categorie naturali. In uno studio di Atran,14 l’esperimento effettuato è proprio quello di mettere a confronto le percezioni, e conseguentemente, la creazione di classi di inclusione in due campioni di parlanti, uno costituito da studenti universitari americani, l’altro da un gruppo di indiani Maja, gli Itzaj. Il punto di partenza teorico è che: “Although folk biology and science of biology share a psychological structure, they apply somewhat different criteria of relevance in constructing and interpreting notions of species, underlying casual structure, taxonomy-based inference. Given the universal character of folk biology, a plausible speculation is that it evolved to provide a generalized framework for understanding and appropriately responding to important and recurrent features in hominid ancestral environments. (op. cit.)”. La differenza sostanziale, come del resto è segnalato dallo stesso Atran, è che dal punto di vista biologico, invece, l’uomo non ricopre una particolare posizione all’interno della natura ma, semmai, si situa ad un certo punto di una scala evolutiva che lo pone in un ruolo non diverso da quello delle altre specie. Questa è una delle spiegazioni per il fatto che: “…although there are striking similarities between folk taxonomies, we will also find that there are radical differences” (op. cit.). Da ciò parte dunque l’idea dell’esperimento a cui ho fatto accenno. Non posso descrivere qui in dettaglio le modalità dell’esperimento stesso ma mi limiterò a spiegarne i presupposti e a riassumerne alcune delle conclusioni. Ai due gruppi sono stati sottoposti dei test che hanno lo scopo di indagare, mediante inferenze da loro effettuate (‘questa malattia colpisce l’animale X, può essere trasmessa anche all’animale Y?), quali siano i criteri che conducono alla costruzione 13 14 Questo argomento tornerà altre volte anche in interventi successivi raccolti in questo volume. Draft of BBS target article, for publication, Copyright 1997, CUP. — 28 — di classificazioni, parziali, a livello zoologico. Tra i risultati che vengono raggiunti e commentati vi è quello che dimostra la presenza in entrambi i gruppi di alcuni fattori cognitivi all’opera nelle etnoclassificazioni popolari che, d’altro canto, vengono attenuati a livello di quelle scientifiche. Ad esempio, entrambi i gruppi mettono insieme felini e canidi e ciò sta ad indicare l’attenzione, presumibilmente, posta da entrambi i gruppi su fattori non filogenetici, ma legati alle dimensioni, la ferocia, la ‘distanza’ dagli esseri umani. Un fattore che caratterizza il gruppo Itzaj e non gli studenti americani è invece il riferimento a fattori ecologici. Altre osservazioni che non commenterò riguardano i livelli privilegiati nella creazione di tassonomie e servono a gettare luce appunto sulle modalità classificatorie e sulla loro generalità. Mi interessa notare invece che il riferimento a fattori ecologici e legati ad abitudini ed habitat sono frequenti e rilevanti anche nel caso della mie inchieste dialettali. 3.4. Accennerò solo brevemente, ancora una volta, all’enorme problema dell’esistenza di strategie comuni nel pensare e, per quel che più ci tocca, ponendoci principalmente sul versante linguistico, nel chiamare la natura. Molto del dibattito in ambito etnobiologico verte, già da lungo tempo, proprio sul peso da dare alle categorizzazioni naturali, come esempio speciale di categorizzazione; inoltre, viene messo l’accento su come e dove cercare delle tendenze che, a buon diritto, possano essere considerate come espressione di tendenze comuni. Tra i molti interventi che si potrebbero citare, farò riferimento a quello di Zimmermann 15 perché contiene un’osservazione, secondo me chiarificante, su quale sia il modo più utile per intendere che cosa considerare comune, o universale, nel caso di tradizioni anche molto distanti, come l’esempio che ho voluto citare tra tradizione la cinese e quella aristotelica e i suoi sviluppi. Si parte dal presupposto, anch’esso molto importante e ‘imprescindibile’, che i bambini mettono a punto un sistema di classificazione secondo il principio che: “Les concepts ordinaires et les prédicats que nous attribuons aux objects naturelles dans les circonstances ordinaires de la perception et du jugement, véhiculent des «catégories ontologiques» implicites comme: événement, objet, chose vivante, humain, etc., qui sont les clés d’une classification naïve de toutes les choses … Même les très jeunes enfants font des distinctions ontologiques fines entre, par exemple, choses vivantes et choses fabriquées. Ils élaborent donc une théorie intuitive sur un domaine particulier de l’expérience sensible avant même de déposer d’un répertoire de catégories correspondantes’’ (op. cit.). Il passaggio successivo è quello che tocca il problema degli universali. Il loro ruolo e il motivo della loro esistenza non sono necessariamente quelli di essere presenti 15 F. Zimmermann, Draft per il Convegno sui “Saperi Naturali”, Venezia 1997, (in stampa). — 29 — in tutti i saperi popolari locali o, meglio, essi si possono situare a diversi livelli di generalità. Quelli assolutamente generali a cui fanno riferimento i cognitivisti, sono altra cosa da quelli che Zimmermann dice essere: “certains arrangements, des images, des figures de rhétorique, des théories particulières, qui se retrouvent dans des cultures différentes de qui ont une universalité conditionelle” (op. cit.). Non è quindi la loro presenza incondizionata ovunque che importa, e che va ricercata, ma se la loro portata è universale. Un altro elemento importante da tenere in conto occupandosi delle conoscenze popolari, è quello della globalità dei rimandi e dell’interconnessione. Ciò appare più immediatamente evidente nel caso delle culture etniche che mantengono quest’aspetto al centro del loro modo di riferirsi all’uomo e all’ambiente circostante. Più difficile è esperire questa coesione nel caso delle culture occidentali avanzate, in cui ‘mitologie scientifiche’ o para-scientifiche sembrano avere in parte, e in modo talvolta incongruo, sostituito le antiche cosmogonie. Il ritrovare racconti cosmogonici molto complessi nelle società etniche, così come considerare la profondità e complicazione dei modelli matrimoniali, legati spesso ad un numero di classi e di restrizioni assai elevato, ci indica chiaramente quali fossero i fondamenti di queste società. Dall’altro, la semplificazione e la conseguente perdita, anche sul piano strettamente lessicale, di elementi del sistema sono contemporaneamente effetto e spiegazione del radicale cambiamento in atto nelle società occidentali avanzate. Questo, ovviamente, nelle linee generali, perché, anche se si tratta di una tendenza legata a modelli di sviluppo più o meno comparabili, i tempi e i modi della sua attuazione sono sicuramente diversi. Le tracce, più o meno rilevanti, che si riscontrano nei modelli di rappresentazione della natura, con cui abbiamo a che fare nelle nostre inchieste dialettologiche, sono magari un po’ più difficili da seguire, quando non da scoprire. Lo stadio a cui ci troviamo spesso ad intervenire è quello di una più o meno veloce disgregazione che, come quando si sono persi alcuni pezzi del puzzle, lascia buchi o zone vuote che rendono difficile, da un lato, la ricostruzione dell’intero modello, dall’altro, possono dare l’effetto dell’incompletezza. Quello che resta, come sanno alcuni dialettologi e alcuni demologi, sono brandelli di racconti che dimostrano un legame tra piante, animali e uomini che va oltre il rapporto d’uso; le credenze sono ancora una traccia ben leggibile ma, anch’esse, almeno da parte degli studiosi, vanno portate fuori dal comodo e suggestivo terreno dell’aneddoto, legittimo ma attinente al altri scopi e luoghi. Più utile è invece leggervi le indicazioni per ricostruire i riferimenti tra i regni e le dimensioni. Mi ha sempre interessato il fatto che, ad esempio, terreno deputato per credenze e riferimenti molto complessi, sono gli insetti, con il loro statuto particolare su cui tornerò in seguito. — 30 — 3.5. Vorrei soffermarmi ora brevemente su quelli che sono indubitabilmente gli aspetti più centrali delle cosmogonie nella maggior parte delle tradizioni riportate negli studi etnologici: — il rapporto uomo/ animali, piante — le corrispondenze tra i diversi regni — mondo ‘grande’/ mondo ‘piccolo’ — animali grandi (mammiferi) / animali piccoli (uccelli, pesci, rettili, insetti). Ciascuno di questi temi richiederebbe un intero lavoro di per sé. Mi limiterò e riportare alcune osservazioni generali su qualcuno di essi, proprio per provare a indicare alcune delle nuove direttrici che la ricerca potrebbe proficuamente imboccare. In particolare mondo grande / mondo piccolo e animali grandi/ animali piccoli saranno ripresi in modo un po’ più preciso nell’intervento nella seconda parte. Al di là dei rapporti tra uomo e animali totemici, in alcuni casi il quadro che ne esce è quello di un sistema complesso e affascinante in cui alle famiglie originali si associano animali. Ancora per i Dogon, ad esempio “l’animale è come il gemello dell’uomo (Griaule 1968:170). Inoltre “ogni famiglia di uomini è alla testa di un’intera classe di animali” – dice Ogotemmeli. Il che sta a significare che “ogni famiglia di uomini faceva parte di una lunga serie di esseri e l’insieme delle famiglie era legato al regno animale tutto intero. E, dietro di esso, apparivano oscuramente le serie vegetali” … “Così l’uomo, in ciascuna delle otto famiglie, dava il via a degli esseri, e propagava la vita fino all’estremità di una serie che comprendeva l’ottava parte del creato…16 Ciò significa che quando un bambino nasce in una delle otto famiglie, tutto il creato è messo in movimento” (op. cit. pag. 171). Il quale creato è un tutt’uno, come dimostrano le rappresentazioni che attestano questi rimandi. Per quanto riguarda questo aspetto, ricordo la discussione che possiamo trovare, tra gli autori italiani, in Cardona 1990. Egli parte dal presupposto che per la categorizzazione di ampi settori dell’esperienza sia centrale una visione antropomorfa, il corpo umano come modello su cui proiettare gli altri elementi del mondo naturale. A questo aggiungerei i rapporti a cui ho appena fatto cenno tra uomo e classi di animali o piante e anche minerali ed altre sostanze, come l’acqua, l’aria, il fuoco. I rimandi sono così complessi e numerosi che vi farò solamente cenno, perché ognuno merita di costituire oggetto di uno studio a parte. Da un lato vi sono i modelli di riferimento olistici, come nel caso appena accennato a proposito dei Dogon; si vedano nella figura alcuni esempi di proiezioni che riguardano anche le dimensioni spaziali. Un’altra rappresentazione di tipo antropomorfo e quella riportata da Cardona per alcuni popoli del Camerun. 16 Lo schema della disposizione degli esseri per i Dogon è rappresentato da un edificio a scalini, simile al Granaio, ne do solo un accenno: “la scalinata settentrionale, corrispondente alle Pleiadi, sosteneva gli uomini e i pesci; la scalinata orientale, Venere, era occupata dagli uccelli; la scalinata occidentale, corrispondente alla stella detta ‘a grande coda’, portava gli animali feroci, i vegetali e gli insetti”. Griaule, 1968, p. 35. — 31 — Figura 5. Diagramma d’insieme del cosiddetto ‘Sistema sociale della Terza Parola’. Figura 6. Diagramma dei rapporti che regolano le parentele matrimoniali in base al principio dell’alternanza destr/sinistra, alto/basso, pari/dispari, maschio/femmina. ricordava lo stomaco (1° scompartimento); – la seconda, rossastra, attraversata da una riga bianca, aveva il colore del ventriglio (2° scompartimento); – la terza era rossa come il cuore (3° scompartimento); – la quarta biancastra come il miglio femmina (4° scompartimento); – la settima rosea come il fegato (7° scompartimento); – l’ottava verde e bianca come la bile (8° scompartimento); Il Nommo espettorò anche le unghie del morto sotto forma di càuri in ragione di otto per ogni mano e per ogni piede. Li depose al posto delle mani e dei piedi incominciando da destra e nell’ordine seguente: — 32 — — 33 — Come si vede, alcuni di questi riferimenti sono forse meno presenti e ormai più ridotti nella nostra realtà, dove sono invece ben rappresentati gli usi delle parti del corpo, proiettate principalmente su piante, ma anche sull’orografia, sugli strumenti e anche sui manufatti. Il primo esempio è relativo alle parti del corpo che sono in relazione con lo spazio, i minerali, gli elementi, i punti cardinali e i tipi di parola, così centrali per i Dogon; nel secondo caso il riferimento è all’albero con le sue parti. I rimandi tra pianta e essere umano, dalla tradizione latina ai dialetti romanzi, saranno per l’appunto oggetto di un intervento (cfr. Trumper in questo volume) in questa sezione. L’ultimo esempio è ancora una volta tratto da esempi romanzi (v. Trumper, 1985) a dimostrazione che le permanenze, a saperle vedere, sono più numerose di quanto si pensi. DIMENSIONE CANE CAPRA MULO/ASINO CAVALLO ALTO Rispetto all’uomo + + MOLTO ALTO Rispetto all’uomo PICCOLO Rispetto all’uomo + - + che possiamo riproporre nel diagramma ad albero: dimensione ALTO rispetto all’uomo + MOLTO ALTO + cavallo + cane 4.1. Tutte queste osservazioni legate a rapporti tra mondi, dimensioni, direzionalità negli scambi cognitivi, hanno a che fare con un altro problema maggiore, spesso chiamato in causa a proposito delle classificazioni popolari. Mi sto riferendo alla dimensione metaforica, ossia a tutti quegli aspetti che, come fa notare anche Cardona nei passi citati precedentemente, non sono di solito considerati negli studi tradizionali di dialettologia o almeno non in maniera organica. Rimanendo all’interno del problema del modello e occupandosi di etnoclassificazioni, l’assunto è invece che non si può prescindere dalla discussione sul peso da dare alla quantità di metaforizzazione presente nei sistemi di denominazione popolari; come ho già detto in altre sedi (cfr. Maddalon, 1998:263 e segg.), i riferimenti e le proiezioni su altri domini cognitivi, fatti nel caso dei generi naturali, rappresentano forse un caso generale di ciò che spesso di passava sotto la denominazione di metafora. Le discussioni recenti sul ruolo e sulla natura dei meccanismi metaforici sono innumerevoli,17 soprattutto grazie alla fortuna che tale concetto riscuote a vario titolo, specialmente in ambito cognitivistico e nelle correnti di studi semantici che a questo fanno riferimento. Tra le moltissime citazioni e riferimenti possibili mi pare interessante commentare alcune affermazioni di Lakoff-Turner, 1989.18 Già nel suo sempre molto citato Women, fire, and dangerous things, il ruolo della proiezioni metaforiche era stato esaminato in modo estremamente approfondito e da molteplici angolazioni, presentando del problema una visione piuttosto equilibrata e utile. In particolare, mi pare interessante la sua affermazione, che sposta in modo assai cospicuo, come si vede, la definizione classica di metafora proponendo di considerare che “a metaphor is not a ‘figure of speech’, a linguistic object. Rather, it is a conceptual or cognitive organization expressed by linguistic object. As a consequence, many different linguistic expressions may evoke (or invoke) the same metaphor”. – PICCOLO mulo/asino 4. Metafore – capra Inoltre “metaphorical expressions pervade ordinary language, they are not just used for artistic purposes. These everyday metaphors reveal cognitive and cultural conceptions of the world”. I tratti sono periferici in quanto non necessari per l’identificazione né linguistica né oggettiva. Un simile micro-sistema semantico potrebbe ben spiegare una serie di metafore gestaltiche applicate ai ‘mucchi’ di fieno e di grano come Veneto Calabria BICA (fieno) CASTELLO (grano) mula, mussa (‘asina’) cavagliune/cavagghiuni cavajon (timugna. -ògna) — 34 — 17 Partendo dal presupposto che il linguaggio sia un caso particolare di categorizzazione, Lakoff propone di considerare quattro tipi di modelli cognitivi per darne conto: – modelli proposizionali che specificano gli elementi, le loro caratteristiche e il tipo di rapporti che tra loro si instaurano; – modelli per immagini schematiche che specificano la nostra conoscenza sulla scorta di dimensioni, direzioni, forme, ecc.; – modelli metonimici che riguardano i rapporti tra uno o più elementi e ciò a cui possono rifarsi, di cui il tipo specifico è la relazione “parte per il tutto”; – modelli metaforici per mezzo dei quali si proiettano elementi da un modello proposizionale o da un modello per immagini schematiche ad un altro. (Lakoff 1987:113-4). 18 G. Lakoff – M. Turner, More than cool reason: A field guide to poetic metaphor. 1989. — 35 — Già queste due affermazioni ci danno un’idea di quanto siano necessari ulteriori riaggiustamenti sul modo in cui sono state commentate le metafore riguardanti la natura, almeno per quanto ci riguarda; peccato non trovare traccia di questo dibattito in ambito italiano dove, come ho già avuto di lamentare, Lakoff, ad esempio, è giunto solo grazie al suo libro più famoso, forse più citato che letto, visto che anche nelle opere più recenti sulla semantica la discussione sui problemi teorici ed applicativi non decolla (cfr. ad esempio il volume sulla Semantica, a cura di D. Gambarara).19 Il concetto di metafora è strettamente connesso con quello di schema o meglio di schema concettuale. Nelle più recenti teorie sui modelli cognitivi, con particolare riferimento allo studio del significato, il punto di avvio è costituito dalla considerazione che la nostra conoscenza è organizzata mediante schemi cognitivi, appunto: “They constitute cognitive models of some aspect of the world, models that we use in comprehending our experience and reasoning about it. Cognitive models are not conscious models; they are unconscious and used automatically and effortlessly.” (Lakoff-Turner 1989: 65-67). Così, non sono direttamente osservabili ed esperibili e spesso devono, con qualche difficoltà, essere ricostruiti mediante inferenze. Un’osservazione contenuta ancora nel meno famoso (e meno citato) More than cool reason (Lakoff-Turner 1989, che a me pare efficace, riguarda i proverbi, il cui uso è molto frequente e gradito nei lavori sulle culture e tradizioni popolari. Un uso un po’ più adeguato e informativo mi pare quello che ne fanno appunto gli autori. “What is taken for granted in proverbs is that we have a certain sense of the order of things, that we know a great deal about man’s place in the universe. Proverbs concern people, though they often look superficially as if they concern other things- cows, frogs, peppers, knives…- We understand proverbs as offering us a way of comprehending the complex faculties of human beings in terms of these other things.” (op. cit: 166). Tornando alle metafore sulla natura in senso più generale, è indubbio che esse siano molto rilevanti e si situino a diversi livelli di esperienza, da quelli maggiori a quelli più particolari, relativi a singoli elementi. Tra quelle di livello più generale vi è quella secondo cui gli uomini sono piante o animali. Ai livelli più specifici si situano quelle che proiettano caratteristiche, qualità o semplici parti su elementi diversi da quelli che li possiedono originariamente. Sempre seguendo la trattazione in Lakoff-Turner, vediamo la gerarchia di spostamenti che gli autori ipotizzano proprio a proposito di quella che chiamano “The Great Chain Metaphor”, con un ovvio richiamo alla nota Great Chain of Being. 19 Cfr. Semantica, a c. di D. Gambarara, Carocci, 1999. — 36 — The basic great chain — Humans: higher-order attributes and behaviour (thought, character) — Animals: institutional attributes and behaviour — Plants: biological attributes and behavior — Complex Objects: structural attributes and functional behaviuor — Natural Physical Things: natural physical attributes and natural physical behavior. Una prima fonte di proiezioni metaforiche è costituita evidentemente dallo spostamento di caratteristiche, di attributi o comportamenti da un dominio all’altro e, in modo più complesso, lo spostamento di comportamenti che vengono interpretati mediante attributi. Mi pare evidente anche che la direzionalità più rappresentata è quella che, nel caso si consideri come punto di partenza l’essere umano, va dagli elementi naturali, dalle piante, dagli animali verso l’uomo. Eventi/ oggetti naturali → uomo = it. ‘sei una frana’, ven. ‘te si na sopa’ (sei ignorante, stupido), cal. ‘si ‘nnu trùonu’ (stai benone). Piante → uomo = it. ‘è una quercia’, ven. ‘el xé come la gramegna’, cal. ‘è nnu citrùlu sementinu’. Animali → uomo = it. ‘non è un’ aquila’, ven. ‘el xé na pìtima’, cal. ‘è nnu palàmitu’, ecc. e potrei continuare a lungo. Come si vede, e come risulterà ancor più chiaro quando affronterò in generale il problema di ‘animale/ bestia’ nell’altro intervento in questo volume, ciò che serve ricostruire è il quadro complesso dei rimandi tra domini cognitivi, più che seguire la singola operazione metaforica che va da elemento a elemento. Così, ad esempio, si può cogliere a pieno la complessità dell’operazione che sottostà ad un’espressione, ormai caduta in disuso, come quella di dire di un uomo non particolarmente brillante intellettualmente, ‘el xé sta incalmà co’ un òco’ (è stato innestato con un’oca maschio), considerando che il punto di partenza è la proiezione delle caratteristiche, non tanto comportamentali, quanto ‘intellettuali’ dell’animale, incrociate con l’idea che si possa effettuare una specie di esperimento transgenico ante litteram, ‘innestando’ (proiezione sul mondo vegetale) esseri di due specie non compatibili. Detto così sembra solo l’occasione per una battuta ma, anche quando l’effetto è comico, le operazioni che lo sovraintendono sono comunque molto serie. Dotati di tutto questo bagaglio di problemi, ma anche di nuove prospettive per affrontare in modo nuovo problemi annosi e per inboccare nuove strade per trovare soluzioni, finora non trovate, si possono capire meglio le soluzioni proposte in alcuni degli interventi che seguiranno. — 37 — Bibliografia Griaule, M. Dieu d’eau, Chêne, Paris, 1948, (trad. it. Dio d’acqua, Bompiani, Milano, 1968. Atran, S. Cognitive foundation of natural history. Cambridge, 1990. Barsanti, G. La scala, la mappa e l’albero. Immagini e classificazioni della natura fra Sei e Ottocento, Firenze, 1992. Berlin, B. Ethnobiological Classifications: Principles of Categorisation of Plants and Animals in Traditional Societies, Princeton University Press, Princeton, 1992. Berlin, B. How Folk Botanical System Can Be Both Natural and Comprehensive, Draft per il Convegno Internazionale ‘Saperi Naturalistici’, Venezia, 1997, (in stampa). Calame-Griaule, G. Ethnologie et Language, Gallimard. Paris, 1965, (trad. it. 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Trumper – Marta Maddalon 1. I meccanismi pertinenti ai processi di denominazione della natura. Quale sia il livello pertinente, quello cioè in cui hanno probabilmente origine i processi di denominazione, è una discussione che si ritrova in molti lavori, teorici e pratici, sulle classificazioni popolari. In questo caso, essa riguarderà i termini ‘pianta’, ‘seme’ e ‘osso’, sia in senso storico, ripercorrendo la storia linguistica e cognitiva dei lessemi, sia in sincronia, evidenziando le corrispondenze, o le mancate corrispondenze, in culture a confronto. Il tema sarà trattato dal punto di vista linguistico, ma non solo; si discuterà se la centralità sia da ricercarsi, tassonomicamente e percettivamente, al livello generico, intermedio o di forma di vita; se l’espansione lessicale sia un processo produttivo dall’alto verso il basso e vice versa. Berlin e i suoi collaboratori hanno sempre insistito sulla preminenza del livello generico per tutti gli aspetti considerati, da quello linguistico a quello cognitivo o psicologico. Sebbene inizialmente l’opposizione su cui si incentravano maggiormente le discussioni fosse quella sullo status dei tipi monolessematici, a livello generico, e polilessematici, ai livelli inferiori o superordinati, Berlin 1992: 118 modifica parzialmente questa impostazione, attenuandola, e precisando che tale modalità va considerata più che altro come una TENDENZA, spesso attuata, ma non come regola assoluta. In Berlin 1992: 140 i livelli intermedi tra quello generico e forma di vita sono addirittura raggruppati in un ulteriore livello sopra-generico che può essere creato in determinate circostanze come “a chain of polytypicality over ... ethnobiological ranks”. Atran 19963, nella sua discussione sulla ricerca di un “basic level” nell’organizzazione tassonomica, con un preciso riferimento a Owen 1866, lo lega, con riferimento in questo caso alla specie, in modo esplicito al livello lessicale, (pag. 26: — 41 — generic- specieme; questo livel- A questo punto sia il genus (astratto) che la specie (concreto) hanno i loro contenuti particolari; entrambi hanno la loro importanza relativa nel modello, ma resta aperta la questione se somiglianze e dissimiglianze siano il punto nodale, rispetto all’organizzazione del modello stesso, e quale debba essere lo status rivestito, per l’appunto, dalle differenze. Negli autori classici queste ultime non sono di per sé, in un senso stretto, binarie, ma possono essere viste come somme di tratti apparentemente binari. Questo è il modello apparentemente ‘aristotelico’ a tre differenziazioni, che, comunque, troviamo anche in testi cinesi coevi, e che può essere schematizzato come segue: X = tratti definitori [vivente + nutrimento + crescita] = pianta, animale o umano; X + tratti Y [movimento volontario + particolare tipo di sensibilità] = animale e/ o umano; X + Y +tratti Z [raziocinio + senso morale] = animale umano. I tratti in questione sono di due tipi, cioè definitòri e caratteristici. Rivediamo ora alcune delle posizioni degli autori su questo argomento. La posizione teoretica da Tommaso d’Aquino in poi può essere sintetizzata come segue: a) la simiglianza appartiene al genus e non costituisce identità, che invece è stabilita a livello specifico (Summa Theologiæ Q. 74 Sol. 2); b) i tratti ‘caratteristici’ sembrano appartenere al genus, mentre i tratti ‘definitòri’ attengono allo specifico.7 In tal modo la corruptio (il processo di essere rovinato, di andare a male, come l’hordeum corruptum in Cesare, usato anche per ‘arto malato, pensiero malsano’ ecc.) cambia la specie ma non il genus, come nell’esempio di S. Tommaso del genus senza nome (non lessicalizzato) che contiene la specie di vino e aceto (uinum corruptum). Vinum contiene anche il subspecifico agresta (uinum in via generationis). È importante che ‘in necessitate’ (dal punto di vista della definizione) agresta e mustum possano sostituire uinum, in quanto appartenenti alla stessa specie, ma acetum non possa, sebbene vinum e acetum appartengano allo stesso genus, siano cioè ‘simili’. Evidentemente, [± corruptio] è un tratto definitòrio, [± in via generationis ± impuritas] sono differentiae caratteristiche. Una simile linea argomentativa è costruita sulla relazione tra le categorie latine frumentum, hordeum, triticum, far, spelta e siligo. In questo caso, il concentrarsi su una struttura ad albero di tipo gerarchico, i cui rami sono stabiliti in base a partizioni di tipo binario, ci impedirebbe l’estrapolazione delle distinzioni basiche tra le piante nei sistemi classici, greco (Teofrasto) e latino (Seneca, Plino), con l’effetto della rinuncia a ogni possibile generalizzazione. Se ci si concentra troppo su una contrapposizione tra livelli, cioè quello generico rispetto a quello specifico, oppure a quello intermedio rispetto a ‘forma di vita’, si corre il rischio di impedire una seria investigazione comparativa del piano semantico, soprattutto riguardo alla corretta individuazione dei ‘blocchi lessicali’ che danno origine a componenti più vaste nel sistema. Le due gerarchie classiche sono fornite nella fig.1. Anche se sappiamo che pova può essere identificato come [legnoso], Teofrasto ci rimanda all’opposizione base a quattro termini kat jei\dh; sappiamo dagli autori latini che la categoria sata, ossia ‘parte riproduttuva’ + ‘prodotto’ per pianta, animali e uomini, è ulteriormente suddivisa nell’opposizione binomiale sata et arbusta, in cui il secondo termine è un collettivo che include altre categorizzazioni come arbor e frutex. Più non è dato sapere. Nello schema del greco futovn ‘pianta’(< fuvw ‘crescere’; ‘esistere’ < IEW 146 *bheu-, NeoIE *BAW-) non è in connessione con sporav/ spovroÀ/ spevrma < speivrw ‘to sow’ (<IEW 993. 2 *sper-, NeoIE *SP’ER-): essi devono essere relati attraverso modelli cognitivi diversi,8 mentre nel caso del latino la contrapposizione attiene ad un unico sistema cognitivo, come è illustrato nella fig. 2. La differenza tra queste due lingue e culture indoeropee sta nelle proprietà del modello e nel complesso delle realizzazioni semantiche stabilite per entrambi, rispettivamente. Fig.1 Proseguendo nel nostro percorso notiamo che più di mille anni dopo, Alberto Magno nel suo De Vegetabilibus riorganizza lo schema latino in senso che si vorrebbe universale, introducendo “per diuisionem corporum plantarum” [I.110: “attraverso una separazione che riguarda la forma delle piante”] due contrasti gerarchici, uno formulato esplicitamente in modo binario nel modo seguente [± ligneitas] = [ ± legnoso], l’altro oppone il possesso di un “stipes fortis”oppure di un “caudex” a quello di una struttura rampicante “per modum palmitum”.9 per analogia, o per differenza della loro rispettiva posizione”]; [I.3] 489a: “ jEn ejnivoiÀ d j oujk e[sti to; a[rren kai; qh'lu: h|/ kai; tw'n pro;À th;n dhmiourgivan tauvthn diafevrei to; ei\doÀ.” 7 Summa Theologiæ vol. 28 Q. 74 Art. 4. 4, Resp.: “Respondeo dicendum quod circa materiam huius sacramenti duo possunt considerari: scilicet quid sit necessarium, et quid sit conueniens.” (corsivo nostro). 8 Lakoff 19902; per la resa in forma di diagramma, si veda Berlin 1992: 36- 51, e per discussioni e applicazioni Trumper, Maddalon 1995. 9 Alberto Magno, De Vegetabilibus I.153, 154, 155: “Arbor enim est, quæ habet ex sua radice stipitem fortem, super quem nascuntur rami plures...... Plantæ autem, quæ sunt mediæ inter arbores et herbas, quæ dicuntur ambragyon græce, et latine arbusta, habent emissos a radicibus suis multos ramos per modum palmitum. Et sunt trium generum......et tertium est sicut frutex. Vocamus enim frutices — 44 — — 45 — Tali opposizioni possono essere formulate nel modo seguente: Fig.2a PLANTA X [+ legnoso] herba [- legnoso] arbustum [- grande + rampicante] [+ grande + fusto] in cui la relazione tra il latino arbustum e arbor si è rovesciata rispetto agli usi rinvenuti in Seneca e Plinio. Lo schema che ne risulta è più vicino a quello greco che non a quello latino, più complesso. Trecento anni più tardi Andrea Cesalpino da Arezzo, nel suo De Plantis, modifica ulteriormente questo assetto, stabilendo una prima opposizione binaria [+ legnoso] vs. [-legnoso][vita breve], che si potrebbe schematizzare come segue: Fig.2b PLANTA ‘figlio’, ‘figlia’, può significare ‘campi coltivati’ o ‘campi preparati per la coltivazione’. Questo è vero, ad esempio in Ovidio: Tristia IV.I. 79-80 “Vtque rapax pecudem quæ se non texit ouili/ Per sata per silua fertque trahitque lupus”, ma più frequentemente ha invece il significato dell’inglese “crops”, come in Varrone: De Re Rustica I.IX (“...ut radices satorum comburat”: “per bruciare le radici dei ‘crops’ ”).11 Talvolta vi è ambiguità tra i due significati (ad es. Cesare: De Bello Civili III.XLIV), comunque, il significato generale di “pianta”, “vegetazione”, così come “semenzale”, è attestato fin da tempi molto remoti, per esempio Varrone: De Re Rustica I.II (“Eæ enim omnia nouella sata carpendo corrumpunt, non minimum uites atque oleas”), id. I.VII, Virgilio: Georgiche I.443-44 (“...namque urguet ab alto/ Arboribusque satisque Notus pecorique sinister” già citato, dove il significato può ben essere espresso in inglese “foe to trees and plants and animals”).12 Questo significato sembra ben attestato anche negli scritti di Seneca e Plinio,13 sebbene non sia assente in autori come Quintiliano e Columella 14 o anche minori come Germanico 15 o Cornelio Frontone.16 In testi cristiani seriori, il significato generale di “pianta”/ “vegetazione” diventa considerevolmente più raro, ad es. in Lattanzio, De Ira Dei 13.7.38 (“...ut sata imbribus inrigentur, ut uitis fetibus, arbusta pomis exuberent...”), Ilario, De Trinitate 9.4 riga 9 (“Cerne arbores, sata, pecudes”), 12.53 riga 24 (“omnia sata” = “ogni vegetazione”), Mario Vittorino: Ars Grammatica 3. 109 ea(s), quæ multos ex una radice ramos emittunt, cum tamen sint lignei rami...[herba]... parum aut nihil habet ligneitatis.” 10 Brown 1979: 258: “...initial suprageneric classification of plants universally entails a ‘large plant’/ ‘small plant’ distinction.” 11 Sata, dunque, esiste allo stesso livello tassonomico dell’inglese ‘crops’, cioè si esplicita come [seminato + coltivato + prodotto], per cui non vi è un termine italiano equivalente allo stesso livello della tassonomia delle piante. Questo è uno dei problemi fondamentali discussi in questo lavoro. Cfr. anche Varrone, De Re Rustica I.XXXI (“sata admixta”: ‘crops’ mescolate), Virgilio, Georgiche I.443444 (“...namque urget ab alto/ arboribusque satisque Notus pecorique sinister”) oppure IV.330-32 (“Quin age et ipsa manu felicis erue siluas,/ Fer stabulis inimicum ignem atque interfice messis./ Iure sata et ualidam in uitis molire bipennem”), Pseudo-Ovidio, Nux v. 61 (“Me sata ne lædam, quoniam et sata lædere dicor”), Seneca, De Beneficiis VII.XXXI.3 (“...sata euocat, percoquitque fructus”), nei Frammenti di Germanico IV.8-9 (“Idem ne tellus, nimium siccata, repente/ Destituat sata,...”), e anche Plinio nella sua Naturalis Historia (per esempio in XVII.III.36, “erit igitur hæc optima et operi et satis”; XVIII.XLIV.154 “com mune autem omnium satorum uitium uricæ”; XVIII.LXIX.281 dove i manoscritti hanno “huius defluvio uelut ex ubere aliquo sata cuncta lactescunt”, che Mayhoff e altri considerano un’interpolazione, cosa, quest’ultima, piuttosto incerta; XVIII.XLIV.154, XVIII.LXIX.281) o Seneca (Naturales Quæstiones V.18.13 “ad alendos satorum atque arborum fructus”). 12 Riportiamo altre citazioni che dimostrano gli usi commentati sopra: sempre Virgilio, Georgiche, II.349-350 (“Inter enim labentur aquæ, tenuisque subibit/ halitus, atque animos tollent sata...”), Ovidio, Fasti I.351-52 (“Nam sata uere nouo teneris lactentia sulcis/ Eruta sætigeræ comperit ore suis”). 13 Plinio: Naturalis Historia XI.VIII. “Ceras ex omnium arborum satorumque floribus configunt excepta rumice et echinopode”, XVII.II.18 “Magis fruuntur aquis sata non statim auferente eas sole”, XVII.XVIII.90-91 “pinguis alno, sed pascens sata”, XIX.XXXV.117 “In horto satorum celerrime nascuntur ocimum...”, XIX.LVII.176 “Morbos hortensia quoque sentiunt sicut reliqua terrâ sata” ecc. 14 Il significato più generale è quello registrato in Quintiliano, Institutiones Oratoriæ XII.X.19 “uelut sata quædam cælo terraque degenerant...”, mentre sembra si abbia “semenzale” = ‘pianta giovane’ in VIII. Prefazione “propter id quod sensus obumbrant[ur] et uelut læto gramine sata strangulant[ur], Columella: De Re Rustica X.320 “Exurat sata ne resoluti pulueris æstus” ecc. 15 Germanico Aratea 336-37 “Cum tetigit solis radios, accenditur æstas,/ Discernitque ortu longe sata.” 16 Cornelio Frontone, De Feriis Alsiensibus II “...siluas et sata radicitus haurirent...”. — 46 — — 47 — X [+ legnoso] arbor [+ dotato di tronco] Y [- legnoso] frutex [- dotato di tronco] suffrutex [- vita breve] herba [+ vita breve] Cesalpino divide le strutture dal punto di vista linguistico in due rami separati, con espansioni (frutex, suffrutex) e estende la sua forma di vita in due categorie non lessicalizzate, piuttosto che in una, come in Alberto Magno. È interessante notare che le espansioni semantiche latine non cominciano né finiscono con ‘pianta grande’ ~ ‘pianta piccola’, contrariamente all’universale ipotizzato in Brown 1979.10 Uno dei problemi del modello originario latino, come evidenziato nelle schematizzazioni, è costituito dal fatto che “pianta” sembra essere una categoria non lessicalizzata, e tale resta anche in molti autori classici: infatti sata, formalmente è il neutro plurale del p.p. di serere ‘to sow’, a parte il significato poetico di ‘progenie’, (“... omnia sata arboresque et herbæ parturiant...” = “che tutte le piante, sia alberi che erbe, possono produrre frutto”), mentre l’assoluta maggioranza degli autori da Girolamo e Ambrogio, attraverso Agostino, Paolino da Nola e Sulpicio Severo, fino a Cassiodoro,17 Isidoro e anche a Beda nel VI- VII secolo,18 usa sata con l’accezione ristretta dell’inglese “crops”/ “pianta coltivata” e anche “campo coltivato”, le “coltivazioni”, ecc. Una certa ambiguità si riscontra in Gregorio Magno, cfr. Dialoghi III.9 riga 6 “quæque sata ac plantata”, III.9 line 19 “sata uel plantata”, dove il contrasto oppone “piante” (generico) a “germogli” (partonimico), sebbene possa essere “crops” (seminato) rispetto ad “albero” (cresciuto dal germoglio). Per un tentativo di storicizzare il significato di planta e plantaria si vedano le nostre osservazioni che seguono. Dalle prime attestazioni in letteratura su planta, e dal suo derivato neutro plantaria, si evince che il significato prevalente è quello di “pollone” o “talea”/ “germoglio”/ “pianta giovane o pollone usato per innesto”, mentre il collettivo plantarium corrisponde a puluinus “vivaio” (dove talee e polloni sono coltivati per l’innesto). Il primo lo si ritrova in Virgilio, Georgiche II.23-24 (“Hic plantas tenero abscindens de corpore matrum/ Deponit sulcis...”), II.65 (“Plantis et duræ coryli nascuntur...”), II.79-80 (“... deinde feraces/ Plantæ immittuntur:”), in Plinio: Naturalis Historia XIX.41 (“...cuius planta extremo uere plantatur...”), XIX.XLIII.153 (“[carduus] autumno planta...”), così nella Naturalis Historia. XIX.XLVII (“planta uel, si nondum germinat, spongea”), XIX.LIV.170 (“melius tamen planta tralata ”), in Columella: De Re Rustica X.147-148 (“Primitiis plantæ modicos tum præbeat imbres/ sedulus irrorans olitor ”), X.153 (“...sicco ut consuescat puluere planta...” ) ecc. Ciò continua ad essere vero apparentemente sino a Isidoro, poco dopo il VI secolo, cfr. Etymologiæ XVII.6.12 “Plantæ sunt de arboribus; plantaria uero, quæ ex seminibus nata sunt cum radicibus et a terra propria transferuntur.” Lo stesso riferimento a parte di pianta, solitamente la giovane talea o pollone, pronti per l’innesto o per essere piantati, è presente in plantare, attestato generalmente al plurale, come in Virgilio, Georgiche II.26-27 (“Siluarumque aliæ pressos propaginis arcus/ Expectant, et uiua suâ plantaria terrâ”), in Calpurnio Siculo: Bucolica II (“...irriguo perfunditur area fronte/ Et satiatur aquâ, sucos ne forte priores/ Languida nutata quærant plantaria terrâ.”.19 In autori latini seriori quali Rufino, Ambrogio, Agostino, Girolamo, Ennodio, Leone il Grande ecc., il significato di planta/ plantæ e plantaria è ancora ristretto a questo particolare insieme (“nuovi germogli”),20 sebbene sempre più spesso il significato “nuova vita” domini nelle estensioni metaforiche presenti solitamente nelle omelie. Questa predominanza, assieme alla nuova restrizione aggiunta a sata, che la limita al suo significato originario di “messe”, con nuove possibilità metonimiche (pars pro toto) che producono nuove lessicalizzazioni della categoria non ancora lessicalizzata di “pianta”, conduce ovviamente planta da “germoglio”/ “talea” a “pianta”; ciò ha luogo in un periodo non meglio definito che va dall’800 al 1200, all’incirca. Si potrebbe del resto ricordare che in Ambrogio plantaria sono non solo i germogli e le talee di piante legnose o rampicanti, ma che il termine è applicato anche ai “germogli” o ai “semenzali” di vegetali o erbe che non rientrano nello schema classico. A questo proposito, troviamo in Ambrogio, Exhortatio Virginitatis 5.29 riga 7 “...uelut olerum plantaria sunt, in quibus frequens gelu est; et ideo sicut holera herbarum cito cadunt atque marcescunt”, in cui siamo evidentemente di fronte al primo caso di generalizzazione del termine. Si potrebbe affermare che sviluppi successivi di planta “talea”, “germoglio”, “pianta giovane”, anche “semenzale”, sono già adombrati in alcuni passaggi, relativamente ambigui, di Plinio: cfr. Naturalis Historia, II.XII.66 (“discedentes virus relincunt dum radici auellitur planta...”), XVII.XXVIII.124 (“...ut inlabito cortice atque ut sectura inferior ponatur semper et quod fuerit ab radice, adcumuleturque germinatio terra donec robur planta capiat...”), XIX.XL.133 (“...transfertur autumno planta...” = “e la pianta viene trapiantata in autunno”). La storia più recente del lessema e la sua posizione nello schema metonimico generale di “pianta”, resta abbastanza oscuro almeno fino al 1100-1200, all’incirca, quando cioè planta passa a significare in modo non ambiguo la forma di vita “pianta”, in tutti gli autori medievali posteriori. Ciò che apparentemente sembra essere successo in latino è, in origine, uno spostamento ‘dall’alto verso il basso’ che coinvolge la lessicalizzazione di un livello forma di vita con del materiale esistente a livello intermedio ad esempio quercus (generico) ⊂ arbor (intermedio) vs. arbusta (forma di vita: un collettivo neutro plurale, derivato originariamente da arbor)21 ⊂ sata (unique-beginner), mentre nel latino medievale si ha l’opposto, cioè un’espansione dall’alto verso il basso nella quale la forma di vita diventa intermedio, allineandosi con arbor e lasciando la forma di 17 Cfr. Cassiodoro, Sententiæ III col. 677 riga 7 “...in quibus quanto tardius sata semina exeunt, tanto ad frugem cumulatius crescunt”. 18 Cfr. del Venerabile Beda la In Marci Euangelium Expositio I.4 r.1972 “...uel cum in toto mundo sata fuerit non exsurgit in holera sed crescit in arborem ut in aliis euangelistis apertissime dicitur” (= “..o come tali semenzali, in tutto il mondo, non crescono come verdure ma come alberi, cosa detto in modo molto chiaro negli altri Evangelisti”). In questo particolare caso sata sembra sostituire plantæ nel senso di ‘semenzali’ o ‘germogli’, di modo che si possa notare una certa interscambiabilità tra i termini. Vedi oltre per la discussione del problema. 19 E ancora: in Plinio: Naturalis Historia XVI.LX (“...uulgoque dotem filiæ antiqui plantaria ea appellabant”), XVII.XXXIV.149-150 (“Ideo nucibus potius quam uiue radicibus plantaria cædua implentur”), XXI.XXXIV (a proposito dell’abrotano: “plantaria transferuntur” = “le talee sono trapiantate”), sebbene più spesso che il contrario si ritrovi la forma plurale di plantarium come oltre, cfr. Naturalis Historia XIII.VIII.37 (“Ergo plantaria instituunt anniculasque transferunt et iterum bimas” = “Così essi costruirono dei vivai e vi trapiantarono annuali e biennali”), XVII.XII.65 (“Natura et plantaria demonstrauit multarum radicibus pullulante subole densa et pariente matre, quas necet...”). 20 Cassiodoro nel tardo sesto secolo dà, come significato usuale, ‘germogli’, cfr. Variæ VI.14.6 “Agricola diligens præveniendo adiuuat imbrem cælestem et ante rigat plantaria, quam pluuias mereantur optatas” (= “L’agricoltore attento anticipa incoraggiandole le piogge, innaffiando i germogli prima ancora che abbiano bisogno della pioggia tanto desiderata”). 21 La derivazione è arbustum < *arbos-to- < arbos = classico arbor < accus. arborem (il rotacismo intervocalico viene esteso analogicamente nel latino al caso nominativo); forse, in ultima analisi, un derivato dalla base per ‘palo’, ‘paletto’ ecc. IEW 63 *ardh-. — 48 — — 49 — vita non lessicalizzata: quercus (generico) ⊂ arbor vs. arbustum (intermedio) ⊂ X (forma di vita) ⊂ planta (unique-beginner). Notiamo così che il partonimico planta (originariamente ‘talea’, ‘germoglio’) ha preso il posto del partonimico sata. Ci sono, come si vede, spostamenti tra livelli, ma i processi di denominazione non sono necessariamente legati al livello generico, mentre sembrano essere ben connessi con quello intermedio. Forse il problema centrale non è quale debba essere il livello maggiormente pertinente nei processi di denominazione ma, piuttosto, il fatto che ci troviamo di fronte ad un sistema di relazioni in continuo movimento all’interno del modello stesso. Lo spostamento può cominciare ad ogni livello dato, posta l’unica condizione che si tratti di un livello sovraspecifico. Abbiamo, a questo punto, esteso la nostra analisi cercando di creare un modello analogo per “seme” (Maddalon 1998: 266-271), che può essere rappresentato come nella fig. 3.22 Nel corso dell’analisi, il modello è stato testato su numerosi parlanti di due regioni italiane (Veneto e Calabria settentrionale) e le configurazioni che ne sono risultate appaiono relativamente simili, come si evince dalla fig. 4, anche se ovviamente il problema richiede ulteriori approfondimenti in lavori futuri. Ciò che viene generalmente specificato [+seme di frutto], [-rivestimento legnoso] può occasionalmente offrire un’ulteriore dimensione oppositiva [±piccolo]. All’interno di “seme” il veneto distingue il contenuto ‘polposo’ (lóla per i cereali, qualche volta tutte le graminacee, altrimenti mególa) dal guscio o rivestimento (bula o spigaróla per le graminacee, sennò sgussa), come fa il calabrese (‘kernel’ o interno del seme: civu; ‘husk’ o ciò che riveste il seme: jusca per le graminacee, altrimenti corchja, còrchjula o scorza). Creazioni lessicali e spostamenti semantici sembrano cominciare in alcuni casi allo stadio dell’unique beginner, con movimenti dal basso verso l’alto del tipo: partonimico > unique-beginner > forma di vita > generico (derivati del latino semen < IEW *se- 889.2); altre volte siamo di fronte a movimenti dal basso verso l’alto: partonimico > generico (veneto mególa) > forma di vita (calabrese civu < cibus “cibo”). Nel primo caso, si parte concettualmente dal “seminare”, concetto tipicamente agricolo; nel secondo caso, da “seme” = “cibo”, che sembrerebbe caratteristico anche delle società di raccoglitori di piante e semi, punto di partenza un po’ strano per qualsivoglia gruppo indo-europeo, per non parlare di un gruppo romanzo. Tutto ciò richiede, comunque, ulteriori riflessioni. Gli schemi del germanico e del celtico, anche se per ora testati solo parzialmente, sembrano mostrare un’espansione lessicale dal livello più alto verso il basso; ad esempio, l’inglese presenta un unique-beginner ‘seed’ ⊂ forma di vita ‘seed’ ⊂ generico: (cereale ‘grain’’ + altro ‘seed’) + (seme legnoso ‘stone’ +seme non legnoso ‘pip’). ‘Pip’ vs. ‘stone’ può anche essere applicato a contrasti di natura più vasta.23 Il cimrico, d’altra parte, sembra possedere un unique-beginner ‘had’ ⊂ forma di vita ‘had, singolativo hedyn’ + ‘carreg, che può essere glossato con ‘hedyn ffrwyth’, forma di vita ‘had’ ⊂ generico (cereale ‘grawn’ + altro ‘hedyn’), ⊂ forma di vita carreg generico ⊂ (seme legnoso ‘carreg’ + seme non legnoso ‘graean’), mediando, in qualche modo, entrambi i modelli: dall’alto verso il basso (had > had, hedyn) e dal basso verso l’alto (carreg > carreg).24 L’albanese 25 sembra aver semplificato il modello, impiegando l’espansione dell’unique-beginner [farë] ⊂ forma di vita [farë] ⊂ generico (seme legnoso [bërthamë] + seme non legnoso [farë]), dove storicamente ⊂ = >. È interessante che anche l’interno di un osso di un frutto, usato per essere piantato, è chiamato anch’esso farë, cosicché bërthamë 26 indica allo stesso tempo il contenuto ed il contenente farë. In conclusione, la produttività lessicale e l’espansione semantica possono essere bi- o multidirezionali e il punto di partenza per i processi di denominazione può essere costituito da ogni possibile livello proposto nei lavori classici di Berlin e dei suoi collaboratori (fino alle modificazioni più recenti: Berlin 1992), con 22 Il modello rappresentato nella figura implica una prima revisione rispetto alla posizione evidenziata in Trumper, Vigolo 1995: 88-89. 23 Per quanto riguarda l’origine storica dei termini inglesi, ben due sono normannismi, cioè ‘grain’ < MIngl. grain < ant. franc. grain, grein (mod. grain) < REW 3846 grAnum, ‘pip’ = OED Pip3 = Pip- pin, Onions medio ingl. pipin < ant. franc. pepin (mod. pépin). ‘Seed’ < ant. ingl. sÖæd, cfr. ant. sassone sAd, a. a. ted. sAt (> Saat), Holhausen AEW 267 sÖæd “zu sAwan, vgl. lat. satum”. Si riporta la voce ad un comune derivato *sa-to- (comune all’italico, al celtico ed al germanico) di IEW II. 889 *sE(i)-2 ‘seminare; seme’. Per ‘stone’ si veda Holhausen AltEnglisches Wörterbuch 316 ant. ingl. stAn, cfr. a.a. ted. stein, ant. nordico steinn, con baltico sty~ras, lat. stIria, stIlla (< stIr-la), gr. sti'noÀ ecc., da riportare a IEW 1015 *stei- con formanti -no-, -lo24 Per quanto riguarda il cimrico, had, hedyn, sono in origine delle regolari strutture participiali, esiti di *sã-to- < IEW 889-891 *SÂ(I)- (ora NeoIE *SEIH-), presenti in tutte le lingue appartenenti al celtico P e commentate in Stokes, Bezzenberger 1894: 294, Morris Jones 19553 §63.vi.(1), ultimamente nel GPC. Carreg è presente nei glossari del 700-800 d. C. (Marziano Capella carrec<c> ecc.), testimoniato in tutte le lingue del celtico P, da dove risulta essere prestito sia nell’irlandese (ant. carric, mod. carraig), che nell’inglese (crag). Stokes, Bezzenberger 1894: 72 cercarono di riportare la voce ad una base *kars- ‘rauh’, mentre Morris Jones 19553 §95. iii. (2) lo riporta ad un ipotetico *kerek-, Pokorny (IEW 531-2) più giustamente alla base *KAR- 3. ‘hart’, con il greco kavruon ecc., derivato *kar-s-ika. Sembra connesso (come tipo *kar-s-) con carra ibero-celtica e con car[r]aris nomen saxi del CGL V. 274, 11 ecc. Per ulteriori commenti sulla diffusione nell’indo-europeo di *KAR-, *KAR-S-, *KAR-N-, si vedano LEW I. 8 (aceruus), Whatmough 19682 (1933): 63 e Whatmough 1970: 35, 251, nella toponomastica Livio XLII. 7, Plinio Naturalis Historia III. 49, CIL XIII. 3344, e nella bassa latinità Pseudo-Agostino, Sermo de diuersis 356, 10 (Migne P.L. XXXIX col. 1578). Grawn, come l’irlandese grán, il latino grAnum, forme germaniche, slave ed indiane, si riporta, per tutti i commentatori, alla base i.e. *GER-NO- (IEW 390-1) > *grnon. Graean viene confrontato, in Stokes, Bezzenberger 1894: 117 in poi, con l’ant. irlandese grian, bretone groan, grouan. Molti lo riporterebbero, insieme al celtico gro, alla base *GhREU- (IEW 460-2); Billy (TLG 84b) e Von Wartburg (FEW IV. 254-260) discutono la diffusione della voce parallela gallica graua nel latino volgare e nel romanzo. 25 Desideriamo ringraziare, per la discussione dettagliata di questi punti, sia Sh. Rrokaj (Università di Tirana) che G.M. Belluscio (Università della Calabria). 26 Se l’etimologia proposta in Meyer 1891: 34 (bërthamë < *p2tr-Amen < Lat. p2tra) risulta giusta, indica sostanzialmente lo stesso tipo di scelta lessicale come l’italiano regionale ‘òsso’, l’inglese ‘stone’ e il cimrico ‘carreg’, anche se prestito latino. Non accettiamo la spiegazione meyeriana di farë : in assenza di altre proposte convincenti, proponiamo di accogliere quella di Huld 1984, cioè farë < *spor-eH grado-o di *sper- IEW 993.2, cosa che allineerebbe l’albanese al greco e allo slavo meridionale (bulgaro, macedone). — 50 — — 51 — la sola restrizione che debba trattarsi di sovraspecifici. A nostro avviso, dunque l’atto di denominare, inteso come connesso alle categorie cognitive, tassonomiche e psicologiche, prende avvio dai membri maggiormente inclusivi dei modelli metonimici, come ci pare dimostrato dalle figg 2 e 3. Sono molti, comunque, i problemi ancora aperti! RIFERIMENTI (espliciti ed impliciti) AA. VV., Termau Amaethyddiaeth a Milfeddygaeth, UWP, Cardiff, 1994. AA. VV., Geiriadur Prifysgol Cymru, Lettere A-T, UWP, Cardiff, 1966-2002. P. Abelard, Expositio in Hexameron, Migne, Patrologia Latina vol. 178. Fig.3 fig. 4 Fig.4 gran seménsa SEME 2 seménsa legnoso S (frutto) E seménsa semedeicereali òsso M X Veneto E granèla mególa nonlegnoso 1 cùocciu mególa = séma simenta altri semi nùozzulu = ùossu SEME 2 civu àcinu; ariddu civu civu fig.3 S. Ambrogio, Exameron: G. Banterle (a c. di), Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera I, Exameron, Milano- Roma, 1979. simenta simenta (perlasemina) S. Albertus Magnus, De vegetabilibus lib. VII, ed. E. Meyer, Berlino 1867; ed. C. Jessen, Berlino 1867 (completamento dell’opera di Meyer), ristampa Minerva, Francoforte sul Meno 1982. Si sono consultate sia l’edizione originale di Meyer, che la ristampa Minerva. Calabrese sett. J. André, Noms de plantes et noms d’animaux en latin, Latomus XX11, Fac. 4, pagg. 649-663, 1963. J. André, Les noms de plantes dans la Rome antique, Parigi, 1985. unitàminimadellariproduzionedellapianta Etimi: ‘semensa’: veneto - seménsa REW 7804 *sEm2nt3a (< 7802); grán, granèla REW 3846 grAnum; òsso REW 6114 4ssum per la forma classica 4s; mególa REW 5463 m2d5lla; séma REW 7802 sEmen, con metaplasma; calabrese - simènta REW 7805 sEm2ntis (< 7802), con metaplasma; ‘civu’: REW 1896 c3bus ‘cibo’ (per lo sviluppo semantico cfr. Varvaro VES I. 246-8); ‘cùocciu’: deriva da kokkivon < kovkkon (> REW 2009 c4ccum) - per la storia della deriva cfr. VES I. 248-252; ‘nùozzulu’: REW 5981a n5c2us + -5lus (< 6009 n5x: lo spagnolo nuez suppone anche -4-; che vi sia stata una qualche contaminatio è innegabile); ‘ùossu’/ ‘òsso’: REW 6114; ‘ácinu’: REW 110 ac3nus; ‘ariddu, arillu’ (variante dialettale anche grillu, griddu): Rohlfs lo registra, proponendo gryllus, l’insetto, come etimo, confrontando anche lo spagnuolo grillo ‘germoglio’. DEI arillo indica, invece, il tardo latino arilli (X sec.), “etim. sconosciuto”; REW 646 ar3llus, cancellato nelle ultime edizioni, andrebbe restituito. Per le testimonianze medioevali cfr. Du Cange (lat.) vol. I. 384 col. C “Arilli sunt arida grana uuæ, dicta ab ariditate, quæ Græcè vocantur gargata ...”. Il Du Cange greco fornisce addirittura la voce ajrivloron. L’origine del termine, comunque attestato nel tardo latino, resta ancora enigmatica. — 52 — Aristotelis Opera, ed. O. Gigon ex rec. I. 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Per NeoIE si intende il neo-indo-europeo secondo i modelli di ricostruzione linguistica più moderni ed aggiornati. — 55 — Raccolte fitonimiche: per un modo alternativo di leggere gli etnotesti Nadia Prantera * Introduzione In campo italiano, soprattutto a partire dagli anni ’80 con l’uscita della Flora popolare Friulana di Pellegrini e Zamboni nel 1982, si sono notevolmente ampliati gli studi nel campo della fitonimia dialettale come conseguenza di un modo nuovo di concepire gli studi lessico-semantici e dialettologici: lo studio del lessico di una lingua per settori, ossia per aree lessicali prescelte come la fitonimia, la zoomimia (e all’interno di questa l’ittionimia e l’ornitonimia) e l’ergonimia. Si tratta certamente di settori lessicali privilegiati dell’analisi, in primo luogo perché sembra si prestino meglio di altri domini più astratti a considerazioni sulla strutturazione delle conoscenze sul mondo naturale,1 domini in cui al ricercatore sembra di muoversi in un terreno facile perché supportato da principi e leggi rigorose, quasi quanto quelle delle scienze naturali, dove per esempio un botanico ‘per mestiere’ classifica le specie identificandole in modo non equivoco, date certe caratteristiche oggettive e a partire dal sistema classificatorio che le prevede. Si parla infatti di ‘etnoscienza’, termine che ha avuto una certa fortuna in Italia e con il quale si intende la serie dei processi di appropriazione, da parte dell’uomo, del- Ringrazio Marta Maddalon per l’aiuto costante e i numerosi suggerimenti. Cfr. M. MADDALON, Atti del Convegno sui Saperi Naturalistici 1997 [in stampa]: “(…) questa preferenza nasce probabilmente dal considerare questi domini altamente strutturati (rovesciando la prospettiva: come dire che essi sono intrinsecamente strutturati ergo si tratta di renderlo esplicito). Ciò viene spesso giustificato anche dalla presenza di una gerarchia interna ai domini stessi, dalla loro scomponibilità in ‘atomic components’, dal prestarsi, meglio di altri domini più astratti, ad una divisione in categorie discrete.” * 1 — 57 — l’ambiente circostante e dei sistemi classificatori sviluppati.2 Se però una pianta per un botanico è un qualcosa che testimonia una diversità naturale che è preesistente al nostro percepirla come tale, una comunità di parlanti invece non pertinentizza tutte le diversità esistenti in natura, non fa delle classificazioni oggettive del mondo esterno, ma classifica in base a esigenze culturali e funzionali proprie della cultura popolare che focalizza interessi diversi da punti di vista diversi.3 Questi domini lessicali quindi, oltre a presentarsi come di per sé altamente strutturati, suscitano l’attenzione degli studiosi delle più svariate discipline (antropologi, etnologi, linguisti, dialettologi, storici, ecc.) perché strettamente legati alle conoscenze pratiche e alle visioni culturali complessive di una comunità di parlanti. Fitonimia e ricerca dialettologia Il dialettologo che si occupa di raccolte fitonimiche in particolare, e dei sistemi di conoscenza e classificazione del mondo naturale in generale, ha a disposizione oggi un’enorme mole di studi, monografie, saggi, articoli, oltre che intere sezioni dedicate a questo settore del lessico negli atlanti linguistici e nei dizionari dialettali di recente compilazione. Alle importanti acquisizioni nella fase dell’analisi lessicale e semantica non corrisponde però molto spesso, tranne in alcuni casi esemplari, un altrettanto rigoroso impianto metodologico nelle ricerche svolte, o quantomeno l’esplicitazione del metodo seguito. Nelle raccolte fitonimiche infatti, ancor più che in altri settori del lessico, solo una certa coerenza strutturale e formale nell’impianto metodologico potrebbe giustificare la pur semplice comparazione dei dati. Non è nostro scopo in questa sede però fare lo spoglio di tutte le fonti lessicografiche e degli atlanti linguistici nelle parti relative ai fitonimi, né presentare una trattazione sistematica sul metodo sia di indagine che di trattamento dei dati. Piuttosto in questo intervento si offrono degli spunti di discussione prendendo avvio dalle esperienze concrete di ricerca sul campo, svolte in occasione della raccolta lessicale in corso per la compilazione di un Atlante Linguistico Calabrese,4 dove il modulo Lessico prevede una sezione dedicata al lessico fitonimico, e in occa- sione di precedenti inchieste sul campo lessicale della Graminacee.5 Questo campo fitonimico è in particolare un settore centrale nella cultura agro-pastorale, dove nella strutturazione delle tassonomie popolari i criteri dei ‘saperi pratici’ o utilitaristici vanno a sovrapporsi a quelli prettamente morfologici delle specie botaniche. Appartengono infatti alla famiglia delle Graminacee piante essenziali all’alimentazione, sia animale che umana, e piante infestanti che i contadini devono evidentemente conoscere bene per la riuscita di buoni raccolti. Soprattutto vi appartiene il ‘grano’, oggetto quasi di venerazione nell’immaginario collettivo, e coltura dalla quale in tempi non molto lontani dipendeva la sopravvivenza stessa di intere famiglie in una regione, come la Calabria, fortemente caratterizzata dal punto di vista economico. Storicamente la cerealicoltura, come settore economico, fin dall’epoca romana, si è dimostrata più produttiva proprio perché in grado di nutrire un numero più elevato di persone rispetto ad altri settori. Gli storici dell’alimentazione,6 al riguardo, suddividono l’Italia in due parti: un’Italia del nord, più vicina al ‘modello continentale frumento-segale’ dove si ha il predominio della coltura di grani inferiori (segale, miglio, orzo, avena), e della segale in particolare, sulla coltura del frumento, e un’Italia del centro-sud, vicina al ‘classico modello mediterraneo frumento-orzo’, che si caratterizza per una sostanziale continuità con la tradizione romana, dove cioè rimane centrale la coltivazione del frumento, accanto comunque a quella di grani minori che vengono però utilizzati maggiormente per l’alimentazione animale.7 Si tratta inoltre di settori del lessico privilegiati per la ricerca dialettologia prima di tutto per l’asimmetria esistente tra la lingua italiana e il codice dialettale, rispetto alla ricchezza terminologica, laddove quest’ultimo copre degli spazi che la lingua italiana lascia vuoti;8 in secondo luogo, come conseguenza delle trasformazioni dei modelli di vita della cultura contadina, le terminologie specializzate, diventando settori periferici del dialetto, si presentano come arcaiche e conservative rispetto ad altre di modo che il loro studio va ad intersecarsi, e a giusto titolo, con gli interessi classici della lessicologia e della dialettologia. 2 Si veda a proposito una delle definizioni di etnoscienza di G.R. CARDONA in La foresta di piume (Manuale di etnoscienza), 1985, p. 11: “Ma ogni cultura ha sue visioni del mondo, che sono state plasmate da esigenze conoscitive specifiche (…). Al loro interno queste visioni mostrano principi costruttivi e regolarità, e verificabilità empiriche: sono a tutti gli effetti scienze; ma in omaggio al loro carattere locale e non ecumenico potremmo chiamarle etnoscienze.”. 3 Cfr. G.R. CARDONA, I linguaggi del sapere, 1990, p.75: “Le tassonomie popolari (…) non sono delle classificazioni oggettive, perché se così fosse tassonomie popolari e classificazioni scientifiche coinciderebbero alla perfezione.”. 4 È attualmente in corso presso il Dipartimento di Linguistica dell’Università degli Studi della Calabria, curata dalle cattedre di Glottologia, Dialettologia, Etnolinguistica, Sociolinguistica, Fonetica e dal Laboratorio di Fonetica, la compilazione di un atlante linguistico informatizzato della Calabria; qui si accennerà solo alle parti relative alla sezione fitonimica, mentre l’illustrazione completa dell’opera e del progetto sarà oggetto di una pubblicazione a sé. 5 Cfr. N. PRANTERA, Il campo lessicale delle graminacee: proposte di analisi lessico-semantica, 1999. 6 Per le notizie di carattere storico può essere utile la consultazione di M. MONTANARI, L’alimentazione contadina nell’alto medioevo, 1975, che tratta la storia dell’alimentazione limitata ai secoli VIII-X e all’Italia “padana”; vi si trova comunque sparsa qualche notizia sull’Italia del centro-sud, per la quale purtroppo non mi è stato possibile reperire un testo specifico. 7 Il fatto che l’alimentazione del sud Italia in generale si inserisca in quest’ultimo modello è dimostrato, oltre che dalla tradizione cerealicola, anche da altre caratteristiche come l’uso, a partire dal Basso e Alto Medioevo fino all’età moderna, dell’olio d’oliva come condimento principale, al posto di altri grassi animali e vegetali (lardo, strutto, sugna, burro) preferiti nell’Europa continentale. 8 Cfr. M. MADDALON, Alcune riflessioni ed analisi su modelli componenziali, 1990, p.129: “(...) da un lato si ha l’italiano, caratterizzato da una certa ‘povertà’ lessicale, anche nel caso di campi di uso comune quali la fitonimia o la zoonimia, dall’altro si ha la smisurata ricchezza e varietà dei termini dialettali che abbracciano tali campi, ma che sono grandemente delimitati geograficamente e quindi scarsamente intercomprensibili al di fuori del loro normale circuito d’uso”. — 58 — — 59 — In questa direzione infatti sembra si stia definitivamente superando l’approccio noto come ‘Wörther und Sachen’, e il lessema, non più considerato come un’unità linguistico-culturale come se ‘chaque mot a[vait] son histoire’, viene piuttosto analizzato all’interno della rete di rapporti e dipendenze con gli altri lessemi inserendoli in seguito nei corrispondenti quadri antropologici e culturali. Secondo le linee già tracciate in Maddalon-Scola-Valente ’93 questi studi, integrando la dimensione semasiologia a quella onomasiologia, offrono una reale alternativa nel trattamento dei dati dialettali rispetto ai mezzi analitici classici, impiegati per anni, come gli atlanti linguistici tradizionali o i dizionari dialettali, aprendo la strada ad una dialettologia rinnovata. Presentazione dei dati Come accennato al paragrafo precedente, ad integrazione della raccolta lessicale fatta in occasione di precedenti inchieste sulle Graminacee,9 secondo il presupposto dell’importanza di non indagare su un campo fitonimico, a partire dalla sola prospettiva che potremmo chiamare ‘scientifico-botanica’, e della necessità di rispettare l’omogeneità della cultura contadina, si riporta qui di seguito una scelta degli ‘etnotesti’ che abbiamo ritenuto più rappresentativi del complesso sistema di conoscenze legate a questo mondo culturale. Una delle principali distinzioni operanti nelle tassonomie botaniche popolari è quella tra coltivato e spontaneo. Nelle descrizioni date dai parlanti le frasi più spesso usate per indicare lo spontaneo sono del tipo: náscia súla è servággia è bastarda è n’erva SÿÓaina è n’erva maliditta (nasce da sola) (è selvaggia, il contrario è è ddómita) (è un’erba estranea) (è un’erba maledetta) In particolare quest’ultima espressione viene usata per quelle specie molto infestanti, ma soprattutto infestanti delle colture di grano, considerato invece ‘benedetto’; nell’etnotesto seguente che potremmo definire racconto-parabola, la dimensione cristiana va ad incrociarsi con le conoscenze relative alle specie interessate: Etnotesto nr.1 A vríca10 l’ha maliditta Gesù Cristu, unn’ha rispettati i comandamenti soi, a vríca è n’arburu chi sta ‘nti fiumi, fa nu fior« bellu, a mmazzareddu «vo’ far« u ben« chi fa ra vríca, sempr« júra e mai liga» 9 10 La tamerice l’ha maledetta Gesù Cristo, non ha rispettato i suoi comandamenti, la tamerice è un albero che sta nei fiumi, fa un fiore bello, a mazzettini ‘che tu possa fare il bene che fa la tamerice, sempre fiorisce ma mai lega’ Vedi Appendice. [Èvriùka] = Tamarix spp. (Tamaricacee). l’ha maliditta Gesù Cristu, su’ passati i vrei quannu l’aviv«n« mis« in fuga a Ddiu, u pr«seguijinu, u pr«seguijinu, ha pijatu e l’had’ accusatu, a vríca povaredda l’ha dittu ca l’avía vistu passar« a chissu cristianu, eh, e l’anu misu ‘mpinnu, «e vo’ far« u ben« chi fa ra vríca», l’ha maliditta Gesù Cristu, «vo’ far« u ben« chi fa ra vríca, sempr« júra e mai liga». Strada facennu po’, ca u pr«seguijinu i malvagi, è passatu ‘nta nu ‘mparu e ranu, ondeggiava chi assumiïïáva nu mari, bellu, è passatu Gesù Cristu e chiru cugnáli e ranu, comi passava si chiudija, un ci lassava maníju, u ranu si chiudija, un si notava nnenti e «viátu è chiru ranu chi di venn«r« si Scana» l’avía lassata a benedizione. È passat« invece e nu cugnale e luppini,11 e luppini, mo’ siccome è na pianta chi grida, quannu è seccu u luppinu tu pass« e dda e iddu uuhh, grida e rimana d’apertu, è passatu du luppinu e ha lassatu maníju, «l’avessa vistu?» dice «è passatu?», «Sì, è passatu e cca», ha dittu «chi vo’ essere amaru chi mancu l’animal« ti ponnu toccar«» ed è amaru infatti, ma l’ha malidittu Gesù Cristu. (Domenico P., Crucoli) Ma la dicotomia tra spontaneo e coltivato riflette anche il complesso sistema di proiezione del mondo umano su quello vegetale, generando tutta una serie di assimilazioni metaforiche ricollegabili sia al sistema parentale e della famiglia/razza che a quello della ‘creazione’. Le piante spontanee e coltivate si organizzano in sistemi fatti di ‘figlie’, ‘parenti’, ‘padri’ e ‘madri’ come dimostrano frasi del tipo X è parent’ara …. l’è sora a chissa cca è da stessa razza da … (X è parente alla ….) (le è sorella a questa qua) (è della stessa razza della …) o anche appartena ara … (appartiene alla …) con un senso di ‘appartenere’ particolare, lo stesso che viene usato nelle descrizioni delle parentele umane per indicare la consanguineità di un individuo con una determinata famiglia. In questi casi la prossimità del mondo vegetale e di quello umano rende possibile l’utilizzo della terminologia della parentela per stabilire l’ap11 — 60 — l’ha maledetta Gesù Cristo, sono passati gli ebrei quando lo avevano messo in fuga a Dio, lo inseguivano, lo inseguivano, ha preso e l’ha accusato, la tamerice poverina lo ha detto che lo aveva visto passare a questo cristiano, eh, e lo hanno impiccato, ‘che tu possa fare il bene che fa la tamerice’, l’ha maledetta Gesù Cristo ‘che tu possa fare il bene che fa la tamerice, sempre fiorisce ma mai lega’. Strada facendo poi, che lo inseguivano i malvagi, è passato in un campo di grano, ondeggiava che assomigliava ad un mare, bello, è passato Gesù Cristo da quel terreno di grano, come passava si chiudeva, non vi lasciava tracce, il grano si chiudeva, non si notava niente e ‘beato è quel grano che di venerdì si sgranella’ gli aveva lasciato la benedizione. È passato invece da un terreno di lupini, di lupini, ora siccome è una pianta che grida, quando è secco il lupino tu passi di lì e lui uuhh, grida e rimane aperto, è passato dal lupino e ha lasciato le tracce, ‘lo hai visto?’ dice ‘è passato?’, ‘Sì, è passato di qua’, ha detto ‘che tu possa essere amaro che neanche gli animali ti possono toccare’ ed è amaro infatti, ma l’ha maledetto Gesù Cristo. [luÈpùiùnu] = Lupinus spp. (Papilionacee). — 61 — partenenza o meno di singole specie a classi più ampie e dunque per classificarle. La metafora della ‘famiglia’ con funzione classificatoria è infatti una delle più utilizzate e riflette la distinzione non netta tra i vari regni nella cultura popolare.12 Inoltre lo spontaneo è ciò che la terra ‘crea’13 senza l’intervento dell’uomo, necessario per le piante coltivate, e che è direttamente collegato alla commestibilità e quindi ai suoi bisogni alimentari. Nel racconto seguente emerge proprio questa visione che contrappone ciò che la natura crea di per sé a ciò che è creato dall’uomo. Esso è stato usato dal nostro informatore per spiegarci come la maggior parte delle Graminacee sulle quali stavamo indagando erano infestanti del [laÈvuùru] (= campo di grano), come esse erano però le ‘padrone’, e aggiungiamo ‘legittime’ della terra, e come con un procedimento di personificazione quasi fiabesco queste debbano lottare ogni stagione con il grano che invece per ‘padrone’ ha l’uomo: Etnotesto nr. 2 D’u terrenu u proprietario è l’erva, è l’erva ca è patruna d’u terrenu, u lavuru è mulu d’a terra e su’ venuti a questione tra loro, tra l’erva e ra rrobba c’u contadinu faciva fruttar«, venij«n« a parola: «Vavattinn« e ddocu» li diciva u lavuru «Abbissatinni» ha dittu «mulu! Ca u patrunu sugn« je» ca idda veramente è ridda u patrunu, nascia e u nnu faciva vegetare u lavuru, e ha dittu «E va bbonu, fa chiru chi vo’, si tu trov« nu patrunu chi ti caccia u peddizzun«, sinno’ iddu mancu su rinchja u cannizzunu. Si trov« nu bonu patrunu» l’ha dittu u ranu all’erva «chi ti caccia u peddizzunu, chi ti vena a zzappulía ccu ru zzappareddu, chi ti caccia l’ervi strajin«, si ti fa numinar« a ttia ca diventi patrun« e ia mi ritir« a bonura, ma idda a cannizza un si linchja si ci fa star« a ttia patrunu d’a terra». L’erva è ra patruna d’a terra, cioè l’ha creata pur« Diu, a manu e l’omu fa tuttu però iddu conserva i simenti e tutt« ss’ervi. (Domenico P., Crucoli) Del terreno il proprietario è l’erba, è l’erba che è padrona del terreno, il grano è mulo della terra e sono venuti a questione tra loro, tra l’erba e la roba che il contadino faceva fruttare, venivano a parola: “Vattene da qui” le diceva il grano “Vattene via” ha detto “mulo! Che il padrone sono io” che lei veramente è lei il padrone, nasce e non faceva vegetare il grano, e ha detto “E va bene, fai quello che vuoi, se tu trovi un padrone che ti pulisce, se no lui neanche se lo riempie il cestone del grano. Se trovi un buon padrone” le ha detto il grano all’erba “che ti pulisce, che ti viene a zappare con il sarchio, che ti caccia le erbe estranee, se ti fa nominare a te che diventi padrone e io mi ritiro di buon’ora, ma la cesta non si riempie se ci fa stare a te padrone della terra”. L’erba è la padrona della terra, cioè l’ha creata pure Dio, la mano dell’uomo fa tutto però lui conserva le sementi di tutte queste erbe. 12 Comunque resta sempre il dubbio che forse, in senso storico, non di metafora si tratti bensì di un modo molto antico di comprendere e descrivere un continuum complesso uomo-animale-pianta (J.TRUMPER, comunicazione personale). 13 Cfr. C.PAPA, «Noi siamo come un albero …», 1993, in cui la studiosa esamina come operi la metafora della famiglia nel mondo vegetale, e in particolare, riguardo alla terra come creatrice dello spontaneo, p. 289: “La terra è infatti in ultima istanza «la madre» delle piante spontanee al di là degli specifici processi della generazione di ciascuna di loro. Ne emerge l’immagine di una terra madre e generatrice di tutte le cose, dove l’uomo e il maschile non può definirsi se non in relazione con essa.”. — 62 — Le erbe spontanee in generale, e non solo quelle appartenenti alle Graminacee, si caratterizzano quindi per il fatto di infestare [u laÈvuùru] e per la loro commestibilità animale. Un’informatrice, parlando del Lolium perenne e dopo averci detto i tipi lessicali corrispondenti a buona parte delle Graminacee, interrompe la descrizione dell’esemplare di Lolium perenne che aveva davanti ed esplicita un raggruppamento, che possiamo assimilare alla ‘categoria intermedia’ di Berlin et coll., che include tutte queste erbe infestanti del campo di grano: chissi su’ tutti Spini d’u lavuru (queste sono tutte spine del campo di grano) e continua dicendo che ‘loro hanno una strofetta per ricordarsele’, una sorta di ritornello che, come ci spiegherà subito dopo avercelo recitato, viene anche usato per indicare quei coltivatori ‘disonesti e vagabondi perché lasciavano il grano sporco’: Etnotesto nr. 3 quannu jiunu a matina a merari u lavuru, a mugghjiera dicía aru maritu: u jogghjiu14 cju vogghjiu a vizza15 ammenta ra cannizza cu ra canna maSca16 ci mintu a gummulicchja aru friScu u ruvettu17 u tena d’apertu jamininnu maritima ch’è nettu (Antonietta A., Crucoli) quando andavano la mattina a pulire il grano, la moglie diceva al marito: il loglio ce lo voglio la veccia aumenta la cesta con la canna ci metto la brocca dell’acqua al fresco il rovo lo tiene aperto andiamocene marito mio che è pulito Etnotesti e trattamento dati È innegabile quindi, per le visioni culturali sottostanti, l’importanza e l’interesse degli etnotesti per le raccolte fitonimiche e lessicali, in senso più ampio, al di là dell’evidente fascino e entusiasmo che simili autentici testi dialettali possono suscitare nel raccoglitore prima e nel dialettologo che analizza i dati poi, o del loro valore intrinseco di manifestazione di letteratura orale che alcuni di essi possono avere. La questione è poi strettamente collegata al discorso sul metodo cui accennavamo sopra, sia sulle modalità di condurre le inchieste che per il successivo trattamento dei dati. Per quanto riguarda il primo punto, esso è chiaramente uno strumento di indagine che va ad affiancarsi a quelli tradizionali della dialettologia: questionari, domande chiuse, domande aperte, conversazioni guidate, conversazioni libere. Chiamato anche ‘documento etnolinguistico’ o ‘colloquio etnografico’ la categoria stessa di etnotesto 14 15 16 17 [Èjïùu] = Lolium spp. (Graminacee). [Èvitùsa] = Vicia spp. (Papilionacee). [Èkanùa ÈmaSka] = Arundo donax (Graminacee). [ruÈvEtùu] = Rubus spp. (Rosacee). — 63 — è però di difficile delimitazione senza che finisca per essere usata come un sostituto tout court, più elegante, di conversazione libera. Ci pare utile perciò riportare due delle definizioni più interessanti che abbiamo trovato nella letteratura a riguardo: «(…) une somme de productions orales originales, allant de l’expression idiomatique ou du proverbe, qui se présente spontanément en contexte lors d’une enquête, à des réflexions d’ordre métalinguistique, des commentaires techniques, des textes à valeur historique et/ou littéraire, bref ‘l’ensemble des productions orales d’une manière ou d’une autre la culture d’une communauté’ (…)»18 «qualunque materiale linguistico che nel corso delle inchieste non sia stato ottenuto tramite il metodo della traduzione ‘da parola a parola’, ma che rappresenti al contrario una produzione spontanea ed autonoma del parlante, espressione della sua cultura e quindi della cultura della comunità a cui appartiene. Etnotesti possono quindi essere in tal senso, testi ‘liberi’ (testimonianza sul modo di essere, di vivere, di lavorare) o testi in qualche misura fissati dalla tradizione (proverbi, detti, filastrocche, storie…), testi brevissimi o al contrario, lunghi e complessi»19 Nella prima definizione sono considerati etnotesti l’insieme delle produzioni orali originali, manifestazioni della cultura di una comunità e che si presentano spontaneamente in un’inchiesta, nella seconda vi è l’ulteriore specificazione, con riferimento al metodo della traduzione da parola a parola. Le modalità di inchiesta sul campo sono allora ridefinite con un’inversione totale del rapporto enquetêur~enquêté, nel senso di una definitiva centralità di quest’ultimo in situazioni comunicative in cui evidentemente cambiano anche le regole di presa di parola. Praticamente l’esperienza ci ha insegnato che si hanno maggiori possibilità di successo nella raccolta di etnotesti nel corso di colloqui lunghi, informali, e in cui il raccoglitore non si pone in un rapporto paritetico con l’enqueté rispetto alle informazioni da trasmettere; al contrario egli deve porsi in una situazione quasi di inferiorità affinché l’informatore prenda coscienza del suo ruolo guida. Se quindi è stato possibile ridefinire il questionario classico per le raccolte lessicali nelle sue funzioni e modalità, stabilendo dei criteri più o meno generali, per le inchieste ‘libere’ molto è affidato inevitabilmente alla tecnica soggettiva del raccoglitore che dovrà adottare degli accorgimenti di volta in volta adatti al singolo informatore e alla singola situazione comunicativa. Un indice della bontà dei dati raccolti possono essere ad esempio delle reazioni particolari dell’informatore; al di là dei dati prettamente anagrafici o inerenti il grado di istruzione è quindi molto importante che il raccoglitore ricavi informazioni sul rapporto che l’informatore ha con il dialetto o informazioni sul grado di partecipazione: ci capitano spesso ad esempio nel corso delle indagini ‘intervistati’ con evidenti atteggiamenti di autocensura o che affermano di continuo la superiorità dell’italiano rispetto al dialetto da loro parlato. 18 19 In M-J. D. STEFANAGGI, Le Nouvel Atlas …, 1992, p. 400. In S. CANOBBIO, Al di là della raccolta …, 1989, p. 89 nota 8. — 64 — Per quanto riguarda ora la questione del trattamento dei dati, accenneremo ad alcuni dei problemi che presentano gli etnotesti.20 Ormai affermato infatti il ruolo importante che questi rivestono nella ricerca lessicale, resta però difficile, quasi impossibile, riportare su una carta di un atlante linguistico, oltre al dato linguistico, quelli etnografici ad esso correlati per rendere conto del complesso sistema culturale che sottende la strutturazione di una porzione di conoscenza del mondo naturale. Un archivio informatizzato al contrario permette l’inserimento di questi dati collegandoli ai tipi lessicali interessati. Nell’atlante informatizzato della Calabria, in corso di compilazione, nella Banca Dati21 la sezione ‘lessico’ per il modulo fitonimico prevede l’inserimento principale per ‘tipo lessicale’ e per ‘paese’ (= punto di raccolta), questo a sua volta porta con sé tutta una serie di informazioni e di dati che consistono in: — nome scientifico e nome italiano della specie; — fotografie del referente/i al quale il tipo lessicale si riferisce; — informazioni di carattere botanico che possono essere ad esempio i terreni che la specie predilige, la quota alla quale si colloca, distribuzione areale della specie e la provenienza; — osservazioni linguistiche sul tipo lessicale che riguardano da una parte i meccanismi di formazione delle parole e dall’altra l’etimologia del termine; — informazioni storico-linguistiche su possibili denominazioni più antiche della specie; — usi particolari della specie (usi medicinali, ludici, ecc.); — etnotesti in cui il tipo lessicale figura;22 — il modello metonimico in cui si inserisce; — documenti testuali di commento; — digitalizzazione di tutti i materiali sonori raccolti, etnotesti inclusi. La possibilità di interrogare il Data Base da diversi punti di partenza come informazione nota (termine scientifico, termine italiano, termine dialettale, fitonimi presenti a X-punto dell’inchiesta-, ecc.) e di utilizzare criteri di ricerca incrociati dovrebbe inoltre facilitare la lettura dell’archivio fitonimico. Altra questione riguarda infine, ‘in presenza di una situazione nel complesso confusa oggi quanto ieri’,23 la scelta del sistema di trascrizione da adottare. Nel 20 Lo spinoso problema del trattamento degli etnotesti come principale categoria dei dati ‘etnografici’, della loro cartografazione o trattamento elettronico è stato ampiamente trattato da T. TELMON, Il trattamento dei dati etnografici, 1992. 21 Ricordiamo che una Banca Dati è aperta all’inserimento progressivo e illimitato di informazioni, cosa ovvia ma sulla quale vale la pena soffermarsi. 22 Ciascun etnotesto è collegato a delle parole-chiave, stabilite a partire da parole o concetti ritenuti centrali, che possono essere utili in seguito per l’interrogazione al Data Base. 23 Cfr. A. GENRE, Trascrizione fonetica e atlanti linguistici, 1992, p. 80, cui si rimanda per i problemi connessi alla trascrizione fonetica negli atlanti linguistici. — 65 — nostro caso la trascrizione stretta è riservata ai singoli tipi lessicali, con un’attenzione quindi al livello fonetico o morfosintattico (nel caso di brevi frasi) anche se questi non costituiscono l’obiettivo principale della sezione; la trascrizione larga riguarderà invece gli etnotesti, utilizzando essenzialmente i grafemi dell’italiano con ricorso a simboli particolari, esplicitati in un’apposita legenda, solo nel caso di suoni specifici del dialetto che non hanno un corrispondente grafema nell’italiano; restano comunque del tutto esclusi gli elementi prosodici e conversazionali tipici dell’orale (pause, esitazioni, intonazione, enfasi, ecc.) per i quali però si può ovviare con l’ascolto del documento sonoro originale. Appendice Per motivi di completezza riportiamo i ‘tipi lessicali’ corrispondenti alle specie botaniche appartenenti alla famiglia della Graminacee. Complessivamente le specie che è stato possibile ritrovare nei campi sono 50; esse vengono indicate secondo la ripartizione tradizionale del regno vegetale, indicando in successione il genere, la specie e l’autore. La varietà dialettale è quella parlata a Crucoli (KR): Èkuùd E Ègurp« Phalaris coerulescens Desf. Phalaris paradoxa L. Phleum pratense L. Polypogon monspeliensis (L.) Desf. Alopecurus pratensis / Myosuroides L. Hudson Èkuùda kud«ÈtSEêù E Ègurp« Phalaris coerulescens Desf. Èkuùda gurÈpiùna Phalaris coerulescens Desf. Gastridium ventricosum (Gouan) Sch. Et Th. Phleum pratense L. Polypogon monspeliensis (L.) Desf. Phalaris minor Retz. Phleum subulatum Savi Lophochloa cristata L. ÈErv i panÈtaùn« Bromus hordeaceus L. Digitaria sanguinalis (L.) Scop Èkuùd E Èsuùr«tS« Hordeum murinum L. ÈErv E furÈmiùka Dasypyrum villosum (L.) Borbas ÈSkuùpa Bromus hordeaceus L. Oryzopsis miliacea L. graÈmiøùa Agropyron repens/ elongatum (L.) Beauv. Cynodon dactylon (L.) Pers. kaÈkuùsa Bromus madritensis L. Bromus sterilis L. SkaÈïùùùla Oryzopsis miliacea L. Phalaris canariensis L. Phalaris coerulescens Desf. Phalaris minor Retz Phalaris paradoxa L. Sorghum halepense (L.) Pers. ÈmpindZa kÈÈtsEtù« Cynosurus echinatus L. Cynosurus effusus L. Setaria verticillata (L.) Beauv. Setaria viridis/glauca (L.) Beauv. Èvaùsa ÈpEùda panùiÈtùsEêùi / pan«ÈtSEêùi da maÈdn nùa panùiÈtùsEêù« da Ènttù« i naÈtaùli Briza maxima/ media/ minor L. Cynosurus echinatus L. Cynosurus effusus L. Setaria verticillata (L.) Beauv. Setaria viridis/glauca (L.) Beauv. kukù«ÈtSEêùu Stipa pennata L. kampaÈnEêù« Briza maxima/media/minor L. Èkaùp« ÈtSSt« Dactylis glomerata L. muÈStatùs« Lagurus ovatus L. viSkaÈtEêùa Setaria verticillata (L.) Beav. Èbafù« E Ègatù« Lagurus ovatus L. Èbùjaùfa Avena sativa L. Ènùjaùnu Zea mais L. Èjiùna Avena barbata Avena fatua L. Avena sterilis L. Èjïïù« jïïùaÈriùna Lolium perenne L. Lolium rigidum Gaudin Erva Erva kraÈpiùna Bromus hordeaceus L. Cynosurus echinatus L. Sorghum halepense (L.) Pers. Hordeum distichum/ exasticum/ vulgare L. ÈErva i kaÈvaêù« Gastridium ventricosum (Gouan) Sch. Et Th. Èmiïùu miÈïùatùs« Panicum miliaceum L. Skup«ÈtSEêùa Oryzopsis miliacea L. Èkanùa ÈmaSka Arundo donax L. ÈSkuùpa — 66 — ÈSpiùka ÈSpiùk ’ E furÈmiùk« Bromus sterilis L. Dasypyrum villosum (L.) Borbas Hordeum murinum L. Èjiùna Èraùn E kuÈlirtSa Hordeum murinum L. jErÈmaùnu Secale cereale L. Èjiùna f«mù«ÈnEêùa Potter Bromus arvensis L. Oryzopsis miliacea L. Èjïïù« Lolium rigidum Gaudin Lolium multiflorum Lam. ȍùùrju Èmiïùu Echinochloa crus-galli (L.) Beauv. Sorghum halepense (L.) Pers. Èkanùa — 67 — kanùaÈvuùn« Phragmites communis Trin. Sorghum halepense (L.) Pers. Si forniscono infine nella tabella seguente, formulata sotto forma di schema berliniano, i tipi lessicali relativi ai ‘tipi di grano’, anche se non è stato possibile ritrovare le corrispondenti specie botaniche nei campi. La profondità tassonomica di questa categoria testimonia la centralità del Triticum nella cultura in questione: Èraùnu generic Èraùn« ÈjaNk« Èraùn« Èniùv«r« Èraùn« ÈtEnù«r« Èraùn« Èfrt« franÈdZiùsa maÈjrka kaÈruùsa ÈjaNk« kµaÈdErn« Èvaùÿra ÈtSiøùa kaÈpùEêùu Èrusù« intermediate jErÈmaùnu specific puÈïùiùs« ÈjaNk« Èrusù« varietal Riferimenti bibliografici Atti del Convegno sui Saperi Naturalistici, [1997], Preprints, G. Sanga, G. Ortalli (a cura di), Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Venezia, novembre 1997. Berlin, B. [1978], Ethnobiological Classification, in E. Rosch, B.B. Llyod, Cognition and Categorization, New Jersey. — [1974], Further Notes on Covert Categories and Folk Taxonomies: A Reply to Brown, in «American Anthropologist» 76, pp. 327-331. 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Cultura, linguaggio e personalità (1972), Torino, Einaudi. — 70 — — 71 — Il campo lessico-semantico delle Labiate: proposte per l’analisi e la rappresentazione grafica della percezione popolare Daniela Ielasi Introduzione: presupposti teorici Il lavoro che segue è frutto di una ricerca sperimentale svolta a più riprese nell’estate 1999, nel territorio di Cittanova,1 allo scopo di rintracciare fitonimi dialettali e di configurarne l’organizzazione lessico-semantica nella cultura popolare. Si tratta di un approccio relativamente recente agli studi semantici,2 che tiene presente lo stretto rapporto tra lingua e cultura nell’organizzazione linguistica e mentale dell’esistente, e ritiene imprescindibile un compendio di discipline quali linguistica, antropologia, psicologia, biologia. Biologia perché è risaputo che i linguaggi settoriali collegati alla classificazione della natura sono meglio strutturati al loro interno, quindi è forse più semplice rintracciare le gerarchie di significati che reggono la trama di tali settori del lessico. Questo deriva da un’idea abbastanza diffusa tra i ricercatori e in parte provata, che le tassonomie scientifiche della natura rispecchiano quelle popolari, almeno nell’individuazione di alcune categorie universali.3 1 Cittanova è sito nella piana di Gioia Tauro, a 19 Km dal mare Tirreno, e a 400 m d’altitudine sul livello del mare. Ai lati dell’abitato scorrono due fiumare, il Serra e il Vacale, le cui acque rendono fertili i terreni circostanti, sui quali anticamente si svolgevano le principali attività produttive, quali la lavorazione del lino e della canapa, la coltivazione del gelso per l’allevamento del baco da seta, la produzione di olio mediante i frantoi ad acqua. Esiste inoltre una discreta conoscenza sulle erbe medicinali, anticamente patrimonio di streghe e stregoni, oggi residui lessicali di anziani e massàri. In base alla classificazione dei dialetti calabresi operata da Trumper (1994) Calabrian and Southern Lucanian Dialects, che individua quattro gruppi di dialetti sulla base di tre eteroglosse, il dialetto cittanovese appartiene al quarto gruppo. 2 Ci riferiamo in particolare agli studi di B.Berlin e compagni dalla fine degli anni Sessanta in poi. 3 Vedi Berlin, 1992, Ethnobiological Classification. Principles of categorization of plants and animals in traditional societies. — 73 — Riteniamo opportuno riferirci anche ai risultati più recenti della psico-antropolinguistica americana in fatto di modelli cognitivi, in quanto la semantica è prima di tutto un processo di categorizzazione. Dall’idea comunemente identificata con quella aristotelica di categorie (o significati) chiuse e ben delimitate, si è passati progressivamente nei secoli a un’idea di categorie aperte e “sfumate”. Mentre prima l’attenzione dei filosofi si concentrava sul tentativo di cogliere i confini delle categorie, oggi si tenta di rintracciare le cosiddette “categorie di base”, i “punti focali”, i “prototipi”,4 i “best examples”, i “centroidi”, o per utilizzare un termine linguisticamente corretto, “arcilessemi”. A partire da questi elementi centrali delle categorie, è possibile rappresentare i campi lessico-semantici, attraverso modelli cognitivi idealizzati (ICMs), che rendano conto della fitta trama di pensieri, proiezioni, metafore e della rete di rimandi negli spazi della mente, dai concetti più rappresentativi a quelli più periferici.5 Per completare il nostro breve quadro teorico, accenniamo infine alla necessità di applicare l’approccio etno-semantico agli studi dialettologici. I vecchi dizionari dialettali, per quanto pregevoli e indispensabili strumenti di studio e ricerca, presentano delle imperdonabili lacune, poiché si basano sul metodo gillieroniano del “Chaque mot a son histoire” che privilegia il carattere storico-etimologico di ogni singolo lessema indipendentemente da tutti gli altri,6 e quindi trascura di inquadrare il significato all’interno di un complesso sistema di significati che costituiscono la cultura di una comunità e rimandano necessariamente a fattori extralinguistici. Visto il legame indissolubile tra lingua e cultura, sarà opportuno studiare la lingua per campi lessico-semantici, e all’interno di questi lasciare libero il parlante di muoversi in base alla propria percezione del mondo circostante, di individuare le categorie, gli attributi semantici, ecc. Se il ricercatore tralascia di considerare il rapporto tra i lessemi di uno stesso campo semantico, soprattutto nell’ambito della ricerca sui lessici settoriali, come quello fitonimico, zoonimico, ittionimico, ecc., oppure tralascia di considerare a dovere la percezione del parlante, otterrà sicuramente un quadro sfasato dell’organizzazione semantica dei lessemi sui quali indaga.7 È dunque necessario studiare le lingue tradizionali unitamente alla cultura materiale e orale della comunità di riferimento, poiché questo consente anche di rendere trasparenti processi di proiezione e metafora così numerosi nella lingua che altrimenti rimarrebbero oscuri. 4 I concetti di “prototipo” e di “effetto prototipico” hanno provocato negli anni ’70 e ’80 una vera e propria rivoluzione nello studio delle categorie, soprattutto grazie agli esperimenti della psicologa americana Eleanor Rosch. Vedi in merito Rosch, 1978, Principles of Categorization. 5 Per uno studio approfondito su modelli cognitivi e metonimici vedi Lakoff 1987. 6 Dissentiamo dalla visione della lingua come nomenclatura, per la quale a ogni vocabolo corrisponde un significato, senza possibilità di equivoci o mutamenti. La metafora è un esempio lampante a nostro sostegno, poichè risulta incomprensibile fuori dalla sua contestualizzazione socio-culturale. 7 Vedi Trumper-De Vita, 1993 e Trumper-Valente, 1991. — 74 — Per la nostra ricerca abbiamo scelto una famiglia botanica abbastanza nota in Calabria, quella delle Labiate Mediterranee. Ricchissima di generi, specie e varietà, essa raggruppa piante erbacee e cespugli con foglie aromatiche, usate come condimento, per produrre essenze e profumi, per fare liquori e in medicina per l’olio essenziale canforato. Nella cultura popolare esiste una certa continuità di “saperi” botanici sulle Labiate, che parte dagli antichi autori greci e latini, e che, attraverso criteri di classificazione e denominazione abbastanza simili, sopravvivono fin nei nostri modelli etnobotanici e nelle nostre tradizioni popolari. Nel tempo però si sono persi nomi e usanze di diverse specie di piante aromatiche, dato provato, peraltro, dall’impiego di alcuni italianismi per designare piante di uso molto antico (ad es. il termine dialettale per Lavandula sp. “spicanarda” è sempre più sostituito da “lavanda”, evidente italianismo; la lavanda è usata da tempo immemore come essenza per la realizzazione di profumi per il corpo, per profumare gli armadi e la biancheria, e in alcuni impieghi medicinali, quali tisane et al.). Tenteremo qui di seguito di dare un quadro dell’organizzazione del campo lessico-semantico delle Labiate nel territorio e nel dialetto di Cittanova, tramite l’individuazione dei quattro livelli del significato (tassonomico, biologico, linguistico e psicologico),8 utilizzando un’analisi semantico-percettiva che ci permetta di risalire dapprima ad una classificazione etnobotanica delle Labiate di tipo berliniano; dopo, tramite l’individuazione dei prototipi della famiglia e degli effetti prototipici,9 sull’esempio di Rosch 1997 e di Lakoff 1987, costruiremo un modello cognitivo o modello metonimico del campo; quindi confronteremo i due tipi di rappresentazione e discuteremo il principio berliniano dei “Natural Kind Terms”, che vorrebbe la coincidenza universale tra categorie naturali, categorie mentali e categorie linguistiche. La sfida è quella di mettere a punto una rappresentazione grafica dei campi lessico-semantici che tenga conto della complessità delle reti di significato. Tabella lessico-fitonimica 1: LABIATE I dati riportati di seguito sono stati raccolti in base a un questionario di tipo “chiuso”, per cui venivano esibiti dei campioni di piante e veniva chiesto agli informatori: “Come si chiama?” oppure “Che cos’è?”. Vengono quindi riportati i corrispondenti dialettali delle specie catalogate, cercando di conservare, laddove ricorre, la variabilità delle risposte,10 coscienti che questa non deriva necessariamente da errori del parlante, ma è il segnale della non univocità delle corrispondenze lessicali, che a sua volta lascia trasparire la non corrispondenza tra la visione popolare e 8 9 10 Vedi Berlin 1978. ossia la maggiore o minore influenza del prototipo sull’elemento della categoria. Per una trattazione approfondita della variabilità vedi Ellen,1993. — 75 — quella scientifica della natura. Nello schema vengono trascurati i modificatori,11 tranne quelli che rimandano a generi diversi delle Labiate o di altre famiglie: i modificatori più frequenti nelle interviste sono: “na speci di…”, “na forma di…”, “nu parenti di…”, “a stessa rrazza di…”, “a stessa famigghja di…”. È stata catalogata buona parte delle specie appartenenti alla famiglia delle Labiate, non tutte, poiché su alcune è pesata la difficoltà di reperimento, su altre la scomparsa totale, anche tra i più anziani, della memoria popolare su usi antichi e denominazioni legati alle specie esibite. NOME SCIENTIFICO Ballota nigra L. subsp. uncinata Ballota pseudodictamnus (L.) Bentham Calamintha nepeta (L.) Savi subsp. nepeta Calamintha sylvatica Bromf. Lavandula angustifolia Melissa officinalis L. Melittis melissophyllum Mentha aquatica Mentha arvensis L. Mentha longifolia (L.) Hudson Mentha pulegium L. Mentha spicata L. Mentha suaveolens L. Micromeria consentina (Ten.) N. Terracc. Ocimum basilicum Origanum heracleoticum L. Origanum majorana L. Rosmarinus officinalis L. Salvia (cfr.) glutinosa L. Salvia officinalis L. Teucrium chamaedrys L. Thymus capitatus (L.) Hoffmgg et LK. Thymus pulegioides L. DENOMINAZIONE POPOLARE amenta servaggia/ nipiteda lumini nipiteda/ niputeda nipiteda/ niputeda spicanarda (raro) ardica (na forma d’) ardica (na forma d’)12 nipiteda “vera” amenta amenta pileju amenta nipiteda/ amenta ariganaci/ burvareda (na speci di) vasalicò ariganu ariganu rosumarinu/ rosamarina ardica (na forma d’) sarvia ariganaci rosumarinu (na speci di) ariganaci 11 Quando una specie non ha nome, essa viene comunque classificata tramite meccanismi di “modificazione” per somiglianza con altre specie; per cui ricorrono nomi composti del tipo NOME+MODIFICATORE, in cui quest’ultimo è spesso trasparente, nel senso che indica il tipo di rapporto tassonomico occorrente. 12 Notiamo che Melissa sp. e Melittis sp. vengono paragonati e ricondotti ad un’altra nota famiglia botanica del tipo Urticacee; alcuni degli informatori l’hanno denominata “ardica fimmanina”, detto di urtica non urticante, che non esiste in natura. È evidente che l’accostamento deriva dalla forte somiglianza della forma della foglia dentellata: si tratta altresì di uno di quegli inconvenienti derivanti dall’impiego di un tipo di questionario chiuso, che porta alla scelta quasi forzata di un’etichetta linguistica per l’oggetto in esame. In realtà riteniamo che i termini altrove riscontrati “citrunella” per Melissa sp. e “vucca i lupu” per Melittis sp. siano andati ormai persi. — 76 — Tabella lessico-fitonomica 2: raggruppamento per tipi lessicali Privilegiamo ora la visione popolare della natura, partendo dal dialetto e raggruppando le specie sopra elencate in base alla comune derivazione lessicale. Anche in questo caso teniamo in considerazione la variabilità, per cui è possibile ritrovare una stessa specie sotto tipi lessicali diversi. Vengono tralasciati i lemmi univoci come lumini, spicanarda, pileju, vasalicò e sarvia che hanno un unico corrispondente scientifico. I termini riportati in ellisse possono essere considerati ARCILESSEMI, in quanto sono gli elementi forti che individuano il campo e attorno ad essi ruotano tutti gli altri elementi dello stesso. Matrice semantica “non classica” Impostiamo adesso una matrice semantica che dia ragione delle caratteristiche attribuite dai parlanti ai membri del campo lessico-semantico delle Labiate, e dunque del livello “psicologico” del significato. La matrice è in questo caso un comodo — 77 — e chiaro ausilio per schematizzare gli attributi maggiormente ricorrenti negli etnotesti raccolti, non potendoli riportare per intero. Consapevoli che i tratti semantici, sia nella loro quantità che nella qualità, sono il risultato di un’operazione di scelta e riduzione compiuta dal ricercatore sulla base di una molteplicità di attributi forniti dagli intervistati,13 abbiamo cercato di evitare forzature nel metodo stesso di ricerca e di intervista, ricavando i tratti nella fase finale della ricerca in base alle descrizioni aperte fornite dai parlanti. Quella che segue non è dunque una matrice semantica classica, poiché i tratti derivano esclusivamente dall’esperienza percettiva del parlante, e soprattutto non sono binari, ma graduali, nel senso che + o – rappresentano la maggiore o minore presenza del tratto e non la sua presenza o assenza. La matrice viene impostata sulla base di 9 tratti individuati a partire da tre categorie di attributi ricorrenti: funzione (uso in cucina o nella medicina popolare), morfologia (caratteristiche fisiche della pianta, forma, ecc.) e valutazione (caratteristiche attribuite dai parlanti in base al comportamento della pianta nell’interazione uomo-natura). amenta ariganaci ariganu nipiteda pileju rosumarinu sarvia vasalicò Uso culinario + + + + + Uso medicinale + + + + Morfologia Foglie smerlate + + Foglie aghiformi + Foglie piccole più tonde + + + Valutazione Profuma + + + + Puzza + Allontana gli insetti + Indica presenza di funghi + 9 tratti in totale 4/9 2/9 3/9 4/9 1/9 4/9 2/9 3/9 Funzione Immaginiamo dunque che le categorie sopraelencate costituiscano il filtro attraverso il quale il parlante organizza il campo lessicale delle Labiate. Notiamo subito che gli attributi maggiormente ricorrenti sono quelli relativi all’uso che viene fatto di un’erba in una determinata cultura; segnaliamo inoltre che sotto il tratto [+/uso culinario] rientra sia [commestibile] che [aroma], in quanto non c’è nella percezione popolare una netta distinzione tra i due. Nello schema non abbiamo inserito l’opposizione assai ricorrente domitu/servaggiu (coltivato/spontaneo), poiché si tratta di una distinzione soggettiva e variabile, attribuibile a qualsiasi specie di pianta. Spesso tale opposizione assume la connotazione di positivo/negativo. Annotiamo inoltre che l’opposizione principale espressa popolarmente in merito alle erbe è 13 quella di erba bbona/erba mala: le erbe appartenenti alla famiglia botanica delle Labiate sono considerate tutte “erba bbona”, che significa sostanzialmente che nessuna di esse è velenosa, oppure che hanno una qualche utilità riconosciuta nell’economia umana. Il conteggio quantitativo finale dei tratti è un’esigenza di tipo classificatorio, necessaria a calcolare gli effetti prototipici all’interno del campo. Passiamo ora alla rappresentazione del campo. Tabella lessico-fitonimica 3: tassonomia etnobiologica berliniana14 Secondo Berlin e coll., le classi o categorie di piante e animali conosciuti sono organizzate in tassonomie, ossia in strutture composte di un numero ristretto di livelli gerarchici (detti anche “ranghi”), ordinati in base a principi di maggiore/minore inclusione. Una tassonomia è una struttura innata universale che assume poi aspetti particolari nelle singole culture. I livelli o ranghi standard nei quali si articola una tassonomia sono cinque: unique beginner, life form, generic level, specific, varietal.15 Esiste poi un livello detto intermediate, superordinato al livello generico e a volte a quello specifico, senza il quale non si riuscirebbero a spiegare alcune classificazioni. Le categorie o “taxa”, come le chiama Berlin, che appartengono allo stesso livello tassonomico si escludono a vicenda, si distinguono secondo gradi di differenziazione, ed esibiscono caratteristiche simili dal punto di vista tassonomico, linguistico, biologico e psicologico. A volte i taxa possono essere covert categories, ossia categorie nascoste, non lessicalizzate, delle quali si intuisce la presenza, ma non sono evidenti. Il fulcro sul quale sembra ruotare la maggior parte della conoscenza botanica popolare è rappresentato dal livello di mezzo della tassonomia, il genere, che sembra essere quello più facilmente riconosciuto e tramandato, e pare che si sia evoluto anche prima nel tempo rispetto agli altri livelli tassonomici. Attorno al livello “generico” si è molto discusso, anche perché sembra costituire l’unico vero piano di coincidenza tra classificazione scientifica e classificazione popolare della natura, dimostrando così la teoria berliniana dei “Natural Kind Terms”, che vuole le categorie mentali perfettamente corrispondenti alle categorie naturali, e quindi le classificazioni popolari “naturalmente” determinate. Esistono pertanto delle regole universali di classificazione e nomenclatura sulle quali si baserebbero tutte le tassonomie popolari.16 Per una trattazione più approfondita del problema, vedi Maddalon, 1995, Semantica e Tratti. 14 Il termine “tassonomia” è stato ampiamente utilizzato da linguisti e antropologi, a volte come sinonimo di “campo lessicale”. 15 I livelli gerarchici delle tassonomie berliniane riprendono nella denominazione la classificazione linneiana della natura. 16 Vedi Berlin-Breedlove-Raven, 1973. — 78 — — 79 — In base ai dati raccolti, e con l’ausilio delle analisi lessicale e semantica effettuate, costruiamo adesso una classificazione di tipo berliniano, rappresentabile tramite uno schema ad albero, per evidenziare i rapporti gerarchici esistenti tra le categorie botanico-linguistiche individuate, ed offrire quindi una prima rappresentazione del campo lessico-semantico delle Labiate. Da notare inoltre la conoscenza popolare molto approfondita rispetto alle varietà di “vasalicò”, che vengono distinte e denominate in base alla forma della foglia. “V. genovesi” è evidentemente un italianismo, e corrisponde anche dal punto di vista botanico alla varietà di Ocimum basilicum utilizzata per fare il pesto alla genovese. Interessante è l’espediente linguistico utilizzato per “v. ariganedu”, che corrisponde alla varietà nana della specie e richiama un altro genere della stessa famiglia, per le foglie simili in grandezza a quelle di Origanum . Modello cognitivo o metonimico (ICM) Evidenziamo da subito l’esistenza di una categoria intermedia “assenzu” (in italiano “aroma”), dall’importanza fondamentale, visto che ricorre spesso nelle interviste, la quale comprende la maggior parte delle Labiate (5 su 7 “generic taxa”). Seguendo le orme di Berlin-Breedlove-Raven 1973 sulle corrispondenze tra nomenclatura e tassonomia, notiamo che i taxa generici (ROSUMARINU1, ARIGANU1, SARVIA1, ecc.) sono designati da lessemi primari (semplici); i taxa specifici (ROSUMARINU2, ARIGANU2, SARVIA2, ecc.) sono designati da lessemi primari, il che indicherebbe, secondo Berlin, che essi sono “prototipi” all’interno del genere corrispondente; mentre i taxa varietali (ARIGANU ‘I MARGIU, VERA AMENTA, VASALICO’ LISCIU, ecc.) sono indicati da lessemi secondari (del tipo BASE+MODIFICATORE, dove la base richiama il taxon sopraordinato). Un discorso a parte va fatto per “ariganaci”, che evidenzia la non corrispondenza tra tassonomia e nomenclatura, contrariamente a quanto vorrebbe Berlin. Abbiamo infatti collocato il taxon al livello varietale (avremmo potuto collocarlo anche al livello specifico), poiché viene designato da un lessema secondario che richiama “ariganu”. In realtà “ariganaci” non è né una varietà né una specie di “ariganu”, lo ricorda solo vagamente per l’odore che emana se calpestato o strofinato, ma costituisce un elemento indipendente nella classificazione, al pari di “lumini” e “spicanarda”. Sulla base del conteggio quantitativo dei tratti posseduti da ogni singolo elemento, come avevamo annunciato, ci soffermiamo adesso sul livello psicologico del significato, e individuiamo gli effetti esercitati dai prototipi sui vari elementi del campo. Gli studi sperimentali eseguiti da E. Rosch (1973; 1975), in controtendenza rispetto alla concezione classica o “aristotelica” delle categorie, dimostrano l’esistenza di “prototipi” o migliori esempi della categoria, e che le capacità e attitudini umane (percezione, immaginazione, movimento, apprendimento, memoria, comunicazione, esperienza, cultura) giocano un ruolo fondamentale nei processi di categorizzazione. Il concetto di “Perceived World Structure” elaborato dalla Rosch, pone l’individuo categorizzante e la sua percezione al centro della visione strutturale del mondo circostante. Le combinazioni degli attributi percepiti dai nostri sensi non occorrono in maniera uniforme, ma dipendono dalla nostra interazione con la realtà. In altre parole esistono modi alternativi di vedere il mondo, ed esistono altresì delle strategie che noi attuiamo nei processi di conoscenza, immagazzinamento e richiamo delle informazioni, che consentono la comprensione e la comunicazione pur non possedendo tutto lo scibile umano. Questo perché possediamo in compenso la facoltà di prendere a prestito un significato da una categoria per indicarne un’altra (metafora), oppure un elemento di una categoria per indicarla tutta (pars pro toto o metonimia), e nondimeno possediamo la capacità di comprendere lo stesso quando lo fa qualcun altro. Lakoff 1987 afferma che l’organizzazione delle categorie avviene sulla base di strutture chiamate “Modelli Cognitivi Idealizzati” (ICMs). Un modello cognitivo idealizzato è una categoria alla quale una data comunità linguistica attribuisce significati standard, semplificati, e le regole d’uso e d’interpretazione sono strettamente collegate ai parametri culturali definiti dalla comunità stessa. Questi modelli vengono anche detti “metonimici”, perché alcuni elementi possono essere deputati a rappresentare tutta la categoria, e hanno effetti prototipici su tutti gli altri membri della categoria, cioè rappresentano il modello di riferimento, il primo significato attribuito, ogniqualvolta si incontra quella categoria. Lakoff analizza diversi tipi di modelli metonimici: gli stereotipi sociali, gli esempi tipici, i casi ideali, i paragoni, ecc. I sistemi concettuali utilizzano molto e per svariati scopi modelli metonimici. Tali sono anche secondo Lakoff i modelli etnici o tassonomici studiati dagli antropologi nelle ricerche sulle etnoclassificazioni della natura. — 80 — — 81 — Costruiremo ora due diversi modelli cognitivi: il primo (SCHEMA 1) rappresenterà il microcampo dell’ASSENZU ( o “aroma”), e il secondo (SCHEMA 2) il campo delle LABIATE in generale. Procediamo con questa distinzione perché dalle interviste è emerso che il microcampo concettuale degli aromi ha una sua forte indipendenza e compiutezza da un punto di vista semantico. Allo scopo di semplificare l’individuazione dei prototipi, abbiamo evidenziato nella matrice semantica in grigio i tratti maggiormente significativi della categoria “assenzu”, cioè (funzione) [culinario] + [medicinale] e (valutazione) [profuma]. Dalla matrice semantica appena illustrata, risaltano a chiare lettere “amenta” e “rosumarinu”, come elementi centrali o “centroidi ” del campo semantico “assenzu”, in quanto entrambi possiedono in pieno i tratti definitori [culinario] + [medicinale] + [profuma]. È possibile ricostruire, quindi, uno schema del modello cognitivo “assenzu” a partire dai due prototipi centrali del modello, tramite una rappresentazione ad ellissi concentriche, che metta in evidenza la vicinanza/lontananza dei membri della categoria dal “prototipo pieno” assenzu. Indichiamo con: A B C D = = = = (3 tratti su tre) (2 tratti/ tre) (1/ tre) (nessuna specificazione positiva), AMENTA + ROSUMARINU VASALICO’ + ARIGANU + SARVIA NIPITEDA PILEJU + ARIGANACI sulla base della quantità di tratti che gli intervistati hanno attribuito a ciascuno di essi. Ne risulta che AMENTA e ROSUMARINU, seguiti immediatamente da [+profuma] nell’individuazione del prototipo “assenzu”. Ma si tratta unicamente di un’intuizione: non ne abbiamo alcuna prova scientifica dalla matrice semantica e dunque non l’abbiamo considerata nel nostro modello cognitivo. Lo SCHEMA 1 rappresenta dunque il modello cognitivo dell’ASSENZU, che è risultato dalla contemplazione dei soli tratti definitori. Ma se consideriamo la matrice nella sua totalità, ossia prendiamo in esame anche i tratti caratterizzanti, notiamo avanzare NIPITEDA (4 tratti /9), che diventa centroide al pari di AMENTA e ROSUMARINU. L’analisi percettivo-semantica, ci consente inoltre di rendere espliciti i rapporti di influenza che intercorrono tra i prototipi: per essere più chiari, è possibile individuare le sfere di influenza che i centroidi esercitano all’interno del campo sugli altri elementi. Basta infatti quantificare i tratti comuni che gli elementi del campo condividono con i prototipi più centrali. VASALICO’ (d) ARIGANU (e) SARVIA (f) AMENTA (A) 3 2 2 ROSUMARINU (B) 2 2 2 In base alla considerazione del numero totale dei tratti e alla condivisione degli attributi comuni, ricostruiamo dunque il modello cognitivo idealizzato del campo delle Labiate, utilizzando una rappresentazione a cerchi concentrici, evidenziando i rapporti di influenza tramite linee rette e posizionando gli elementi ad una distanza quanto più possibile realistica in modo da rendere evidenti il maggiore/minore effetto prototipico dei centroidi A, B e C sugli altri elementi del campo. Indichiamo con X il prototipo ideale non lessicalizzato. VASALICO’, ARIGANU e SARVIA, sono i più vicini al prototipo, mentre ne sono distanziati NIPITEDA, e fortemente distanziati PILEJU e ARIGANACI, poiché questi ultimi vengono individuati da tratti negativi. “Sarvia ”, pur possedendo 2 tratti/tre, ci è sembrato più lontano dal prototipo rispetto a “vasalico’ ” e “ariganu”, perché durante le interviste, il tratto [+medicinale] veniva considerato dai parlanti meno significativo del tratto — 82 — NIPITEDA (C) 0 1 1 — 83 — Osservazioni Esiste uno stretto parallelismo tra categorie concettuali (Berlin) e categorie percettive (Rosch): nello SCHEMA 1 si nota infatti un nucleo centrale (evidenziato con le gradazioni del grigio) costituito dai prototipi del campo semantico ASSENZU, che corrispondono proprio ai cinque generic taxa predominanti nello schema ad albero berliniano e dipendenti dalla categoria ASSENZU. È anche vero però che mentre nella tassonomia berliniana i cinque taxa occorrono sullo stesso livello, senza differenziazioni, nel modello metonimico di ASSENZU, vengono evidenziati anche i rapporti tra i generic taxa, facendo risultare come migliori prototipi in ordine di importanza, anche se poco distanziati gli uni dagli altri, prima A (AMENTA e ROSUMARINU) e poi B (VASALICO’, ARIGANU e SARVIA). Se si considerano poi i prototipi così come emergono dal modello cognitivo delle Labiate in generale (SCHEMA 2), risalta subito la posizione di NIPITEDA che sembra possedere lo stesso status psicologico di AMENTA e ROSUMARINU; mentre SARVIA sembra avere uno status inferiore rispetto a VASALICO’ e ARIGANU; cambia anche la posizione di ARIGANACI e PILEJU, che nello schema non abbiamo considerato in quanto marginali al sistema: ARIGANACI assume lo stesso status psicologico di SARVIA, e PILEJU è l’elemento più periferico. Una cosa è certa: la situazione non è così semplice e lineare, come vorrebbe l’impostazione berliniana. Concluderemo dunque che in base alle ricerche effettuate e all’analisi dei dati da noi raccolti, non esiste una diretta ed inequivocabile corrispondenza tra nomenclatura, classificazione etnobotanica e rappresentazione cognitiva, (come dimostrato in maniera eclatante dall’esempio di “NIPITEDA”). La percezione popolare della natura è dunque estremamente complessa e problematica: altrettanto complessi dovranno quindi essere i modelli etnobotanici impiegati per la loro rappresentazione. Alcuni detti popolari sulle Labiate I proverbi, i detti, le filastrocche, sono spesso unici testimoni di metafore cristallizzate, in cui sopravvivono lessemi più o meno arcaici, dei quali si è perso l’impiego corrente ma se ne rammenta il senso, proprio grazie alla continuità orale delle cantilene popolari. Nell’esplorazione di un campo lessico-semantico è necessario infatti indagare accanto al patrimonio linguistico in senso stretto, la cultura materiale ad esso correlata, poiché questa costituisce spesso il suo unico mezzo di sopravvivenza. Il tormentone, il suono, il ritornello, consentono alla mente collettiva popolare di conservare nel gioco i lemmi scomparsi nella quotidianità. “Ariganu e pileju, unu è tintu e l’atru è peju”:17 letteralmente sta ad indicare che c’è un’erba più buona, più profumata, e l’erba meno buona. Ma il detto è utilizzato prevalentemente in senso metaforico per indicare una coppia di persone di cui uno è peggio dell’altro. Nel corso delle nostre interviste, abbiamo potuto notare che “pileju” nel suo significato stretto, indicante cioè un’erba corrispondente alla Mentha pulegium, si conserva a fatica, ossia lo specimen corrispondente viene riconosciuto non da tutti e non immediatamente. Il lemma si conserva invece perfettamente nel detto popolare, anche tra gli intervistati più giovani: qui il contrasto è ancora più evidente, poiché i parlanti più giovani conoscono il proverbio ma non il referente di “pileju”. Non vorremmo fantasticare sulla coppia “ariganu e pileju”, ma non possiamo negare che abbia destato la nostra curiosità per diversi motivi. Oltre a conservare infatti un termine altrimenti raro come abbiamo visto, il detto offre un esempio interessante di “proiezione”. Il fenomeno di “proiezione”, per cui il genere umano proietta se stesso sulla natura circostante o al contrario proietta su di sé segmenti del mondo biologico, è possibile in quanto nella percezione popolare gli esseri umani si vedono come parte integrante della natura, e quindi uno stesso termine può designare ad esempio parti del corpo umano o parti della pianta. Pensiamo al termine “tronco” (per “busto”), o “linfa” (per “sangue”), ecc. Nel nostro caso invece notiamo non solo una proiezione di etichette linguistiche, ma anche di senso. Non possiamo infatti dire certo che l’Origanum sia “tintu” ossia “non buono”, perché è un “assenzu” (quindi [profuma] + [uso culinario]) ed è una delle erbe maggiormente impiegate nella cucina mediterranea. Eppure per la rima, nel ritornello, nel gioco, l’origano diventa poco meglio del pileju, che nella nostra matrice semantica è caratterizzato dal tratto [-profuma]. Questa è a nostro avviso una prova ulteriore della suddetta complessità semantico-linguistica, di cui le metafore e le proiezioni sono un segnale importante non trascurabile. “Quandu si cogghji l’ariganu ntro’ suli ’i Liuni, trasi ariganu e mori u patruni”: vuol dire che l’origano va raccolto fino al 21 Giugno, poi non è più buono. Qui si tratta invece di un detto molto legato al sapere botanico popolare, un espediente che rammenta ai contadini il raccolto dell’origano. Riferimenti bibliografici Alston, W. 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Questo articolo, sulla nomenclatura dialettale e relativa etimologia delle Ericaee nel Veneto settentrionale, si divide in due parti, la prima, di Giovanni Tomasi, è costituita dalla raccolta, dal commento linguistico e storico e dalla distribuzione areale degli appellativi dell’erica, corredata di carte linguistiche opera di Giuseppe Grava di Revine. La seconda parte è di John B. Trumper, che ha apportato un notevole approfondimento della parte etimologica, intervenendo con ipotesi e nuove proposte, basate su una vasta conoscenza linguistica ed una cospicua bibliografia specialistica. Le eventuali differenze sull’etimologia sono comprensibili e normali in casi di particolare difficoltà dove le etimologie rimangono sub judice. Parte I. L’èrica nei dialetti del Veneto settentrionale Molte piante hanno accompagnato la storia dell’uomo, così le specie commestibili (cereali innanzi tutto), quelle utili alle attività umane (per le fibre tessili, la concia, ecc.), i semplici utilizzati nella farmacopea per millenni; altre piante sono gradevoli o vistose (per i fiori o il portamento). Tutti questi vegetali hanno quindi nomi che possono variare nei dialetti, ed è logico sia così; una piantina però, quasi totalmente sprovvista di utilizzo, viene contraddistinta da una lunga serie di appellativi, l’èrica. Questa affermazione vale nell’ambito romanzo, tale varietà di nomi però è molto ampia anche nei dialetti veneti ed in particolare nella parte alta della regione, dove è stata utilizzata in attività marginali, come lettiera per il bestiame, filtro per il latte, scopa o spazzola e negli ultimi secoli anche come frasche per i bachi da seta. — 90 — — 91 — Per l’intera provincia di Belluno, l’alto Trevisano collinare, l’alto Vicentino e il Primiero e dintorni, area di cui si parla in questo saggio, sono disponibili i vecchi materiali dell’ALI, alcuni dizionari e tesi di laurea (fonti utilizzate anche nella Flora popolare friulana) e la mia capillare ricerca in 70 comuni della parte bassa di questa zona (Val Belluna, Feltrino, Prealpi trevigiane, Grappa e Brenta, Primiero), eseguita nel 1988-98 a livello di villaggio, per la Fienagione nelle Prealpi venete. Per la sponda occidentale della valle del Brenta vicentino, l’altopiano di Asiago e la confinante val d’Astico (quasi una ventina di comuni) l’indagine è stata compiuta nel gennaio-marzo 2002, per lo più grazie al personale dei relativi municipi, spesso gentile e disponibile, che qui ringrazio. Nello stesso periodo ho indagato di persona alcune microaree di confine fra le varie denominazioni in zona trevigiano-bellunese, constatando fra l’altro il dissolvimento dei dialetti locali. In pratica si tratta di un territorio comprendente 120 comuni veneti (69 della provincia di Belluno, 30 di Treviso, 21 di Vicenza), con raffronti eseguiti di persona anche nei villaggi confinanti del Trentino orientale (8 comuni) e del Friuli pordenonese (un paio di comuni), per un totale quindi di 130 comuni in area dialettale per buona parte veneto settentrionale (dialetti trevisano-bellunesi), “ladina” (cadorino, livinallese e dialetti alto agordini) e in parte minore veneto centrale (vicentino e valsuganotto) o tedesca (residue isole alloglotte carinziane e bavarotirolesi). I materiali raccolti sono a mio avviso molto interessanti, sia dal punto di vista dialettale che storico, componendo un quadro assai intricato di sovrapposizioni, direttrici culturali e zone di resistenza. Balza all’occhio l’eterogeneità delle risposte e viene da chiedersi perchè quest’umile piantina sia provvista di tanti nomi diversi, data la sua scarsa utilità nei millenni trascorsi (non è neppure velenosa e quindi “importante” perchè da evitare). Lasciando ad altri la risposta a questo mio interrogativo passo ad identificare i tipi lessicali raccolti, ricordando che quasi sempre gli intervistati non differenziano l’èrica, Erica Carnea L., dal brugo, Calluna vulgaris Salisb., o anche se lo fanno (diversa per esempio è l’epoca della fioritura), poche volte li identificano con nomi diversi. 3. brìka, appellativo qui tipicamente vicentino, compare solo a Semonzo (TV), a Fontanelle di Conco (VI) come brikùni, e nella variante réga ad Oliero di Valstagna (VI). 4. brokón, ancora molto vitale in tutta la valle dell’Astico, ad Arsiero, Piovene, Posina, Tonezza e Valdastico e presente anche a Lusiana (VI). 5. bro>oràda, è voce ampezzana, limitata alla sola Cortina (BL). 6. do&olòda, -ada, è tipica del Cadore, dove compare con molte varianti, auzelàda, au&olàda, danziròla, da&olòda, de&olàda, de&lòda, dizlòda, do&olòda, no&olàda, u&elàda (Zoppè); scende però anche lungo il Piave e nella convalle del Maè, &lóda, &lòda, raccolti a Podenzoi (Castellavazzo), Provagna e Fortogna (Longarone) e basso Zoldano, tutti in provincia di Belluno, nonché a Casso (Erto, PN), villaggio di dialetto bellunese; lo Zanette la riporta anche come forma (probabilmente arcaica) a Vittorio Veneto (TV), auselàda, ausolàda, voce che io non ho più ritrovato. Oltre che in quest’area tutto sommato omogenea la voce è diffusa con un alto numero di varianti, storpiamenti ed incroci nel Friuli, sia in Carnia (du&éde, il fiore dell’èrica a Forni di sotto), che nell’alta val Cellina, do&olòda, de&olòda, e nel Pordenonese confinante col Bellunese e alto Trevisano, ad Aviano daluda, Mezzomonte lu&iñól, Budoia li&iñói, Poffabro &edàla, solo per restare in aree contermini. Vedi comunque Pellegrini e Zamboni che traggono dall’Atlante Storico LinguisticoEtnografico Friulano per la diffusione friulana della nomenclatura delle ericacee. Un riflesso toponomastico potrebbe essere Dosolédo in Comelico, oggi Dudlé, Du&lé e nei documenti del secolo XIII Axoledo, Ausoledo, poi Dassoledo 1312, da cfr anche col vicino Dolèra, Do&lèra, nei documenti Axolara, Axolaria, Assolaria 1240, 1251, Dosolaria 1312. Per le documentazioni antiche dei toponimi ringrazio l’amico Giandomenico Zanderigo Rosolo di Casamazzagno e vedi anche Biblioteca Civica di Treviso, ms 109, specie tomo IV. 7. drezàl, localizzato a Lamon (BL). 2. bradusàro, badusciàro, appellativo raccolto, con qualche incertezza, sull’altopiano di Asiago, a Gallio e a Cesuna (VI). 8. fréza, furséi e simili coprono un’area molto vasta, che corrisponde con fréza al Trevisano occidentale (ai piedi del Grappa e sino al Montello e Fonte d’Asolo), confinante val del Brenta orientale (VI), zona di Valdobbiadene (con Guìa, Segusino e Vas), Feltrino (sino a Roncoi di S. Gregorio nelle Alpi) e Primiero meridionale (TN), tenendo presente che nelle aree occidentali esposte agli influssi vicentini fréza si risolve con frésa a Solagna e frése a S. Marino. Minime varianti a Masi di Imèr (TN) con sfréza e a Cuniòl di Alano con frezón, che è il nome del brugo a Stramare di Segusino (TV); a Campolongo (VI) fré&a. Le varianti furséi, fursiéi, forsiéi, frusiéi, frusiér e simili sono tipiche oggi della valle del Cordevole, nell’Agordino centrale e meridionale (BL), salendo sino a S. Tomaso a nord e arrivando ad ovest sino a Sagron (TN) e a sud alcuni le conoscono anche a Sedico e Bribano. — 92 — — 93 — Volendo semplificare gli appellativi raccolti, spesso con notevoli varianti, incroci e stravolgimenti, questi si possono ridurre alle seguenti forme di base, che, scendendo nei dettagli dal punto di vista della GEOGRAFIA LINGUISTICA (vedi comunque le quattro carte linguistiche) si localizzano come segue nell’alto Veneto e dintorni. 1. borséi, borsèi, bruséi, è appellativo tipicamente bellunatto della Destra Piave, raccolto a Pascoli (Belluno), Libano, Peron e Villiago (Sedico) e sembra un neologismo in area di furséi, di cui pare una variante con cambio d’iniziale. Le due forme, benché diverse, sembrano strettamente correlate, anche dal punto di vista areale, che un tempo doveva essere più diffuso ad oriente (comprendendo l’attuale piccola zona di borséi), il moderno comune di Ponte nelle Alpi era infatti noto nel medioevo come Pieve di Frusseda (plebs Fruxede, 1444), e Frusséda (e Col Frussach) è ancor oggi il monte che sovrasta a nord questo comune; Frusséda sembra un fitotoponimo, “ericheto”, da cfr con Dosolédo di cui sopra. A Sospirolo (al confine fra le due varianti) sono diffuse le forme refoséi a Maràs, refosèl a Brustolade e Gron, èrba refo&èla a Gron, reforséi a Gena, per alcuni inoltre anche forfoséi, che sembrano tutte metatesi di forsèl o forme miste, fréza+forséi. 9. hàdrat, voce di Sappada (BL), da cfr con Sauris (UD) hadrak, entrambe citate da Pellegrini e Zamboni. A Roana sull’altipiano d’Asiago sopravvive hódara e nella vicina Luserna (TN) hóadar, entrambe denominazioni dei locutori cimbri, qui immigrati a partire dai secoli XII-XIII. 10. karñón, krañón, è l’appellativo alpagoto, diffuso però anche nel confinante villaggio di Paiane (Ponte nelle Alpi); più a sud, a S. Croce (un tempo compresa nella Pieve di Frusseda, attuale Ponte nelle Alpi, BL), Caloneghe, Fadalto, Mareno e Fais (tutte frazioni alte di Vittorio Veneto, TV) la voce coesiste, specie fra gli anziani, col più moderno pezòla, indicando spesso il brugo. A questo nome è da collegare anche l’èrba cargnèla ricordato dal Bazolle I, 202 (che non specifica nè la specie nè la zona, ma potrebbe anche essere l’erica in qualche frazione di Ponte nelle Alpi) e la kuarñoléta di S. Vito al Tagliamento (PN). A livello toponomastico ricordo in baro de Cargna, documentato sul monte fra Revine e Lago nel 1397-1735 (assai vicino quindi al Fais più sopra ricordato), che potrebbe benissimo essere risolto con “cespuglio di èrica, ericheto”. 11. krése, in uso a Cismon (VI). 12. lezura, lizura, mostra un’area compatta che dalla val Marebbe (BZ) si estende all’Agordino settentrionale, scendendo a sud sino ad Alleghe lungo il Cordevole ed oltrepassando la Staulanza sino all’alto Zoldano, comprendendo anche la cadorina Selva (le&ura). 13. lópa, raccolto a Polpét di Ponte nelle Alpi (BL). 14. pezòla, qualche volta anche pezolìn, pezòla mata (entrambi con riferimento al brugo), è in uso nelle colline prealpine della parte orientale della provincia di Treviso, fra Vidor sul Piave e Sarone di Caneva (PN), in via di risalita verso il monte a Combai e Visnà di Miane (nell’ultimo villaggio coesiste con zupinèl, brugo), Revine e Lago, val Lapisina a nord di Vittorio Veneto (qui coesistente con karñón), Tarzo (coesistente a Costa d’Arfanta con zopinèl) erodendo da sud in età moderna il dominio territoriale degli altri appellativi. — 94 — 15. rò&ola, isolato a Conaggia di La Valle (BL). 16. salvìna, raccolto a Stòner e Valdarco di Enego (VI), di norma utilizzato al plurale. 17. skenèl, voce isolata a Canai e Stabie di Lentiai (BL); l’appellativo indica però il fiore dell’èrica a Colderù di Lentiai e Tallandino di Mel e il brugo a Villa di Villa di Mel. 18. skombarón, &gombarón, skambarón, in uso nella Sinistra Piave bellunese a Limana, Mel e Trichiana e come “cespuglio” d’èrica anche nei villaggi orientali di Lentiai da Colderù al confine con Mel. Presso la Pieve di Limana l’amico Corrado Balzan di Trichiana, attento ricercatore, ha raccolto anche semparól, coesistente con tafonèl. 19. skopìna brokón, raccolto a Lusiana (VI), in via di scomparsa. 20. stazonèl, vitale in due aree vicine ma non confinanti delle Prealpi trevigianobellunesi, a sud in provincia di Treviso nelle località di Visnà (coesistente con pezòla) e Campea di Miane (tazonèl), Valmareno di Follina (dove indica il brugo), Cison e Tovena (qui anche strazonèl) e a nord in provincia di Belluno, a Losego e Quantìn (Ponte nelle Alpi) e Tassei e Castion di Belluno e qualcuno lo conosce anche nel centro di Limana (tafanèl, tafonèl, tofanèl). 21. stròbe, è l’appellativo delle popolazioni tedesche dei Sette Comuni secondo il Dal Pozzo. 22. torzón, torsón, vivo nelle zone trentine del Primiero (a Ronco, Canal S. Bovo e Caoria terzón , a Tonadìco tarfón) e nella confinante Valsugana da Tezze di Grigno, dove è torsón, sino a Roncegno (a Pergine è già brokón), subito al di là del vecchio confine. 23. viéska, riportato come di Postioma (TV). Un anziano informatore di Caorera di Vas (BL), mi riferì nel 1988 che poco prima della seconda guerra mondiale dei commercianti di Postioma si recavano a Vas per acquistare èrica per infrascare i bachi da seta e la chiamavano, con suo grande stupore, viéska. Io ho controllato a Postioma ma non ho più ritrovato corrispettivi dialettali per l’èrica, segno che in 60 anni molto è cambiato. 24. zupinèl, zopinèl, zupìn, zopìn, isolato a Valmareno e Follina (TV) e a Gai e Rolle di Cison, nella prima località ormai in via di scomparsa. Ho raccolto l’appellativo anche fra gli anziani di Costa e Mondragon d’Arfanta (comune di Tarzo, confinante a oriente con Cison) nel marzo 2002, col senso di “alta erba secca con forte percentuale di Ericacee”. Nella vicina Costa Bàvera di Refrontolo è noto stopìn, zopìn come “fieno secco e magro con Ericacee” In molte zone ho raccolto èrica, èrba èrica, così questa è stata l’unica risposta a Caltrano, Calvene, Foza e Rotzo, ed è stata la prima risposta (poi corretta da altri inter— 95 — vistati) a Campolongo, Conco, Enego, Gallio, Lusiana, Roana, Valstagna, tutti in provincia di Vicenza, nonché a Belluno, Bribano di Sedico, Lamon, Polpét di Ponte nelle Alpi (BL). In altre zone la denominazione dell’èrica é ignota, nel senso che, perduto il nome dialettale antico, non è stato più sostituito dal corrispettivo italiano. Come si vede si tratta di una notevole serie di appellativi, in qualche maniera riconducibili a oltre 20 forme, di cui quasi la metà precipue della zona investigata, senza altri riscontri, almeno allo stato attuale degli studi. Per quanto concerne la ETIMOLOGIA, ampiamente studiata fra l’altro da Hubschmid 1968 e da Pellegrini 1982 (I, 82-89) assieme a Zamboni (I, 293-294), cerco qui sotto di riassumere quanto è possibile, con alcune proposte (qualche volta “audaci”), così per do&olòda, drezàl, karñón, lezura, salvìna, skenèl, stazonèl, zupinèl, sviluppandone altre (bro>orada, pezòla), e integrando gli spesso oscuri dati linguistici coi pochi dati toponomastici disponibili e documentati. 1. borséi, bruséi, va con l’italiano brusca, bruschetta, bruso “fuscello”, così il DEI, brusco 2, probabilmente imparentato col successivo fruséi. Si tratta di voce d’origine celtica, * bruscia, e ricordo che in Cadore è ancora vivo brusa “cespuglio” (per cui borséi varrebbe “cespuglietti”), presente come toponimo perlomeno sino al Trevigiano settentrionale, p. e. Burseta a Carpesica di Vittorio Veneto (1348), cal de Brusa, a Revine, oggi. 2. bradusàro, badusciàro, si tratta di una voce generica, col valore di “cespuglio”, da cfr col nome dell’erica, bradàs a Ciconicco di Fagagna (UD) e coll’agordino bradàs “cespuglio aggrovigliato, sottobosco o novellame misto, incolto”, forse della stessa famiglia del vittoriese badùsch “fastello di legna minuta” (Zanette), agordino meridionale bedosco “mannello di fieno”, documentato ad Agordo nel 1587 e Voltago nel 1668, in entrambi i casi “un prato della produzione di circa un bedosco di fieno” (pergamene dell’Archivio Parrocchiale di Agordo), vitale ad Alleghe come berduscole “ramoscelli” e sino nel badiotto. 3. brika, brikùni, réga, tipici dei dialetti veneti centrali (ma anche del veneziano e in parte del veronese) vanno considerati derivati dell’indoeuropeo * wroiko, che ha dato continuatori in varie lingue europee (fra l’altro baltiche e slave), compreso l’italiano grecchia/recchia, èrica, e nei dialetti italiani settentrionali i derivati di vriga/vrica, brica/breca. È presumibile, dato l’areale attuale, che possa essere una parola d’origine venetica * wriga, quindi preromana; la variante réga ha ovviamente perso la v-/b-. nei al fieno d’inverno”, vivo nelle colline prealpine del Trevisano fra Soligo e Tarzo. Come toponimo ricordo il più volte citato Passo del Brocon fra Primiero e Tesino, oggi in area di torsón. Sembrerebbe quindi che la forma brokón in origine coprisse buona parte del Trentino centrorientale, con la Valsugana e il Primiero e l’alto Vicentino (ovviamente escluse le aree dei colonizzatori cimbri). 5. bro>orada, va collegata a forme affini riscontrabili nel ladino occidentale, nel gardenese bruèl, burvèl, e forse nel friulano di Tramonti bar&ón. La voce è da ricondurre dubitativamente al germanico brojan, REW 1325 (o a un * braucia variante di * braucus, forse più convincente), incrociato con l’autoctono au&olàda (che è l’appellativo dell’èrica nel confinante S. Vito di Cadore) e con successivo scambio l>r, tipico del dialetto ampezzano. 6. do&olòda, -ada, e varianti, di cui è arduo riconoscere la forma di base dato l’alto numero di variazioni veneto-friulane (* daxola < * daxa ?, ricostruibile sulle documentazioni duecentesche di Dosolédo e Doslèra, ammettendo sia corretta la proposta etimologica), può risalire a uno strato preromano che, per l’attuale areale, nell’alto Bellunese, Cadore e Friuli (qui non compattamente), potrebbe bene essere riconosciuto nel celtico dei Carni. Attualmente le denominazioni variano, da&-/do&-, le attestazioni documentarie di Dosolédo e Doslèra (zone dove oggi l’èrica è dizluda) sono però in antico As-/Das(probabilmente in As- vi è stata una deglutinazione, nel senso che il notaio scrisse in luogo di de Daxolara un de Axolara), per cui la forma con -a- pare la più antica. Anche se con qualche difficoltà fonetica per la -&- penso si possa cercare una connessione con dasa, daza “ramaglia di conifera” (ma da&a nei dialetti valsuganotti, roveretani, trentini e veronesi, Prati), molto diffuso non solo nei dialetti veneti, ma con ampie connessioni sino ai dialetti francesi e tedeschi alpini, per cui viene proposto un celtico * dagisja da cfr. col celtico * daglia “conifera” (Pellegrini I, 11). Vedi per il senso del traslato più sotto, pezòla < péz, tenendo presente che -ada potrebbe essere un collettivo. Mi pare che molto spesso il concetto di “ramaglia” (specialmente delle conifere, o per estensione, la conifera stessa) venga traslato o esteso al valore di “èrica”, così bròkola/brokón, péz/pezòla, fró>a/froséi, da&a/da&olàda o anche i celtici *daglia/*dagisja. 7. drezàl, va collegato col dialettale dréza “treccia”, col suffisso -alis, intendendo intreccio, groviglio. Si tratta di una denominazione dal senso affine al finitimo torzón, dato però che non è conosciuta da tutti, potrebbe anche essere gergale, cosa ben possibile a Lamon. 4. brokón, raccolto ovunque nella val d’Astico, risale a * braucus, variante del celtico * brucus, assai diffuso nei dialetti trentini e ladini e che compare anche a Pergine (TN). Parrebbe da collegare a bròkola “rami con foglie usati come succeda- 8. fréza, fruséi e simili sono da ricondurre ad un preromano (venetico ?) * fruscia (+ ellu), forse variante del celtico * bruscia ; il termine è ampiamente diffuso con significato di “fuscello, sterpo” anche nei dialetti cadorini (Lorenzago frós) e di “ramaglia di conifere” in dialetti alto agordini (a Colle S. Lucia fró>e). Ovviamente nei dialetti — 96 — — 97 — veneti settentrionali fréza (di etimo germanico) ha il senso di “freccia”, che però non può essere riferito all’èrica, per cui conviene pensare, sia per parziale omofonia che per contiguità areale ad una comune origine dei due termini fréza (èrica) e fruséi. La prima forma si potrà forse spiegare con l’attrazione di “freccia” o per incrocio. Per dovere di completezza cito il primierotto fiór de fréza “rododendro”, dovuto alla convinzione che questa pianta attiri i fulmini (fréze); non mi pare però che questo possa giustificare l’equazione freccia (fulmine) = èrica. La variante fré&a di Campolongo potrebbe anche essere influenzata da réga, del contermine Oliero. Se fossero vere le considerazioni venetico>celtico di cui sopra, nonché l’ipotesi di Frusséda in area attuale di borséi, ne verrebbe di conseguenza che quest’ultimo appellativo è più recente, in area di furséi, come accennato più sopra, ipotesi che va d’accordo con la protostoria, nel senso che su un incolato venetico (cui si dovrebbe fruséi) si stanziarono poi tribù celtiche provenienti dal Friuli, la cui lingua (con borséi) si affiancò o si sovrappose alla preeesistente. D’altro canto l’alternanza b-/f- è relativamente comune all’italiano e suoi dialetti (e non solo a quelli italiani), come testimoniano, per restare solo nel campo della vegetazione, le coppie brassica-brasca/ frasca, brotta/ frutice, brondabrunda/ fronda, bruscello/ fuscello, bruscolo/ fruscolo-frustolo e per finire anche busto /fusto d’albero (Pfister). Una spiegazione convincente, generale e valida per queste coppie di appellativi non mi pare sia stata ancora data; non mi sembra parimenti che per tutti questi casi si possa risalire al binomio celtico/latino, alcuni appellativi con b- infatti si riferiscono a dialetti toscani. 9. hàdrat, voce della colonia alloglotta di Sappada come pure di Sauris, con minima variante (i coloni di entrambe erano tedeschi carinziani); fra i cimbri di Roana è ancora vitale hódara e fra quelli di Luserna hóadar. Tutte le denominazioni da cfr col ted. Heide, Heiderich, Heidekraut, rispettivamente nelle forme dialettali carinziana e bavarotirolese. 10. karñón/krañón, pare voce isolata ma, l’areale d’utilizzo (Alpago e val Lapisina), al confine col Friuli, mi spinge a pensare non sia altro che una variante del friulano griñón, grión e simili, con cui fra l’altro presenta contiguità territoriale attraverso la media val Cellina (Barcis) e i monti orientali dell’Alpago, con riscontri anche a S. Vito al Tagliamento (PN). L’etimologia è ignota, probabilmente preromana. L’appellativo friulano grión < grìe sembra essere un più antico * griga, grika (cfr fra l’altro l’italiano crecchia, grecchia e il ligure della val d’Arroscia grixiùn) con successiva palatalizzazione, apparentato cioè a * wriga< *wroiko, per cui in ultima analisi l’etimo sarebbe lo stesso di brìka, réga visti più sopra, e tutto sommato (in antico) anche dei derivati di *braucus<*brucus. Pare quindi che molte lingue indoeuropee (baltiche, slave, celtiche, italiche settentrionali, greco, venetico) abbiano un nome “comune” per l’erica, vecchio di oltre tremila anni (prima della loro separazione, quando sciamarono per tutta l’Europa). — 98 — Le forme griñón, krañón sembrano varianti di grión, di spiegazione difficile; sono infatti possibili varie contaminazioni, fra l’altro col latino carneus “(rosa) come la carne” (Erica carnea), col celtico carn “collina rocciosa, pietraia”, col senso di “erba delle pietraie”. Sulla scorta della toponomastica è probabile che la denominazione fosse in antico più diffusa ad ovest sulle Prealpi. 11. krése, sembra una strana variante del contermine frése, con una k- tutta da studiare. 12. lezura , pare voce proveniente dalla Val Marebbe, BZ (a Colfosco lizura) spintasi a sud del passo di Campolongo (BL) con la colonizzazione brissinese (effettuata da valligiani del Sella) che dopo il Mille si portò a Livinallongo, Colle, Rocca, Caprile, in territori montuosi e disabitati, appartenenti alla diocesi di Bressanone. Di qui l’influsso si estese ai contermini Alleghe e Selva, ed attraverso la forcella Staulanza sino all’alto Zoldo. La voce è stata già discussa, senza però trovare soluzione; proporrei qui, in forma dubitativa, un’etimologia dal lat. licium “filo aggrovigliato, filo di lana contorto, spago, ecc.”, che ha dato anche licinae “tenue filum textum” (Du Cange), panromanzo, con una vasta gamma di significati, “filo torto a guisa di spago, per alzare e abbassare le fila dell’ordito”, “cordicella formata da più fili”, “benda, fascia, gomitolo, nastro”, e in dialetti francesi anche “sorta di rete”, “rete da pesca”, “orlo”, “siepe” per cui si rimanda al REW 5020, e che ha dato anche l’italiano marinaresco lezzino (e forse anche lusino) “cordicella di canapa intrecciata”, vedi DEI. Qui ovviamente con un senso collettivo (l’èrica non cresce mai da sola), cfr starnura da strame o verdura da verde, e con un traslato semantico parallelo a quello di drezàl e dei successivi skombarón, torzón, cioè di piante che crescono in viluppi, aggrovigliate, come fili intrecciati. 13. lópa, si riferisce di norma ad “erba secca rimasta radicata” , di etimo controverso, REW 5090 e in questo caso sarà stato esteso in tempi moderni all’erica, occultando l’appellativo più antico, probabilmente fruséi/bruséi. 14. pezòla, ci riporta per omofonia a péz, REW 6479, con significato riduttivo (ben comprensibile date le dimensioni diverse delle due specie vegetali) e nello stesso tempo chiaro, le foglie aghiformi e sempreverdi dell’erica infatti assomigliano in piccolo a quelle delle conifere e sono entrambe utilizzabili come esca o combustibile. 15. rò&ola, pare una variante di &lòda > dò&la, migrata da Zoldo attraverso il passo Duràn, con successiva dissimilazione d > r, favorita probabilmente dalla dcacuminale tipica dei dialetti zoldani. 16. salvìna, raccolto ad Enego sarà da cfr col sabìna di La Valle Agordina (Pellegrini I, 85, che lo riporta dall’ALI). In entrambi i casi sembra un derivato di — 99 — sabina, REW 7482, nome dello Juniperus sabina e il traslato sarà dovuto al fatto che entrambe le piante possono essere utilizzate come festoni e decori o esca. Preferisco questa ipotesi piuttosto che un derivato diretto di salvia, REW 7558 perché non vedo congruenze o similitudini fra i due vegetali (èrica e salvia). 17. skenèl, isolato a Lentiai-Mel occidentale, sembra in qualche maniera collegato agli italiani scheno “giunco caprino”, schenanto, squinanto Andropogon, squinanzia Asperula, rintracciabili nei ricettari farmaceutici fiorentini del Cinquecento e derivati dal greco schoinos “giunco”, cfr DEI. È logicamente difficile un collegamento così lontano (nello spazio e nel tempo) ma va invece ricordata, almeno per il secolo che va dalla metà del VI alla metà del VII, la presenza di una importante guarnigione bizantina in contrapposizione ai goti prima e ai longobardi poi, stanziata nella pieve di Lentiai provenendo da Oderzo ed arroccata fra la grande ansa del Piave e l’imponente castello di Zumelle, difeso a oriente dal torrente Terche, per cui un raro grecismo in questa zona potrebbe forse starci. Vedi anche poi, la storia linguistica. 18. skombarón, va con “ingombro” di origine celtica, REW 2075; difficile poi dire se per la tendenza dell’èrica a crescere e rimanere (anche quando recisa) aggrovigliata e quindi “ingombrante” o per la possibilità di utilizzarla come scopa, e quindi per “sgombrare”. La denominazione semparól sembra una variante piuttosto stravolta di skombarón, forse attraverso una serie di passaggi del genere skambarón > * skamparón > * skamparól > samparól; l’ultimo passaggio può essere dovuto ad una debolezza di -k- fra s + vocale, vedi per esempio a Revine la coesistenza di bósk/bós, bruskìn/brusìn, Lucheschi/Luchessi, l’ultima forma in documenti. 22. torzón, va col dialettale (i)ntorzàr “torcere” REW 8798 (vedi p.e. a Tarzo tòrza “ritorta di fieno”, Tomasi 1999) anche qui per i viluppi formati dall’èrica, da cfr coi surriportati drezàl, skombarón. Si potrebbe anche pensare al dialettale (ormai obsoleto) tòrz, tòrza “torcia” perché l’erica era utilizzata anche come accendaglia. Data la presenza nell’area dialettale attuale del Passo del Brocon mi pare ovvio pensare che la denominazione torzón sia relativamente recente. 23. viéska, oscuro e tutto da verificare. Ricorda comunque il valtellinese verca e a Tiarno (TN) riska, e varie forme balto-slave, per cui si rimanda più sopra a brika, con probabili incroci. 24. zopinèl, l’appellativo pare isolato ma, a grande distanza trova corrispettivi col lombardo alpino e retoromanzo giup “ginepro”, a sua volta con riscontri nei dialetti svizzero tedeschi, e ancora più lontano a sud sino al calabrese di Gerace (RC) juppinu “sorta di ginepro”, ad est nello sloveno ciòp “cespuglio” e più a oriente ancora con dialetti romeni dei Carpazi. Dato l’areale, sporadico fra le Alpi, i Balcani e l’estremo sud della Calabria, si potrebbe anche trattare di un appellativo del sostrato. Per finire poche note di STORIA LINGUISTICA. 21. stròbe, voce dei tedeschi dei Sette Comuni, va riferita però allo “strame, lettiera della stalla”, di cui questa piantina è un componente. L’appellativo stròbe è comunque diventato il nome dell’èrica a Durlo nell’alta valle del Chiampo (VI), come mi informa Fernando Zampiva di Arzignano che qui ringrazio. In definitiva pare che l’èrica nel Veneto settentrionale abbia nomi antichi, venetici e celtici, brika, brokón, fréza/furséi, do&olòda, karñón, zopinèl, rispettivamente in area vicentina (a sudovest dell’altopiano), nel Trentino orientale e Valsugana, nel Trevisano-Feltrino-Agordino, in Cadore-alta Val Belluna, in Alpago-val Lapisina e nel medio bacino del Soligo. Tutte queste aree sono a loro volta in connessione coi territori linguistici circostanti, anche molto lontani. Col tempo i rispettivi areali originari furono invasi dai tipi più moderni secondo le note vie di traffico (a questo proposito vedi anche Tomasi 1999); così dall’importante area culturale di Treviso fréza passò lungo la via del Piave sino a Feltre e di qui al basso Primiero, incontrandosi con l’areale autoctono di “fruscello”. Credo che queste sei denominazioni, brika, brokón, do&olòda, fréza/furséi, karñón, zopinèl siano quelle autoctone e più antiche, sommerse e sospinte in areali sempre più ridotti, a nord o sui monti, da innovazioni provenienti da sud o nate in loco. Così ad oriente, dal piccolo centro episcopale e ducale di Ceneda (oggi Vittorio Veneto) s’irradiò pezòla, che ancor oggi non solo non oltrepassa in questa zona i confini diocesani (limite est è Sarone, di lì comincia la diocesi di Pordenone, limite ovest a Combai-Vidor, di lì comincia la diocesi di Padova), ma verso i monti neppure ha conquistato tutto il territorio (esistono infatti altre tre denominazioni di cui una preromana). A Lentiai sopravvive forse un raro grecismo, skenèl. A nord, nell’Ampezzano la denominazione è bro>orada, di possibile origine germanica, sporadicamente documentata in area romanza alpina (qui d’importazione in area di au&olàda), mentre la colonizzazione medioevale brissinese introdusse da nord lezura nell’alto Agordino. — 100 — — 101 — 19. skopìna brokón, per la prima parte si tratta di un appellativo ampiamente diffuso, “scopa, granata”, presente sporadicamente in tutta l’Italia settentrionale, per brokón invece vedi più sopra. In questo caso si tratta di una tautologia (due nomi per indicare la stessa pianta). 20. stazonèl e simili, sono di spiegazione difficile. La forma staf-, staz- presenta affinità coll’inglese staff “bastone, asta”, longobardo staffal “palo”, francese estache “travicello”, per cui si può ipotizzare si tratti di un diminutivo di palo, col senso di “paletti, ramaglia, legni minuti” e quindi “sterpi”. In questo caso bisogna pensare ad un’origine germanica di antica penetrazione, probabilmente altomedioevale. Ricordo che oltre che nella toponomastica e nei documenti veneti, nella valle del Brenta è ancora vivo stàfil “palo della meta” (Tomasi 1999). In sede locale presero il sopravvento neologismi, anche tecnologici o di mestiere (skopìna, stazonèl, stròbe), morfologici, riferentisi a “cespuglio” (borséi) o ai grovigli dell’erica (drezàl, skombarón, torzón), oppure anche di scambio con altra pianta (sabìna/salvìna). In tempi forse ancora più recenti termini generici (bradusàro, lópa), sostituirono i vecchi appellativi in aree ridottissime. Nelle zone di antica colonizzazione tedesca sopravvivono hàdrat, hódara, stròbe. Come al solito, dopo un’esperienza sul campo di 25 anni di ricerche, devo dire che ormai in certe località risulta difficilissimo trovare buoni informatori; il dialetto si sta sgretolando ad una velocità incredibile e la nomenclatura botanica, come tutte le altre tecnologie e linguaggi specifici, paga lo scotto di questo. È ormai troppo tardi per raccogliere in maniera capillare ed approfondita il lessico veneto; tale realtà è disarmante (e per un ricercatore anche molto frustrante), ma assurdamente normale. Questo vale ovunque, e in parte del territorio esaminato, per i giovani e anche per molte persone di mezza età, èrica resta ormai l’unico appellativo noto. In particolare la raccolta lessicale è stata molto difficile sull’altopiano di Asiago e dintorni; tutti gli intervistati hanno sempre risposto èrica, solo con difficoltà e non sempre sono riuscito a raccogliere altri appellativi. Può anche darsi che la perdita del vecchio dialetto tedesco negli ultimi secoli sia stata compensata in alcuni casi da italianismi e non da corrispettivi dialettali. Per quel che riguarda il Primiero parrebbe che la denominazione originale, brokón, sia stata sostituita da torzón proveniente dalla Valsugana (è infatti presente solo con varianti della voce originale), mentre le aree più periferiche risentirono di flussi culturali diversi, da sud sfréza, proveniente dal Feltrino e vivo a Masi di Imèr, ad oriente furséi, di provenienza agordina e vitale a Sagron-Mis, villaggi da sempre viventi in simbiosi con Gosaldo (BL). Oltre alla diffusione delle varie denominazioni secondo le vie dei traffici e quindi della cultura, l’indagine dialettale ha permesso di evidenziare microaree culturali, di solito corrispondenti al territorio delle vecchie pievi o a ostacoli naturali, spesso fiumi o torrenti. Così per esempio nella Sinistra Piave bellunese skenèl è diffuso solo nella vecchia pieve di Lentiai (che dall’antico Rio Bianco a occidente comprendeva anche la metà occidentale del territorio comunale di Mel, il confine era il Terche), skombarón vive nel territorio delle vecchie pievi confinanti di Mel, Trichiana e Limana (fra i torrenti Rimonta e Cicogna), tafonèl è diffuso solo nel territorio delle pievi di Castion e di Frusseda (fra il Cicogna e il Rai). Potrà sembrare incredibile ma questa stessa triplice divisione territoriale ricalca dal punto di vista linguistico quella che fu la divisione giuridico-amministrativa del territorio della curia caminese di Zumelle (dal Rio Bianco alla Rimonta, dalla — 102 — Rimonta al Cicogna, dal Cicogna al Rai), nella seconda metà del secolo XII (Tomasi 2002). Fra l’altro i Caminesi avranno preso atto di suddivisioni precedenti, corrispondenti forse a vecchi pagi romani o a situazioni di poco posteriori; in pratica nella pieve di Lentiai è diffusa una denominazione di possibile etimo greco (skenèl), che può essere spiegata con la guarnigione bizantina lì presente nel secolo VI. Nelle pievi di Mel, Trichiana e Limana è in uso un termine d’origine celtica (skombarón), mentre nelle pievi di Castion e Frusseda (questa solo nell’angolo fra Piave e Rai) è conosciuto tafonèl, di origine forse germanica. A sua volta sul territorio plebano di Frusseda (o di Cadola, attuale comune di Ponte nelle Alpi) sono documentati tre appellativi dell’erica, a nord del Piave in antico fruséi di possibile origine venetica (diffuso con due varianti ad occidente del Piave e nella valle del Cordevole), fra il Piave e il torrente Rai tafonèl di origine germanica, ad oriente del Rai è diffuso l’appellativo alpagoto karñón che ci riporta alla consimile voce friulana. Più a nord bro>orada vive solo nell’Ampezzo, refoséi è vitale nel territorio plebano di Sospirolo (sino al lontano e oggi disabitato villaggio di Gena), borséi nei territori di Sedico e Belluno (a nord del Piave), a sud delle Prealpi stazonèl, zupinèl vivono nell’area della pieve di Cison, Miane e immediati dintorni. In Friuli nel villaggio di Casso (diocesi di Belluno, provincia di Pordenone) ci riporta &lóda proveniente dalla valle del Piave, a Caneva e Sarone (diocesi di Vittorio Veneto, provincia di Pordenone) è vivo pezòla proveniente dal centro diocesano. In Cadore e nel Canale del Piave a nord di Ponte nelle Alpi è vitale do&-, da&olòda e simili, denominazione celtica portata da popolazioni galliche provenienti dal Friuli, i Carni e i Laebactes. Ricordo che il Cadore fece parte del municipio romano di Zuglio Carnico (e poi della sua erede diocesi omonima), i cui confini travalicavano i monti proprio per unire tribù in quel momento della medesima schiatta. Ricordo anche auselada arcaico a Vittorio Veneto, che potrebbe benissimo avere la stessa origine, a Ceneda infatti (parte sud di Vittorio Veneto) sono state ritrovate monete galliche orientali e anche il nome dell’abitato è da confrontare con le tribù celtiche dei Cenomani dell’Italia settentrionale, Gallia e Britannia. Anche dalle risultanze di questa indagine, come già in quella sulla fienagione, si evince che un’area di grande resistenza linguistica è quella delle Prealpi trevigiano-bellunesi, dove si trovano ben sette denominazioni dell’erica, di varia origine e in uno spazio relativamente ristretto, ed anche questa volta risulta accertata l’importanza culturale della strada Treviso-Feltre, passante per Quero, molto più importante delle strade del Brenta o della sella di Fadalto. È incredibile, con la globalizzazione attuale (cioè con la totale e banale consonanza linguistica su spazi molto ampi) osservare la varietà delle denominazioni antiche, che fra l’altro si arrestano bruscamente; spesso al di là del confine comu— 103 — nale (o parrocchiale) nessuno più conosce tale voce, che sembra astrusa, mai sentita, probabilmente utilizzata in aree lontanissime, magari neppure italiane. Devo onestamente dire che trovo la storia colturale, culturale e linguistica delle specie botaniche, affascinante, compagne come furono per millenni dell’uomo e delle sue civiltà, di cui l’analisi linguistica permette di riconoscere tracce lontane, nel tempo e nello spazio. L’èrica e il brugo ne sono buon esempio, come già altri ricercatori hanno dimostrato per l’Italia nordorientale, ed in questo saggio anche per il Veneto settentrionale. Bibliografia M. Bazolle, Il possidente bellunese, Feltre 1986-87. A. Dal Pozzo, Memorie istoriche dei Sette Comuni Vicentini, 1910 (ma Bologna 1978). DEI, Dizionario Etimologico Italiano, 5 voll., Firenze 1950-57. Ch. Du Fresne Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Niort 1883-87. J. Hubschmid, Bezeichnungen für Erika und andere Straucher, Gestrupp und Auswuchse, “Vox Romanica” XXVII, 2 (1968) pp. 319-359. W. Meyer-Lübke, Romanisches etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 1935, (REW). G.B. Pellegrini, A. Zamboni, Flora popolare friulana, Udine 1982. M. Pfister, Nuove scoperte redigendo il Lessico Etimologico Italiano, in Studi linguistici alpini in onore di Giovan Battista Pellegrini, Firenze 2001, pp. 21-32. A. Prati, Etimologie venete, a cura di G. Folena e G.B. Pellegrini, Venezia-Roma 1968. G. Tomasi, La fienagione nelle Prealpi venete, Vicenza 1999. G. Tomasi, La curia caminese di Zumelle, in “Atti del secondo convegno sui Caminesi. Vittorio Veneto 2002”, Godega 2002, pp.19-26. J. Trumper, M.T. Vigolo, Il Veneto Centrale. Problemi di classificazione dialettale e di fitonimia, CNR 1995. E. Zanette, Dizionario del dialetto di Vittorio Veneto, Vittorio Veneto 19802. — 104 — I Nomi Volgari Veneti delle Ericacee e la loro Origine Remota Parte II. I Nomi Volgari Veneti delle Ericacee e la loro Origine Remota Il primo nome individuato nella prima parte del lavoro è (1) BORSÈI, variante probabilmente il nome più comune nel Veneto settentrionale. Oltre a questo troviamo i fitonimi dialettali per indicare le ericacee (2) BRICA, BRICÓN, (3) BROCÓN, (4) BRADUSSARO, BRODASSAR, BADUSSARO, BRADUS-CIARO, (5) DOSOLADA e tipi affini, (6) DREÇÁL, (7) CRAGNÓN var. CARGNÓN, (8) LÓPA, (9) PEÇÓLA, (10) VIÉSCA, (11) ÇUPÍN, -ÈL, (12) TORÇÓN, TORSÓN, (13) STAÇONÈL, TAFONÈL, (14) SALVINA, SAVINA, (15) LESÚRA. A questi nomi, che coprono in parte il veneto centrale (valsuganotto e vicentino settentrionale) oltre al veneto settentrionale, andrebbero aggiunti quelli centrali dei Colli Euganei e Berici (16) BRUGO, (17) SCALDÚME, (18) BRÈCHENE, BRECHENÈLE (Trumper-Vigolo 1995: 118-19). I fitonimi coprono i generi e le specie Calluna vulgaris (L.) Hull, Erica arborea L., Erica carnea L. ed Erica scoparia L. FORSÈI, Ovvio candidato per etimo di BORSÈI, FORSÈI (1), è *br55sc33a del REW 1304a, FEW I. 572-575, Billy TLG: 35, come gallicismo con formante romanzo. Per precursori medioevali cfr. Ducange lat. I. 757C BROSS(I)A “Silvula, Dumetum” (periodo 1112-1300), I. 761C BRUSCIA, BROZIA “Dumetum, Gallis Broussaille” (documenti del periodo 1100-1300), nonché I. 762B BRUSTIO “Dumetum”, I. 762C BRUSTUM “materiæ genus” che suppongono una forma base *brust-. Von Wartburg, in base ad alcune osservazioni di Marstrander sull’etimologia dell’irl. bros[s]nae, sembra proporre la contaminatio con una supposta base germanica *burstia. Il tipo lessicale è ben conosciuto nei dialetti veneti e friulani (Penzig p. 88, Flora Popolare Agordina 63-64 ecc.) e Pellegrini-Zamboni FPF I. 84 riprongono *br55sc33a come fonte di simili nomi delle ericacee in questi dialetti. Come celtismi (gallicismi) del — 109 — latino abbiamo (1) bruscum ‘nodosità del legno’ in Plinio N.H. XVI. 117, collegato da Whatmough DAG 33 con il nome personale gallico BRUSCUS ed in DAG 887 con BROSSA e BROSSARIA del CIL 13. 2023, che poi viene glossato come Acer sp. nel Liber Glossarum 266;1 (2) bruscus Ruscus sp. (in genere Ruscus aculeatus L.) in Plinio N.H. XVI. 68, tra il 300 e 600 d.C. nella Mulomedicina di Chirone, Plinio Valeriano 2. 45, Dioscoride Latino 4. 144, CGL 3. 571. 44, CGL 4. 549. 31, per il Medioevo Alphita 27. 4-5 (“Bruscus habet folia ad modum buxus, tantum spinosa, anglice keneholm”), Synonima Bartholomæi 13 (“Bruscus frutex est, licheholm”), Rufinus (Thorndyke p. 62 “est herba que in montuosis nascitur locis” ecc.), Latham bot. a. 1250, ecc.;2 (3) brustum sia come ‘legno, legname’ (Liber Glossarum 266, CGL 5. 272. 14, CGL 5. 593. 10) che come Ruscus aculeatus L. (Mulomedicina di Chirone 850 [p. 258, 32 sgg.] “...sucum brusti, opium ...”, laddove alcuni codici forniscono la variata lezione “rusci”), con variante brustrum per ‘legname’ (CGL 4. 314. 41),3 (4) brUUcus Calluna vulgaris (L.) Hull ed Erica sp. (v. André NPRA 3839: Pseudo-Dioscoride 4. 16, Pseudo-Apuleio 98.8, a cui si aggiungono le glosse di CGL 3. 553. 51, CGL 3. 554. 37, CGL 3. 618. 67: “brucus. i. saxifraga”, “brocos. i. saxifragia”), con varianti tarde bruca (Tamarix sp. in Daems 457) e brogus (Calluna vulgaris: Daems 131). Visti i significati, è importante sottolineare con André e con il medioevale Antidotarium Nicolai 394 (rif. in Fontanella 2000) non solo una completa equiparazione lessicale già ab antiquo tra Calluna vulgaris e Erica sp. come membri della stessa famiglia delle ericacee ma anche tra queste e Tamarix sp. e Ruscus sp.,4 talvolta persino con Juniperus sabina L. Dal punto di vista della morfologia botanica non vi è nessun motivo per una tale fusione a livello linguistico, perché (a) Calluna vulgaris, Erica sp. e Ruscus aculeatus presentano foglie ad 1 Walde-Hofmann (LEW I. 117) lo spiegano come gallicismo, da uno sviluppo celtico della base *bhreus- 2., IEW 171. Da questa stessa base LEW I. 553-554 deriva sia il lat. frUtex che frUstum, e per quanto riguarda bruscum gli autori confrontano sia i dati irlandesi che l’alban. breshër. Loth RC 42. 74 sgg. citava esiti celtici del tipo brus- per corroborare l’ipotesi, ma concludeva «Il faut bien convenir que plusieurs de ces formes doivent remonter à des racines et tèmes differents». Considerazione importante su cui torneremo tra poco. 2 Per commenti sulle forme medioevali si vedano Daems 521 (p. 279), Fontanella 2000: 9.11, 86.1. LEW I. 117 propone un incrocio di *brUcus con rUscus. La forma era ovviamente estesa al latino orientale, cfr. in Dalmazia il toponimo Bruškit < BrUscEtum citato in Mih1escu 1978: 239, § 224, anche se difficilmente questa base sottostarà al fitonimo romeno bruscalan, broscalan Petasites sp., Arctium sp., dove, comunque, non è possibile riconoscere un derivato da broasc1, broscoi. 3 Nonostante Gamillscheg RG II. 250 postuli un’origine germanica per il romeno brustur/ brusture Arctium sp., Petasites sp., si rimane sostanzialmente d’accordo con Rosetti che una siffatta derivazione di un fitonimo romeno susciterebbe qualche perplessità (cfr. Rosetti ILR II. 79: “... ar fi de mirare ca romîna sa fi împrimutat de la populaKiile germanice cîteva cuvinte izolate...”). È al limite possibile che sopravviva in questo caso un derivato del latino brustum (gallicismo del latino), ma la questione mi sembra ancora sub judice. 4 Esempi di questa apparente ‘(con)fusione’ sono Myrice, -a = Tamarix sp. in Virgilio, Buc. 4.2, 6. 2, Plinio, N. H. XIII. 116, XXIV. 67, ma myrica e erice si sovrappongono nell’Oribasio latino = Erica arborea L. = ejreivkh dell’Oribasio greco, mentre con Erice s’intende Tamarix sp. in CGL 3. 428. 40, CGL 3. 539. 7 ecc. Si vedano poi le voci erIcE, myricE e scOpæ in André NPRA. — 110 — ago o appuntite, mentre Tamarix sp. e Juniperus sp. posseggono foglie a squame, mai appuntite, (b) Ruscus aculeatus, Tamarix sp., Erica arborea e Juniperus sp. sono ‘legnose’, con struttura ad albero, mentre Calluna vulgaris e le altre specie di Erica sono ‘cespugli’, arbustiformi bassi. La somiglianza, invece, è favorita sia dalla nicchia ecologica occupata da tutte queste piante che dagli usi, cioè sia come scopa rustica (Erica sp., Tamarix sp., Ruscus aculeatus) che come legname minuto o accendaglia (Calluna vulgaris, Erica sp.,5 Juiperus sabina, Ruscus aculeatus). Comunque, gli esiti celtici (Stokes, Urkeltisches Sprachschatz 185-187, Loth RC 42.74-76) suppongono come punto di partenza *bhr[e]u-so-, con sviluppi *bhr[e]u-sto-, *bhr[e]u-s-t-4n-33o-, ad es. da *bhr[e]u-so- cimr. brau ‘fragile’, irl. brúim, derivati brúire, brúirech, brúile, brúar = brúan, brúarán, presenti già nei testi più antichi, da *bhr[e]u-s-to- bret. brus, brusunenn, brus-coad, brus-guezenn, mediocornico sprus, sprusenn (Gwreans y Bys passim), irl. brus ‘residui, frammenti’ (Aislinge Meic Conglinne 87.22, Ériu xiii. 200 § 35), da *bhr[e]u-s-t-4n-3o- antico e medio irl. brossnae, brosna (Glosse di Torino: Nigra p. IV col. II n. 5 “isác cum lignis. i. in brosnae dombert side dia ebairt”, Thesaurus Palæohibernicus i. 493, 17 glossa 123 “Isác cum lignis. i. in brosnae dombert side dia edbairt” – quel fascio di legname che egli [Isaac] portò per offrirsi ecc.; Sanas Cormac 119; In Cath Catharda 3978; Irische Texte iii. 12 §1; Ériu ix. 46 §14 verso 146 “bláth bruinne bran brosnaib”; RC xxvi. 30 nota 1; RC xliii. 106 § 111 ecc.). In quest’ultimo caso Thurneysen, Keltoromanisches 51 BROZA, scartando l’irl. bruis e il cimr. brws come prestiti dall’inglese, cerca di associare con brossnaí, brosnae, il cimr. broes e brwysol. Brws è da scartare in quanto certamente prestito dall’inglese (GPC), mentre nel caso di brwys, brwysol, il GPC troppo frettolosamente li considera come ‘creazioni’ di Iolo Morgannwg alla fine del Settecento. Vista la presenza di brwys nel Quattrocento (Gwaith Glyn Cothi 42. 24n “y cad brwys fal coed brosil” – una battaglia lussureggiante quanto un bosco di alberi di Sappan) e addirittura nel Trecento (Hafod 257. 20 brwys nella composta brwysglet; Gwaith Dafydd Gwilym 27.2 “Tadwys coed brwys caead brig” – genitore di un bosco lussureggiante sono i ramoscelli che coprono [danno ombra]), crediamo sia il caso di riammettere alla discussione il cimr. brwys, forma chiaramente attestata nelle fonti medioevali (tre ricorrenze sicure). Qualche caso di brwysgledd nel Duecento (Prydydd y Moch) andrebbe addirittura riconsiderato, a nostro parere. Comunque, brwys andrebbe analizzato come *bhreiH-s-to piuttosto che come *bhreu-s-to-. Finora i derivati celtici del tipo brus/ sprus, brossnaí ecc. fanno pensare più ad una forma gallica *br5st4n[i]on, -A < *br[e]u-s-ton-yo-, -yeH-, ed a fianco ad essa *br5st3A (< *br[e]u-s-t-y-eH), che non *br5sc3a supposta dagli studiosi per spiegare forme romanze. Il significato base doveva essere ‘legname minuto’ (> ‘accendaglia’), ‘boscaglia bassa’, ‘boscaglia lussureggiante’. Forme proto-celtiche 5 La diversità dello stelo tra Calluna vulgaris (più sottile) ed Erica sp. (più grosso) non sembra significativa nella cultura popolare. — 111 — *br5stA / *br5ston e *br5st4nyA darebbero come esiti irl. bross/ bruss, brossnaí, bret. bruss, brusson/ brussun ecc., cornico bruss (spruss) ecc., sufficienti per spiegare le forme brossa, brossaria delle iscrizioni e delle glosse. Ovviamente l’esito brossia richiede una base gallica *br5st3A < *br[e]u-s-t-y-eH. Una forma bruscus dovrebbe richiedere l’incrocio con rUscus, sempre possibile grazie all’equiparazione popolare tra Erica sp. e Ruscus aculeatus. Una forma bruscus potrebbe, comunque, nascere da altre basi, cioè da esiti celtici di IEW 166-167 *bhrei- ‘tagliare’ incrociati con brUcus. Forme simili ma con -ivengono date negli autori per piante affini come il Ruscus aculeatus, cioè briscus in Plinio Valeriano 2.30, assieme a brisgo, brisco, -onis nelle glosse per ‘legname minuto, accendaglia’ (CGL 3. 587. 41 “brisconis hulsi minuti” del X° secolo, 3. 608.36 “brisconis idest ul fus [leg. hulsi] minuti”) e frisgo (CGL 3. 628. 43 “ramne idest ulsida idest frisgone” del Codex Vaticanus 4417 del X° secolo6), lemma commentato assieme a frisgo in Whatmough DAG 160 (“the by-form frisgone (CGL ...) appears in OFr. fresgon, fregon, Fr. fragon”), forme già additate come “gallicismi” per Ruscus aculeatus nei dialetti francesi in alcuni contributi di Jud (accanto al celtismo cou, coussar, coussère < *kol-, IEW 545, cfr. cimr. celyn[n], ant. irl. cuilenn, bret. quelenn Ruscus aculeatus, ed al germanico houx dalla stessa base). Per generare alcune forme celtiche semanticamente viciniori si propone infatti come punto di partenza *breiH- > *bre[i]H-s-wo- > cimr. briw ‘frammento, briciola’, mediocorn. brewyon ‘pezzi; briciole’ [= cimr. briwion] in Resurrectio Domini 125 (Norris 1859), mentre cimr. briws, briwsion, briwsionyn sembra supporre ulteriore determinazione (*bre[i]H-swo- + -sto-), *breiH-ko- > cimr. ant., medio e mod. brig, briger ‘cima; germoglio; pollone’,7 *br[e]i[H]-k-sko- oppure *br[e]i[H]-s-sko- > ant. e medio irl. brisc8 (> briosg) ‘fragile’, bret. bresk 9 ‘fragile’/ ‘dissipé’, cimr. brwysg ‘lussureggiante; vitale’ [> iperattivo, agile > ebbro], brysg/ brysglwyn ‘boscaglia’.10 La forma cimrica brwys, di uguale significato di brwysg, suppone, invece, *brei[H]-s-to-, come il verbo ant. irl. brissim ‘rompere’ < *br[e]i[H]-s-t-. Ovviamente, data la connessione forte con la viticoltura, si suppone che i termini viticoli latini brIsa, br3scAre,11 brIs3lis, siano così d’origine gallica (tralcio, tagliare i tralci, che facilmente si taglia o rompe ecc.) e non d’origine ‘illirica’ o ‘tracica’ (obscurum per obscurius),12 dalla stessa base dei termini celtici insulari testé elencati. Si potrebbe, dunque, proporre ugualmente una contaminatio brUcus X *br3scus, plausibile quanto brUcus X rUscus. Comunque, l’alternanza tardolatina brisco/ frisgo, con esiti galloromanzi, fa supporre da parte di Jud che si tratti di una fase arcaica di sostrato gallico, quando asserisce (Romania XLIX: 389) che la variazione è “une variation lexicologique dont ... on n’avait pas relevé jusqu’ici d’autre exemple associé”. Data la mancanza di /f/ nelle lingue proto-celtoidi, è estremamente difficile ipotizzare una base gallica con ‘fr-’, almeno che non vi siano testimonianze del già avvenuto passsaggio *spr- > fr- (celtico-P)/ sr- (celticoC) nel tardogallico. Anche se avevamo la testimonianza del noto passaggio, non esiste alcuna base celtica che inizia con *spr- che potrebbe sottostare all’esito frisgo. Il problema dell’esistenza o no di un fonema /f/ nel gallico era già stato posto in Whatmough 1956, discussione in cui l’alternanza brisgo - frisgo costituiva uno degli esempi dibattuti (pp. 252-53), ma senza possibilità di soluzione sicura (p. 255 “All in all the argument in favour of Gaulish f still remains debatable”). Vi sono esiti della base IEW 633 *kwres- ‘Gehölz, Baum’, ad es. *kwres-no- > gallico prenne (glossari), ant. irl. crann, cimr. pren(n) ‘albero’ (base maschile: cfr. gr. pri~noÀ), *kwres-ti(femminile in -i-: per sviluppo di -to- maschile nello slavo cfr. sloveno hrást ‘quercia’) > cimr. prys (cfr. ted. Horst, tema maschile < *kwres-to-), *kwres-ski- (femminile in -i-) > cimr. prysg ‘boscaglia’, ‘sottobosco’ ecc.13 Con la prefissazione CGL 3. 609.36 citato in Bolelli ID 18. 33 (voce 149) sarà un errore di disattenzione. Le prime attestazioni sono nelle glosse del periodo 700-800 d. C. dell’ant. cimrico, cfr. Stokes 1873: 389, Falileyev 2000: 18-19 (la sua proposta d’etimologia, *bhreg-, andrebbe cambiata in *bhreiH-ko-): cfr. le glosse “ir carnotawl bricer” gl. uitta crinalis, “briceriauc” gl. crinibus. 8 Presente in Sanas Cormaic 261, Libro di Leinster 8204 (= Táin Bó Cúailnge 641), 32794, Lebor na hUidre 7500, 8520, Tochmarc Ferbe 333, In Cath Catharda 5367, Ériu viii. 44. 29 ecc. Per la documentazione completa si vedano le voci brisc, briscbruan, briscbrúar, senbrisc, minbriscaid ecc. del DIL. Per l’estensione a fitonimi si vedano nello stesso le voci briosclán Tanacetum sp., briscén Tormentilla sp. 9 Ernault accanto al medio bret. bresq ‘dissipé’ dà il verbo derivato bresquign e confronta con il cimr. brysg, irl. briosg, verbo briosgaim. 10 Questi termini sono presenti, quasi tutti, nelle poesie dei bardi di corte (Gogynfeirdd) dal periodo 1050-1100 (Gwalchmai, Cynddelw) al 1200 (Prydydd y Moch), fino alla fine del Duecento (Dafydd Benfras, Phylip Brydydd) ed agli inizi del Trecento (Casnodyn, Trahaearn, Llywelyn Goch ap Meurig, Dafydd y Coed, Iorwerth ap y Cyrriawg, Risserdyn, Gruffudd ap Maredudd ap Dafydd, Sefnyn, Gruffudd Llwyd, con esempi anche nelle opere di qualche anonimo, in un arco di tempo in cui vi erano ancora corti principesche indigene, ed oltre, dal Trecento fino all’epoca moderna. In prosa si trova nel Libro Bianco di Rhydderch 153, 14-15 (Peredur), 189, 33-34 (Macsen Wledig) ecc. I casi sono effettivamente troppi perché valga la pena citarli. L’unico termine che non si trova apparentemente prima del ’500 è brysglwyn (prima versione cimrica del Libro di Giobbe, ca. 1580). 11 Per briscAre si vedano FEW I. 536, Billy TLG 34. T. Bolelli, ID 17. 168 (voce 81) aveva già collegato il tardolatino briscAre con le forme celtiche e indicava - a nostro parere in modo corretto- una probabile origine da una forma aggettivale, cioè briscAre < *briscus (significato ‘fragile’?). 12 Una forma traco-illirica bruvtea, bruvtia non poteva dare una forma albanoide brIsa che passasse come tale nel latino imperiale, commento alquanto ovvio già fatto da B. Demiraj (Albanische Etymologien p. 98 commenti etimologici ragionati su bërsí: la sua ultima considerazione, “In diesem Zusammenhang läßt sich bërs(i) (< evtl. *britia) nur als Lehnwort betrachten, das auf eine gemeinsame Quelle mit lat. brIsa zurückgehen kann”, apre uno spiraglio su possibili rapporti albano-celtici che meritano d’essere approfonditi), considerazione logica che esclude automaticamente l’ipotesi di illirismo da parte di Walde-Hofmann LEW I. 116 brIsa “Weiterbildung von thrak. bruvton, bruvtoÀ “Bier” ..... aber nicht aus dem Griech. entlehnt (Saalfeld), sondern nach Brüch IF. 40, 241 ff. aus dem Thrakischen durch illyrische (venetische oder messapische) Vermittlung (illyr. brIsa aus thrak. *brUtia).” 13 La forma prys è presente nei poeti di corte dal 1100 in poi (Cynddelw 8, 16; Hendregadredd 72 a 8; Gruffudd ap Maredudd ap Dafydd, MA2 310b 27; Sefnyn, Red Book Poetry 1262, 29-30 ecc.), la forma prysg nel Liber Landavensis 43, 23 (“Riu brein. cair ca&tell. pennipri&c”), nelle Vitæ Sanctorum Britannorum (Vita Sancti Cadoci) 132, 23-24 § 64 (“Finis huius agri est a Pull Tenbuib usque Dirprisc”), Ystorya Gereint uab Erbin 833 (Libro Bianco di Rhydderch 422, 27-30) ecc. Per discussione si veda anche Loth, RC 42.372. — 112 — — 113 — 6 7 della s- mobile indo-europea, cioè *s-kwres-ski-, sarebbe stato possibile un esito *fr3sk-. Ci vogliono troppe supposizioni, con forme ricostruite senza alcuna attestazione storica, per cui l’origine remota di frisgo resterà ancora per molto tempo sub judice. La forma (16) BRUGO, che poi stà alla base della forma (3) BROCÓN, pur accettata come gallicismo della tarda latinità dalla maggioranza degli studiosi (Bertoldi 1929: 487, REW 1333, -non si capisce, comunque, il perché dell’asterisco in *brUcus-, Jud nei suoi vari studi sulla fitonomia romanza, FEW I. 557-559, Billy TLG 35 ecc.) venne poi ripudiata come tale in Bolelli ASNSP 1942: 157 (“mi pare incerta l’appartenenza al gallico di brUcus “erica” per la presenza di alcuni continuatori in Sicilia e in Calabria”). Poi lo stesso Bolelli in ID 17: 169-170 (voce 84 brUcus) preferisce considerare la variante *braucus (> brocón) come dovuta ad incrocio con br4ccus (“Ma le forme ... si spiegano meglio pensando all’influsso di BROCCUS, come il REW stesso e il FrEtW suggeriscono”), ribadendo che brUcus non potrebbe essere celtismo per il fatto di avere “continuatori” nell’Italia meridionale, identificando il calabrese settentrionale e mediano vrica, vruca Tamerix sp. con il calabrese meridionale bbruèra, bbruvèra Calluna vulgaris, Erica sp., ambedue, secondo lui, esiti “indigeni” di brUcus (“Non si è finora notato che, contro l’origine gallica, parla la diffusione geografica della voce nell’Italia merid. Per la Tamarix gallica abbiamo cal. bruca, brica...[Penzig]”). Ciò che è scorretto in questo ragionamento è la derivazione sia di (1) vrica, vruca, bbruca, mbruca Tamarix sp. che hanno origine non nel gallicio brUcus bensì nel gr. murivkh,14 che di (2) bru[v]èra, che è, per la sua stessa struttura fonologica (bruvèra < bruèra < bruyère < *brUc-Ar3a), un francesismo tardomedioevale. Le due voci sono, dunque, completamente distinte. Il secondo problema è la derivazione della forma testimoniata brUcus rispetto ad una base indo-europea ricostruita *wreik-/ *wroik-o- (IEW 1182, < IEW 1154-1155 *wer-gh- secondo Pokorny), che dia sia le forme celtiche (ant. irl. fróech, cimr. grug ecc.) che il gr. óereivkh > ejreivkh. Lo sviluppo oi > ou è riconosciuto sia per il gallico che per il protobritannico, cfr. Ellis Evans GPN 43-45 Adgenoou come dativo (oou per oi), 313-314 il dativo Birakotwu, 396, 427, Whatmough, Præ-Italic Dialects 2. 592, Whatmough DAG 44 Taranoou come dativo in -i, bratoude come dativo o strumentale in –i in molte iscrizioni (cfr. CIL 12. 820 OuhbroumaroÀ dede Taranoou bratoude kantena), poi ou (< eu, ou, oi) > U (Whatmough DAG 1369, Pedersen 1909. I. 53, Vendryes in RC XXXVIII. 181 ecc.). A questo punto è garantito lo svuluppo celtico *wroiko- [ > irl. ant. fróech] > gallico/ brit. *wrouk- > cimr. grug.15 Aggiungiamo a favore di queste considerazioni quelle più generali argomentate in Bertoldi 1929 sulla compenetrazione e competizione tra forme latine e galliche nella fitonimia, con risultati manifesti nella variazione dialettale galloromanza, cfr. p. 487 “... rispondenze fra gallico e celtico insulare permettono di dedurre, per es., che voci latine quali ALNUS, FILIX, PRUNUS ed ERICA vennero a sovrapporsi a uno strato gallico in cui predominavano i tipi VERNA (irl. fern), RATIS (irl. raith), *AGRÃNIO (irl. áirne) e BRÅCUS (irl. froech). Ma i fattori che nei singoli casi favoriscono od ostacolano la penetrazione del nome latino risultano molteplici, ...”. Da una forma base *wroik-o- > *wrouko-, fusione usuale dei dittonghi nel celtico britannico e continentale, possiamo avere due esiti celtolatini, quello atteso brUcus > forma (16) BRUGO, ed una variante con dissimilazione tra vocali e sonoranti posteriori, cioè *wrouk-o > *wrauk-o- > braucus, che potrebbe benissimo stare alla base di esiti quali BROCÓN (forma 3), senza dovere appellarsi ad una possibile contaminatio con br4ccus. 14 Si veda la discussione in Rohlfs EWUG 19642: 343. La possibile contaminatio ipotizzata da Rohlfs tra murivkh e bruva è suggerita dal noto passo pliniano, N. H. XIII. 116 “... myricen et Italia, quam tamaricen uocat, Achaia autem bryan siluestrem”, cioè brya = myrice, -a = tamarix. Già bruva vien riferita a gemme e polloni di albero in Iliade 17. 56 (olivo) ed anche di arbusti (generico in Aristotele HA 624a34, specificamente dell’agnocasto in Nicando, Theriaca 71, l’alloro in Teofrasto, HP III. xi. 4, forse l’alloro in Teofrasto, De Physicorum Opinionibus, in Diels, Doxographi Græci 490, 4). Anche se la maggior parte dei riferimenti nel Mondo Antico ci riporta al muschio, ai licheni o all’alga marina, questi pochi riferimenti di cui sopra evidenziano un’ambiguità d’uso, con come referenti anche alberi ed arbusti, come farebbe supporre anche l’Hermeneumata Vaticana, CGL III. 427.52 “bruafilladac frondis”. Alcuni (pochi) esiti calabresi quali vrica fanno pensare ad una derivazione diretta murivkh > *m’rica > brica > vrica Tamarix sp., gli altri (maggioranza) ad un incocio murivkh X bruva > bruca > bbruca, mbruca, vruca. La u del tardo greco si trova risolta sia come /u/ che come /i/ in calabrese, cfr. Trumper 2000: 135-136. Murivkh rappresenta il tamerice dall’Iliade 21.350, Nicandro, Theriaca 612, Teocrito, Idilio I. 13 (“w|À to; kavtanteÀ touvto gewvlofou ai{ te murivkaiv, surivsden;” – dove sono la collina a pendio ed i tamarici?) in poi, prestito passato successivamente nella tradizione latina accanto alla voce indigena tamarIx, fino alla tarda latinità, cfr. Sammonico XXV.8 “noua uirga myricæ” (un giovane ramoscello di tamerice), XLV. 36 “uel nepetam aut frondem rigidæ stirpemque myricæ” (come la nepita o le foglie e il pollone del rigido tamerice). L’etimo di murivkh non è da cercarsi nella base indo-europea *smer- per ‘grasso’, come voleva Carnoy pp. 182-83, bensì nel semitico *MRR- ‘amaro’ (cfr. osservazioni nel GEW II. 271), donde anche il lat. tamarix, tamaricem, con prefisso nordafricano ta-. Per quanto riguarda forme quali BRÍCA, BRICÓN, Schuchardt 1880 cercava di allacciare il cimrico brig ‘brig’ all’irl. bri, cimr. bre (singolarizzato poi al maschile come il più comune bryn[n]), anche se perplesso sulla variazione tra sorda e sonora (Schuchardt 1880: 126 nota 1 “Der Wechsel von Tenuis und Media in diesen Wortformen ist schwer zu erklären”), seguito da Thurneysen, Keltoromanisches p. 49, che dalla base BRIC- derivava cimr. brig, sg. brigyn. Egli pure è indeciso se derivare le forme attestate nel celtico insulare da una modificazione in -ig basata su bar[r], cfr. p. 49 “Es stellt sich somit näher zum stamme barr- also zu br3g -. Mag brig aus *barrig oder aus *bry(g)-ig- ausstanden sein ...”. A p. 50 ammette anche la possibilità di uno sviluppo *brIg-3ko- > *brIcco- per spiegare le forme romanze quali bríca, bricón. Il cimrico brig [> briger, brigerog, brigerol ecc.] sia come ramoscello o verga come partonimico riferito a piante è di data antica: appare nei glossari del ca. 900 d.C., nelle poesie di Llywarch Hen, nel Libro Nero di Chirk, nel — 114 — — 115 — 15 Cfr. l’irl. óen = cimr. un < *oi-no- (lat. Unus) per gli sviluppi in questione. Libro Nero di Carmarthen (ca. 1100) e nei Cynfeirdd dello stesso periodo o forse del periodo antecedente (Libro di Taliesin 59. 15-16), nei poeti di corte del 1200 (Gogynfeirdd) e nelle versioni contemporanee delle Leggi (Llyfr Iorwerth 138, 3), nonché nella prosa del 1200-1300 (Libro Bianco di Rhydderch 176), cioè costituisce un lemma frequente degli scritti medioevali. Sia Pokorny IEW 166 *bhreg-2 che Falileyev 2000: 18-19 riportano la voce a *bhreg- < IEW 166 *bhrEi- ‘rompere’ ecc., ipotesi ricostruttiva che riproponiamo come *bhr[e]iH-ko- < *bhreiH- (in nuova veste indo-europea *breiH-ko-), collegandola con il greco fri~x, frivkoÀ (Esichio F. 884 frivkeÀ :cavrakeÀ) che Frisk nel GEW II. 1043-44 associava alla forma celtica.16 La possibilità che la voce sia passata con rimorfologizzazione nel latino o nel tardo latino è discussa dagli studiosi, alcuni a favore di tale ipotesi, altri contrari. Si connettono con la nostra parola le voci attestate quali bricumus Erica sp. in Marcello Empirico 26. 44, commenti dubitativi ma in sostanza favorevoli in LEW I. 115, 352, mentre Alessio, Elemento Greco 83 n. 337, è contrario, considerandola un errore di trascrizione per bricinnus ch’egli connette con le forme greche brikinniva, brikivnnh, brikevnna, tema siculo che ritiene ‘mediterraneo’, vista la ‘agallicità’ dei suffissi. Cfr. anche Alessio, Lexicon Etymologicum 53, il quale propone *bricinnus, briginus per bricumus (“andrà letto *bricinnus f., in vista del gr. brikivnnh...”). Si riferisce non solo alla glossa esichiana B 1153 (“brikivnnh : ei|doÀ botavnhÀ”) ma in particolare, per quanto riguarda il toponimo siculo, a Tucidide 5.4 e Stefano Bizantino 186, 19 (“Brikinnivai [codd. Brikinniva], povliÀ SikelivaÀ. to; ejqniko;n BrikinniavthÀ”). A questa voce possiamo aggiungere sia bricanona.i. sauina (Juniperus sabina) del CGL 3. 553, 46 (9° secolo) che briginus gà menzionato (CGL 3. 631, 22: “artemisia gallice briginus appellant, alii matrona”). Bolelli ASNSP (1942): 157-58 rifiutava l’ipotesi che queste voci fossero galliche (“attribuita al gallico solo per ragioni indiziarie ... bricumus ‘artemisia’ [Marcello XXVI.41]”, dubbi echeggiati in Porzia Gernia 1981: 98 n. 5 (“gallicismo incerto”). In primis ribadiamo che -3nn- è una formante legittima celtica (cfr. i singolativi di brig nel cimrico, sia brigyn[n] m. [prima nel ’400 nelle opere di Lewis Glyn Cothi] < *brIk-3nn-o- che brigen[n] f. [prima attestazione nel Seicento] < *brIk-3nn-A). Whatmough DAG 443-44 ipotizza (1) che briginus dei glossari sia una contaminatio di bricinnos con brigantInos ‘acaro; verme’ (cfr. cimr. gwraint ‘larva’, irl. ant. frige id., gen. friged, base *wr3g- ant-: Artemisia absinthium fu considerata cura adatta per i ‘vermi’, il che spiega la contaminatio avvenuta nel germanico, cioè ags. wermod X wyrmwyrt > medio e mod. ingl. wormwood), (2) che bricumus sia un errore di trascrizione per *britumus (“a mis-writing of britumus”). L’ipotesi viene ripresa da Ellis Evans GPN 388-89, 398, che connette il nome con Minerva, corrispondente femminile di Marte, nelle forme celtiche Britouia < Britouius (CIL 12. 3082) e Britomaris, riferito da Plutarco come BritomavrtoÀ, da Appiano come BritovmariÀ,17 cioè un’equivalente celtica quasi per l’interpretatio romana alla rovescia di Minerva = Artemis. In altre parole bricinnus sarebbe appropriata latinizzazione di una forma base celtica *brIc3nno-, che corrisponde formalmente in modo preciso al brigyn[n] moderno e che rende sospetta la ‘mediterraneità’ di brikivnnh (galatismo del greco?). Questa forma non spiega affatto esiti del tipo brico, -a, -ón, ,- che necessiterebbero di qualche forma aggettivale del tipo celtico *brIk-3k-o-, -A- (per sincope) > *brIkk-o-, -A-, per rendere formalmente ineccepibile la derivazione, come supponeva già Thurneysen nel suo Keltoromanisches (p. 50). La sincope interna, prodotta dall’isocronia accentuale, non è fenomeno sconosciuto al celtico! Per spiegare forme come quelle elencate a (4), cioè bradussaro, brodassar ecc., a cui mi sembra d’obbligo aggiungere il friulano bradàsc (Pirona, ‘scopa di ramoscelli’), Clauzetto bradàss Erica sp., non ritengo sia necessario fare appello al gotico br3d ‘asse di legno’ (REW 1294, etimo per primo proposto da Pellegrini per i tipi veneti e friulani, poi dalla Benincà in DESF I. 258), sia per il vocalismo che per la semantica (br3d è nome di artefatto), né allo sloveno brada ‘barba’ (forse poca congruità semantica in questo caso) né al germanico brado[n] (REW 1259: incongruità semantica, anche se fonologicamente corretta), come propongono un po’ frettolosamente Pellegrini e Zamboni nel FPF I. 88 (§ 28). Ancora più fuorviante sarebbe appellarsi al presunto gallico *botusca (REW 1242; Billy TLG 1993: 32; FEW I. 471), perché, come diceva Bolelli ID 17: 161, giustamente in questo caso, “l’attribuzione al gallico è quanto mai incerta ...”. Negli autori greci bravqu è spesso usato per Juniperus sabina (Dioscoride 1. 76. 1 ecc., Galeno passim, Oribasio passim [28 riferimenti con uso costante di questa voce], Paolo Egineta, Aezio Amideno, Alessandro di Tralles ecc.), uso che passa negli autori latini e tardolatini di medicina e Chantraine, DELG voce fri~x, rimetteva in discussione l’associazione tra il britonnico brig e il greco fri~x, dietro suggerimento di Bachellery, e riproneva l’etimologia precedente di brig dalla base i. e. *bher-gh-, cfr. “On évoque avec réserve des formes groupées sous *bhreg-2 par Pokorny 166, notamment en celtique, gall. Brig m. “soumet (d’un arbre), crête (d’une vague), pointe, extrémité”, etc., avec G. S. Lane, Language 13, 1937, 22, brittonique *briko-; on pourrait cependant se demander si le terme celtique n’appartient pas plutôt au groupe d’i. e. *bher-gh- “haut”, Pokorny 140 sq. (remarque due à E. Bachellery).” Innanzitutto, la voce cimrica vale anche “pollone”, “ramoscello”, metonimicamente “capelli” ecc., per cui resta senz’altro “estremità” ma non necessariamente “cima d’albero”. Semanticamente ci sembra più addatta la partenza dalla base per “sottile, fragile, che si rompe con facilità” che non da quella per “alto”. 17 La prima parte della composta potrebbe corrispondere ad un tema di base *wr[e]i-to- ‘corona’ (cfr. cimr. gwryd ‘coroncina di fiori’: per la semantica cfr. in latino stephanos per Ruscus sp. e Daphne laureola L., André NPRA 249) < IEW 1159-60 < *wrei- IEW 1158), epiteto appropriato sia per la divinità (‘incoronata’) che per alcune piante (‘che possiede una coroncina’, ‘corona di Minerva’ ecc.). La questione, purtroppo, deve restare ancora sub judice. La seconda parte è, invece, molto chiara: o si tratta dell’aggettivo celtico maro- ‘grande’ nella variante BritovmariÀ, ben noto dall’antichità gallica fino agli esiti moderni (cimr. mawr, irl. mór), oppure, nella variante BritomavrtoÀ, della base celtica *marto- > ant. e medio cimr. marth ‘virtù; meraviglia; miracolo’ presente nelle poesie dello Juvencus oxfordiano (800 d. C.) “Omnipotens auctor ti dicones a di mar[t] ....(Onnipotente creatore, tu hai creato con le tue meraviglie ...), poi nel Canu Aneirin ed in altri testi ancora, nei primi Gogynfeirdd (Gwalchmai) ecc. — 116 — — 117 — 16 di studi naturalistici, talvolta in veste completamente greca (Scribonio Largo, Compositiones 154 “Ad lumborum dolorem, cucurbitæ siluestris floccorum, aut seminis . X. p° duum, brathys”, Plinio N. H. 24. 102, ma bratus in N. H. 12. 78, brathi < bravqu nei commentatori della Bibbia), talvolta in forma alterata (Pseudo-Apuleio 86, 14 “bratis” = “brathy”, Dioscoride latino I. RE’ “Bratjos braton multj dicunt ...”; Plinio Valeriano I. 38 “brateos”/ “bratea”, nel Medioevo bratheos/ brateos/ bracteos nell’Antodotarium Nicolai n. 198, cfr. anche Fontanella 2000: 3.11, 82. iv, Synonima Bartolomæi, Rufino 33ra p. 62 “Bratheos, id est, sauina” ecc.). Anche se semitismo (GEW I. 263), questa voce per Juniperus sp. ha una tale diffusione, tra scrittori specializzati e non, che sarebbe stato alquanto strano non trovare continuatori romanzi. Credo che la parola con base brad- che troviamo lungo l’asse alpina per Juniperus sabina ed Erica sp., vista la congruità perfetta dei referenti, sia da riportare a questo tecnicismo greco del latino, a sua volta semitismo nel greco. La voce è stata anche naturalizzata con suffisso molto particolare -usk-/ -ask- (celto-ligure?). Dosolada/ dasolada è stata collegata con la base REW 2481 *dasia (preromano) che in genere si pone come etimo, come in FEW III. 19, dei vari tipi lessicali alpini per ‘ramoscello di abete’. È difficile relare questa con le basi *dal-3a, *dan-3a, trattate separatamente da Bertoni in Archivum Romanicum III, che forse sono riconducibili alla base celtica *deli-, *deljo-18 (Stokes, Bezzenberger, Urkeltisches Sprachschatz 149-150, cfr. anche Holder ACS I. 1263), che ha come esiti della stessa area semantica ant. irl. deil/ del, mediocimr. dyleith, cimr. dylaith, ant. br. dele pl. deleiou (Lambert 1986 p. 123, Glossa 88r delle Glosse antiche bretoni di Berne 167 “antemnarum” gl. “deleiou”, Ernault, Glossaire p. 150 delé). Billy TLG 61 tratta l’ipotetica base gallica *dagla ‘pino’ senza associarla ad un ipotetico *das3a o menzionare possibili forme *dal3a, *dan3a. Queste basi sono tutte problematiche, tranne forse *dal3a, che può esser riportata ad una base celtica. Gli studi di Hubschmid non sono riusciti a sciogliere i nostri dubbi, per cui *das- (*dos- in atonia, forse per assimilazione all’esito di una -5- nella sillaba seguente, come in un possibile diminutivo *das-5la) non trova facile soluzione all’interno della storia del romanzo alpino. Sarebbe difficile, anche se non impossibile, riportare semanticamente Erica sp., Calluna vulgaris, al concetto di ‘ramoscello di pino o di abete’, ‘ramoscello di conifero’, ‘aghi di conifero’. Si potrebbe, invece, ricollegare una forma dasolada/ dosolada a tassa/ tasso/ tas ‘mucchio’, che si contamina pure con dasa per formare la variante tasa ‘ramoscello di abete’ di alcuni dialetti. Il germanico *tAsa, -an ’cardare lana’ > ags. tævsan > ingl. tease wool, con esiti nel Basso Tedesco e nelle lingue scandinave, esiti germanici dalla base *dA: *da- IEW 175178, suppone anche un esito francone di tipo tas, tasa, secondo quanto postulato da Meyer-Lübke nel REW 8391 per spiegare forme francesi e provenzali, e, aggiungiamo, venete. Insorgerebbero pure problemi di natura semantica a supporre una deriva ‘lana cardata’ > *’mucchio’ > ‘legname minuto’ > ericacea piccola. Le lingue celtiche possiedono esiti dalla base IEW 235.2 *dhE-, con significati adatti a spiegare la deriva semantica, cioè ant. irl. daiss ’mucchio’,19 nonché l’ant. cimr. das già presente nelle glosse del 800 d. C.,20 continuato nel Libro Nero di Chirk, nell’Ystorya de Carolo Magno 142, 18-19 (“a sathru y deissyeu ...” – pestare i mucchi ...), 169, 10-11 (“neu y gyniver keinawc a vo yn y das aryant” – o quanto argento splendente ci sia nel mucchio...), nelle poesie di Prydydd y Moch nel Duecento (Hendregadredd 1081 a 8 “Dewr egin dwyrea6d yn das”) ecc. Una forma romanza tas, tassa ecc., richiederebbe una forma base gallica con s- mobile, cioè *s-dast-A/ *s-dast-o. Semanticamente il passaggio ‘mucchio’ > ‘mucchio di legname minuto’ non presenta problemi. La soluzione è ancora aperta alla discussione, ma una possibile base celtica sembrerebbe fonologicamente e semanticamente più appropriata di un etimo germanico in questo caso. Comunque, la variante lessicale (9) peçóla sembra riportarci effettivamente a REW 6479 p3c2us, -a ‘di pece’ (formazione aggettivale da p3x), che dà le voci venete per Abies sp. (péç, péço, pésso). Si vedano le osservazioni nel DESF I. § 5 (p. 85). Più del concetto di ‘rami pendenti di coniferi’ sembra che si tratti di termini per ’accendaglia, legname minuto’ (< ‘ramoscelli piccoli’), il che spiega sia il nome (17) scaldume (< REW 2946 excal[3]dAre) usato per le ericacee sui Colli Euganei (PD) che il nome (12) torçón, torsón, che deriva in modo evidente dall’ant. fr. torche ‘torcia’ come voleva Meyer-Lübke (REW 8792a), esattamente come la voce toscana ‘torcia’, vista l’usanza di bruciare queste piante come legname minuto. ‘Ramoscelli pendenti’ o ‘cascami’ sarebbe nome adatto per arbusti più grandi come Juniperus sabina o Erica arborea ma non per gli altri tipi. Forse qui troviamo la spiegazione del nome (6) dreçál, sicuro derivato di REW 8893 *tr3ch2a, con esiti che semanticamente vanno da ‘trecce’ a ‘cascami’. Il tipo (7) nordveneto cragnón (var. cargnón) sembrerebbe inseparabile dal tipo friulano grignón, grignò (var. grión) trattato nel DESF I. § 28. 7 (pp. 85-87), che Pellegrini e Zamboni, seguendo Hubschmid, ricollegano con la base *wreik-/ *wroik-o- (IEW 1182, < IEW 1154-1155 *wer-gh- secondo Pokorny), che dà le forme celtiche (ant. irl. fróech, cimr. grug ecc.) che sottostanno a loro volta al tar- 18 Pokorny riporta inizialmente la base celtica a IEW 194-195.3 *del-: *dol-o ‘schnitzen’, anche se poi egli è incerto se assegnare le voci celtiche a questa o al tema *dhal-, confrontando il gr. qavllw ecc. 19 Cfr. l’edizione di Stokes del Togail Bruidne Dá Derga § 89 (RC XXII, 1901, p. 190) “... 7 for cnámradach 7 dáisse do for n-apaigib... ” ecc. (e le tue ossa e le tue budelle ammucchiate). Per altre ricorrenze antiche si veda la voce daiss del DIL. 20 Cfr. nelle glosse di Giovenco (800 d. C.) Stokes 1860-61: 216 (p. 45 “aceruo ódás”), Stokes 1865: 402 p. 45 “aceruo ódás”, commentato in Falileyev 2000: 40, < *dasti- (Stokes-Bezzenberger , Urkeltischer Sprachschatz 1894: 143 *dasti- ’Haufen’) < IEW 235. Sembra che l’antico nordico des ‘Heuschober’ (De Vries ANW 75) sia prestito dall’antico irlandese, anche se per De Vries e Marstrander la questione rimaneva ancora sub judice (sarebbe l’unica base che potesse spiegare la d- iniziale), come anche l’antico cimrico del 800. — 118 — — 119 — dolatino brUcus, fonte diretta degli esiti romanzi già discussi. Una forma italica *wreikA avrebbe dato come esito un venetico *wrIga, come argomenta Pellegrini, forma che a sua volta potrebbe generare *gri(gi)o, *gri(gi)-Onem > dialetti romanzi grijón, che con nasalizzazione pervasiva (anticipatoria, in questo caso) produrrebbe un grignón seriore. Comunque, suppongo l’eventuale contaminatio con esiti di caro, carnem, in particolare dell’aggettivo carneus, come anche nell’italiano ‘erica carnea’ (vedasi ‘càrneo, -a’ nel DEI I. 774, esito dotto di carneus), donde il nome scientifico linneiano Erica carnea, grazie alla carnosità della pianta. Si postula, dunque, una latinità venetica in questo caso molto particolare, ipotesi che richiede, a mio parere, maggiore approfondimento.21 Cr- avrebbe potuto sostituire gr- per ipercorrezione, visto che la sonorizzazione delle velari in posizione davanti a sonante è assai comune. Il termine lópa (8) < lóppa < *l5ppa non può derivare da *l5ppa ‘fango’ (gallico?) di Billy TLG 100, FEW 5. 457 “*luppa (gall.) schlamm”, che von Wartburg ritiene voce pre-gallica (“... und kann vorgallischen ursprungs sein”), sinonimo di *lappa, come formazione onomatopeica. Vi sono, comunque, altre due possibili ipotesi: (1) che si abbia a che fare con esiti del gr. lobovÀ ‘guscio’ (senso usuale in Teofrasto), come ven. lóla ‘pula, residui del riso’ ecc., cfr. REW 5090 *l4ba (< lobós, gr.), che suppone una deriva semantica ‘gusci’ > ‘residui’ > ‘accendaglia, legname minuto’, oppure di lobovÀ ‘buccia, scorza’ già voce omerica, con la stessa deriva, cfr. FEW 5. 420 “lopos (gr.) schale, schuppen’, con discussione;22 (2) che si abbia a che fare con esiti della base germanica *lopp- trattata in FEW 420-422, ‘ramoscello tagliato’ (verbo: tagliare i rami di una albero ecc.), cfr. Du Cange lat. V. 141 B “Loppare ‘Tondere, resecare, ..., vox Anglica, To Lop ...... Nostris alias Lopiner, in frusta seu partes dividere”. La prima soluzione ha l’incoveniente di non spiegare né le forme romanze con /o/ chiusa che suppone una -5- bassolatina né la geminata -pp- necessaria per derivare la sorda romanza /p/. La seconda ci porta agli esiti germanici della base i. e. IEW 690 *leup-, *leubh-, *leub- (sviluppo della base pokorniana IEW 681 leu-2 ‘abschneiden’), cioè ags. loppian ‘kappen, stutzen’ Holthausen AEW 206 (> ingl. lop: nei testi ags. non viene registrato l’infinito, ma solo la terza persona del passato ecc.; il sostantivo loppe è trattato nell’AEW 206, come anche lobbe, AEW 205). Gli esiti sono dell’antico inglese, delle lingue scandinave (De Vries, AEW 348 laupr), del basso tedesco (medio basso tedesco lOp), confrontabili con esiti baltici, slavi, indiani, albanesi (labë), celtici (ant. irl. luib, lub-gort, ant. cimr. luird > lluarth23). Non sarebbe dunque difficile supporre una forma francone *loppan, con derivato *loppa, che corrisponde a quelle del basso tedesco, dell’ags. e dell’ant. nordico, che stesse alla base di esiti dialettali francesi e norditaliani. Resta fuori la spiegazione della /o/ chiusa: le forme scandinave e celtiche suppongono esiti di *l5b(grado zero), per cui si potrebbe ipotizzare un esito germanico meridionale del tipo *l5pEn (< l5pjan). Si postula di conseguenza un’origine germanica e non celtica della voce lópa, ipotesi ancora in discussione, con deriva semantica ‘legname tagliato’ > ‘accendaglia’ > Erica sp. ecc. La voce (14) savina si riporta a REW 7482 sabIna, presente in Catone e Plinio come herba sabina per il referente Juniperus sabina L.: cfr. André NPRA 223 sabina “terme d’origine méditerranéenne”, incrociato forse coll’aggettivo etnico Sabinus per etimologia popolare. La continuazione del termine nei volgari è assicurata dai glossari, ad es. CGL III. 553, 46 “bricanona.i. sauina”, 553, 48 “braton.i. sauina” ecc., e dalle opere di botanica e medicina (Alphita 158 savina, cfr. anche Fontanella 2000: 7.11, 27.11, 145. 11, 156. 11, 161. 11 ecc.). Ovviamente la variante salvina sarà frutto d’incrocio savina X salvia. Sia DELL4: 584 che LEW II. 473 (herba sabIna) riferirebbero la base a SAB-/ SA-M-B-, insieme a sa(m)bUcus, mentre Hubschmid voleva relare la voce con sappInus. È possibile che tali termini siano riferibili ad una base *SAB- ‘acqua’, indo-europea più che pre-indo-europea, ma questa non è la sede per sviluppare tale argomento.24 L’esito (10) viesca ci porta alla base gallica *wleska ‘baguette’ Billy TLG 160, FEW 21: 153, 222: 48, REW 9245 *vliscus, anche se viene messa in dubbio l’ipotesi di un’origine celtica, cfr. Bolelli ID XVIII: 74 (voce 264), che commenta “Etimo quanto mai incerto, come avverte lo stesso Meyer-Lübke. Non conosco corrispondenti celtici della base data come gallica, né mi paiono chiari i rapporti di questa con le forme romanze del REW”. 21 La forma Craneus, aggettivo di colore, che Du Cange lat. cita da Papia, è variante corrotta di alcuni mss. per ‘cianeum’ = ‘cyaneum’ dei migliori codici, cfr. Papia, Elementarium COL 72 “Colores: sunt candidum, pallidum, rubeum, cianeum [alcuni mss. craneum], nigrum; horum candidum et nigrum solum contraria, cetera aliquantulum semper plus diuersa”. Una forma inesistente *craneum per aggettivo di colore non può dunque sottostare al nostro esito volgare cragnón. 22 Cfr. Du Cange lat. V. 141 A “Lopadium ‘Frustum, segmentum, Gall. Lopin, a Lobinus diminut. vocis Lobus ...”, con citazioni degli Acta Sanctorum di vari periodi, tutti dopo l’800 d. C. 23 Il termine è già nelle glosse del Marziano Capella del 800 d.C. (gl. 50a. a), commenti in Falileyev 2000: 107-108, come l’equivalente irlandese lubgort e la base luib sono presenti nelle glosse sangallesi dello stesso periodo. G. S. Lane, Language IX (1933): 250 non vedeva corrispondenze fuori del celtico e germanico della base *leubh- (ant. irl. luib connesso con l’ant. nordico lyf, ags. lybb, ant. alto ted. luppi), non collegandola ovviamente a *leup-/ *leub- come espressione di una base comune. 24 La ricostruzione di una simile base spinge il tema ricostruito per l’indo-europeo comune come *HAP-‘acqua; massa di acqua’ (Gamkrelidze, Ivanov 1994: 578-579) ad uno stadio precedente che potremmo chiamare “proto-indo-europeo” nel senso di Gamkrelidze, Ivanov 1994, in particolare nella discussione al § 2. 4. 2, fase linguistica remota in cui vi doveva esistere l’opposizione tra */s/ e */&/ (secondo la trascrizione di questi autori /x/, in una serie oppositiva */s/ coronale ~ /x/ coronale, compatto ~ /s°/ labializzato, cioè /s/ ~ /&/ ~ /sw/ in termini di simboli API). In questa fase remota si partirebbe da una base proto-indoeuropea *ŠAP’- ‘acqua’ che presenta in due tipi di indo-europeo esiti differenziati *SAB- e *HAP-/ *HAB-. La questione andrebbe almeno aperta anche se non risolta qui. Fitonimi che partono dalla base *SAB-, non tipica dell’indo-europeo occidentale innovativo, con il significato ‘pianta acquatica; arbusto/ albero che cresce vicino all’acqua’, sarebbero dunque più antichi di derivati che hanno origine dalla base *HAP-/ *HAB-. — 120 — — 121 — Anche se semanticamente la nostra voce si accorda meglio con il cimr. gwrysg mf. ‘boscaglia; legname’, presente ab antiquo, < *wrd-sko- < *wrad- IEW 1167 (congenere irlandese: frén < *wrd-no-), formalmente dobbiamo ricollegare una forma simile all’ant. irl. flesc ‘verga; bastone; pollone’ attestato nei glossari del 800-900 (Milano 45c9, San Gallo 3b19, 40b16),25 nell’Auraicept 610, 976, 2804, e passim nei testi medioirlandesi, voce che Pokorny riconduce alla base *wel- ‘avvolgersi’ IEW 1140-1144 > *wli-s-, *wli-skA . Stokes-Bezzenberger 1894: 287 avevano già suggerito una formazione del tipo *wel- > *wle-d-skA, *wli-d-sko-, per cui sembrerebbe naturale ricollegare qui, insieme all’ant. irl. flesc, anche il cimr. gwlydd ‘steli, ramoscelli’ e l’ant. irl. flid, generici ma anche con referenti specifici, con una forma base *wli-d-o- che spiegherebbe meglio la conservazione di -sk- nel goidelico (< *w[e]l-id-sk-A). Propongo, dunque, di riallacciare la voce dialettale viesca a tali esiti celtici della base *wel-, per coerenza sia semantica che formale, e va forse ripetuto che il celtico conosce sì esiti di una formazione *wel-, *w[e]l-id-, *w[e]l-id-sk-, diversamente dal parere di Bolelli. Più difficile, invece, risulta il collegamento tra il tipo (15) lesura e il supposto celtismo *alisa come fitonimo, come voleva inizialmente Tagliavini (< *alis-ura). La base viene riferita come *alIs3a REW 345a, già Holder ACS 3. 565 la trattava come elemento comune tra celto-ligure e germanico, cfr., da un lato, FEW I. 69*aliza (germ.), dall’altro FEW XXIV. 318-319 *alisia; vi sono poi i commenti del caso sia in Whatmough DAG 544 che in DAG 178 (commenta Frisk GEW I. 73 a[liza come supposto celtismo), infine in Billy TLG 6 ecc. Pokorny IEW 302 ipotizzava per a[liza e *alis(i)a una fonte illiro-ligure o celtoligure, sempre, comunque, come derivato dalla base *al- che riguarda esiti germanici e latini (alnus). Ellis Evans GPN 1967: 306 cerca anche di mediare tra celtico e germanico.26 Bertoldi rifiutava l’origine germanica della base,27 Hubschmid insisteva sull’ipotesi dell’origine celtica, Von Wartburg (FEW XXIV. 318-9) dubita fortemente della sua celticità, vista la mancanza di termini cogeneri nelle lingue celtiche insulari, per cui molti vorrebbero vedere una base pre-italica, pre-celtica, anche se vi è ovvio rapporto con esiti di un tema indo-europeo *al-. È sempre possibile che sia avvenuta una deriva del tipo *al-is-ura > (per dissimilazione di altezza vocalica i...u > e ...u) *alesura > (per aferesi) lesura, ma è l’origine stessa di *al-IsA (< *al-) che presenta gravi problemi storici. È base germanica, o celtica, o celto-ligure, o è 25 Il termine flesc è già presente nell’ottavo secolo d. C. nelle glosse, cfr. Stokes, Old-Irish Glosses, RC XIV: 229, n. 84, 11v. 12: “ferulas.i. flesca” (glosse su Vergilio, Ecl. X.25), Lambert EC XXIII: 96 n. 15 (Ecl. II. 30) “Viridi hibisco. i. hond[f]leisc aldi. i. genus uirgulti quo pastores flagellant” ecc. 26 Ibid. “A form *alisa which probably first meant ‘alder’, then ‘service-tree’, has been posited to explain names such as Alisia ......, the source of Fr. alise and containing the same root as OHG elira (with metathesis erila), MHG Eller, Erle, and Latin alnus”. 27 Le Robert, Dictionnaire Historique I. 46a costata la precedenza di forme quali alie, alier nell’ant. fr. (1153) rispetto alle varianti alèze, alisier (1253), per cui gli studiosi francesi ora propongono un celtismo anteriore *al-ik-a- che produce alie ecc., poi sopraffatto da un germanismo seriore di base simile, cfr. ibid. “le germanique Aliza étant en cette hypothèse (corroborée par des toponymes) emprunté au gaulois”. — 122 — una base comune tra germanico, celtico, italico e greco (ted. Erle, gallo-latino Alisia, Alisanus, italico *al-s- / *al-s-no- > lat. alnus > dial. veronese ecc. òno, ma osco *al-sos > calabrese ávuzu, áüzinu, azinaru ecc., gr. a[liza)? Se è corretta l’ultima ipotesi, allora ci troviamo al livello ‘proto-indo-europeo occidentale’ come sviluppo comune occidentale della base *al- nella fitonimia (si rimanda alle sezioni rilevanti di Gamkrelidze-Ivanov 1994 per i concetti), problematica tutta da sviluppare. Molti hanno pensato ad un’origine celtica per il tipo (11) çupín, çupinèl (si veda REW 4628a), che Bertoldi (AGI XXIV) e Bolelli (ID XVIII. 46, voce 175 *i5ppos”) considerano una voce ligure facente parte del lessico gallico, data l’alternanza nei possibili derivati tra sorde e sonore *i5ppo- / *i5bbo-, e vista la presenza nel Pseudo-Dioscoride di una forma dichiarata ‘gallica’ per il ginepro, Dioscoride, De Re Medica I. 75 (RV) “a[rkeuqoÀ ...... vRwmai~oi zounipevroum, Gavlloi ijoupikevllouÀ”. L’areale appropriata della voce non supera la difficoltà di ipotizzare una qualsiasi origine celtica (assenza di corrispondenti nelle lingue celtiche insulari), nonché il fonema sordo iniziale della voce veneta (çupín = /qu’pin/ < *ci5pp-, *ts5pp-), per cui riteniamo sia più appropriato vuoi semanticamente vuoi fonologicamente pensare ad un esito di una qualche forma longobarda *zupp-, ted. Zopf, ingl. top,28 nel senso ‘cima di albero/ arbusto; boscaglia; capigliatura’. Semanticamente le denominazioni di Iuniperus sp. si legano meglio con quelle del Taxus baccata L. che non con quelle della Calluna vulgaris o Erica sp. Seguendo REW 1267 brake (medio basso tedesco, francone?) ‘Zweig, Ast’, FEW 151. 236 “brake (mndd.) ast” e le proposte in Trumper-Vigolo 1995: 199, si torna a riproporre un’origine germanica per il tipo (18) brèchene, brechenèle. Kluge 199923: 129 nella discussione del ted. Brache f., “unbestelltes Land”, < medio alto ted. brAche < ant. alto ted. brAhha < germanico comune *brævk-O (f.), tratta la serie di voci germaniche come esiti di una base *brek-a- ‘brechen’ (IEW 165 *bhreg-) piuttosto che come congeneri di termini celtici per ‘terreno incolto; maggese’ ecc. (cimr. braenar, irl. branar < *mr-ag-no-), con l’idea di ‘terreno interrotto/ accidentato’, come anche Skeat EDEL p. 70 quando discute l’ingl. brake, bracken < ags. brac, braccan ecc.: “The notion seems to be allied to that of ‘broken’ ground, with the over-growth that springs from it. Cf. OHG brAcha, MHG brAche, land broken up ...” [cfr. anche l’ags. bræc ‘striscia di terra incolta, sterpaglia’]. La deriva semantica sarebbe ‘sterpaglia’ > ‘boscaglia fatta di arbusti bassi’ > pianta X specifica.29 L’ultima voce che rimane, (13) staçonèl, tafonèl, è di difficile soluzione, anche perché è impossibile dire se il termine di partenza sia /I-/ o /taq-on-/. Se si parte dal primo, è legittimo cercare una 28 Pokorny si dimostra incerto dell’origine ultima di questa serie germanica, perché rimanda sia a IEW 177 (esiti di *dA-: da-‘zerschneiden, teilen’) che a IEW 227 *dumb- ‘Schwanz’, ‘Stab’. Questa non è la sede adatta per approfondire l’argomento. 29 Cfr. ingl. moderno brake ‘mucchio di arbusti; boscaglia’ (generico) ma bracken ‘felce’ (in genere Pteris aquilina, ma anche altri tipi a livello regionale, sempre specifici). — 123 — soluzione negli esiti romanzi del longobardo staffa (REW 8213, Gamillscheg 1935, IV. 60-61, p. 161), come basso engadinese stafún ‘Stummel, Stumpf’, friulano stafón ‘montatoio di legno delle carrozze’ ecc. Si suppone che il punto di partenza sia ‘tronco basso; arbusto’. Scambi tra /q/ e /f/ sono usuali nelle lingue che possiedono il fonema /q/, per motivi di ordine acustico e percettivo. Comunque, questo, come altri dei problemi di derivazione storica qui affrontati, resta aperto alla discussione approfondita. 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Affrontando il problema delle etnoclassificazioni zoologiche, un’osservazione di carattere generale, da un certo punto di vista lapalissiana, è legata alla parziale diversità che il mondo animale presenta rispetto a quello vegetale, consistente maggiormente nella coesistenza di famiglie così distanti le une dalle altre da moltiplicare, da un lato, i modelli e conseguentemente, dall’altro, i problemi posti all’analisi. Ci sono infatti all’interno del mondo animale innumerevoli divisioni di tipo pratico e cognitivo che vanno dalle dimensioni, agli ambiti di uso da parte dell’uomo, fino all’habitat che contraddistinguono i suoi componenti. Questo aspetto è al centro di molte trattazioni di studiosi, essenzialmente in ambito etnosemantico e antropologico, che ne tentano anche delle schematizzazioni sistematiche.2 È evidente che, nel caso delle civiltà occidentali avanzate le osservazioni legate all’habitat, alle abitudini, a ciò che si ‘ritiene’ a proposito degli animali, riguardano maggiormente quelli selvatici e quelli più piccoli appunto, che si contrappongono a quelli di cui ugualmente ormai non si ha esperienza diretta, ma che si conoscono in base agli usi che se ne fanno più che per un rapporto più diretto. Sul piano lessicale, un aspetto molto interessante è di fatto la creazione di lessicalizzazioni specifiche per i livelli più inclusivi quali ‘forma di vita’, rispetto alle maggiori partizioni del mondo zoologico. Nel suo ‘Language and Living Things’, Brown: 1984 raccoglie e passa in rassegna i dati relativi a 144 lingue, dopo aver discusso 1 2 L. Meneghello: Libera nos a Malo. Cfr. la schematizzazione in Ellen, 1993, pag. 60. — 131 — nella prima parte tendenze e modelli che mettono in luce le strategie più frequenti riguardo alla suddivisione delle classi zoonimiche e fitonimiche. Una premessa metodologica va fatta per segnalare che l’attendibilità di questi dati mi sembra più convincente nel caso di culture etniche che, proprio per la mancanza di una cultura egemone di riferimento e per la profondità delle inchieste etnografiche, risultano spesso più attendibili dei dati per le lingue europee, che, almeno da quanto risulta, sono tratti da fonti scritte (cfr. Brown 1984: 88). Il ricorso a fonti quali dizionari o dizionari storici costituisce infatti un grosso scoglio metodologico, segnalato anche da altri studiosi. A differenza delle fonti dirette, specie se raccolte secondo i criteri accurati di molte inchieste locali, i dati estratti da dizionari presentano livelli di normalizzazione troppo alti perché questi dati possano essere comparabili con i primi. Il ruolo e i limiti di questi strumenti sono già stati comunque segnalati nell’Introduzione. Il riferimento ai risultati riportati da Brown è in ogni modo assai utile per partire da alcune delle sue generalizzazioni a proposito delle implicazioni globali che emergono rispetto alla creazione di livelli di ‘forma di vita’. Segnalerei che rassegne di questo tipo hanno un’utilità che si esplica a vari livelli. Al di là del valore assoluto delle riflessioni generali, suffragate da un corpus di dati così ingente, sulle modalità di ripartire gli elementi del mondo naturale, va messa in luce anche quella teorica sulle implicazioni cognitive sottostanti alla creazione di modelli generali che abbiamo già discusso nell’altro intervento in questo volume. Non vorrei però dare l’impressione che si tratti di una discussione pacifica o i cui risultati sono universalmente condivisi. Il problema dei livelli (per non parlare dei loro riflessi sull’esistenza e sul peso di un modello fortemente gerarchizzato), della loro lessicalizzazione, della ‘cronologia’ di tali lessicalizzazioni, sono tutti argomenti che non possono essere pacifici, tenuto conto, se non altro, che devono coniugare livelli di adeguatezza esplicativa con la mole di dati che faticosamente, e lungamente, devono via via essere sottoposti ad analisi per confermare o disconfermare le teorie proposte di volta in volta. Ad esempio Ellen 1993, criticando l’impostazione tradizionalmente sostenuta da Berlin (anche se questi l’ha decisamente modificata nei suoi ultimi lavori) e, in parte, le generalizzazioni dello stesso Brown, mette l’accento sul fatto che secondo logica il ‘generico’ deve precedere lo ‘specifico’ e che l’assunto secondo cui le forme di vita siano aggiunte linguisticamente in una sequenza regolare, costituisce un’ipotesi troppo forte. Come si vede, non sono punti la cui discussione possa nemmeno essere affrontata in questa sede; mi limito a segnalarli per ribadire ancora una volta l’importanza di proseguire su questo ambito di riflessione e, anzi, rivedere anche i criteri di raccolta dei dati in modo che i presupposti del modello vengano alla luce in modo il più possibile inequivoco. 1.2. Le singole famiglie zoologiche, pur nel quadro generale dei complessi rapporti nel quale sono inserite, entrano in reti di proiezione lessicale e semantica di tipo particolare, che costituiscono esempi parziali del modello generale della proiezione di — 132 — mondi su mondi. Pesci e uccelli, ad esempio, hanno uno statuto a sé, in qualche modo, esistendo in habitat tendenzialmente inconciliabili, ma sono, d’altro canto, caratterizzati da una rete di complessi fenomeni di interscambio che si manifesta linguisticamente a livello lessicale, come vedremo tra poco con alcuni esempi concreti. Ritorniamo per ora alla diversa ‘cronologia’ secondo la quale le differenti lingue indagate introdurrebbero i lessemi relativi al livello ‘forma di vita’, perché, tra le altre informazioni di carattere generale che si possono trarre, vi si può trovare anche quella di quali siano le direzioni maggiormente utilizzate dai parlanti: terra ~ acqua, acqua ~ aria, terra ~ aria ecc. Brown punta l’attenzione sul fatto che: “The unmarked status and encoding priority of birds, fish, and snake via-à-vis wug and mammal is due in part to the fact that these constitute highly distinctive discontinuities in nature and thus are especially salient…. The marked status and late encoding of wug and mammal is in part attributable to their relative indistinctiveness as natural discontinuities vis-à-vis the distinctiveness of bird, fish, and snake. In fact, these may not constitute true discontinuities in nature. Both wug3 and mammal are exceptionally heterogeneous, demonstrating little criteria clustering…” (Brown, 1984: 107-108). Se si accettano questi presupposti, almeno ad un livello vi sarebbe cognitivamente una specie di ‘omogeneità’ all’interno di queste famiglie, che favorisce forse anche le proiezioni incrociate tra habitat, ad esempio aria ~ acqua. Dall’altro lato, la grande eterogeneità che impedisce, o rende più problematica, la creazione, anche sul piano lessicale, di livelli altamente inclusivi come ‘forma di vita’ nel caso di ‘mammal’ e ‘wug’, messa in luce dallo studioso, provoca, semmai, modelli di proiezione più compositi e articolati. Questo, almeno in parte, sembra confermato dai dati parziali che presenterò e discuterò più avanti, soprattutto per gli insetti, nel cui caso è davvero impossibile ipotizzare altro che sottoclassi, variamente inclusive e non sempre omogenee, secondo un criterio biotassonomico. Come fa notare Ellen (op. cit.), commentando la prima schematizzazione di Brown 1979 “The precedence of FISH, BIRD and SNAKE over WUG and MAMMAL, is understandable given that the first three categories exhibit strong clustering of criteria, while the last two are relatively indistinct, residual and strongly influenced by a binary distinction based on size.” (pag. 211). Le innovazioni e l’inserimento di altre distinzioni di forme di vita sarebbero motivate invece: “by the replacement of numerous terminal categories with fewer, more abstract, more frequently used and salient higher-order categories, which are more useful in societies where there is little practical contact with animal species” (ibid. pag. 211). 3 WUG è un termine coniato da Brown in cui sono compresi ‘worm’ e ‘bug’. Non è il caso di entrare in dettaglio sulle considerazioni che portano a mettere insieme questi due termini, che non vanno intesi ovviamente come lessemi relativi a livello specifico, ma come categorie cognitive. — 133 — L’impiego di una categoria ‘wug’ risponde all’osservazione generale, e generalizzabile, che i parlanti, soprattutto a questo livello dell’organizzazione di categorie biologiche, operano dei raggruppamenti transclasse, transgenere e transfamiglia, che non sono univocamente lessicalizzati, soprattutto ai livelli maggiori (‘forma di vita’). Questo sarà comunque oggetto delle analisi parziali che proporrò in seguito. L’importanza di far riferimento al problema generale dell’acquisizione della terminologia per categorie zoologiche è riferibile a vari livelli; si possono estrapolare delle tendenze che abbiano un qualche valore assoluto, sia nella direzione di indagare quali sono le strategie messe in atto dai bambini, sia sulla natura dei modelli, come si è detto. L’importanza del primo aspetto è stata trattata, di sfuggita, vista la vastità del compito, anche in Maddalon 1998, ed è solitamente chiamata in causa per rafforzare ipotesi ‘innatiste’ o comunque sulla generalità dei modelli cognitivi. Secondo uno studio di Stross (1973: 136) su bambini Tzeltal (lo stesso gruppo indagato da Berlin e da Atran), questi sono in grado di usare le quattro forme di vita, relative alle partizioni fitonimiche, appropriatamente già all’età di quattro anni. Uno studio analogo di Chase (1980), fatto su parlanti due lingue, inglese americano e Juchitan Zapotec, Messico, relativamente alle categorie zoologiche dimostrerebbe che la sequenzialità nell’apprendimento è la seguente: Cal. uccello: cuccu (Cuculus canorus L.) → pesce (Aspitrigla cuculus L., Aspidotrigla obscura L.); uccello: cuoruvu ( Corvus frugilegus L., Corvus corax L.) → pesce (Dactylopterus volitans L.); uccello: rinninella (Hirundo rustica L.) → pesce (Cypsilurus rondeleti Val., Exocoetus sp.). Ven. pesce = asià ( Squalus acanthias L.) ↔ uccello (Anas acuta L.)… La proiezione e la ‘proiettività’, lessicalmente testimoniata, di regni su regni, di famiglie su famiglie, di classi su classi e via via fino ai livelli più bassi, si esplica in vari modi e con scopi e fini differenti. L’esempio appena fatto rappresenta una delle possibilità, tra le altre che mi limiterò ad indicare, unicamente allo scopo di inquadrare i problemi generali che un’analisi completa delle etnoclassificazioni sul piano linguistico deve contenere per poter dire di aver compreso tutti gli aspetti dell’analisi. Non è possibile infatti pensare che questi siano espedienti di tipo economico, messi in atto dai parlanti, come è stato talvolta proposto da studiosi che si affacciano al mondo delle classificazioni naturali e dei problemi semantici ad esso connessi, da prospettive come quella della linguistica computazionale. In un recente convegno internazionale (Mainz 1999), nella sessione dedicata alla semantica, ho avuto modo di entrare in discussione con studiosi che, allo scopo di proporre visioni ‘normalizzanti e normalizzate’ del lessico, introducevano anche questa possibilità. Noi siamo assolutamente convinti che, tra le molte spiegazioni, questa sia decisamente da escludere, visto che i parlanti, soprattutto nel caso di culture poco progredite sul piano tecnologico, presentano invece sistemi di classificazione della natura, dei sistemi di parentela, ecc. di una complessità e profondità tale da escludere a priori ogni spiegazione in senso semplificatorio. Per tornare brevemente sulla centralità, o primarietà, che pare confermata dallo schema di Chase, riportato più sopra, a proposito dell’acquisizione delle categorie, delle classi FISH e BIRD, una parziale spiegazione si può ricercare sull’attenzione dedicata dai parlanti a certi fattori, piuttosto che ad altri. Questa è spesso basata o magnificata dalla differenza degli elementi che costituiscono l’habitat (aria – acqua) dalla duplice prospettiva della distinzione, quando l’accento è puntato sulla incompatibilità, o sulla corrispondenza: ogni elemento contiene, con le debite distinzioni, un mondo completo. Come si è già fatto notare, è questo aspetto che sta alla base di rimandi ‘speculari’ tra i due elementi (Una prima discussione sul problema dei rimandi, sia in senso generale che i dettaglio, si può ritrovare nell’intervento di Trumper nella II sessione ‘Naming’, del Convegno sui Saperi naturalistici, Venezia 1997, in stampa). È inoltre innegabile che l’importanza per gli impieghi alimentari, ma non solo, sia indubbiamente maggiore per alcune famiglie zoologiche che per altre di cui mi occuperò. Gli insetti, ad esempio, a cui arriverò tra breve, se si escludono le api o il baco da seta, i cui impieghi pratici sono direttamente visibili, non hanno un utilizzo immediato o diretto, se non quello di favorire la diffusione di specie botaniche e l’impollinazione che però non sono effetti direttamente visibili. D’altro canto però essi sono al cento di molte credenze, sono soggetto per filastrocche e detti, sono legati a pratiche magico-religiose, hanno cioè una grande rilevanza nella cultura popolare. Lessicalmente poi presentano numerosi problemi che, in parte, sono simili a quelli riscontrati anche per le classificazioni biologiche. — 134 — — 135 — fish bird wug mammal snake I commenti che si potrebbero fare, sia su questo tipo di test, e sui suoi risultati, che su quale sia il livello di esplicatività dei modelli, e della loro acquisizione, non troveranno assolutamente spazio qui, essenzialmente per la loro vastità e complessità. Un altro aspetto che vorrei almeno introdurre, a memoria di quanto ci sia ancora da indagare e sistemare a proposito della conoscenza della natura da parte dei parlanti, è quello della proiezione e delle corrispondenze tra regni, prima di tutto, e in seguito tra i livelli minori. Consideriamo solo si sfuggita qualche scarno esempio di un fenomeno ben conosciuto anche dai dialettologi, che forse però manca ancora di una trattazione globale e complessiva. Si osservi qualche caso di applicazione, lessicalmente testimoniata, di proiezioni tra uccelli e pesci: uccello ↔ pesce 1.3. Prima di passare a discutere lo status della categoria ‘insetti’ a livello popolare, vorrei ritornare al problema più generale della determinazione dei livelli maggiormente inclusivi cioè quello dell’‘unique beginner’ o di ‘forma di vita’ per quanto riguarda le categorizzazioni etnozoologiche. ‘Bestia’ e ‘Animale’ sono sotto certi aspetti interscambiabili, non solo nei modelli dialettali a cui farò riferimento ma anche in italiano normativo e, prima ancora, in latino. Partendo dalle definizioni del Battaglia e del LEI, si può dedurre la seguente schematizzazione: BESTIA Animale, generico Animale domestico Serpenti, rettili, Insetti anfibi ANIMALE Animale, generico ‘Uomo’ Animali piccoli ANIMAL 1.4. Una prima considerazione, al di là di quella della connaturata vaghezza (non in senso tecnico, secondo le teorie sulle ‘fuzzy categories’, cfr. Maddalon 1986, 1998), è quella che, se pur i due termini condividono parte del loro spazio semantico, Animale costituisce anche per l’italiano normativo l’‘unique beginner’. L’estensione di Bestia, per contro, come denota anche una maggiore fraseologia, è più esteso: BESTIA ANIMAL Schema latino Le definizioni sono state tratte dal Thesaurus Linguae Latinae. Come si vede, molte delle accezioni sono comuni, mentre solo animal può avere il significato di ‘uomo’ come tipo speciale di animale; la ferocia e la selvatichezza sembrano essere invece tipiche di ‘bEstia’ più che di ‘animal’. Per quanto riguarda la possibilità di indicare classi zoologiche specifiche, ‘bEstia’ comprende animali acquatici (anfibi), rettili, vermi, e un genere: le api. Animal a sua volta può comprendere anfibi, volatili e vermi. Entrambi possono costituire il livello forma di vita ma solo ‘animal’ è l’unique beginner. BESTIA Lessicologia Schema italiano normativo — 136 — “andare in bestia”, “bestia da soma”, “sei una bestia”, ma anche “bestiale 1 e bestiale 2”, in cui, nel primo caso si è di fronte ad una proiezione sul dominio delle caratteristiche ‘morali’, ma in senso negativo, ossia la ferocia e la crudeltà, nel secondo ciò che viene evocato è la positività (cfr. l’uso nel linguaggio giovanile). Animale, quando viene proiettato al di là del dominio strettamente biologico, si estende al dominio dell’istintività, ma più sul versante pratico, che morale: mancanza di freni nel mangiare o a livello sessuale ecc. Ho provato ad applicare a Bestia ed Animale l’analisi già applicata alle proiezioni cognitive nel caso di ‘madre’ e ‘sesso’ (cfr. Maddalon - Trumper, 1995). — 137 — 1.5. Vorrei richiamare in breve alcuni degli snodi teorici relativi alla creazione delle etnoclassificazioni, oltre quelli gia introdotti nell’altro mio intervento. Nel caso degli animali, la necessità di comprendere nel modello appartenenti ai diversi regni, complica enormemente la possibilità di ridurre i tratti impiegabili per descriverli e, d’altro canto, introduce la possibilità di rifarsi a criteri realmente politetici. Le complessità, comunque, sono spesso fonte di soluzioni molto creative nelle culture popolari, che mettono in opera dei meccanismi atti a dar vita a delle connessioni, ad individuare rapporti, a proiettare mondi su mondi, a mettere in luce dimensioni su cui misurare ciò che le circonda. Un aspetto che è più familiare forse all’etnolinguistica, che alla dialettologia tradizionale, è quello brevemente richiamato nel mio primo intervento in questo volume, che riguarda l’uso come unità di misura di particolari animali, allo scopo non solo appunto di misurare ma anche di creare gerarchie di forme e di dimensioni: cane → capra → mula → cavallo Schema delle proiezioni su altri modelli Un’altra osservazione interessante riguarda l’impiego di ‘Animale’ per lessicalizzare un livello, o più livelli, di grado intermedio. In un primo caso, sia il latino che l’italiano normativo, che alcuni dialetti italiani, creano un livello, trans-famiglie che comprende l’insieme degli animali domestici, nel senso però non tanto di quelli che vivono, a vario titolo, insieme all’uomo, quanto di quelli che l’uomo impiega per fini alimentari, diretti o indiretti, o di trasporto (bovini, ovini, pollame, essenzialmente). Un altro fenomeno interessante è la creazione di antonomasie, ossia del passaggio, già illustrato e commentato da altri studiosi, di un termine indicante ‘forma di vita’ ad un livello ‘generico’ o ‘specifico’. Alcune lingue designano infatti generici o specifici col lessema per ‘animale’, cfr. alb. Dash (ovino m.: Meyer 1891: 62 non dava alcuna soluzione a dash (“Ohne nachweisbaren Zusammenhang”), mentre l’ipotesi di Jokl su un possibile derivato della base IEW II. 268271 *dh[e]wes- era stata accettata da Pokorny; da questa stessa base abbiamo sia il lat. bestia che l’AAT. Tior > ted. Tier), Ingl. Deer (cervo m.: dall’anglosass. deor, dalla stessa base *dh[e]wes-), Lomb. Nimal (maiale). La spiegazione, dal punto di vista del dominio cognitivo, chiama ovviamente in causa l’importanza e la centralità nel modello e nelle singole culture di questi animali, ma forse non esaurisce completamente il problema. — 138 — Oltre a questo aspetto che è facilmente esperibile e comprensibile, ve ne sono però molti altri che lo sono meno ed è su questi che si deve esercitare maggiormente lo sforzo analitico. Soprattutto ciò che viene comunemente indicato come il rapporto tra macrocosmo e microcosmo, presenta talvolta problemi di non facile soluzione. Al di là delle considerazioni di carattere generale, secondo cui tutto ciò che esiste in un mondo deve esistere anche nell’altro (terra ∼ acqua, aria ∼ acqua), i problemi più spinosi sono dati dalle corrispondenze, esplicitate anche a livello lessicale, tra animali grandi e piccoli (cfr. Maddalon, Vecchi problemi e nuove metodologie nell’analisi semantica, Pisa 2001). Indubbiamente una parziale spiegazione può consistere nell’attuazione di similitudini direttamente morfologiche o comportamentali, ma questo non esaurisce la gamma delle tipologie riscontrate e lascia insoluti problemi, come si evidenzia nel caso degli animali piccoli, insetti, soprattutto, che entrano spesso in questi gioco di corrispondenze. Intere monografie sono dedicate a casi particolari, come quello di ‘gatta’ per tipi di bruchi. Tornando però al problema delle classificazioni, partiamo ancora una volta dalla fonte, o almeno dalla sua ‘idealizzazione’ o dalla sua ‘generalizzazione’ che ne fanno gli innumerevoli esegeti quasi contemporanei o posteriori. Considerando direttamente le fonti, confrontiamo quanto riportato nei commenti di Peck all’edizione LOEB dell’Historia Animalium 4 secondo cui “… no particular attempt is made to work out (cf. §§10 ff. below) a detailed or continuous series of gradations of gevnh and there is no indication of any taxonomic hierarchy with successive subdivisions. From the megi;sta gevnh down to any type of animal, the term gevnoÀ is equally applicable.” 4 Cfr. Historia animalium, Books I-III, Loeb, Classical, Library, Introduzione IXVI, 1965, 19932. — 139 — A partire da questa considerazione, che sarà bene comunque intendere in senso non assoluto, la cosa che mi interessa mettere il luce ora è la corrispondenza tra la maggior parte dei criteri chiamati in causa nelle partizioni generali elencate da Aristotele e quelle che i parlanti adoperano nella costruzione di classi, durante le inchieste dialettali. Non tornerò sulla necessità di dare un peso ed un ruolo a queste informazioni ‘aggiuntive’, che servono a guidarci nel ricreare le coordinate del modello. Elencherò invece solo alcuni dei criteri aristotelici 5 dai quali però risulta evidente la centralità dei fattori ambientali (diremmo ecologici) e quelli comportamentali, tra (e accanto a) gli altri possibili, come quelli più rilevanti per la sistematica e la biologia, basati sulla morfologia: — “the methods by which animals are cooled” (katayuvxiÀ) — “where they feed” (trovfh) — “water-intake” — “where they spend their time” (diatribhv) — “where they breed” (tovkoÀ)6 ecc. Questi criteri sono ovviamente stati estrapolati, e non costituiscono la totalità di quelli proposti. Li ho introdotti unicamente per dare un’idea della prospettiva generale da cui prendono avvio le suddivisioni che sovraintendono la HA. È più che evidente che in questa fase non emerge una tendenza gerarchizzante diretta e chiara. Questa non è del tutto assente nella visione aristotelica, ma si esplica in modo meno meccanico che in altre visioni, in cui lo scopo di creare un modello che si basasse su presupposti, quali la pienezza e la completezza, si manifestava presupponendo una vera e propria catena evolutiva (cfr. Lovejoy 1961: 58-59). Piuttosto, la completezza è data dal corpus clausum che costituisce la realtà naturale dei tempi di Aristotele, che non deve fare i conti con nuove scoperte o con teorie evoluzionistiche, come accadrà ai sistematici dei secoli successivi. I maggiori problemi, sul piano della sistematizzazione, anche linguistica, del modello, è l’individuazione di classi di inclusione che, ai livelli maggiori, potevano anche non ricevere un ‘riconoscimento’ linguistico, come avveniva invece al livello del gevnoÀ che non a caso, da questo punto in poi viene considerato in molte delle analisi successive il centro concettuale delle classificazioni. 2. Gli insetti La piccola borghesia si occupa prevalentemente degli insetti; i popolani anche dei rettili e degli anfibi.7 2.1. Si è notato innumerevoli volte che il concetto ‘insetto’ non dà origine a lessicalizzazioni autonome nella maggior parte delle lingue o dei dialetti, che accolgono direttamente il termine, divenuto scientifico, di ‘insetto’.8 Sarà forse utile rifare la strada del concetto, ma prima ancora della sua lessicalizzazione, fin dalle prime attestazioni. A partire dal 500 a.C. e[ntomon pl. -a è usato da Erodoto, in genere nella sua forma plurale (e[ntoma poi~ein, Hist. II.119,3; idem VII.191,2), dove sta ad indicare le carni degli animali sacrificali; comunque, nel 350-300 a.C. è evidente dall’uso di Apollonio Rodio che si intende ‘pezzi tagliati d’animali’ da bruciare in sacrificio, cfr. Argonaut. I.587 = II. 926 e[ntoma mh~lwn per ‘pezzi di carne pecorina tagliati’ per uso nei sacrifici. Ippocrate usa invece e[ntomh come ‘incisione; spaccatura’. Il primo ad usare e[ntomon come ‘segmentato’ = ‘insetto’ è Aristotele, che prende una parola tradizionale (= 1. pezzo tagliato, 2. inciso > Ippocrate ‘incisione’ ecc.) e le dà un senso nuovo come ‘insetto’= ‘tagliuzzato’ (segmentato) come livello ‘forma di vita’, in Historia Animalium I.1 [487a32]: “…sfh~x kai; melivtta kai; ta; a[lla e[ntoma . kalw~ d’ e[ntoma o{sa ejcei~ kata; to; sw~ma e[ntomaV . h] ejn toi~À u{ptioiV te kaiv toi~À pravnesin” [… la vespa e l’ape e gli altri insetti. Chiamo ‘insetti’ tutti quelli (animali) che hanno spaccature nel corpo. O nelle parti di superiori soltanto o in quelle ed anche sui loro dorsi]. Aristotele sviluppa la discussione e precisa i criteri di classificazione in Hist. Anim. IV. Plinio, Naturalis Historia XI.1.1, riprende le definizioni di Aristotele e ne fa un calco, rendendo e[ntomon con insectum pl. insecta: “iure omnia insecta appellata ab incisuris quae nunc ceruicium loco, nunc pectorum atque alui, praecincta separant membra tenui modo fistola cohaerentia”. Plinio non ha preso a caso il termine e[ntoma e non l’ha neppure tradotto meccanicamente con insecta per un’equivalenza casuale: Varrone associa insecta con exta e il verbo prosecare (De Lingua Latina V. [22] 110 “Insicia ab eo quod insecta caro, ut in Carmine Saliorum prosicium est, quod in extis dicitur nunc prosectum”), cioè si tratta delle ‘carni tagliuzzate’ (insecta = prosecta) dei sacrifici (exta). Che le carni animali venissero tagliuzzate per i sacrifici e che si trattasse di linguaggio sacrificale è evidente da Catone (De Agri Cultura CXXXIV, 4 “Ubi exta prosecta erunt, Iano L. Meneghello: Libera nos a Malo. Da una comunicazione orale (J. Trumper) apprendo che in alcune lingue, come ad esempio il gallese, la parola autoctona è formata, mediante un calco, dal termine autoctono per tagliato, cioè trychfil < trychu ‘affettare’, ‘tagliare a segmenti’, ‘amputare’ + ‘animale’. Nell’uso popolare pryf = ‘wug’ viene usato come ‘insetto’. 7 8 5 6 Ibid. IXXXI. Cfr. Ibid. IXXXI segg. — 140 — — 141 — struem ommoueto mactatoque item,uti prius obmoueris …”). Insectum non era necessariamente il contrario di sectum < secare ‘tagliuzzare’ ma spesso ne aveva la stessa valenza, come scriveva Festo secondo le testimonianze di Paolo Diacono (Paolo ex Festo, De significatu …, ed. Lindsay 99,13 “Insecta non secta, sed et aliquotiens significant secta”), e viene correttamente etimologizzato il termine exta come avente la stessa origine nel verbo -sec-, cioè da una forma originale éxsec-ta (id. 69, 9-10 “Exta dicta, quod ea dis prosecentur”), essendo tutte queste voci riportabili, come sappiamo, ad IEW II. 894 *SEK-2 ‘tagliuzzare’. Insectum, a è dunque il preciso equivalente di e[ntomon, -a, come ‘pezzi tagliuzzati’ di ‘carne animale’ preparati per i sacrifici, dunque di pertinenza religioso-rituale. Plinio si rende perfettamente conto del nuovo uso aristotelico e anche del suo contesto d’uso, e li usa in modo perfettamente equivalente. Sul piano della determinazione delle caratteristiche e delle potenzialità, Plinio sembra andare oltre anche la definizione e la discussione aristoteliche: non nega infatti, come del resto neppure Aristotele, che gli ‘insetti’ posseggano ‘anima’ (l’espressione pliniana è ‘trahere animam’), ma egli sottolinea che si tratta de minimis, talvolta di creature con visibilità e dimensione praticamente pari a zero ma che possiedono comunque ‘ratio’ (N.H. XI. I: “in his tam paruis atque tam nullis quae ratio uitalis … non certis inest membris, sed toto in corpore, minime tamen capite”), argomentando che proprio nelle creature più piccole si rispecchia il ‘tutto’ della creazione (ibid. “cum rerum natura nusquam magis quam in minimis tota sit”), e dunque, anche se sembra che non respirino né abbiano cuore, fegato e sangue, queste non sono condizioni sufficienti per negare che siano dotati di vita e ‘anima’; addirittura viene ipotizzato che qualsiasi liquido che distillano sia invece prova della presenza di una ‘sorta’ di sangue (cfr. N.H. XI.II: “sic et insectis quisquis est uitalis umor, hic erit sanguis”) ecc. Questo è dunque un breve excursus sull’introduzione e sulle prime attestazioni del termine insetto. Il fatto che nella maggior parte delle lingue romanze e nei dialetti non vengano proposte alternative, parimenti inclusive, potrebbe essere interpretato come la mancanza di un effettivo nodo cognitivo che corrisponda alla partizione biologica. Questo non perché sia necessaria, o sufficiente, la lessicalizazione per testimoniare la presenza di un riconoscimento effettivo di una discontinuità, visto che esistono categorie coperte. Poiché ogni situazione va valutata alla luce dei fatti che si hanno a disposizione, direi però che, in questo caso, la mancanza sul piano lessicale è segno di una discrasia tra sistema biologico e classificazioni popolari che, come cominceremo a vedere più oltre, privilegiano altri livelli, e altre modalità nel creare le loro classi. — 142 — 3. Schemi parziali per la classe degli insetti in due dialetti italiani. 3.1. Riprendendo le osservazioni introdotte precedentemente da Brown, si nota che in molte delle lingue prese in considerazione la divisione primaria non è mai tra ciò che Brown individua come ‘mammal’ e ‘wug’. Dai dati sulla creazione di categorie più inclusive da parte dei bambini, e dai dati complessivi sulle lingue indagate, dunque, si potrebbe inferire che non siano tanto le dimensioni (contrapposizione tra GRANDE-PICCOLO) ad essere primarie; infatti, se fosse così, ci si aspetterebbe (cfr. op. cit. pag. 26 e segg.) che la maggioranza delle lingue contrapponesse appunto i grandi mammiferi agli insetti. Questa situazione sembra caratterizzare invece solo i sistemi ad almeno tre termini per ‘forma di vita’. I sistemi a uno o due livelli, decisamente primari secondo l’autore, hanno pesce, serpente: [pesce + serpente], [uccello + serpente], [uccello + pesce], sono cioè sistemi in cui è centrale l’habitat (aria~terra~acqua, in tutte le combinazioni). L’ordine di rilevanza dei tratti sembra essere: 1. habitat, 2. dimensioni. Nella creazione delle lessicalizzazioni per ‘forma di vita’ basata su questo secondo tratto si inseriscono i contrasti lessicalizzati come: Bestia (mammal)/ bestiolina (wug). All’interno di queste ‘forme di vita’ vi è una serie di ‘intermedi’ che difficilmente corrispondono ad ordini o famiglie, secondo le classificazioni biologiche o entomologiche. In considerazione delle proiezioni su classi contigue, è esperienza comune per dialettologi ed etnologi che vi siano dei rimandi a piccoli animali, rettili, anfibi, anellidi, gasteropodi ecc. che, ancora una volta, hanno abitudini e habitat parzialmente comuni. Al di sotto degli ‘intermedi’ in senso generale, prima ancora di arrivare a singole lemmatizzazioni che costituiscono sottoparti del sistema, si possono individuare livelli ancora ‘intermedi’, per approssimazioni successive, che raggruppano classi parziali, più o meno piccole, ancora una volta in base a criteri di habitat (considerando anche una pianta ospite come habitat), nel caso dei parassiti: es ven. ‘verme de tèra’, ‘verme da luamaro’, ‘verme del formento’, come ‘bao de la caseta’, ‘bao de la can’, ‘bao de la paja’, ‘bao del legno’, ‘bao del tabaco’ ecc. Per attenersi solo ad ‘intermedi’ come bao e verme si può schematizzare come segue, in rapporto con gli altri livelli superiori e inferiori: Schema a) Forma di vita sì Intermedio sì Generici X1 X2 Dimensioni piccolo Forma Tondeggiante/allungato Dimensioni/Forma ± piccolo, tondeggiante ± piccolo, allungato Lessicalizzazione Bestiolina (wug) Lessicalizzazione Bao/ Verme Lessicalizzazione Baéto, Baùto Véscola Come si vede, è uno schema parziale che viene proiettato su altre famiglie, visto che bao esiste come ‘generico’ e come ‘intermedio’ transclasse, potendo essere riferito ad emitteri, piccoli coleotteri, larve di imenotteri e alcuni coleotteri. Con l’aggiunta di modificatori, origina livelli specifici, indicanti moltissimi isotteri (bao del legno) e coleotteri (bao de la paja) e qualche anellide (bao de la caseta). — 143 — Solo un altro esempio riguardante i ditteri, che sembra confermare nelle linee generali le strategie classificatorie già illustrate: Schema b) Intermedio sì Generico sì Caratteristiche/Dimensioni Volare, Piccolo Caratteristiche Nocività, Habitat Lessicalizzazione Mosca Lessicalizzazioni mosca, mus 9-, tavan, sansala Anche in questo caso si nota che mosca esiste a più livelli e dà origine a lessemi composti, uno dei quali non è nemmeno riferibile alla stessa famiglia (mosca d’oro: coleotteri), ‘mosca cavalina, mosca tavana’ = tavàn, mosca bovina. È interessante sul piano morfologico notare anche lo sviluppo di pseudo-accrescitivi: ‘moscon’ = bombilidi, sarcofagini, ecc. o diminutivi ‘moschini, mussolini’ (drosofilidi). Com’è evidente, sia dallo schema del veneto centrale di cui sopra, ma ancora di più dallo schema calabrese settentrionale che do di seguito, vi è una chiara tendenza che, confrontata con quella già discussa in Brown (si vedano le osservazioni di cui sopra), spinge fortemente in direzione di un possibile universale cognitivo di una categoria ‘wug’ = ‘worm’ + ‘bug’. Anzi, in calabrese la preminenza è quella della forma ‘worm’ = verme, più generalizzata ancora nel caso degli insetti. Una spiegazione possibile non è, comunque, unitaria, perché riguarda probabilmente (1) il problema dell’evoluzione dalle forme larvali ad altro, (2) le somiglianze morfologiche, (3) le dimensioni, (4) le abitudini parassitarie, secondo uno schema in cui animale ospite = nuovo habitat. Tutto ciò concorre alla creazione di una categoria politetica ‘wug’, con attuazioni tipologiche parzialmente e gradualmente diverse di modello in modello. Per il calabrese settentrionale lo schema equivalente, in parte, a quello veneto è il seguente: Schema c) Forma di Vita Sì Intermedio Sì Generico Sì Specifico Sì Dimensione … Piccolezza Caratteristica Movimento tipo x Forma A = forma allungata; B = stadio di crescita, forma tondeggiante X + modificatore Modificatore = habitat; pianta di cui è parassita = habitat2 ecc. Lessicalizzazione Frù5culu Lessicalizzazione Vìermu Lessicalizzazione A = vìermu, casèntaru, porta-sassi; B = vìermu, vàrulu ecc. Lessicalizzazione A = vìermu, vìermu sulitàriu, vìermu ‘i zimma ecc.; B = vìermu ‘i migliu, vìermu ‘i ranu, vìermu ‘i farina, vìermu ‘i lignu ecc. Queste schematizzazioni, accanto a quello proposte in Maddalon 2001, costituiscono il primo passo per una riproposizione dei dati che sono, in parte, reperibili in molte raccolte lessicali. Uno degli scopi di queste analisi parziali è quello di spostare l’attenzione dall’elencazione di dati compresi in grossi corpora per i settori indagati. Il motivo per cui ho scelto in questa sede di presentare solo analisi parziali di sezioni di classi zoologiche è che, come la maggior parte dei lavori contenuti in questo volume, anche questo non si inscrive nella tipologia della ‘monografia’ sui nomi di insetto o di pianta o simili. Da un lato, come si è detto nell’Introduzione, queste sono già molto numerose, mentre lo sono meno, soprattutto in ambito dialettologico, gli interventi teorici sui problemi analitici. D’altro canto, se si accettano, almeno parzialmente, le critiche mosse ad alcune monografie, soprattutto quelle che, senza intenti offensivi, chiamerei ingenue, grande è lo spazio, e il bisogno, di una risistemazione teorica dei dati, di cui gli esempi proposti non sono che un piccolissimo assaggio. Moltissimo resta da fare ma, parafrasando un saggio detto veneto:10 “prima de fare, pensa”. Bibliografia I classici citati sono presi dalle edizioni LOEB o ‘Les Belles Lettres’. AA.VV., Thesaurus Linguae Latinae, Teubner, Lipsia, 1900. Battaglia, S., Grande Dizionario della Lingua Italiana, Torino, UTET, 1961. Berlin, B., Ethnobiological Classifications: Principles of Categorisation of Plants and Animals in Traditional Societies, Princeton University Press, Princeton, 1992. Brown, C.H., Folk biological Life-Form: Their Universality and Growth. American Anthropologist 79, 1979, pagg. 317-342. Brown, C.H., Language and Living Things, Rutger University Press, New Brunswik, 1984. Chase, P.K., Acquisition of Folk Zoological Life-Form by America and Zatopec Children. M.A. thesis, Northern Illinois University, 1980. Ellen, R., The cultural relations of classification. Cambridge, 1993. Lindsay, J. (a c. di), Festus, De Verborum Significatu cum Pauli Epitome, Teubner, Stoccarda-Lipsia, 1997 (ristampa dell’edizione del 1913). Lovejoy, A., The Great Chain of Being, Harvard University Press, (pubblicato originariamente nel 1936), 1964. 9 Si nota in questo caso una estensione morfologica, cfr. ‘mussato, mussolin’ in assenza del lessema base. — 144 — 10 La dizione originaria è “Prima de parlare, tasi”. — 145 — Maddalon, M., Conoscere, conoscere e chiamare, in QSEM, 2/98, pagg. 213-282. Il baco da seta: appunti per una raccolta lessicale * Maddalon, M.- J.Trumper, Sesso maschile, genere maschile! (pagg. 459-474), in Donne e Linguaggio, Convegno Internazionale di Studi, Sappada. Cleup, Padova, 1995. Maddalon, M., Semantica e tratti, in QSEM, XVI n. 1 Giugno 1986, pagg. 83-96. Nadia Prantera – Maria Tucci Maddalon, M., Vecchi problemi e nuove metodologie nell’analisi semantica delle etnoclassificazioni (atti del Convegno di studi del CNR, Pisa, 2001, pagg. 325-344). Meyer, G., Etymologisches Wörterbuch der albanesischen Sprache, Strasburgo, 1891. Pfister, M., (a cura di) Lessico Etimologico Italiano, 1981-1996 [LEI]. Pokorny, J., Indogermanisches Etymologisches Wörterbuch, 2 voll., Berna – Monaco, 1959. Stross, B., Acquisition of Botanical Terminology by Tzeltal Children, in Meaning in Mayan Languages, Munro S. Edmonson, ed. pagg. 107-141, Le Hague, Mouton, 1973. 1. Presentazione Nell’ambito delle attività di ricerca in corso per la compilazione di un Atlante Linguistico-Etnografico informatizzato della Calabria per la sezione ‘Lessico’, in fase di programmazione, sono state effettuate delle inchieste secondo almeno due modalità alternative, ma che, comunque, non per questo si escludono reciprocamente: — ricerche per campi lessicali (lessico ergologico, fitonimico, zoonimico, ecc.); — ricerche per ‘attività/settori’ di conoscenza, includendo in questo termine tutti i lessemi appartenenti ad una data attività (ciclo del maiale, del vino, del baco da seta, del pane, allevamento, ecc.) e i termini relativi ad attrezzature, tecniche di produzione, credenze, saperi tradizionali ecc. È appunto in questo secondo percorso che si colloca l’inchiesta che presentiamo in questa sede sul ‘ciclo del baco da seta’, ma in una prima e abbozzata formulazione, per cui ci limiteremo ai soli dati raccolti in un unico punto (Montalto Uffugo) e da una sola informatrice. Non è stato quindi ancora possibile, in assenza di dati più corposi, né il confronto con altre aree dialettali calabresi, dove il baco da seta si allevava, e aree in cui l’allevamento è ancora praticato (ad es. Cortale in provincia di Catanzaro), né abbiamo trattato in dettaglio l’aspetto propriamente linguistico dei termini raccolti. Vogliamo comunque precisare che questo secondo percorso, per quanto possa sembrare meno sistematico rispetto al primo, offre per contro interessanti possibilità per lo studio dei trasferimenti semantici che hanno spesso luogo tra i vari regni * Il presente articolo è frutto di una continua collaborazione tra tutti e due gli autori. In particolare, però, il § 1 è da attribuire a N. Prantera, i §§ 2, 4, 5 sono da attribuire a M. Tucci e il § 3 un lavoro di insieme tra gli autori. L’elaborazione della cartina è stata effettuata da A. Mendicino. — 146 — — 147 — – umano-vegetale-animale – con l’uso di metafore che evidentemente non esistono solo nel linguaggio simbolico o mitologico, ma nella lingua comune e si basano non sulle classificazioni scientifiche della zoologia, ma su quelle popolari relative ai saperi naturalistici. Si veda ad esempio l’uso di ‘semente’ per indicare le uova del Bombyx mori e dunque il trasferimento che apparentemente si ha dal mondo vegetale a quello animale; diciamo apparentemente perché, essendo ancora i nostri studi sul lessico entomologico in fase iniziale, il dato andrebbe interpretato meglio alla luce delle tassonomie popolari sugli insetti. È chiaro, inoltre, che il mondo e la cultura del baco da seta costituisce un settore specializzato della conoscenza che si colloca quindi, e per ciò stesso, ai margini della cultura contadina calabrese, per cui potrebbe sembrare che il momento descrittivo e il porre l’attenzione su pratiche ormai arcaiche, predominino nelle finalità della ricerca stessa;1 al contrario però gli studi secondo questa seconda direzione sono regolati e giustificati dagli stessi presupposti teorici e rigorosità scientifica affermatisi ormai da tempo nelle raccolte di lessici per campi lessicali. 2. Il Bombice del gelso La seta è costituita dalla bava prodotta dalla larva di un lepidottero prima di trasformarsi in crisalide e poi in insetto, cioè farfalla. Questo insetto è scientificamente chiamato Bombix mori (bombice del gelso) perché si nutre divorando freneticamente foglie di gelso, comunemente viene denominato “baco da seta”. Non si conoscono le sue caratteristiche originarie ma pare che il suo allevamento sia iniziato circa 2600 anni fa in Cina. Successivamente l’allevamento del baco da seta si è diffuso in tutti i continenti alle medie altitudini dove può crescere la pianta di gelso di cui il baco si nutre. Se osserviamo il ciclo di vita del baco ci accorgiamo che esso è finalizzato solo alla produzione di seta, infatti il baco passa la maggior parte della sua vita a mangiare foglie di gelso fino a quando si trasforma in bozzolo e inizia a filare il filo prezioso. I bachi destinati alla riproduzione, invece, quando arrivano a maturazione, emettono una saliva particolare che ammorbidisce la parte superiore del bozzolo permettendo così alla farfalla di uscire ma, date le sue ali corte e pesanti, essa è inadatta al volo, solo i maschi si muovono un po’ di più per cercare le femmina, per il resto si muovono pochissimo tanto che a volte depongono le uova sullo stesso bozzolo da cui sono uscite. Durante la loro breve vita l’unico impegno di queste farfalle è di fecondarsi e deporre uova Presentiamo ora i dati relativi all’allevamento del baco e alla produzione della seta a Montalto Uffugo, piccolo centro del cosentino. È bastata una sola domanda alla nostra informatrice (Assunta D.C. ex allevatrice di bachi da seta) – Si produceva la seta a Montalto Uffugo? – per dare inizio al suo lungo racconto, che possiamo considerare del tutto spontaneo visto che si è intervenuti nel discorso nei soli casi in cui si voleva farle ripetere un termine particolare. Non potendo però riportare una trascrizione dell’intero racconto,2 abbiamo optato per una traduzione, lasciando tra parentesi i termini specialistici. 1 Anche se bisogna ammettere che molto fascino deriva dal fatto di ‘fissare’ dei termini tecnici in via di estinzione. 2 Nell’atlante informatizzato ovviamente la digitalizzazione della registrazione offre al contrario una reale alternativa al trattamento dei dati dialettali. — 148 — — 149 — Fig. 1: Ciclo di vita del baco 3. Terminologia montaltese del baco da seta Durante la sua breve vita il baco da seta [U ÈsIrIkU] necessitava di molte cure alle quali tutta la famiglia e in particolare le donne si dedicavano. Nei primi giorni di primavera, le donne cominciavano a preparare le uova [sIÈmEnda] secondo canoni tramandati da generazioni di bachicoltori. Affinché le uova si schiudessero era necessario creare un ambiente abbastanza riscaldato, molto spesso infatti le donne le portavano nel petto chiuse in un fazzoletto sollecitando in questo modo la sortita del baco, lo mettevano [ara ÈkUùva]. Dopo quattro o cinque giorni, allo schiudersi delle prime uova, queste venivano avvolte in uno strofinaccio e sistemate in una [kanùIÈst}Eêù}a] (piccolo cesto) vicino al caminetto per farle stare al caldo e consentire la schiusa di tutte le uova. Appena le uova si schiudevano i piccoli bachi [vERÈmUtùsI] venivano sistemati in grandi ceste con le sponde alte e su di loro venivano versate le foglie [U ÈpampInU]3 di gelso bianco [ÈmUùra Èjanga] tagliate finemente. L’attività del baco consisteva solo nel divorare avidamente le foglie di gelso dalla mattina alla sera. Il ciclo di vita del baco era di circa un mese, e in questo periodo avvenivano le mute [sEÈdUùt«]. L’intervallo tra una muta e l’altra era di otto giorni che corrispondeva alla fine di un’età; la muta durava un paio di giorni, giorni in cui il baco non mangiava. La prima seduta era detta all’alba [UÈ sIrIkU E sùEÈdUùtU arÈarva], la seconda a croce [a ÈkùrUùtSI] e in questa fase il baco era abbastanza cresciuto, dopo otto giorni avveniva l’ultima muta detta [a ÈmùUnùU]. Dopo la terza muta i bachi cominciavano ad assumere il loro vero aspetto, erano di colore giallo oro il che significava che erano sani [saÈnItùsI] e giunti a maturazione. In questa fase il baco era caratterizzato da [na ÈmpUêù}a aùra ÈvUkùa] (bolla alla bocca) che non gli permetteva di mangiare. Era necessario quindi preparare i rami a forma di impalcatura [kUÈncùja] dove i bachi salivano ed iniziavano a emettere la bava [sI vaviÈjavanU] e [jEÈtùavanU a ÈsIùta] (buttavano la seta); a questo punto il baco, girando su sé stesso, formava il bozzolo [kUÈkUêù}U]. Dopo circa quindici giorni si potevano rompere i rami ed iniziare la raccolta dei bozzoli. Una volta raccolti, i bozzoli venivano bolliti in un gran pentolone [a Èknga] per farli ammorbidire e per eliminare i materiali che ne ricoprivano la parte esterna, si facevano asciugare e si cercava il capo della bava del bozzolo e lo si avvolgeva a spirale intorno ad un aspo di legno [sI tIÈraùva a ÈsIùta]. La seta ricavata era di diverse qualità: la prima scelta si vendeva e con questi guadagni gli allevatori risanavano i bilanci familiari; la seconda scelta si utilizzava per il corredo delle figlie, ad esempio per fare lenzuola o coperte; la terza scelta infine [U ÈSprUlItU] veniva utilizzata per confezionare capi di vestiario. Di anno in anno, nel mese di febbraio, gli allevatori preparavano [a sIÈmEnda] da una certa quantità di bozzoli che avevano appositamente conservato e dai quali usciva la farfalla che produceva le uova [kaÈkaùva a sIÈmEnda] per l’allevamento successivo. 4. La seta nell’economia calabrese Nei secoli scorsi non esistevano mercati così ricchi di prodotti che possediamo oggi, gli stessi prodotti che ormai sono alla portata di tutti come se fossero le cose più usuali e normali, essi al contrario, sono il frutto di un lungo processo storico avvenuto con il passare degli anni. Generalmente non immaginiamo l’enorme varietà di mestieri artigianali che hanno caratterizzato la vita economica e sociale della Calabria, però grazie alle fonti storiche del tempo riusciamo a dimostrare che alcuni di essi erano già attivi in tempi antichi,4 che hanno dunque una lunga tradizione, infatti Dipignano piccolo centro della provincia di Cosenza, si segnalava per la lavorazione del rame, Catanzaro, Reggio Calabria e buona parte della regione per la produzione di seta. La produzione e l’esportazione di seta, in passato, rappresentò per la regione una fonte di grande ricchezza. L’esportazione calabrese riguardava principalmente la seta greggia, ovvero la materia prima usciva dalla regione sotto forma di matassa, il processo di filatura e tessitura avveniva altrove. Ovviamente, non tutta la seta prodotta abbandonava la regione, ma una parte, proporzionalmente mediocre rispetto alla grande produzione, veniva lavorata anche all’interno. Il centro di maggiore produzione era Catanzaro che già agli inizi del cinquecento contava circa trecento telai, anche a Cosenza e a Reggio Calabria la produzione era notevole, le stoffe prodotte a Catanzaro non solo soddisfacevano la richiesta regionale ma anche quella del regno di Napoli.5 Dunque la Calabria svolse un ruolo importante e significativo in questo settore, la produzione della seta e i redditi ricavati dalla sua vendita fuori regione ebbero ovviamente un influenza positiva sia sull’economia regionale ma anche sulle vicissitudini di tutta la popolazione. 5. La gelsicoltura La gelsicoltura e l’allevamento del baco da seta hanno in Calabria una lunga tradizione, potremmo dire millenaria; la coltivazione del gelso è andata sempre più ad intensificarsi con il passare del tempo nella regione, grazie soprattutto alle adeguate condizioni climatiche favorevoli per la crescita del gelso bianco (Morus Alba L.), albero originario della Cina, introdotto in Europa proprio a partire dalla Calabria dove fu diffuso dai Bizantini alla fine del IX secolo.6 In Italia allora si conosceva solo il gelso nero (Morus Nigra L.), anche le sue foglie venivano utilizzate per l’alimentazione del baco ma in misura minore rispetto a quelle del gelso bianco. 4 Il termine [ÈpampInU], propriamente, indica fogliame in generale, ma nel caso dell’allevamento del baco esso assume la specificazione “di gelso bianco”. 3 — 150 — 5 6 Piero Bevilacqua Uomini terre e libertà pag. 252 in “La Calabria”, Storia d’Italia, Einaudi. www.unicz.it/lavoro/MALANIMA G. Galasso “Economia e società nella Calabria del cinquecento”, pag. 143-152, Feltrinelli 1975. — 151 — Le grandi distese di terra destinate alla coltivazione del gelso, della quale si avvale la sericoltura, incentivarono la produzione di seta calabrese facendo della regione uno dei mercati più ricchi e fiorenti del mediterraneo. I dati riportati nella cartina7 dimostrano che la gelsicoltura era diffusa in Calabria già nel 10508 (i luoghi riportati con il simbolo ), anche se l’espansione massima si attesta nel corso del quindicesimo secolo, in questo periodo, la coltivazione del gelso era diffusa su quasi tutto il territorio regionale, in quanto una proprietà coltivata a gelsi era molto più fruttuosa di altre coltivazioni. Dunque l’albero del gelso rappresentava l’emblema di una prosperosa industria per l’intera regione e continuò la sua lavorazione fino agli inizi del XX secolo quando una grave malattia, la pebrina, colpì gli allevamenti dei bachi, azzerando in alcuni casi la produzione. Tale malattia ebbe un effetto incisivo sulla gelsicoltura infatti in molte zone gli alberi di gelso furono tagliati e le perdite furono ingentissime. La crisi coinvolse tutta la regione e in tutti i campi, quello economico, commerciale, industriale e agricolo. Non furono soltanto gli effetti della pebrina comunque, a condizionare l’industria serica ma anche la situazione in cui si trovava la Calabria dopo la seconda Guerra Mondiale. Malgrado le perdite l’attività della bachicoltura non sparì del tutto, però, subì una forte riduzione, passando da attività produttiva a livello nazionale, a gestione familiare, anche se qualche pezzo di stoffa veniva venduto sia per soddisfare le richieste dei vecchi clienti sia per coprire le spese familiari. 7 La cartina è stata elaborata in base allo schema dell’utilizzazione del suolo calabrese alla fine del secolo XVI, in Galasso “Economia e società nella Calabria del Cinquecento” pag. 145 1975 Feltrinelli. 8 Integrati in questa sede con A. Guillou “Le Brébion de la métropole byzantine de la région (vers 1050)” dove l’autore riporta i dati delle coltivazioni di gelso presenti sul territorio a quell’epoca, dal punto di vista della ripartizione geografica della coltivazione del gelso è della massima importanza osservare che l’espansione riguardava in modo particolare l’estrema parte meridionale della regione con un totale di 2741 gelsi tassabili così suddivisi: Motta San Giovanni 526, San Nicola di Gallico 113, Gallico 44, San Procopio di Sinopoli 208, San Salvatore di S.Agata 49, San Pietro 101, S. Anna di Gerace 85, San Giorgio di Bova generico ovvero non fa conteggi ma la coltivazione del gelso era presente sul territorio, Reggo Calabria 156, la Cattedrale con le Diocesi 579, S. Lucia di Taurianova 139, Galatro 237, Madonna di Spatarea 224, Muro (S. Marina) 280, per la provincia di Catanzaro un totale di 308 gelsi tassabili: San Pietro di Stilo 36, Sa. Leo di Stilo fullologhma si raccoglievano le foglie di gelso senza contare gli alberi, S. Marina di Stilo 82, Nicastro generico, Taverna 4, Soriano Calabro 278, Monasterace non fa conteggi, la provincia di Cosenza con un totale di 1851 gelsi tassabili: Mirto Crosia/ Calopezzati 1445, Madonna di Agro vicino Mirto296, San Nicola di Campana 110. — 152 — — 153 — Bibliografia Il baco da seta: un esotico insetto Bevilacqua, P. [1985], Uomini terre e libertà in La Calabria, Storia d’Italia, Einaudi. Galasso, G. [1975], Economia e società nella Calabria del cinquecento, Feltrinelli. Giacomarra, M. [1985], Il nesso lingua-cultura in una prospettiva antropologica. Il ruolo della pratica sociale, in Atlanti regionali: aspetti metodologici, linguistici ed etnografici 19, Atti del XV Convegno del C.S.D.I. (Palermo 7-11 ottobre 1985), pp. 149-161. Anna Scola Guillou, A. [1974], Le Brebion de la métropole byzantine de la région (vers 1050), Città del Vaticano, Roma. Maddalon, M.-Scola, A.-Valente, S. [1993], Nuove prospettive nella raccolta e nell’analisi dei dati dialettali. Alcune proposte, in «Quaderni del Dipartimento di Linguistica», Serie linguistica 4, Università della Calabria, pp. 9-25. Pellegrini, G.B. [1983], Dialettologia ed etnografia, in Atti del convegno su: Problemi di un territorio: l’esperienza trentina fra storia e attualità, Trento, pp. 371-388. Trumper, J. [1982], Lingua e cultura in Calabria, in Atti del Convegno di Storia Patria, Vibo Valentia, pp. 693-728. Trumper, J.-De Vita, P. [1985], Lessico e cultura popolare, in «Quaderni del Dipartimento di Linguistica», Serie linguistica 2, Università della Calabria, pp. 5-38. www.unicz.it/lavoro/MALANIMA L’arte tessile, annoverata tra le arti minori, è una delle più antiche e diffuse nel nostro meridione. Il lavoro al telaio fa parte del “patrimonio sacro della casa calabrese”,1 ed è stato il protagonista incontrastato tra i vari mestieri artigianali femminili, resistendo in una altalena di alti e bassi, fino agli anni ’50 e più. Infatti il Mezzogiorno d’Italia, rispetto al resto della nazione, ha mantenuto i suoi caratteri di economia rurale fino a tempi recentissimi e l’arte tessile è rimasta viva in quasi tutte le case sviluppando un artigianato popolare e fiorente, depositario di antica cultura. Non vi era casa in cui non esistesse un telaio anche soltanto per soddisfare i fabbisogni personali della famiglia e il tric trac dell’attrezzo scandiva la frenetica giornata della massaia. Si tessevano lino, cotone e persino la ginestra, ma un fenomeno a parte è costituito dalla seta, poiché rappresentava una vera e propria industria domestica legata alla trasformazione della materia prima, in maniera rudimentale e poi alla trattura e alla colorazione del tessuto. Rispetto alla coltivazione del lino o del cotone, l’allevamento del baco era una attività stagionale che si esauriva nell’arco di 40 giorni circa e consentiva l’impiego del lavoro familiare.2 L’allevamento casalingo del baco rappresentava il miraggio di un cambiamento di stato e certamente la donna all’interno della struttura sociale e quindi dell’economia familiare, svolgeva un ruolo da protagonista non solo come bigattiera ma anche con altri mestieri ad esso connessi: filatrice, tintora, calzettaia ecc. A dimostrazione della radicata importanza che ricopriva la tessitura in genere, nella tradizione popolare cosentina era considerato di buon augurio che lo sposo portasse in 1 2 — 154 — Frangipane A., 1951:50. Bevilacqua P., 1986:252-253. — 155 — dono alla sua sposa un fuso e una conocchia oppure un cannello di seta grezza, che indicavano prosperità e ricchezza.3 Nessuno sa come e chi abbia scoperto che dalla bava di un verme potesse venir fuori un tessuto tanto prezioso, così come resta incerto o quanto meno confuso il momento esatto di penetrazione della coltivazione del baco da seta in Occidente. Comunque il primo riferimento alla seta in Occidente lo si deve ai generali di Alessandro Magno (campagna d’India tra il 329 e il 325 a.C.). Al tempo dei romani sappiamo che i rapporti commerciali fra est ed ovest erano molto intensi soprattutto sotto l’imperatore Augusto e che oltre alla famosa “via delle spezie” anche “la via della seta” ebbe un momento di particolare importanza nella storia economica e sociale del tempo. Nel periodo della Grande Roma indossare capi di seta era sinonimo non solo di eleganza ma soprattutto uno ‘status symbol’ tanto che Plinio il Vecchio esprimeva la sua contrarietà, nei confronti di donne e uomini romani che spendevano cifre esagerate per i loro indumenti,4 Seneca reputava i tessuti serici addirittura indecenti. Comunque lo stesso Plinio incorse nell’errore di considerare la seta come prodotta dalla lanugine degli alberi.5 Anche l’Ernout, sottolinea che quando Plinio parla del bombice 6 non si può trattare del baco da seta originario della Cina, le cui metamorfosi sono lungi dal durare sei mesi. Si tratta probabilmente di una “specie selvatica originaria dell’Asia Anteriore e acclimatata nelle isole della Grecia”.7 Praticamente il baco di cui si parla vive veramente nella corteccia degli alberi ma non è, dal punto di vista scientifico, lo stesso baco di cui ci occupiamo nella nostra indagine. Ovidio nelle sue metamorfosi probabilmente si riferisce anche egli ad un altro genere: “Quosque solent canis frondes intexere fili/Agrestes tinae, res observata Colonis/ Fatali mutant cum papilione figuram”/, secondo cui le farfalle nascono dai fiori di albero, cosa che già Fiore riteneva improbabile.8 Comunque non dovrebbero esserci dubbi sull’ipotesi che la storia del baco risalirebbe a prima dell’era cristiana in Cina per poi passare nelle Indie, in Persia e in varie parti dell’Asia e che intorno al sesto secolo si introdusse in Costantinopoli e poi in Grecia, tra gli Arabi, quindi in Spagna, in Italia, in Francia e così via. Sono queste le tesi portate avanti da vari studiosi i quali confermano che il traffico della seta in Occidente era di prevalenza proveniente dall’Asia centrale, e che, quando nel sesto secolo giunse a Giustiniano, da questi passò ai bizantini i quali, per via dei diretti contatti, la diffusero nell’Italia meridionale. È ormai universalmente riconosciuto che la bachicoltura nel meridione d’Italia, sia anteriore alla venuta dei Normanni mentre ci sono ancora opinioni discordanti se chi l’introdusse nella nostra regione, e precisamente a Catanzaro, siano stati i Saraceni oppure artefici orientali. Con questa ultima ipotesi sono d’accordo D’Amato, Grimaldi, Muratori e Marincola, secondo i quali bisogna tenere conto che le incursioni dei Saraceni, nella nostra regione, non ebbero carattere stabile ma piuttosto invasivo e distruttivo tant’è che la regione veniva descritta come una terra devastata. D’altra parte è in Sicilia che ci fu la permanenza stabile degli arabi mentre in Calabria solo “comparse fugaci, che culminavano in saccheggi, razzie e pagamenti di tributi……la conseguenza delle invasioni saracene in Asia Minore ed in Sicilia fu l’arrivo in Calabria dei monaci orientali…”,9 e ancora: “La Calabria visse tra il nono e undicesimo secolo, come terra di rapina e di preda”.10 Il monachesimo basiliano che culturalmente grande importanza ebbe per tutto il mondo occidentale, avrebbe introdotto dunque la coltura del gelso e l’allevamento del baco.11 Già in un Diploma del 1089, del patriarca Bruno e del suo ordine, si parla di una piantagione di gelsi, ciò fa supporre che l’industria doveva essere anteriore a Ruggero I° poiché il gelso moro ha una vegetazione lunga e stentata, ciò ci induce a pensare ad un periodo precedente i Saraceni; e ancora nell’Annalista Salernitano, Stefano di Cosenza nel 989 (cioè quattro anni prima che i Saraceni si fermassero stabilmente a Squillace), portò in dono al monastero dei Benedettini di Cava, della seta obrizzata (cioè greggia) e poiché Stefano era: “Un povero Castaldo di Monastero” non avrebbe potuto procurarsi la stoffa se non nella Calabria natia.12 In ulteriore supporto alla tesi potrebbe essere che il manto dell’incoronazione di Ruggero II dimostra che, a Palermo, quest’arte esistesse già prima che lo stesso Ruggero facesse venire mano d’opera specializzata dalla Grecia.13 Nei rapporti delle antiche cronache di Catanzaro, si legge: “Con le genti orientali sapevasi il modo benissimo di nutrire il verme della seta……con la pratica di alcuni orientali nella città commoranti imparando molti la tessura di quella ne fecero drappi di varie sorti…” si continua con la descrizione dei velluti e delle sete intarsiate con lamelle d’oro e d’argento.14 Altra opinione è che gli Arabi in Sicilia portarono tutti i segreti della sericoltura, avendoli appresi dai popoli centro-asiatici. Quindi dalla Sicilia l’attività sarebbe cfr. Dorsa V., 1879:38 e Corso R., 1951:40. Plinio, Storia Naturale, XII, 2, 84; XXXIV, 145. 5 Plinio, ibidem. libro VI, 54:76; anche Virgilio incorse nella stessa considerazione: “Quid nemora Aethiopum molli canentia lana, Velleraque ut foliis depectant tenuia Seres? ” (Georgiche l. II, 120). 6 Plinio, ibidem II l.XI, 26:581. 7 Pline L’ancient, H.N., livre XI Paris 1947:144. 8 Fiore G., Della Calabria Illustrata, Arnoldo Forni Ed. I tomo, p. 271, 1641, (Ristampa anastatica, 1980). Barone V., 1982:83-84. Gabrieli F., 1959:47. 11 Vecchio F., 1992:149. 12 Maringola D.S. - Florio F., Relazione sull’origine, progresso e decadenza dell’arte della seta in Catanzaro, nella monografia, Capitoli Ordinazioni e Statuti dell’arte della seta in Catanzaro, (la relazione è stata scritta nel 1874, pp. 11-12), Tip Bruzia, Catanzaro 1929. 13 Bussagli M., 1986:96. 14 D’Amato V., 1670:18. — 156 — — 157 — 3 4 9 10 passata a Catanzaro, in seguito alle ben note vicende storiche.15 L’unica cosa certa a questo punto è che il meridione conobbe la produzione e l’allevamento del baco da seta prima dei Normanni o per tramite islamica o per opera dei coloni greci. Invece è il perfezionamento dell’arte serica che deriva dalla lungimiranza normanna, sia in Sicilia che in Catanzaro. Lo sviluppo dell’attività nella seconda metà dell’anno Mille fece si che Catanzaro diventasse un punto focale di grande rilevanza commerciale per l’allevamento e l’industria del baco. Inoltre nella seconda metà del XIII sec., il declino del setificio siciliano, a causa dell’emigrazione dei Musulmani, sancì il primato definitivo della seta catanzarese in tutta Italia.16 “È vanto giustissimo di Catanzaro l’avere preceduto altre città italiane nel lavoro serico, e questa volta l’ascesa dal sud al nord dell’esempio non può essere negata…...Come un altro scrittore diceva di Lucca, noi potremmo dire di Catanzaro, che tra il sec. XII e il XVII ebbe periodi in cui era colma d’oro e di seta oltre misura”.17 A tal proposito il Marafioti parlando della Calabria scriveva “Vero ch’el perfetto paese è quello, al quale niente manca delle felicità naturali……Anchora in Calabria se la superfluità non lo vetasse, e la comune humiltà lo permettesse, senza l’uso della lana, tutti potrebbero vestire sontuosamente di seta…………le preciosissime sete di Calabria sono trasportate per l’uso delle mercantie in quasi tutte le parti del mondo. Si tessono in Calabria drappi di seta di diverse sorti, la cui tessitura è ingegnosissima……”.18 Nel periodo svevo, con Federico II, si ebbero le prime fiere nel mezzogiorno (a Cosenza quelle della Maddalena e dell’Annunziata erano famose in tutto il Regno),19 e ci fu un grande impulso dell’attività serica specialmente ad opera degli Ebrei che si stabilirono nella nostra regione già prima del 1200 e diedero una impronta decisiva all’industria della seta.20 Infatti da un registro dell’arte della seta si legge che i calabresi non si preoccupavano affatto del commercio quanto della produzione delle sete preziose.21 L’arte serica a Catanzaro rimase viva e vegeta sotto gli Angioini, anche se con gli Aragonesi (1400) ci fu un altro periodo di vero splendore, si istituirono garanzie speciali e privilegi per le maestranze catanzaresi, e la città ottenne persino il Consolato della Seta, unico nel regno;22 gli statuti dell’arte della seta venivano pubblicati a Catanzaro nel 1519, prima di quelli di Firenze.23 I damaschi – famoso il “catanzarito” – i velluti erano diffusi in tutte le corti europee in concorrenza con quelli genovesi, veneziani e fiorentini. In questo periodo particolarmente incisivo risultò il contributo degli Ebrei che “anticipavano il denaro necessario alle spese per l’allevamento del baco da seta; possedevano filande e telai propri; impegnavano i coltivatori a consegnare loro tutta la produzione”.24 L’incremento dell’attività è visibile anche dai registri delle matricole dell’arte della seta, uno di questi del 1500 riporta un gran numero di iscritti che esercitavano la professione.25 L’Archivio di Stato di Napoli conserva il fondo documentario dell’antica corporazione dei lavoranti della seta, e tali documenti vanno dai primi del XVI secolo al XVIII.26 Le maestranze addette all’attività erano organizzate naturalmente in corporazioni e a loro vennero concessi innumerevoli privilegi. Molte maestranze vennero mandate in Francia e nel nord Italia ad insegnare l’arte o a fondare industrie della seta, ma mentre questi paesi seppero perfezionare le loro tecniche industriali, la Calabria rimase a livello arcaico non aiutata certamente dalle pressioni fiscali esercitate dai vari governi, dalle calamità naturali e dalle malattie che colpivano il baco o i gelsi, infatti, la “pebrina”, fu una brutta epidemia che, tra il 1856 e il 1866, distrusse una gran quantità di gelsi.27 Tutto ciò portò inevitabilmente al declino delle industrie. Nonostante tutto l’attività serica era molto vivace non solo a Catanzaro ma in tutta la Calabria, ed a Cosenza sui “Capitoli et Ordinazioni dell’Università di Cosenza” concessi il 22 novembre 1472 da Alfonso d’Aragona, Duca di Calabria, si legge: “Eppure una città come Cosenza……….si vede costretta a denunziare i pericoli derivanti dalle condizioni igenico-sanitarie, tutt’altro che soddisfacenti…..perché in detta città si fa gran quantità di serico et finita la masserizia ciascuno in lo fare de la sita butta li vermi in le strade donde se causa gran fetore, et aere pestifero in ditta città”.28 Le filande più antiche consentine erano quelle dei baroni Mollo e Giannuzzi Savelli, ma tutto il circondario praticava l’allevamento del baco: Cerisano, Mendicino, Carolei, Rende.29 Anche a Reggio l’industria della seta acquistò grande impulso e Villa San Giovanni, alla metà del 1800, oltre che per l’eccezionalità del clima, era considerata “la Bussagli M., 1986:69. Dito O., La storia calabrese e la dimora degli ebrei in Calabria, pp. 287-288, 1916, (Brenner Cosenza ristampa 1989). 17 Frangipane A., 1951:50-52 18 Marafioti G., Croniche e antichità di Calabria, Arnaldo Forni Ed., Ristampa anas., Sala Bolognese, pp. 299/301, 1975. 19 Dito O., 1916:319-321. 20 Cfr. Dito O., ibidem, p. 10, 1916; Castello G. Credito e risparmio, in Almanacco Calabrese, p.138,1951; Fiore ibidem, 1641; D’Amato V., ibidem,1670. 21 Saladino A., 1966/67:73-88. 22 Grimaldi L., 1845:48. Tescione G., 1932:18. Pontieri E., 1963:112. 25 Musto D., I mercanti e gli artigiani calabresi iscritti nelle matricole dell’arte della seta, conservate presso l’Archivio di Stato di Napoli in: Atti del 3° Congresso Storico Calabrese, (19-26 maggio 1963) Napoli, F. Fiorentini, pp. 437-491, 1964. 26 Coniglio G., 1948:3. 27 Taruffi D., De Nobili L., Lori C., 1908:645. 28 Russo F., 1958:53. 29 Fatica M., La Calabria nell’età del Risorgimento, in Storia della Calabria moderna e contemporanea, Il lungo periodo, a cura di Augusto Placanica, Gangemi, p. 493, 1992. — 158 — — 159 — 15 16 23 24 capitale indiscussa del polo serico calabrese”.30 A proposito di ciò negli anni Cinquanta un imprenditore inglese Thomas Hallam costruì proprio a Villa la prima grande filanda meccanica a vapore.31 La ripresa dell’attività era dovuta anche alla lavorazione di una seta più pregiata, l’organzino (ormascinu);32 questa lavorazione un tempo veniva fatta solo a Catanzaro poiché altrove era diffusa la trattura alla calabrese cioè con il “mangano grande” che dava una seta meno pregiata più grossolana (ricordata come a capisciòla).33 Con i Borboni si tentò di far rinascere l’industria senza però grande successo tanto che nel che nel 1833 erano rimaste solo tre filande in Calabria che occupavano solo 50 unità, mentre nel XVIII secolo se ne contavano oltre 4000. L’attività in pratica si era ridotta semplicemente alla coltivazione dei gelsi e dei bachi. La debolezza dell’industria serica nasceva dall’assenza di un mercato locale. Tradizionalmente veniva venduta sul mercato di Lione, prima con l’intermediazione degli Ebrei, in seguito incettata direttamente dai francesi che imponevano prezzi molto bassi.34 Tutti i viaggiatori, che tra il Settecento e l’Ottocento visitavano la Calabria da Lenormant a Duret de Tavel, rilevavano una grande quantità di gelsi e di allevamenti di bachi, in particolare, a Monteleone, dove a Stefanaconi, la famiglia Natoli aveva perfezionato una razza di baco che riusciva a produrre 1 Kg. di seta finissima, ma l’esperimento miseramente volse al termine per via di una malattia che colpì i bachi.35 Ferdinando IV di Borbone inviò un suo incaricato a compiere una visita nella nostra regione e nel resoconto di viaggio si legge: “Il contrabbando della seta è il terzo del prodotto…l’industria della seta va sempre più decadendo. Non è più utile e vantaggioso l’esercitarla. Le oppressioni la distruggono totalmente…la maggior parte delle sete della provincia si commerciano in Monteleone. Si mandano in Napoli e rare volte fuori, perché questa libertà è gravata di formalità”.36 Ciononostante, nel Sud d’Italia, splendeva di luce propria l’industria serica di S. Leucio che rappresentava un esperimento socio-economico unico nel panorama industriale italiano,37 e sebbene il declino fu poi l’irreversibile, nel 1857 si esportava seta in quantità superiore a quella della Lombardia e del Piemonte, e le sete del Regno di Napoli costituivano “una fonte inesauribile di ricchezza per il regno”.38 A Messina si concentrava il commercio e l’esportazione dei generi diversi provenien- ti dalla Calabria e dalla Sicilia, per l’estero e per Genova, tra i vari articoli, prima di tutto “seta grezza, agrumi, mandorle dolci”.39 Al momento dell’Unità, il distacco tra Nord e Sud diede inizio ad un processo di decadimento irreversibile, tuttavia la tradizione legata all’allevamento del baco nelle famiglie calabresi restava molto attiva. Nel 1864 però un’altra piaga si aggiunge agli altri: si affacciano gli speculatori di semenza Lombardi, i quali spedirono delle enormi partite di semi in cartoni “questi fecero passare per origine giapponese la merce e fu una colossale truffa”;40 la cosa avvilì ancor più i coloni, ma non li scoraggiò. A testimoniare la vitalità dell’arte e l’importanza nell’ambito economico e sociale della collettività del filo d’oro: “Le botteghe della stessa arte finiscono per accentrarsi negli stessi quartieri…” 41 e le strade prendono il nome dai mestieri che vi si esercitano, un quartiere del centro storico di Cosenza si chiamava fóllari insieme ai pignatari, sellari, vermicellari, spetiali ecc.42 L’allevamento del baco forniva, nonostante tutto, un valido sostegno economico per molte famiglie meridionali tant’è che l’attività era diffusa un po’ ovunque. Bisogna sottolineare che ormai tutta l’industria serica si era trasferita al Nord, e il contributo meridionale era marginale ma significativo per la povera economia del Sud contribuendo a mitigare la condizione di estrema miseria ed indigenza in cui versavano la maggioranza delle famiglie meridionali. Nella prima metà del 1900 cominciarono a tenersi dei corsi veri e propri per la filatura che partivano dalla utilizzazione dei bozzoli, sia per trarne la seta vera e propria, sia per ottenerne “a capisciola”, seta grossolana, non molto lucente che si ricavava dalla bollitura dei bozzoli di scarto e degli sfarfallati.43 Nel panorama regionale dell’epoca è necessario menzionare anche i paesi albanesi poiché hanno dato un grande contributo allo sviluppo dell’arte serica nel cosentino. La provincia di Cosenza ha infatti la più alta densità di paesi Arbëresh d’Italia. Luca San Severino, duca di San Marco principe di Bisignano, ebbe in concessione dagli Aragonesi la montagna Magna di San Marco Argentano e per opera sua e del figlio Geronimo, vennero diffusi metodi agricoli innovativi che estesero anche alla coltivazione della seta.44 Per effetto del matrimonio di Pierantonio San Severino con Irene Castriota Scanderberg venne poi ripopolato il feudo di San Marco dagli esuli albanesi, questi negli anni che vanno dal 1476/1478, si insediarono nei paesi di Cavallerizzo, Cerzeto, San Giacomo, San Martino, Serra di Leo, Cervicato, Mongrassano e Rota.45 Cfr. Fatica M., ibidem, p. 492, 1992; Bevilacqua P., ibidem, p. 259, 1986. Fatica M., ibidem, p. 493, 1992. 32 Petrocchi M., 1955:28-30. 33 Fatica M., ibidem, p. 494, 1992. 34 Davis J., 1979:103-107. 35 Dito O., ibidem, p. 39, 1916. 36 Galanti G. M., Giornale di viaggio in Calabria, in Viaggiatori a Monteleone 1526-1926, a cura di A. Borello, Ed. Mapograf, Vibo V., pp. 33-35, 1780. 37 Tescione G., ibidem, p. 89, 1932. 38 Millenet J., Coup d’oeil sur l’industrie agricoleet manufacturière du royaume de Naples, Napoli, p. 29, 1832; cfr anche Barone V., ibidem, p. 29, 1982. Battaglia R., 1977:13/112. Dito O., ibidem, p. 39,1916. 41 Beniscelli G., Un lavoro sulla porta di casa, Artigiani di Calabria e di Basilicata, Ed., Siag, Genova (presentazione di M. Soldati), p. 40. 42 Borretti M., 1949. 43 Casella L.A., 1937:12-29. 44 Pontieri E., ibidem, p. 38, 1963. 45 Tafani F., 1969:8. — 160 — — 161 — 30 31 39 40 La coltivazione del baco ebbe notevole diffusione tra queste povere comunità, infatti nel catasto onciario di Cerzeto, del 1752, viene ampiamente documentata la coltivazione delle piantagioni di gelso. Tra i paesi Arberesh, Cerzeto è l’unico ad aver mantenuto vivo l’interesse verso l’antica arte della seta, ancora oggi all’inizio del terzo millennio, si sta cercando a più riprese di risvegliare questa tradizione con corsi di formazione professionale finanziati dalla regione per insegnare le tecniche di tessitura dei filati di seta. Ci è sembrato quindi opportuno verificare in sito i termini utilizzati per la coltivazione del baco “rritja e kukullit”. Inoltre non c’è autore calabrese che parlando di seta non annoveri i paesi albanesi della provincia cosentina, citando per esempio Cerzeto per il primato della seta organzina;46 in questo piccolo comune era diffusa anche la tessitura di manufatti di lana, lino, ginestra, cotone per la realizzazione di arazzi, coperte ed altro decorati finemente con motivi tradizionali, che ricordano le vicissitudini dell’esodo.47 L’importanza della seta è testimoniata dalla poesia popolare che la utilizzava nelle viershe (stornelli popolari di amore e di sdegno, spesso improvvisati e tramandati oralmente): Të rrita ç’ kur inje pishkaniqe/Nani ç’u rrite mua më prore faqe/Se u i ziu zura këto faqe/Qëndrova xhustu si sirku mbi kanoqe./48 Il termine seta viene menzionato anche in ambito letterario in vari autori dell’800. Il Santori utilizza la voce di origine turca, mundafsha riportato nella commedia in Arbëresh “Emira”: Mos mëngoftë bëgatëria/E këshilli e urtëria:/si këllose mbi polloqidhe/mbeftë anemi nd’anemidhe,/me purteka ji ngrakuor/të mundafsha prë të ngelmuor./Ndë baghule aq pijhura/Qofçin, sa te dejti shura./49 Il Leotti, presenta la variante mëndafsh e riporta altresì krymbi i mëndafshit per baco da seta e bubë (usato a Cerzeto per indicare i semini di rapa) e sirmë.50 Il termine utilizzato per baco è invece sirku (fara e sirkut, rritja e sirkut) di chiara derivazione calabrese.51 Padula V., Calabria prima e dopo l’Unità, a cura di A. Marinari, Ed. Laterza, Bari, p. 145, 1977. Ricorrente era la figura del cavaliere che combatte il drago, che si identificava con San Giorgio o Skanderbeg, e l’anja o barca utilizzata nella traversata dagli esuli unitamente agli ornamenti orientaleggianti. 48 Ti ho cresciuto da quand’eri in fasce/Ora che sei cresciuta mi hai girato la faccia/Povero me mi sono graffiato il viso/e sono rimasto come il baco sulla conocchia (testimonianza raccolta durante l’indagine). 49 Santori F.A., Emira, Ed. a cura del Prof. F. Solano, Scuola Tip. Italo-Orientale San Nilo, Grottaferrata, p. 259, 1984; “Non manchi loro la ricchezza/Né il consiglio e la saggezza:/come chioccia sui pulcini/sia l’arcolaio sul suo perno,/di matasse carico/ seriche e incannate../Nelle casse tante stoffe/ Siano quanta il mare ha sabbia.” (traduzione di Francesco Solano). 50 Leotti A., 1937:704. 51 Altrove lo stesso Santori ibidem, 1874:15 chiama il baco da seta “sirku” (Nëng përhapet fara e sirkut mos ng’e agëzon me dyllin e qërive të shënjtit, Motmadhi; non si espongono le uova del filugello se prima non le ha benedette Motmadhi con la cera delle candele del Santo). 46 47 — 162 — Seta e tessuti vari erano certamente conosciuti dagli albanesi al momento del loro arrivo in Calabria, ma tutti i termini, relativi all’allevamento, sono di chiara derivazione dialettale romanza. Risultano invece originari i termini botanici riferiti alle piante utilizzate durante l’ultima fase di allevamento e della trattura successiva: “korronciu i bardh e i zi” che indica il gelso sia bianco che nero, mëne è il frutto del gelso, a volte utilizzato anche per la pianta, fjera (le felci), usate per coprire le kanoje e katricolle dove tenere i bachi, shiesa e sparta (u scupulu è la ginestra, usate per prendere i capi del filo quando si bollivano i bozzoli per la trattura casalinga), riqia (erica) per far salire sulle siepi i bachi ormai maturi. Ma ritorniamo alla tradizione calabrese, esaminando più da vicino il ciclo del baco da seta attraverso i ricordi delle anziane contadine cosentine intervistate. Non si è potuto fare a meno di riscontrare una ricchezza lessicale straordinaria riferita alla cura, all’allevamento e alle fasi di crescita del baco, esattamente come per il ciclo del maiale. A maggio “u patrune” comprava “a simenta ’i síricu”, “coccitédde nìure cumu a simenta ’i rapa” e la quantità era di un’oncia “n’únza” perché questi pochi grammi riuscivano a riempire una stanza. Qualcuno comprava i semi a S.Giuseppe o il Sabato Santo ma il periodo più appropriato restava Maggio “allorquando sono sbocciate le gemme”.52 Il contratto di divisione del prodotto era di un terzo ai turríeri i contadini e a carico del padrone solo fogliame e seme, al resto pensavano i coloni.53 Era preferito il seme serico col bozzolo giallo, poiché il popolo lo riteneva più adatto e forte a sopportare malattie o altre avversità. La contadina, prima di incominciare l’allevamento, nascondeva un panno rosso in casa per tenere lontano un possibile malocchio. Infatti “u fascinu” avrebbe potuto colpire pure i semini del baco.54 Queste sementi venivano poste in una pezzuola di lino ripiegata quattro volte messa dentro “nu crivu”, un crivello, e tenuta al caldo nel proprio letto, “a ri pedizzi ”. Addirittura nella pezzuola si metteva un piccolo chiodo o un ago per scongiurare “l’affascino” 55 ma non era finita qui poiché il Sabato Santo al rintocco delle campane “quannu Cristu riviscìadi”, le ‘sirichére’, qualunque lavoro stessero svolgendo in campagna, entravano in casa e cominciavano ad urlare battendo “cu na cutícchja a ru tavulatu” “surici fora e cucuddu intra”, fino a quando non terminava il rintocco delle campane; in chiesa a Pasqua durante la recitazione dei vangeli di S. Marco e S. Luca le massaie sus- Cerchiara R., 1936:6. Dito O., ibidem, p. 48, 1916; e Grimaldi L., Studi statistici sull’industria agricola e manufatturiera della Calabria Ultra II, Napoli, p. 60, 1845. 54 Cfr. Bellusci A., 1961:70, nota 110; Dorsa 1879; Angarano F. A., 1973:215. 55 Cfr. Corso R., 1957:26. 52 53 — 163 — surravano in silenzio: “Cu ru Vangìelu secunnu Marcu ‘u siricu s’ammattule, cu ru Vangìelu secunnu Luca u siricu s’affuca”.56 Se dopo 8 -10 giorni il baco non era “sµuvatu” (cioè nato) la contadina portava la pezzuola al petto e cominciava ad invocare la protezione di “Santu Ciuppu” protettore dei bachi; il popolino come spesso succedeva confondeva il sacro con il profano e riconosceva in S. Giobbe il protettore dei vermi poichè viene rappresentato mentre questi insetti gli mangiano la carne. Anche S. Antonio, come per il maiale (cfr. Scola 1994), era considerato il protettore del baco e secondo l’uso rendese, alla fine dell’allevamento, “i monachíeddi ” (monaci) in nome di “S. Antonu di cucuddi” passavano per le campagne a raccogliere “a cunocchja cchjù bella” che le contadine avevano serbato per loro. Quando viene fuori il primo baco, la contadina soleva chiamarlo affettuosamente “u cavaddaru” perché appena nato faceva un salto su gli altri vermi, infine quando tutti i semini “eranu sµuvati” si bucava un grande foglio di carta con tanti forellini e si metteva sui bachi mentre su di essi si spargeva “u’ pampinu sminuzzatu d’u cìevuzu”, le foglie di cui si parla sono quelle del gelso bianco considerato più delicato anche se, dopo le prime mute, le bigattiere non disdegnavano di somministrare il gelso moro “u cìevuzu cappucciu” le cui foglie però risultavano poco digeribili, ma, sin dall’antichità, era considerato l’albero originario del nostro meridione. Pare che la qualità della seta, piuttosto grossolana, prodotta in alcune zone calabresi, dipendesse proprio dall’uso del gelso moro. I rami di quest’albero venivano sfrondati al mattino e le foglie ripulite dai filamenti verdi “spruggiàvamu u pampinu ’i taddi ”, inoltre accurata era la pulizia delle foglie macchiate o coperte di ruggine; bisognava lavarle con acqua limpida e poi asciugarle bene prima di darle al baco, questo per evitare problemi di umidità o putrefazione, che avrebbero nuociuto molto alla salute del verme.57 Bisognava avere grande cura anche dell’alimentazione, i bachi non dovevano mangiare né troppo né troppo poco perché come sottolineano grandi esperti di bachicoltura, la pulitura, il nutrimento e l’aria erano alla base della loro sanità.58 L’atto di dar da mangiare al baco si compiva due volte al giono, “s’adisµavadi u siricu matina e sira cu ru pampinu ’i cìevuzu”, badando che le foglie fossero sempre fresche o quanto meno ben conservate all’asciutto. Quando i bachi uscivano dai forellini della carta per salire sulle foglioline, era un momento di grande felicità tra le contadine che si informavano dell’evento come nei confronti di un bambino che sta per muovere i suoi primi passi. 56 Cfr. Accattatis L., ibidem, p. 707, 1977, Angarano F. A., ibidem, p. 216,1973; Corso R., ibidem, pp. 26-27, 1957. 57 Cerchiara R., 1936:9. 58 Il conte Dandolo, ibidem, p. 42, 1817; e Colosimo V., ibidem, p. 52-53, 1834. — 164 — A questo punto i piccolissimi vermi si disponevano in una grande cesta “na cistedda i paglia” badando bene che ci fosse sempre sufficiente spazio tra di loro. In questa fase “u siricu” era simile ad una “furmichedda nìura” e l’allevamento passava dal letto “a ru tavulatu” sia per una questione di spazio ma anche per paura che i topi potessero mangiarseli. Le fasi di crescita del baco corrispondono al momento in cui avviene la muta. Le mute si chiamano “sette” e corrispondono a 8 giorni di crescita “doppu 4 sette jette ra spoglia” e durante queste fasi è come se il baco andasse in letargo perché dorme e non mangia tranne che per l’ultima fase in cui – “s’abbutte cumu nu pùorcu Le nostre informatrici distinguono le mute dall’età vera e propria: – la prima età del baco è detta “angiuledda” mentre la prima muta “prùotu” e il baco è piccolo e nero; – la seconda età “artèra” e la seconda muta “arba” infatti il baco comincia a sbiancare il capo; – “trita” facilmente deducibile è la terza età, invece la terza muta si chiama “a cruci” al baco gli appare una specie di segno sulla testa, comincia a dormire e si dice “spoglia a trita”; – la quarta muta “a mmúnnu” il baco è ormai pronto a salire e si è ripulito di tutto. Durante le prime due mute le foglie di gelso si davano spezzettate ma dalla terza in poi gli si davano intere e abbondanti infatti si ricorda “spoglia a mmúnna o ti múnna o t’abbúnna”. I bachi facevano le prime due mute nelle ceste e le altre sui graticci, su tavole poste sul pavimento: “u siricu sta dui setti intra a cistédda e l’avutri apparati supa i tavuli o i cannízzi ”. I loro rifiuti i “ciríddi ” insieme al resto delle foglie non mangiate costituivano la “fusìa”, che si utilizzava come ottimo fertilizzante per la terra. La contadina insiste a parlare della pulizia del baco altrimenti “u síricu u’ ‘ncríscedi e intra ‘a fusìa si squade”. Quando la bigattiera andava “a ru tavulatu ppe adiscari u siricu facìemu u carrolicchju” cioè dei viottoli a croce per riuscire a passare senza “zampari u síricu sinnò si scattavedi e puzzava cumu n’uovu covatusu” perché giallo e maleodorante. Siccome capitava molto spesso di pestarne qualcuno per circa un mese e più nella casa dei contadini non si riusciva più a mangiare un uovo, né i fiori di zucca che lo ricordavano. I vermi mentre crescevano “fischiavanu” e per molto tempo nella casa non si dormiva, d’altra parte era facile che dalle fessure della soffitta, ogni tanto, ne cadesse qualcuno sul letto, proprio sulla faccia dei padroni di casa. A proposito del rumore che questi vermi producevano e del loro movimento molti anziani sono soliti dire ancora oggi riferendosi a persone che parlano molto “su ‘nnati u misi du siricu”. — 165 — Le bigattiere ricordano altresì, l’importanza delle condizioni atmosferiche, l’umidità, il freddo, il vento, lo scirocco rappresentavano dei grandi pericoli per il baco e motivo di ansietà per l’allevatrice che spesso procurava del fumo “a fúma”59 nell’ambiente, lasciando sempre però “nu spiragliu di ceramíli”; solo quando il baco saliva “supi i tùorni”, i ramoscelli pieni di foglie, e cominciava a filare si potevano lasciare aperte le finestre. Ma era soprattutto lo scirocco a creare un vero e proprio panico nella casa, la contadina ricorda: “Dice ru síricu: – un siti gniuranti che tutti stati speragna ccu mia, vue vi vestiti cu si fini panni, ma aru mercatu ci mpignati a mia. Pue vene lu sciruoccu e mi nni manne, e vue restati senza pregerìa! – 60 Il ciclo di crescita del baco dura poco più di un mese, all’ultima muta “u siricu si spoglia” e allora si preparano i ramoscelli con “cunócchj, pútami e rùosuli” così il verme su questo fogliame “fatiche, fa ru cucúddu e ppue ci more, pecchì síccadi”. Al settimo o ottavo giorno della salita finalmente si raccoglievano i sospirati “cucúddi”. I contadini pulivano per bene i bozzoli perchè poi c’era chi veniva a ritirarli. Quando qualche rimasuglio nei bozzoli sfuggiva alla pulitura si formavano i “palummédde”, ma questo accadeva raramente poiché la bigattiera vi prestava molta cura. Se l’allevamento dava buoni frutti, per augurarsi una produzione successiva altrettanto proficua, si aveva cura di conservare qualche bozzolo in segno di prosperità e fortuna futura. Naturalmente il lavoro non terminava qui poiché “a sirichera” a conclusione dell’allevamento per disinfettare l’ambiente imbiancava con la calce il soffitto, ricorda “‘nnanchiávamu cu cávuci u tavulátu”. I ramoscelli, serviti per la costruzione del bosco, a S. Giovanni come atto scaramantico, venivano accuratamente bruciati. La pulizia e la disinfezione ad allevamento ultimato non era cosa da poco infatti si poteva creare un ambiente adatto a germi pericolosi, proprio ciò che capitava in qualche paese: “…si ha notizia di sviluppo di malanni seri in vari paesi come Falconara Alb. ed a Monteleone…” 61 Come già abbiamo avuto modo di sottolineare la maggior parte delle malattie erano procurate dal modo rudimentale e malsano di allevare i bachi. Il baco per prosperare aveva necessità di stare in un ambiente asciutto, il troppo calore o peggio l’umidità provocavano una malattia detta “u giallúni” che li faceva mangiare in maniera vorace;62 oppure poteva morire “squadátu” quando non si eliminava tutta la sporcizia “a fusìa” e diventare sottile e delicato da essere persino bucato dalle foglie di gelso; con “u mali d’u signu” il calcinaccio il verme si copriva di una specie di calce bianca ed era come mummificato; un altro tipo di malattia frequente era detta “i gátte” quando sulla testa si formava una specie di increspatura, i vermi diventavano flaccidi e non crescevano; le malattie insomma erano tante e per alcune di esse, le nostre informatrici non ricordano il nome, ma solo i rimedi che si praticavano come per esempio l’immersione dei vermi in barattoli pieni di aceto, oppure metterli sotto la luce diretta del sole per qualche giorno. Finalmente l’intenso lavoro volgeva al termine e a confermare la presenza del pregiato tessuto che circolava abbondante nella nostra regione si diceva: – “ci nn’eranu i chiri tanti ci facíanu cuvérti e mánti, ci n’eranu i chiri fini ci facianu mantesíni” – 63 I risultati della stagione erano spesso al di sotto delle attese e questo per svariate ragioni che vanno dalla qualità dei bachi, alla imprevedibilità atmosferica, ma soprattutto, come abbiamo già sottolineato, per le malattie che a volte colpivano i bachi durante le fasi di crescita. Tuttavia, le instancabili donne di Calabria, si preparavano ad affrontare altre stagioni di allevamento con rinnovato entusiasmo riponendo, come sempre, le proprie speranze nella benevolenza di S. Giobbe ma senza rifuggire il ricorso alle ‘arti magiche popolari’ per scongiurare il ripetersi delle calamità. Note bibliografiche Accatatis L., Vocabolario del dialetto calabrese, Pellegrini Reprint 1977. 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(Dice il bacco: – non siate ignoranti che tutti riponete in me la speranza, voi vi vestite con questi indumenti pregiati, ma al mercato vendete me. Poi viene lo scirocco e mi fa morire e voi restate senza guadagno.) 61 Casella L.A., ibidem, p. 7, 1919. 62 Non si è capito però come mai a questo proposito si dice: – quannu arrive ru gialluni, fa riccu lu patruni. – 63 “Ve ne era tanta di seta grezza da farne coperte e mantelli, Ve ne era tanta di seta buona da farne mantellini.” — 166 — — 167 — Bartels J.E., Briefe ueber Kalabrien und Sizilien reise von Neapel bis Reggio in Calabrien, in Viaggiatori a Monteleone 1526-1926, a cura di Alberto Borello, Ed. Mapograf, Vibo Valentia 1992. Barrio G., Antichità e luoghi della Calabria (Trad. italiana di E.A. Mancuso), (Roma1571), (Ristampa Edizioni Brenner, Cosenza, 1979). Battaglia R., Porto e Commercio a Messina 1840-1880, Editori Meridionali Riuniti, Velletri, 1977. 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Taruffi D. – De Nobili L. – Lori C., La questione agraria e l’emigrazione in Calabria, Firenze, Barbera, 1908. — 172 — — 173 — Animali domestici e selvatici nella zoonimia popolare calabrese Anna Scola Lo scopo di questo lavoro è quello di iniziare uno studio sulla zoonimia popolare calabrese, con particolare riguardo all’area rendese e a quella silana. Prenderemo in considerazione, in questa sede, solo una parte del corpus lessicale di cui disponiamo e che si riferisce alle fasi di crescita di alcuni animali domestici e selvatici, all’attività riproduttiva e al consumo della loro carne inteso come occasionale o abituale.1 Un approccio sulla zoonimia popolare offrirebbe tanti altri spunti di riflessione e studio, per esempio ad un’accurata ricerca sulle malattie e sui rimedi, sulle funzioni alimentari o sulle ricorrenze rituali, sacre e profane inserite in un contesto antropologico di grande spessore culturale connesso a questo specifico settore del lessico. Infatti, la cultura orale è talmente viva in Calabria, che, ancora oggi, non è stata messa in crisi neanche dopo i profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni. Che il maiale avesse un posto di primo piano nella vita del contadino tanto da condizionarne l’esistenza è un dato di fatto che abbiamo avuto modo di constatare nelle nostre ricerche precedenti.2 La macellazione del maiale, carica di valenze rituali di antica origine, ancora oggi persiste nella nostra cultura. D’altra parte la centralità di questo animale è testimoniata anche da antichi proverbi e racconti che persistono tenacemente nella tradizione calabrese. La ricchezza lessicale legata alle fasi di crescita ed alla attività sessuale del maiale non si riscontra in nessun altro animale domestico che pur faceva parte della grande famiglia del contadino. La specificità terminologica si può estendere ad altri animali d’allevamento come la pecora, la capra, la mucca ma senza quella differenziazione che è propria del ciclo del 1 2 Si veda Trumper, Maddalon, Scola, Napoli, 2002. Scola, 1994, 1995. — 175 — maiale. Per gli animali selvatici, invece, i nostri informatori non hanno fornito una distinzione particolarmente dettagliata né per il sesso, né per l’età, né per l’atto della riproduzione. Se mettiamo a confronto gli alberi lessicali riguardanti i suini si nota subito, che l’italiano (fig.1) limita la propria terminologia a porcellino/maialino porco/maiale scrofa/troia cioè due cicli di crescita, passando direttamente dal piccolo all’adulto. Inoltre la differenza tra gli adulti è basata solo sulla diversità del sesso. Anche la presenza dei diminutivi e degli accrescitivi del termine di base hanno un valore puramente grammaticale e cioé dispregiativo o vezzeggiativo. La stessa osservazione vale per la terminologia veneta,3 in cui i termini legati ai suini sono molto simili a quelli dei bovini, e non c’è la specificità lessicale che esiste nel calabrese. Troviamo mas’cio e mas’ciame che è il termine usato per il suino in generale, si distingue soltanto il vèro (verro) dalla lùia/ròia (scrofa) per l’attività riproduttiva. Persino l’Arbëresh di Calabria, minoranza linguistica molto conservativa ma soprattutto popolo con antiche tradizioni agro-pastorali, presenta una schematicità di termini sorprendente, se si pensa alla importanza che la pastorizia e l’allevamento degli animali rivestivano presso di loro. Infatti per il piccolo del maiale si usa il termine rikazë, poi ripasielë/ripasë su calco del termine calabrese, e senza distinzione di sesso; l’animale adulto diventa derk che si usa anche per la femmina adulta. Il derk si riferisce comunque, all’animale castrato o alla quale sono state aspor3 Tardivo, 1998. — 176 — tate le ovaie. Abbiamo il passaggio al termine hak per il maschio e dosë per la femmina allorquando vengono utilizzati per la riproduzione. In Trumper 1992, si è constatato che l’Arbëresh ha fornito alla ‘lingua nascosta’ dei ‘quadarari’ di Dipignano il lessico per definire il maiale ma con una singolare inversione dei sessi. Infatti, il maschio è chiamato dercu, grignutu ma anche dossu cioè col termine che si riferisce alla femmina, mentre per il verro solo col termine dossu e la scrofa dossa. Quindi c’è un chiaro passaggio di genere. Esaminando la fig. 2 notiamo che nel calabrese la differenziazione per sesso offre un campo lessicale maschile molto più ricco rispetto a quello femminile, con maggior numero di sottoclassificazioni. Per età, poi, vi sono addirittura sottoclassificazioni minuziose che riguardano anche i mesi di vita per esempio: per il maschio: chiríddu (appena nato), rivùotu (fino a tre mesi circa), passatùru (fino a cinque, sei mesi), terzinu (fino a sette/otto), porcastru, pùorcu e verri. Per la femmina: purcedduzza (di pochi mesi), fresínga (si riferisce al primo parto di una femmina molto giovane di 6/7 mesi) purcedda, pùorcu/scrufa. Entrambi i campi sono legati a particolari momenti di crescita con una ulteriore sottoclassificazione che si riferisce alla loro minore o maggiore capacità riproduttiva: porcastru, verri/pùorcu e fresínga, purcedda, suva, scrufa/pùorcu Per quel che riguarda l’atto dell’accoppiamento, il calabrese utilizza “suvare” un termine che non è stato mai dimenticato. Quando la scrofa viene condotta dal compagno si dice infatti portari a suva. Invece per la castrazione, opera du grastatúri o grastapurcíeddi, si usava un tempo “sanari”, solo più tardi sostituito dal termine “grastari”. L’Italiano non conosce termini totalmente equivalenti a quelli — 177 — dialettali così specifici e puntuali nemmeno per definire l’atto dell’accoppiamento. Cosicché in riferimento ad altri animali domestici quali la capra, nel calabrese troviamo il termine “sirciári”, per la pecora “anijári”, per la gallina “carcári” e via dicendo. Per quel che riguarda il cinghiale, “u cignalu” ha la stessa terminologia del maiale solo in riferimento alle sue parti e ai prodotti che derivano da esso, mentre non c’è riferimento alcuno alle fasi di crescita o alla riproduzione. Certamente perché considerato un cibo occasionale legato alle battute di caccia in cui, per esempio, la figura femminile restava completamente estranea. La sua macellazione incomincia con “na singa a ru xkínu”,4 un segno sulla schiena per poterlo dividere equamente tra i partecipanti la battuta di caccia. Questo esemplare si differenzia dal parente domestico per il pelo scuro e folto, la presenza di zanne, “i scagliúni” che rappresentavano un trofeo per il cacciatore, gli zoccoli e certamente la mancanza di rituali particolari legati alla sua macellazione. Il cinghiale ama fare “u ‘mbruscinatúru” rotolarsi in pozzanghere “sugliatúri” per eliminare i tanti parassiti presenti nel suo folto pelo. Le sue lunghe setole “i’nzíti” erano molto ricercate e apprezzate dai calzolai che le adoperavano come aghi.5 La tradizione del maiale si è tramandata nel tempo più di qualunque altra, per la possibilità di conservare i suoi prodotti (con l’uso di abbondante sale e di peperoncino), in grado di coprire il fabbisogno alimentare di un anno, altresì per l’adattabilità dell’animale ad ogni tipo di clima e di cibo. Non dobbiamo dimenticare che nei paesi della Calabria, fino all’inizio del secolo scorso, le condizioni del contadino erano veramente miserrime e “fari u puorcu” era un evento eccezionale e prioritario, poiché rappresentava il sostentamento principale per ben dodici mesi. Il ciclo di crescita del maiale scandiva così la vita della famiglia contadina ed era tenuto con tanto riguardo da essere considerato un “re”, certamente era “u patrúni d’a casa”.6 Nella cultura popolare calabrese inoltre, la superstizione regnava incontrastata, alimentata anche dalle condizioni orografiche dei paesi, spesso comunità isolate, e dalle mancanza di strutture sociali adeguate. In quella società arcaica i contadini cercavano soluzioni ai loro problemi attraverso rimedi naturali e soprannaturali. Era forte la commistione tra sacro e profano, magico e terapeutico. Questo carattere è riscontrabile anche nell’allevamento e nella macellazione del maiale. 4 Si noti la differenziazione lessicale tra catrèja ‘schiena’ (parte umana) e škínu ‘schiena’ (parte animale). 5 A tal proposito ricordiamo l’indovinello: “a crapa fa ra casa, u voi i pedamenti, u puorcu esce e trase ‘ppe ‘bbia d’i ferramenti” Si descrive figuratamene la scarpa: la capra fornisce la materia prima per la tomaia, il bue il cuoio per la suola, il maiale dà le setole che vengono adoperate come aghi con l’aiuto di un punteruolo. 6 Molti sono i proverbi legati al maiale o ai prodotti che da esso si ricavano, in riferimento alla centralità dell’animale nella zoonimia popolare ne riportiamo qualcuno: “Quannu ti ‘nzuri sta cuntientu nu jiurnu, quannu ammazzi u puorcu sta cuntientu ppe nnannu” quando ti sposi stai contento per un giorno, quando ammazzi il maiale stai contento tutto l’anno. “Mìegliu crìsciri pùorci ca figli, puru l’ammazzi ti ‘nnunti u mussu e ti ‘nninchje nna casa” chiaro riferimento ai figli ingrati, meglio crescere il maiale che i figli, perché il maiale quando lo uccidi te ne ungi la bocca e ti riempie la casa. — 178 — Per l’uso terapeutico e magico possiamo elencare una notevole serie di usanze come la presenza di una croce rudimentale posta accanto “a ra quadára” per ingraziarsi il cielo; una, non ben identificata, “manu pilusa” che durante la notte verrebbe a rubare le cotiche “i frittuli” dal calderone; la preoccupazione che persino le parole di apprezzamento riferite al maiale potessero “fari scarmari u puorcu” cioè farlo deperire. E cosa dire dell’attenta osservazione della luna prima delle tre giornate dedicate alla macellazione, doveva essere necessariamente “a mancanza” per evitare la putrefazione della carne nel caso in cui fosse stata crescente “a ra criscenza”. Per la buona riuscita dei salami, poi, era considerata una sciagura il flusso mestruale per le donne che partecipavano alla lavorazione degli insaccati, e quando i salami andavano a male a causa di ciò, venivano detti “ncipuddati”. Si traevano profezie – in riferimento al sesso di un prossimo nascituro delle donne della famiglia – dall’omento, dal rene e dalla membrana che tiene uniti gli intestini “u velu, u rinu, a cuddúra”, a seconda che questi venissero trovati chiusi, aperti o incappucciati durante la macellazione. Inoltre le interiora insanguinate rappresentavano un segno di prosperità per la famiglia. Sputare più volte per terra esclamando “benedica, ùottu e novi fora affascínu” aveva un significato esorcizzante poiché alla saliva era attribuito il potere magico di difendere dagli incantesimi.7 Persino sognare l’animale era indice di buon augurio e di ricchezza. Altresì mangiare “a purceddara”, la vulva, preservava dal malocchio, tradizione questa di origine romana come ricorda Apicio, il quale include la pietanza tra i POLITELES,8 i cibi da re. Anche nel vassoio delle meraviglie del Satiricon, in cui ad ogni segno zodiacale era associata una pietanza prelibata, al segno della vergine era offerta proprio una vulva di maiale.9 Tra le pratiche rituali connesse alla fase di macellazione, i nostri informatori ci hanno sottolineato l’importanza della presenza del primogenito che doveva per primo affondare il coltello, “u scannatúru”, nella gola del maiale. Questo rappresentava un segno di buon augurio per tutta la casa ed un rituale iniziatico che segnava il passaggio all’età adulta. E che dire dell’uso terapeutico di utilizzare persino il letame “a litama” per curare calli e geloni o come cicatrizzante delle ferite degli alberi. Né “u vurpíli”, il sesso del maiale, mancava mai dalla bottega “d’u mastru d’ascia” il falegname, il quale lo utilizzava per ingrassare le lame delle sue seghe. Ogni sua parte veniva consumata o utilizzata: un vecchio proverbio recita che del maiale non si butta via niente, cioè “di nu ruviezzu tinni dugnu nu piezzu, di nu maiali unn’haiu chi ti dari”. Le portate principali nei giorni di festa erano a base di maiale per la prelibatezza e la varietà delle sue carni. Un pranzo degno di questo nome cominciava sempre con “u súzu”, una particolare gelatina di pezzetti di carne 7 8 9 Scola, 1991. Apicius lib. VII.1 (252-7). Satyricon XXXV “Super uirginem steriliculam”. — 179 — (della testa) e cotiche in aceto molto forte, non mancava mai “a supressata e ru capiccùoddu” o “a sazizza arrustuta a ra gradiglia”, continuando con “a carni ‘ncantarata” da cucinare col pomodoro per condire “i maccarruni” insieme ad un’altra tipica pietanza “i purpetti e cappucciu” e ancora “pitta ‘ccu scarafuogli” . L’alimentazione del contadino calabrese, si basava su un cibo quotidiano molto poco calorico rispetto al lavoro che si svolgeva nei campi, essenzialmente sul consumo di prodotti coltivati con sistemi arcaici, soprattutto pane di segale o di castagne ed ogni tipo di leguminosa. Le festività religiose, le ricorrenze familiari, il calendario agricolo e le famose “scialate” erano, pertanto, le sole occasioni per poter consumare una varietà di cibo, soprattutto a base di carne, in cui il maiale con i prodotti da esso derivati e conservati rivestiva un ruolo di primo piano in quell’economia rurale soggetta all’imprevedibilità dell’andamento atmosferico. La provvista diventava quindi essenziale infatti, tale società, è descritta anche come “economia della provvista”. Lo sfruttamento del maiale si adattava perfettamente allo scopo. Durante la mietitura, per esempio, mangiare “vúhhju ccu ccicérchije” rappresentava una riserva notevole di grassi con cui affrontare il lavoro estenuante dei campi ed anche per sopportare la rigidità di molti inverni. Ecco perché questo principe degli animali veniva coccolato dalle donne di casa con mille premure e attenzioni. Allorquando sopraggiungeva qualche malattia, nella casa sembrava calare la disperazione più nera. Per esempio “a russìa” faceva coprire il maiale di macchie rosse per cui il contadino si improvvisava esperto guaritore e “signave ra ricchia” cioè tagliava un orecchio all’animale malato per poter fare defluire il sangue. Altre temutissime malattie erano “i jòrde” e “u grùoppu”, le quali necessitavano delle cure particolari, “i carmi” delle famose “magare”, ma certamente non è questa la sede per affrontare anche questo aspetto. A questo punto, il nostro excursus zoonimico non può fare a meno di accennare al consumo della carne di alcuni animali selvatici per uso alimentare occasionale e non ed in riferimento al concetto di ± allevato. Tra le carni occasionali spiccano il tasso, il ghiro e la volpe “milogna, gliru, vurpi canina/gurpi talvolta za’ Rosa” (nome tabuizzato molto frequente nella zoonimia popolare di molti paesi).10 Nell’arte culinaria di Apicio sono presenti anche il ghiro e la volpe. Nella preparazione del cibo popolare calabrese si riscontra la continuità della tradizione antica, nonostante le ricette del grande cuoco, siano particolarmente aristocratiche e non certo scritte per il popolo. Per gli animali selvatici il calabrese non usa distinzione di sesso, né alcun termine particolare che possa riferirsi all’attività riproduttiva. Esiste solo un termine unico per l’adulto, maschio o femmina nel caso del tasso “mulogna” e “cuzzunieddi” per i piccoli. Comunque l’uso alimentare di alcuni di questi animali era 10 Alinei M., 1981/82; Alinei M., 1994. considerato normale e non occasionale, come si pensava in un primo momento. Per esempio il tasso in alcuni paesi si mangiava abitualmente ed era considerato il cibo per eccellenza allorquando si organizzavano le ciambotte tra amici. Nelle zone esaminate la tradizione popolare distingue due forme, “a mulogna canina” più piccola e di colore marrone, da quella “purcina” più grossa con una specie di ‘maschera’ facciale bianca e nera che contrasta fortemente col pelo grigio spento della schiena e con il nero delle parti inferiori e delle zampe (i parlanti non basano il riconoscimento solo sulla morfologia poiché entrano in campo anche altri fattori).11 Biologicamente esiste una sola specie, il riconoscimento didue tipi differenti, da parte dei parlanti, rispecchia un processo ben noto agli etnolinguisti. Il tasso è descritto come un animale molto pulito al punto che scava delle fosse non molto profonde chiamate “u cacatúru da mulogna”, in cui deposita gli escrementi: naturalmente queste ‘tracce’ le facevano scoprire e catturare facilmente. Discorso a parte merita il ghiro. Per una generale classificazione del piccolo animale si vedano i lavori di Trumper et al. 2002, riferiti ad un’ampia area calabrese. I nostri informatori invece appartengono, come abbiamo sottolineato inizialmente, alla campagna rendese e alla zona di Bocchigliero, un paesino silano un tempo molto isolato dalle vie di comunicazione. Sono stati riconosciuti il Glis, il Muscardinus, e il Quercinus, anche se spesso con scambi di genere. Il primo è usato per scopi alimentari e viene chiamato gliru - agliru o cardamuni e i piccoli cardacchji, ha il pelo grigio e la coda grossa e pelosa. Il secondo è un ghiro rosso, biondiccio, con la coda sottile che somiglia ad un topo ed è detto nitìla senza nessuna ulteriore distinzione tra maschio e femmina. Solo i piccoli sono denominati nitilìcchji con il diminutivo. A zaccanedda invece è più grande e scura con la coda grossa. Ma su questo i nostri intervistati non hanno fornito nessuna particolare spiegazione. Il periodo in cui si cacciavano i ghiri era da giugno, con il fiorire dei castagni, fino ad ottobre. Si cacciavano in due modi con la trappola o con il fucile. Nel primo caso, naturalmente, si prendevano vivi. Da casa si partiva premuniti di un gran numero di trappole rudimentali dette “petrángule”. Si usciva di mattina o nel primo pomeriggio per trovare la tracce lasciate dai ghiri sotto gli alberi di castagno. I piccoli animaletti erano ghiotti del frutto appena formato e per poterlo gustare eliminavano a strisce l’involucro esterno spinoso, il riccio, che costituiva la prova della loro presenza sull’albero. Ai piedi del castagno c’era quindi il resto del pranzo “u’ jìettu”. E siccome il ghiro è abitudinario ritornava sempre sugli stessi alberi dove aveva consumato il pasto. Su rami di alberi diversi si ponevano “i fraschi” incrociati per reggere meglio la trappola. All’interno del congegno si sistemava “a mangicognola a’ ru spizzíngulu” pezzetti di mela e pera conficcati in una specie di ferro ricurvo. Singolare il metodo per far avvicinare il ghiro alla trappola. Si usava crea11 — 180 — Trumper J., Maddalon M., Scola A., 2002. — 181 — re una specie di traccia detta “u sbruffu”. Questo consisteva nel mangiare una mela o una pera, ridurla in poltiglia e sputarla sugli altri rami dell’albero fino al punto desiderato creando un vero e proprio sentiero. La prima fase, preparatoria era terminata. Bisognava ritornare sul luogo la mattina dopo a controllare il risultato di tanti sforzi. Se ne catturavano infatti 5, 6, 7 a seconda delle trappole di cui si disponeva. Per poterli vedere non si poteva introdurre impunemente la mano nella trappola poiché c’era il pericolo che mordessero. Allora si capovolgevano in un piccolo sacco di iuta “ na saccuccella” e piano piano dal di fuori si cercava, attraverso il sacco, di prenderli per il collo, e finalmente si poteva esclamare “chi bellu máttulu”. E già si pregustava la delicatezza del pranzo. I ghiri, però, non si ammazzavano subito ma venivano riposti in una grossa scatola di legno “a gliràra” foderata all’interno con lamiera, “a lánnja”, per evitare che i piccoli ghiri rosicchiassero dappertutto il legno e riuscissero quindi a scappare. Molte volte si allevavano per farne un bel numero e consumarli poi nei giorni di festa e soprattutto, a Bocchigliero, per il giorno del santo patrono S. Rocco o per un ospite di riguardo. Quando si decideva di consumarli subito venivano tramortiti “a ra cunigliara” cioè con un colpo secco sulla testa oppure con “u pizzifìcu” un coltello appuntito alla gola. Si metteva a bollire l’acqua “pe ru spinnari” e diventava bianchissimo, con una apertura sul torace si eliminavano le interiora, prestando particolare attenzione a non schiacciare il fiele che avrebbe conferito alla carne un sapore molto amaro. Quando si cacciavano con il fucile la procedura non cambiava, bisognava sempre cercare di giorno la traccia “u jìettu” che attestava la loro presenza, ed individuati gli alberi, si attendeva il buio nel bosco. I ghiri uscivano infatti, solo dopo la mezzanotte allorquando cominciando a far chiasso con il loro verso acuto saltavano, anche due, tre per volta, da un ramo all’altro. Ma nell’attesa, il silenzio doveva essere assoluto. Ad un certo punto una pila illuminava gli animaletti i quali restavano storditi dalla luce e bloccati durante la loro chiassosa passeggiata. Il compagno del cacciatore sparava un solo colpo prendendone più di uno. Si ritornava al silenzio assoluto per ricominciare da lì a pochi minuti con lo stesso procedimento. La cosa singolare è che pur non essendo un consumo occasionale, poiché si consumava almeno una o due volte a settimana, per circa 4/5mesi, non esiste un termine specifico per la femmina né per l’atto della riproduzione. Naturalmente ci riferiamo sempre alle nostre aree geografiche di indagine (Rende, Cosenza, Bocchigliero). Si gustava ogni parte del ghiro, inclusa la testa. Si preparava solo in due modi: allo spiedo “a ru spìtu” o con il pomodoro “cu ra cunserva”. Apicio, lo prepara al forno farcito con carne di maiale. Sulla tavola di Trimalcione, nel Satiricon, compare, invece, servito con miele e papavero. Ritornando alle nostre tradizionali ricette, nella prima preparazione, i ghiri si infilzavano con uno spiedo rudimentale, uno accanto all’altro poiché erano molto piccoli e si facevano cuocere al camino, mai a fuoco vivo, ma lentamente sulla brace, di tanto in tanto si bagnavano per mezzo di “nu scupuliddu ’i rìganu”, con una salsina a base di olio, aceto, sale, origano e nel giro di 20 minuti si potevano gustare in tutta la loro delicatezza accompagnati dalle verdure stagionali, necessariamente sotto aceto. Nella seconda preparazione si faceva un battuto di lardo, olio, pastinaca, muddica i pani e petrusinu e col composto si farciva il ghiro, richiudendolo con “scorparìeddi ’i rìganu”. Nella pentola si faceva rosolare il ghiro con l’olio e il lardo poi si aggiungeva la conserva di pomodoro e si copriva di acqua. A fine cottura la salsa serviva a condire una pasta particolare “i cavatìeddi” preparata solo con farina e acqua, si tiravano dei bastoncini lunghi dello spessore di un dito e si tagliavano circa di 5 centimetri di lunghezza per poterli incavare con le due dita della mano. A piacere si potevano preparare i “maccarrúni” un tipo di tagliatella grande, sempre presente sulla tavola calabrese. Sulla pasta condita si spolverava infine abbondante pecorino oppure ricotta dura affumicata. Questa pietanza si accompagnava con olive nere “alivi nivuri ammùollu ccu salimora e finùocchju i timpa” oppure con olive verdi “a ra cónza” cioè preparate con la cenere e la calce viva. Il consumo della volpe invece, era veramente occasionale. La frequenza con cui compariva sulla tavola era di una, massimo due volte l’anno “a ra nivicata”. La presenza della neve era fondamentale poiché con il freddo “za rosa” si avvicinava al centro abitato. Pittoresco il modo di catturarla sulle montagne della Presila. L’esca era rappresentata dalla frittura di ossa e cartilagini varie del maiale, che sprigionavano molto profumo. Si metteva “a mangicognola” in un contenitore e si usciva verso i boschi di castagni spingendosi più lontano possibile. Al ritorno, come Pollicino, si cominciava a lasciare una traccia di cibo, “u richiámu”, distante l’una dall’altra, fino al luogo in cui si appostavano i cacciatori. A tiro di fucile si lasciava poi tutto il cibo rimasto e cominciava l’attesa. I cacciatori preparavano per bene il loro ricovero, dal pianterreno di una abitazione, asportavano la porta di vetro o di legno per sostituirla con una tela molto grande che servisse a nascondere gli uomini appostati, ma che permettesse anche di controllare fuori senza far rumore, facendo uscire all’esterno la canna del fucile. Dopo la mezzanotte si scorgeva in lontananza sopraggiungere cauta e attenta la volpe 12 che con circospezione si avvicinava man mano a tutti “i richiami” di cibo. Giunta sotto tiro si sparavano con la doppietta due colpi soltanto. Ciononostante, ferita a morte, si allontanava verso il bosco ma le tracce di sangue lasciate sulla neve — 182 — — 183 — 12 Tra i proverbi che evidenziano la scaltrezza della volpe: “A vurpa si sarve ccu ra mastra vota”, La volpe si salva cambiando spesso direzione. “A vurpa vecchia scanse ra tagliola”, La volpe vecchia sa evitare la trappola. la facevano ritrovare facilmente. Veniva subito scuoiata, “scurciata”, si eliminava la testa non commestibile e si sezionavano i pezzi di carne ponendoli per un paio di giorni, in acqua con aceto che si rinnovava ogni tanto per “sbommicáre” cioè far fuoriuscire tutto il sangue, perdere l’odore di selvaggio e per far diventare morbida la carne. La preparazione della “vurpa canina russa” è una sola “stufata con le patate”. Olio in cui mettere a soffriggere i pezzi di carne, odori vari tra cui predominava “a pampinella i lauru”, acqua per permetterne la cottura, ma soprattutto in questa preparazione non poteva mancare “u pipi russu macinatu” lo stesso che si usava per la preparazione dei salami. A cottura ultimata si riversava il tutto in una panciuta zuppiera e ci si preparava “a ra cozzivíglia, a ra scialata” con gli amici. La carne si consumava con pane “arrustutu” e con “pipi all’acitu” particolari peperoni piccoli, verdi e tondi sempre presenti nella provvista di casa che avevano, per intenderci, il compito del sorbetto come tutte le conserve sott’aceto. Naturalmente le pratiche alimentari della famiglia contadina, connesse alla preparazione, al consumo, al ciclo stagionale così come l’uso delle erbe, delle pratiche religiose e magiche, e tanti altri aspetti ancora, meriterebbero certamente un’analisi più approfondita che non può certo esaurirsi in queste pagine, sia dal punto di vista linguistico che da quello delle tradizioni popolari. NOTE BIBLIOGRAFICHE Accattatis A., Vocabolario del dialetto calabrese, Pellegrini Reprint, Cosenza, 1877. Alinei M., Barbagianni “zio Giovanni” e altri animali parenti: origine totemica degli zoonimi parentelari, in “Quaderni di Semantica”, II, pp. 363-385, 1981/82. 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Baroni 2 nel 1939: «il lago fu detto anche mare a causa della vasta sua estensione che doveva essere di circa 30 Km. quanti ne corrono da sotto Rivolta a Castiglione d’Adda in lunghezza e 8 a 10 in larghezza quanta si può calcolare da Marzano a Monte Cremasco. [...] Era naturale che nelle isole o tratti di terreno emergenti dalle acque del vasto padule, gli uomini di quell’antico tempo, bisognosi di terre per i pascoli e per produzione di cereali ed altro, vi cercassero rifugio e vi ponessero le prime abitazioni. [...] Alle isole si alternavano le distese delle acque in comunicazione fra loro: ma poi, quando per il ritirarsi dei ghiacciai sulle Alpi diminuì il volume delle acque dei fiumi e le continuate alluvioni alzarono il fondo del padule, le acque si raccolsero nei punti più bassi, nelle capaci buche, formando tanti separati laghi, dei quali abbiamo memoria nella storia nostra con i nomi di laghi di Galgagnano, di Arcagna, del Pulignano e di Selvagreca». Sordi, Leggende sulle acque in Lombardia, p. 83. A. Baroni, Il Lago Gerundo, «Archivio Storico per la Città e i Comuni del territorio lodigiano e della Diocesi di Lodi» 58 (1939), pp. 161 sgg.; citato da Sordi, Leggende sulle acque in Lombardia, p. 88. 1 2 — 186 — — 187 — Questa leggenda corre da molti secoli. Lo storico lodigiano Defendente Lodi,3 che si occupa a lungo del «Mar Gerondo» nei Discorsi historici in materie diverse appartenenti alla città di Lodi (Lodi 1629), riporta tradizioni diverse: da un lato abbiamo testimonianze cinquecentesche di impianto “storico” (il cronista lodigiano Vincenzo Sabbia, 1511) che ci parlano di un lago domesticato, ricco di porti e attracchi e solcato da barche e navi;4 dall’altro testimonianze di impianto “mitico”, che narrano di una mefitica palude abitata da un gigantesco drago: «Il drago si generò entro il suddetto Mar Gerondo infetto dalla putredine delle acque ritenute alla foce del Po dal potervi sgorgare, e per lungo tempo infracidite. Atterriva con l’aspetto, ma peggio nuoceva con l’halito, che l’aria circostante per grandissimo spatio infettava».5 Su un punto concordano Lodi e Baroni: il Mar Gerondo era un «vasto padule». In questo ciclo mitico “mare”, “lago”, “palude” risultano essere sostanzialmente sinonimi. 2. I palù «si costituiscono in zone generalmente depresse rispetto al piano di campagna circostante, su profondi strati di terreno argilloso, compatto ed impermeabile che genera il fenomeno della risorgenza delle acque. Il paesaggio è costituito da prati più o meno estesi e dalle forme più o meno regolari, spesso a forma di “schiena d’asino” per facilitare il defluire delle acque, circondati da folte siepi e alberature, che conferiscono loro le caratteristiche dei bocages. A loro volta le alberature accompagnano i corsi d’acqua [...] che costeggiano i prati e i campi. La caratteristica ecologica principale di questi ecosistemi è di conseguenza quella della grande varietà di habitat che si genera, costituita da ambiti umidi, ecosistemi ripariali e retroripariali, da formazioni boschive, reticoli di siepi, corsi d’acqua dall’andamento naturale e sinuoso, polle risorgive, praterie stabili, ecc.».6 «Nessuno abita nei palù. Non si abita nei palù. Gli abitati si situano al margine dei palù».7 Paesaggi selvatici, non coltivati, sono «spesso percepiti e definiti anche come “bosco”»;8 sono luoghi di raccolta di foraggio, strame, legna, arbusti, limo, e di un’erba palustre (carice, Carex sp.), chiamata el palù, usata per l’intreccio e per impagliare le sedie.9 4 5 6 7 8 9 (a) “Il mare” «i di$éa che era èl mar, na òlta, cusì la contéa lóri, nó sò. E dopo co l’é vegnést, nó sò mi se pòse èser véra, quando che l’é vegnést la fine del mondo, perché èl mondo l’é sempre stat, véra, aeóra i à cambià le cose dell’aqua, le po$isión, lóra èl mar i l’à fat par là e qua i é restàdhi, i ghe ciàma ancora palù apósta perché drìo ’l mar ghe n’é sempre èl palù [...] ma pure i di$éa che na vòlta i era èl mar». [Dicevano che era il mare, una volta, così raccontavano loro, non so. E poi quando è venuto, non so io se possa essere vero, quando è venuta la fine del mondo, perché il mondo è sempre stato, vero, allora hanno cambiato le cose dell’acqua, le posizioni, allora il mare lo hanno fatto di là, e qua sono rimasti, li chiamano ancora palù apposta, perché lungo il mare c’è sempre il palù [...] eppure dicevano che una volta c’era il mare]. (b) “Il lago del Piave” Etimologicamente collegati a “palude” sono i palù trevigiani, ecosistemi che si estendono lungo la linea delle risorgive, caratterizzati da prati umidi, alberi e siepi: 3 Nadia Breda, nella sua ricerca sui palù del Quartier del Piave,10 ha raccolto a Mosnigo di Moriago (Treviso) numerose attestazioni di una credenza secondo la quale dove ci sono ora i palù prima c’era un lago o addirittura il mare.11 Si veda il citato saggio di Sordi, Leggende sulle acque in Lombardia. Lodi, Discorsi historici, pp. 401-402; cit. da Sordi, Leggende sulle acque in Lombardia, p. 84. Lodi, Discorsi historici, pp. 420 sgg.; cit. da Sordi, Leggende sulle acque in Lombardia, p. 86. Breda, Palù: paesaggi veneti e culture del nordest tra conservazioni e devastazioni, p. 16. Breda, Palù: paesaggi veneti e culture del nordest tra conservazioni e devastazioni, p. 15. Breda, Palù: paesaggi veneti e culture del nordest tra conservazioni e devastazioni, p. 15. Breda, Palù: paesaggi veneti e culture del nordest tra conservazioni e devastazioni, p. 18. — 188 — «èl $bóco qua de Falsè nó’l ghe gera, èl Piave l’era fermo, insóma qua a Mo$nìgo l’era un lago, l’era un lago fin a un chilometro sóra qua e dopo sul stradón là da lù nó l’era, un chilometro pi ’n dó [...] era èl Piave che formava quél lago, quéla colìna là l’é tera riportàdha...che quéa tera l’é riportàdha me l’à contàdha anca a mi i vèci, quando l’é andàt via èl lago èl Piave scoréa giù, l’aqua l’é andàta anca qua, se no qua era un lago, fin sul Piave, dai palù, cusì contéa me nono e so pare de me nòno e anca pól crédher quéa facenda, basta védher la cocùsola là». [Lo sbocco qua di Falzè non c’era, il Piave era fermo, insomma qua a Mosnigo c’era un lago, era un lago fino ad un chilometro sopra qua e poi sullo stradone là da lui non c’era, un chilometro più giù [...] era il Piave che formava quel lago, quella collina là è terra riportata, che quella sia terra riportata l’hanno raccontato anche a me i miei vecchi, quando è andato via il lago il Piave scorreva giù, l’acqua è andata giù anche lei, altrimenti qua c’era un lago, fino al Piave, dai palù, così raccontava mio nonno e il padre di mio nonno, e anche si può credere a quella faccenda, basta vedere la cocuzzola là]. 10 Si veda la sua tesi di laurea I palù. Una ricerca di etnoscienza sui palù del Quartier del Piave, e il volume Palù. Inquieti paesaggi tra natura e cultura. Inoltre: Breda, Tassonomie popolari e osservazioni demologiche su specie vegetali di area trevigiana (Mosnigo di Moriago); Breda, Tassonomie botaniche popolari nei palù di Quartier del Piave; Breda, Palù: paesaggi veneti e culture del nordest tra conservazioni e devastazioni. 11 Uso il sistema di trascrizione semplificato RID «Rivista italiana di dialettologia» (cfr. Sanga, Sistema di trascrizione; Sanga, La grafia dei dialetti). — 189 — (c) “Il lago” contéa che qué-e ce$éte là i le à fate apositaménte perché qua ghi n’era na spècie de lago insóma, i l’à fate che i vivéa là na volta ah! e nó i podhéa vegner pi basi perché ghi n’era sto lago qua». «na volta i di$éa che qua l’era un lago, i di$éa che fóse stat èl Piave, ma a mi nó me risulta perché mi e me fradhèl vén fat cave de giàra e risulta che l’aqua vegnéa da qua e no da qua, tuti i sas i era poiàdhi da sta parte cusì, però na volta i di$éa cusì, perché a Susegana i à vèrt èl Montèl e ’l se à $vodhà là, tute le ce$éte le é in colìna, gnént in campagna, vol dir che qua nó abitéa nesùn, ma chisà quanti àni fa». [Una volta dicevano che qua c’era un lago, dicevano che fosse stato il Piave, ma a me non risulta perché io e mio fratello abbiamo fatto le cave di ghiaia e risulta che l’acqua veniva da qua e non da qua, i sassi erano appoggiati tutti da questa parte così, però una volta dicevano così, perché a Susegana hanno aperto (scavato) il Montello e (il lago) si è svuotato là, tutte le chiesette sono in collina, niente in campagna, vuol dire che qua non ci abitava nessuno, ma chissà quanti anni fa]. (d) “L’alluvione e il lago” «l’era un convento, dopo vién la gran aluvióne che fra la montagna quasù e’l bosco del Montèl l’era rimasto come fermo sto lago, l’era un lago, che ansi Moriago vol dir morti lago, morte lago, che l’era un lago». [c’era un convento [ai margini dei palù] viene la grande alluvione, e fra la montagna quassù e il bosco del Montello è rimasto come fermo questo lago, era un lago, che anzi Moriago vuol dire morti lago, morte lago, che c’era un lago]. (e) “Il lago mortifero” «i vèci vèci, incói i varìe do$énto ani ...eora qua i di$éa sempre che qua Mo$nìgo, sàea perché che i ghe à més nome Mo$nìgo e Moriago? perché na volta i morìa tuti, la morìa, Móo$nigo Móoriago perché ghe n’era sta morìa che nó i vivéa ah, na volta qua la era tuta posànghera, da quando che i à roto èl còso do sóto ’l Montèl ...do par Falsè quéa rotùra là l’à sugà tut, se no qua era tut an lago». [I palù normali nascono qui a Mosnigo, so che li hanno sempre chiamati palù perché (sono) terre umide, nient’altro che palù, migliaia di anni fa, quando non c’erano paesi, era una palude, sotto qui infatti, a centoventi metri c’è un lago, guarda, stanno facendo un pozzo, a settanta metri c’è acqua potabile abbastanza, però hanno tre metri di roccia, sotto c’è un lago di acqua che non finisce, un lago di acqua qua da noi, fino a Vidor [...] diceva mio nonno che è morto nel ’48, che aveva più di ottant’anni, che una volta i vecchi gli raccontavano che quelle chiesette là sono state fatte appositamente perché qua c’era una specie di lago insomma, le hanno fatte perché vivevano là una volta ah!, e non potevano venire più bassi perché c’era questo lago qua]. Questi miti raccontano che i palù una volta erano completamente sommersi dall’acqua: c’era il mare, un lago, una grande palude creata dal ristagno delle acque del Piave; infatti non ci sono tracce di antiche abitazioni: le chiesette stanno tutte in collina. Anche nel ciclo mitico dei palù “mare”, “lago”, “palude” sembrano essere in pratica sinomini. 3. «Nipa, nipa, alla marina» Italo Sordi, in appendice a un suo studio sul carnevale di Bagolino, comune alpino della Val Càffaro (Brescia), ha riportato, e commentato linguisticamente, un’interessante leggenda locale, raccolta nel 1855 a Bagolino da Carlo Cocchetti, e ripubblicata più tardi nel capitolo dedicato alla Valsabbia della Grande illustrazione del Lombardo Veneto, vol. III, p. 277: «Nella più remota età i nostri padri abitavano sulla vetta del Broffione, monte grato alle loro fatiche, perocché erano buoni e pacifici, amandosi e soccorrendosi a vicenda. E le stagioni si alternavano miti e dolci, come i costumi di que’ primi padri. Ma i figli cominciarono a tralignare dalle virtù dei padri, e più i nepoti. E man mano che i figli e i nepoti tralignavano, il terreno si facea più duro, e più aspre le stagioni. Vennero i pronipoti, e meno ancora teneano delle antiche virtù; e il suolo negava dare i suoi frutti. E il cielo si oscurò, e lasciò cadere fredde e minute falde, che cosparsero, come uno strato bianco, tutto il terreno. E allora i giovani andarono dai vecchi, e dissero loro: – Cos’è quel che veggiamo? – E i vecchi, alzate le lunghe e folte loro sopracciglia, visto quello strato bianco, risposero: “Nipa, nipa, alla marina”. E i giovani seguirono quel consiglio, e abbandonarono il monte, già ubertoso pei padri loro, fatto ad essi sterile e inabitabile».12 [i vecchi, vecchi che oggi avrebbero duecento anni, allora dicevano sempre che qua a Mosnigo, sa perché gli hanno messo nome Mosnigo e Moriago? Perché una volta morivano tutti, la moria, Mosnigo, Moriago perché c’era questa moria che non vivevano ah, una volta qua era tutta una pozzanghera, da quando hanno aperto il Montello, giù a Falzè, quella rottura là ha asciugato tutto, altrimenti qui era tutto un lago]. (f) “Il lago sotterraneo” «i palù normale i nas qua a Mo$nìgo, so che i ghe à ciamà sempre palù perché tère ùmidhe, altro che palù...migliàia de ani fa quando che nó ghi n’era paesi, l’era na palùdhe, sóte qua infàti, a centovìnti metri ghi n’é un lago, varda i é drìo far un pos, a setànta metri ghi n’é aqua potabile abastànsa, però i à tre metri de ròcia, sote ghe n’é un lago de aqua che nó finìs, un lago de aqua, qua da noeàltri, fin a Vidhór [...] di$éa me nòno, che l’é morto ancora in te’l quarantaòto, che’l véa otànta pasa àni, che na volta i vèci ghe — 190 — 12 Italo Sordi, «Nipa, nipa, alla marina», p. 42. — 191 — Sordi argomenta persuasivamente che la parola nipa, evidentemente ‘neve’, è «un relitto – conservatosi probabilmente grazie al suo inserimento in un testo di carattere mitico – di una lingua indoeuropea, o con elementi indoeuropei, parlata anticamente nella regione e probabilmente diversa dalle altre note attraverso le testimonianze epigrafiche».13 Commentando il «consiglio di scendere “alla marina”», Sordi ricorda che «l’attuale territorio di Bagolino è evidentemente concepito, per quest’epoca mitica, come posto in riva al mare. È probabile che ciò si ricolleghi alla credenza molto diffusa che il mare anticamente arrivasse a ricoprire le valli della catena alpina».14 Io mi chiedo invece se, a Bagolino come nel resto delle Alpi, i termini mare e marina non conservassero l’antico significato di ‘palude, acquitrino’ (cfr. § 5.1.) e quindi si riferissero non al mare, ma al fondovalle. Fino ad epoca molto recente, il fondovalle era stagnante e paludoso, per il ristagno delle acque di fiumi e torrenti; e proprio per questo gli antichi insediamenti umani non sono mai localizzati nel fondovalle, ma in montagna o a mezza costa. Forse aveva ragione Friedrich Max Müller e il mito, almeno in questo caso, è una malattia del linguaggio. eccezionali. Barena è anche considerato sinonimo di un biotopo lagunare, che comprende paludi, canali e affioramenti terrestri: la parte di laguna più interna, lontana dai porti e dal dominio delle acque di mare». Bari, baréti sono dei pezzi di barena, barene che si sono rotte con il tempo, lasciando solo dei pezzi.18 Velme: «Si tratterebbe di quelle parti di fondo lagunare, normalmente sommerse, che emergono con la secca». Paludi: «Per i pescatori è la dizione generica di uno spazio d’acqua in laguna, di profondità molto bassa (1,5 metri), che si scopre almeno parzialmente con la secca». La “palude” (palùe, paiùe) è – – – «l’area che non è del porto19 e del mare, quella della laguna, dove si svolge la pesca nei canali e sulle paludi. La palude, al femminile e quasi sempre singolare, è un singolo bacino, dove l’acqua arriva al massimo ai due metri e spesso con la bassa marea si scopre. Nel dialetto veneziano, diversamente dal buranello prevale “palugo, paludo, paluo”, termine maschile, che sembra indicare più che un luogo identificabile e morfologicamente complesso, uno stato della materia e una condizione specifica di acqua bassa, un fondale che emerge facilmente con la secca e che resta fangoso. La palude “buranella” è senza canneti, ridotti o scomparsi con le bonifiche dell’ultimo secolo, mentre l’ambiente canèo (canneto) veniva indicato tra i luoghi di pesca fino all’Ottocento. Andar in paiùe è l’espressione comunemente usata per dire che si va a lavorare a “caêà” o a “evà” (calare o levare le reti)». 4. Le valli In italiano il termine valle non significa solo ‘depressione delimitata da due pendici montuose’, ma anche ‘depressione paludosa’:15 Valli Grandi Veronesi, Valli di Comacchio, valli della laguna di Venezia. In una bellissima tesi di laurea sui pescatori di laguna di Burano,16 Gianfranco Bonesso analizza accuratamente il lessico buranello dell’ambiente lagunare. Vediamo i termini che ci interessano più da vicino.17 In laguna vi sono: – Valli: «Grandi bacini d’acqua ben delimitati venivano chiamati valli. Il termine però ha finito per designare quegli specchi d’acqua chiusi, recintati, usati per l’acquacoltura». Sembra avere, e aver avuto, una connotazione positiva rispetto a “palude”: ad es. Andrea Calmo, Lettere, I, 3, annota: «le vale è diventae palui», ‘le valli sono diventate paludi’. – Barene: «Si tratta di formazioni caratteristiche della laguna di Venezia. Il termine, di origine veneziana, vuole indicare, almeno nelle versioni più attestate, le parti emergenti della laguna, quelle formazioni arenoso-cretose, normalmente emergenti e coperte di erbe e arbusti, che vengono sommerse da alte maree La palude si articola in parti, alcune che emergono periodicamente, altre che restano sempre sommerse. Vediamo quelle che ci interessano più da vicino dal punto di vista lessicale: – Valìna: «La valìna nella gerarchia dei êoghi alti20 è quella che emerge con la secca, subito dopo della sacca. Viene ricordata spesso insieme alla frontaùra e distinta da questa perchè sarebbe “appoggiata” ad un dosso, di cui costituirebbe una delle parti alte. Con la secca resterebbe melmosa (pàciara). Luogo molto frequentato dai pesci è decisamente la parte di palude più citata dai pescatori». – Bólla: «Al centro della palude ci sarebbe la bólla: la parte che non emerge, la cavità che rimane di solito coperta dall’acqua, anche con le grandi secche, il cuore della palude dove arrivano i tracciati estremi dei canali. Bólla talvolta indicherebbe anche genericamente le distese d’acqua, paludi piccole». – Bòlo: «Fossa nella laguna, di solito di origine naturale». Italo Sordi, «Nipa, nipa, alla marina», p. 43. Italo Sordi, «Nipa, nipa, alla marina», p. 43. Cfr. anche Sordi, Leggende sulle acque. 15 Sintetizzo le definizioni del dizionario Garzanti. 16 Bonesso, El mestièr geó&o. Uomini e granchi nelle paludi di Burano. 17 Tutte le citazioni tra virgolette di questo paragrafo sono tratte da Bonesso, El mestièr geó&o. Uomini e granchi nelle paludi di Burano. Comunicazione di Gianfranco Bonesso. Si tenga presente che il termine porto indica l’imboccatura, la zona di passaggio tra la laguna e il mare, come il sinonimo bocca di porto. Viene quindi mantenuto nel dialetto lagunare il pristino significato di ‘passaggio’, attestato in latino e ancora in qualche lingua romanza (cfr. Ernout-Meillet s.v. portus). 20 I ‘luoghi alti’, che emergono periodicamente. — 192 — — 193 — 13 14 18 19 – Mogiàsso: «Dove l’acqua si ferma, si accumula fango, via via si accumula e diventa un dosso». Altri termini per noi interessanti del lessico lagunare sono: – Lòpe: «Per taluni è un insieme di giunco, canne e radici misto a terra che si impigliava nelle reti e faceva bestemmiare i pescatori; per altri è una qualità di paglia mista a canne». – Véi o véli: «alghe; la parola comprende genericamente vari tipi di alghe di laguna, alcuni dei quali hanno denominazioni specifiche». Vediamo ora di istituire dei confronti linguistici, che ci permettano di capire cosa c’è in comune tra il mare, le paludi, le lagune e le valli alpine. 5. Il gruppo di “mare” 5.1. Il tipo “mare” Vi sono consistenti prove che il termine mare anticamente indicasse piuttosto una palude. Vediamo la documentazione, partendo dai dialetti italiani e romanzi e risalendo coi confronti alle lingue indeuropee e oltre. In italiano il significato di ‘palude’ si trova solo in derivati: – it. maremma «luogo paludoso lungo la costa del mare [...] lat. tardo maritima n. pl., glossato loca mari vicina (C. Gl. Lat., V, 221, 10), dall’agg. maritimus ‘marittimo’; cfr. a. fr. maresme catal. maresma palude» (DEI s.v. maremma1, cfr. REW 5362); – a. it. maroso ‘pozza’,21 it. marazzo ‘palude’, rom. marona ‘piccolo canale d’irrigazione’, corso mara ‘canale d’irrigazione per frutteti’, campidanese mara ‘cloaca’ (REW 5349); – ferrarese mareµµa ‘maremma’, polesano mareµa ‘fondo paludoso’ (SalvioniFaré 5349); – Serenella Baggio mi suggerisce anche un termine archeologico fondamentale, che finora ha ricevuto spiegazioni etimologiche insoddisfacenti: it. terramara ‘grandi cumuli di terreno archeologico rinvenuti in località un tempo palustri con resti di palafitte, tipiche della pianura emiliana ad ovest del Reno e dei territori di Mantova e Cremona’ (Zingarelli, s.v. terramara), così correntemente spiegato: «v. di origine emiliana (Scandiano), che sembra corruzione di terra mala (cfr. il toponimo Terramara (Milano), nei documenti Terramala)» (DEI s.v. terramara). Per Alinei invece è marna «l’etimo stesso della parola terramara, da terra marna, così chiamata dialettalmente» (Alinei, Origini, I 136). In verità la parola marna non sembra essere dialettale, ma francese: cfr. DEI, s.v. marna: «‘marga’, roccia calcarea schistosa di argilla e dolomite; fr. marne (a. 1266; fr. sett. marle, passato attraverso il picc. marle all’ingl. marl), dal lat. *margila da marga ‘marga’»; anche Meyer-Lübke deriva dal gall., galiz. marg3la ‘marna’: a. fr. marle, fr. marne > it. marna (REW 5354), mentre deriva dal gall. marga ‘marna’: a. it., catal., sp., pg. marga (REW 5351). Alla luce di quanto abbiamo visto, mi sembra plausibile considerare -mara come un relitto linguistico che mantiene l’arcaico significato di ‘palude’, e interpretare di conseguenza terramara come ‘terra paludosa’, se non addirittura come ‘secca affiorante dalla palude’ (in pratica ‘barena’), visto che terra etimologicamente significa ‘la secca’ (Ernout-Meillet s.v. terra). Nel raro termine gr. maroÀ ‘palude’22 appare «la radice mar-, che indica appunto contesti palustri. Cfr. i toponimi Mareotis e Mareia e la limnE Maros».23 Ernout-Meillet (s.v. mare) osservano che nelle lingue indeuropee (celtico, germanico, slavo, baltico) abbiamo «quasi dappertutto vocalismo o [...] il vocalismo zero di lat. mare non è attestato fuori del latino.24 Non c’è traccia della parola in sanscrito, in greco e in armeno»; e rinviano a mAnAre ‘colare, gocciolare’, dove scrivono: «MAnAre e mAnAlis [‘che fa sgorgare’] sembrano derivati da un sostantivo non attestato che sarebbe apparentato a irl. móin, gall. mawn ‘palude, torba’; l’elemento -n- dopo -aè necessariamente suffissale; a. ingl. mór, a. a. ted. muor ‘palude’ sono piuttosto del gruppo del lat. mare» (Ernout-Meillet s.v. manO). Il significato di ‘palude’ è presente soprattutto nelle lingue germaniche e baltiche: dalla radice *mori, mOri «con suffisso -sk-: anglosass. merisc ‘palude’; con suff. -g-: anglosass. mOr, a. sass. mOr, a. a. ted. muor ‘palude’, a. isl. mørr ‘terra paludosa’, a. a. ted. salz-muorra ‘palude salmastra’ (<*mOrúO), a. pruss. mary ‘laguna’ (<*marE)» (IEW 748). Se allarghiamo la comparazione, possiamo vedere che il significato di ‘palude, lago, specchio d’acqua’ sembra essere più arcaico di quello specifico di ‘mare’: – per l’ambito indeuropeo Alinei riporta: itt. marmar(r)a ‘palude’,25 arm. mawr id., oss. mal ‘stagno, pozzanghera’, a. isl. marr ‘mare, lago’, anglosass. mere ‘mare, lago, piscina’, ingl. moor e marsh, ted. Marsch ‘palude’, lit. mãrios ‘mare, golfo, laguna’, russo dial. more ‘lago’ (Alinei, Origini, I 561); – lo stesso Alinei adduce più vasti confronti nostratici: proto-afro-asiatico *mar‘any body of water’ (egiz. mr ‘lago, cisterna, stagno, serbatoio, inondazione, bacino, canale, terreno paludoso’), proto-cartvelico *mar-(ei) ‘lago, suolo umido, nuvola’, dravidico ma r-ai ‘pioggia’, proto-altaico *möRä-/müRä¨ ‘mare, fiume, acqua’ (Alinei, Origini, I 561-562). 21 Olivieri s.v. marra ‘frana, ghiaieto’ (che ritiene dubitativamente mediterranea) dice: «Forse la stessa voce prelat. marra ritorna col signif. di ‘palude’; onde fr. mare ‘stagno’ [...] ed anche un ant. it. maroso ‘palude’». Nei Papiri fiorentini 152.5 (III sec. d.C.). Traina, Paludi, p. 58. 24 Lat. mare «con a non chiara» (IEW 748). La radice di “mare” a vocalismo a può forse essere confrontata con lat. mArum < gr. ma~ron ‘erba gatta’ (cfr. DEI s.v. maro). 25 Cfr. il Mar di Marmara. — 194 — — 195 — 22 23 5.2. Il tipo “marisco” Un interessante derivato di mare, il tipo “marisco”, è attestato in italiano da: marése «ant., XIV-XVI sec.; acquitrino; a. fr. mareis (XII sec.), fr. mod. marais (dal franc. *marisk, cfr. ingl. marsh); piem. lomb. marésc terreno paludoso; cfr. lat. tardo marisca, C. Gl. Lat., V, 621, 20.» (DEI s.v. marése; cfr. REW 5360a; Salvioni-Faré 5360, 5360a). – marisco «XIX sec., bot.; sorta di giunco; v. dotta, lat. mariscus [juncus] (Plinio) conservato nel lomb. brisc id. e nel berrich. maré giunco con cui si coprono i tetti» (DEI s.v. marisco; cfr. REW 5360). – brisco «dial., bot.; specie di giunco; v. lomb., anche marisco, -esco; lat. tardo [juncus] mariscus docum. anche in qualche dialetto francese, o prelatino, o congiunto col fr. marais palude, dal franc. *marisk (cfr. anglosass. merisk, dan. marsk terreno paludoso)» (DEI s.v. brisco; cfr. REW 5360). In latino abbiamo marisca ‘terra fangosa’, per Giusto Traina termine di origine celtica della Gallia Belgica.26 Secondo Ernout-Meillet s.v. *marisca «coenum [‘fango’] (Gloss.). Latinizzazione di una parola tedesca; cfr. ted. mersch»; gli stessi riportano, sotto un diverso lemma, «fIcus marisca: varietà di fico; mariscus iuncus: grande giunco (Plinio). Origine sconosciuta» (Ernout-Meillet s.v. marisca). In greco abbiamo marivskoÀ «specie di giunco, forse il marisco, Gladium mariscus (Plinio, H.N. 21,112) [...] Stesso suffisso (diminutivo ?) di ijbivskoÀ , ajlqivskoÀ» (Chantraine s.v. marivskoÀ). – 6. Il gruppo di “palude” 6.1. Il tipo “palude” In area italiana e romanza abbiamo: It. palude dal «lat. palUs –Udis, molto docum. nell’Italia sett. nel VII-XII sec., insieme col dimin. paludellus (a. 999) e paludianus paludoso (a. 950), mentre manca nell’antica toponomastica toscana; v. di area it. e galloromanza (a. fr., prov. palu)» (DEI s.v. palude); – gard. paluk ‘terreno muscoso’, comel. palú ‘parte più fonda della valle’ (REW 6183); – numerosi esempi di Palù nella toponomastica e nella microtoponomastica dell’Italia settentrionale. In latino palUs ‘acqua morta, podere paludoso’ indica l’acqua non perpetua, mentre quella perpetua è chiamata lacus ‘lago’.27 In Isidoro di Siviglia palUs è collegato a Pales, dea della pastorizia – in altre fonti solo dea silvestre.28 Il collega– mento tra palude e pastorizia sembra consueto nella civiltà classica: Artemidoro, nel Libro dei sogni (2. 68), dice che «le paludi [e{lh] sono utili ai soli pastori».29 Lat. palUs -Udis è «conservato nelle lingue romanze, certe forme delle quali presuppongono un doppione con metatesi *padUlis (formato forse su Padus per etimologia popolare). [...] Cfr. scr. palvalám ‘pozza, palude’ e la parola, senza dubbio derivata, a. a. ted. felawa ‘salice’. [...] La radice è quella che figura nel lit. pilù, pilti ‘versare’, arm. helum ‘io verso’ (aor. heli) e ololem ‘io inondo’. Con ampliamento -u-, il greco ha pluÐvnw ‘io lavo’ e il lat. pluit [...]. Cfr., d’altra parte, lit. pélke+ ‘palude’, a. sl. plakat3 ‘lavare’, gr. plavdoÀ ‘umidità’, ecc.» (Ernout-Meillet s.v. palUs). Pokorny pone una radice generica *pel-, *pelp-, *plE- ‘versare, scorrere, ammassare, riempire’, e una radice specifica *pel-, *pel-eu- per la parola ‘palude’, da cui osset. farwe, färer ‘ontano’, a. a. ted. fel(a)wa, n. a. ted. Felber ‘salice’ (come ‘albero palustre’), lat. palus, -Udis (<*pel-ou-d-), tutti con a. i. palvalá- ‘palude’ e palvalya ‘paludoso’; inoltre anche *pelpk- : plAk- in gr. pavlkoÀ ⋅ phlovÀ Esichio, palavssw (*palavkúw) ‘spruzzo’, lit. pélke+ ‘palude’, a. pruss. pelky id., lett. pe~lce ‘pozzanghera’: plAcis ‘palude’, secondo Schulze tutti originati dal significato di colore, per cui vedi qui sotto phlovÀ (IEW 799). In questo gruppo dovrebbero rientrare anche due termini greci: – phlovÀ , dor. palovÀ ‘fango, creta, argilla,’30 «forme imparentate più o meno dubbie: pavlkoÀ ⋅ phlovÀ (Esichio) che farebbe pensare a lit. pe+lké ‘palude, torbiera’; pavskoÀ ⋅ phlovÀ [...] Et. ignota. L’accostamento proposto per primo è con il lat. palUs ‘palude’» (Chantraine s.v. phlovÀ).31 Pokorny riporta «probabilmente anche phlovÀ, dor. palovÀ (<*palsovÀ) ‘argilla, fango, palude’» alla radice cromatica *pel- ‘grigio, pallido’ (IEW 804). Van Windekens invece riporta il gr. phlovÀ alla radice *bol-,32 con fonetica pelasgica (ie. *b- > p-): «bisogna partire da ie. *bol-n- > pelasgico *pal-n-, da cui gr. dor. palovÀ, ion.-att. phlovÀ».33 – pevlagoÀ ‘mare’: Chantraine (s.v. pevlagoÀ) pone una «base *pelp2- suffissata in *-gos» e lo confronta con plavgioÀ ‘obliquo’ (cfr. § 7.2.) 6.2. Il tipo “padule” Accanto alla forma “palude” abbiamo la forma “padule”. Abbiamo visto più sopra l’osservazione di Ernout-Meillet (s.v. palUs) che certe forme delle lingue romanze «presuppongono un doppione con metatesi *padUlis (formato forse su Padus per etimologia popolare)». Traina, Paludi, p. 50. Cfr. Traina, Paludi, pp. 58-59. 31 In una prospettiva pelasgica van Windekens, Le Pélasgique, pp. 127-130, accosta phlovÀ ‘fango, argilla’ a plivnqoÀ ‘mattone’ e al secondo termine di composto -plavqoÀ ‘modellatore’. 32 Cfr. il tipo “bola” (§ 6.3). 33 Van Windekens, Le Pélasgique, pp. 128-129. 29 30 26 27 28 Cfr. Traina, Paludi, p. 65. Cfr. Traina, Paludi, p. 62. Cfr. Traina, Paludi, p. 73. — 196 — — 197 — In italiano e nelle lingue romanze abbiamo: – padule «‘palude’, con antica metatesi; cfr. lat. medioev. padUlEs pl., docum. in Italia dal 754 all’XI sec., tanto nel Settentrione, quanto nel Mezzogiorno; padUlAnus (a. 960, a Napoli), padulectum (a. 980, a Roma). Nella toponomastica tosc. il tipo Padulacchia risale al X sec. La forma con metatesi del lat. palUs –Udis (influsso di Padus, il Po?), è anche del logud. (paule), a. spagn. e port. (paul), rum. p1dure e alb. pyll, entrambi nel senso di ‘bosco’, e del basco madura terreno alla confluenza di due ruscelli» (DEI s.v. padule, cfr. REW 6183.2). – padulina «nome volg. toscano, specialm. livorn. e pis., del cyperus rotundus (cìpero); nel Piemonte, paludina; da ‘padule’» (DEI s.v. padulina). – Olivieri s.v. palude, cita alcuni toponimi derivanti dalla forma padule: lomb. Paullo, emil. Pavùllo.34 La communis opinio della metatesi potrebbe essere fallace, e la radice *padpotrebbe essere parallela, se non addirittura più antica della radice *palAnche per Giusto Traina padUlis nasce «in età tarda, in analogia con Padus»;35 ma la frequenza della radice *pad- nella toponomastica, cioè nello strato linguistico più conservativo, fa pensare. È del tutto plausibile intendere Padus, il nome del Po, come ‘palude’, per i vasti impaludamenti provocati dal fiume, sicuramente più allora che oggi.36 Si consideri anche il nome di Padova, tipica città palustre, sorta su una palu37 de: gli scoli a Verg. Aen. 1.241 indicano il nome di Patavium ‘Padova’ «come derivato dalla palude Patena o Patina, nome di chiara derivazione etrusca»;38 d’altronde «la confusione tra Patavium e Padua, una delle bocche del Po, deve essere antica, cfr. lat. medioev. Padua –Anus» (DEI s.v. padovano), tanto da indurci a pensare che il nome della città fosse ‘palude’, *pad-, cui corrispondeva *pat- in fonetica etrusca. 6.3. Il tipo “bola” Il tipo “bola” ha due tipi derivati in dentale, “belsa” e “palta”. (a) Abbiamo il tipo “bola”: – nei buranelli bólla ‘fossa nella laguna, palude piccola’, bòlo ‘fossa nella laguna’, mogiàsso (< *mol-) ‘dosso di fango’, forse anche lòpe 39 ‘insieme di vegetali (giunchi, canne, radici) misto a terra’;40 – nel gallico o ligure *bola ‘palude’, presupposto da Meyer-Lübke all’origine di piem., ticin. (Arbedo) bola ‘palude’ (REW 1191b); – nelle lingue balto-slave: lit. balà f. ‘anemone bianco’, m. ‘palude’, a. pruss. *balo ‘palude’ in toponimi; polacco dial. biel ‘bosco paludoso’, russo dial. bil ‘palude’, russo bala (*bhOlA) in bala-ru>ina ‘pozzanghera’, piccolo russo balka ‘bassopiano’; slavo *bolna (ie. *bholnA) nel ceco blana ‘prato’, pol. blonv, blonie id., russo bolón= je id. (IEW 119); – nei succedanei di germ. *pOl-: anglosass. pOl, ingl. pool, a.a. ted. pfuol ‘palude, pantano’, con metafonia neder. peel (*pali-) ‘palude’, anglosass. pyll, ingl. pill (*pulúa < *b+ lúo-), che Pokorny, derivandoli dalla radice *bhel- ‘brillante, bianco’ (IEW 119), è costretto a dichiarare tutti mutuati dal ven.-illir. (*bolA), perché dall’ie. *bh si avrebbe in germ. *b e non *p.41 (b) Il tipo “belsa” è costituito dal termine latino tardo belsa (o belisa), di origine celtica,42 che secondo Giusto Traina significa ‘circondato da paludi’ ed è collegato all’ambiente delle zone disboscate.43 Il problema di belisa è trattato in Pedersen, Vergleich. Keltische Grammatik, vol. I, p. 85: sarebbe un celtismo non presente nel celtico insulare ma soltanto continentale, anche se la base *bhel- genera molti derivati. Ci sono testimonianze in Whatmough 1970. Belisa / Belsa (secondo i codici) si trova come toponimo (> Beauce) in Gregorio di Tours, Historia Francorum III.VI.; dal VII sec. si trova, sempre come toponimo, in molti atti francesi. Come nome belisa ‘luogo incolto’ si trova in Virgilio Maro Grammatico come parola rara. Sugerius (Sugér de St. Denis) lo usa in alcuni scritti (De conservatione ecclesiae; Constitutiones, cfr. Patrologia Latina, vol. 186): “de possessione sita in bel[i]sa quae dicitus Villana, primus inculta”. Burchard di Wurms, Decreta (Patrologia Latina, vol. 140), cap. 5: “herba jusquiamum inveniunt, quae Teutonice belisa uocatur”.44 (c) Il tipo “palta” è presente: – in area romanza: nell’it. palta ‘fango, pantano’ «v. sett., ven., ver., trent., lomb. palta, piem. pauta, fr. merid. pauto (a. fr. paute fango), da una base mediterra- 34 Per l’etimologia del lat. palUs dice: «affine al scr. palvalam ‘palude’, gr. plýno ‘lavare’, lat. pluere (v. pioggia); a. sl. blato (cfr. lago Balaton; ed il n. Plavis, Piave?)». 35 Traina, Paludi, p. 62. 36 Lo storico greco Metrodoro attesta un nome preromano (forse ligure) del Po, Bodincus (cfr. Sordi, Leggende sulle acque in Lombardia, p. 85), probabilmente collegato a Padus e al tipo “bola” (§ 6.3.) 37 Cfr. Traina, Paludi, p. 99. 38 Cfr. Traina, Paludi, p. 73. — 198 — 39 40 41 42 43 44 Nell’ipotesi di una metatesi lope < *pole, cfr. § 10.1. Cfr. Bonesso al § 4. Cfr. Pisani, Glottologia; Pisani, Introduzione; Szemerényi, Introduzione. Cfr. Ernout-Meillet s.v. *belsa ‘uilla’. Cfr. Traina, Paludi, p. 64. Ringrazio J.B. Trumper per alcune preziose precisazioni. — 199 — nea *palta, variante di balta largamente rappresentata nelle lingue balcaniche (cfr. il top. trace Di-baltum, posto tra due ruscelli)» (DEI s.v. palta; REW 6177); – nel tosc. paltenna, pantenna ‘fango’ < *paltinna, ‘palta’ con suffisso etrusco (DEI s.v. pantenna); – nell’it. pantano «luogo pieno di fango o di acqua fangosa; v. di area prevalentemente merid., che raggiunge il Lazio, gli Abruzzi e le Marche, ma non fa parte della vecchia toponomastica toscana, contrapponendosi al tosc. ‘pantenna’ e al sett. ‘palta’, lat. medioev. pantAnum, docum. nell’Italia merid. (Roma, Subiaco, ecc.) a partire dal X sec., passato al biz. pantánon in Calabria e in Sicilia, e forse anche allo sp. pantano, cat. pantá» (DEI s.v. pantano, che aggiunge, secondo me a torto, ma fornendo preziose indicazioni toponomastiche: «Per questo la voce andrà separata da ‘palta’ e connessa con PantAnus, nome di un lago sul mare adriatico alla destra del Fortore in Puglia (Plinio, III 11), oggi lago di Lesina, relitto del sostrato, cfr. Pandosia e Bandusia fOns»); – in mil., valt., triest. paltàn ‘fango’, poles. spaltàn ‘pantano’, laz. pantaneµµa ‘gora’, march. pantiera ‘palude’, abr. pandére ‘pozza d’acqua’, poles. paµarina, peµarina ‘pozzetta sulla via’, berg., bresc. palµa ‘palta’, bresc. paµa id., lomb. puµa ‘intinto, fanghiglia’, sardo pantàmu ‘palta’, soprasilv. pultaum id. (Salvioni-Faré 6177 *palta; REW 6177, che è incerto sulla connessione con rum. balt1, a. dalm. balta, alb. bal’t+e ‘palude’); – nel gr. medievale bavltoÀ ‘fango’;45 – in illir. *balta ‘palude’, a. dalm. balta ‘lago paludoso’, toponimo ligure Duria Bautica (< *Baltica), forse anche mare Balticum (ven.-illir. ?); alb. baltë, balt ‘fango, palude, argilla’; slavo *bolto- (*bholpto-) ‘palude, stagno, lago’ in a. sl. blato ‘lago’, serbo-cr. blàto ‘lago, fango’, russo bolóto ‘palude’ (IEW 119). Pokorny deriva i termini precedenti, come quelli citati più sopra (tipo “bola”), dalla radice *bhel- ‘brillante, bianco’ (IEW 119). In realtà non c’è ragione alcuna di porre una media aspirata *bh- anziché la semplice media *b-, come fa, a ragione, van Windekens, trattando di questo gruppo lessicale: «L’albanese e il balto-slavo possiedono una radice che risale a ie. *bel-, ecc. e il cui senso primario è quello di ‘fango’: alb. baltë, balt ‘fango, pantano, argilla, terra’ (per il doppio significato di ‘fango’ e ‘argilla’, cfr. phlovÀ), lit. balà ‘pantano, palude’, a. sl. blato ‘palude’, serbo-cr. blàto ‘lago, fango’, ceco bláto ‘fango’, russo bolóto ‘pantano, palude’, ceco blana ‘prato, prato comune’, polacco blonv ‘prato, piazza, pascolo’, russo bolón= je ‘bassopiano erboso’, ecc. Aggiungiamo che l’a. pruss. conosce una parola *balo ‘pantano’ nella toponimia. Le forme slave con ampliamento -n- presuppongono ie. *bol-n-A, quelle con ampliamento -t- risalgono a ie. *bol-t-o».46 45 46 Secondo Traina, Paludi, p. 61, «termine di origine slava (cfr. Balaton)». Van Windekens, Le Pélasgique, p. 128. — 200 — 7. Il gruppo di “lama” 7.1. Il tipo “lama” I derivati di lama ‘palude’ sono: nei dialetti italiani: tosc. lama ‘palude’, anaun. lamoµa id., march. lama ‘avvallamento, frana’, piem., levent. lama ‘acquitrino, pozzanghera’, eng. lamma ‘luogo umido’, berg. lama ‘prato’, agnon. leàma ‘avvallamento, frana’, ter. lam+e ‘fango’, chiet. allamars+e ‘divenir molle (di terreno), lordarsi di fango’, vic. làmara ‘brughiera’, cador. slameco ‘mota’, nap. lañ+e ‘stagno, gora’ (Salvioni-Faré 4862, REW 4862); – nelle lingue romanze: sp. lamo ‘palude’, sp., pg. lama ‘fango’, pg. transmontano lama ‘prato incolto’, galiz. lama ‘terra destinata a pascolo’, sp. Sanabria lamella ‘pascolo’ (REW 4862). – Lat. lAma «acquitrino, pozzanghera, pantano; parola rara, che si trova in Ennio, Orazio, e nell’epitome di Festo [...] Una parola simile si trova in baltico: lit. lomà (acc. sg. lõmöa), lett. lãma ‘avvallamento in un campo’. L’intonazione dell’o lituano indica che la parola non sarebbe antica in baltico. La coincidenza, limitata al letto-lituano, può essere fortuita» (Ernout-Meillet s.v. lAma).47 Pokorny (IEW 653 *lAmA ‘pozzanghera, palude’), oltre al baltico, confronta anche bulg. lam ‘fossa, buco’ e il toponimo illir. LavmhtoÀ, oggi Lamato. Aggiunge poi: «Non è chiaro il rapporto col finn. lampi, gen. lammen ‘palude’, estone lomm ‘pozzanghera, bassopiano’», fornendoci un interessante confronto ugro-finnico. – 7.2. Il tipo “limo” I dialetti italiani conservano un significato assai interessante del tipo “limo”, che lo collega ai tipi precedenti: laz. imara, Sora j+emata ‘terreno piano lungo i fiumi’ (Salvioni-Faré 5058 lImus ‘fango’). Meyer-Lübke segnala, per la penisola iberica: pg. limo ‘fango’, che significa anche ‘Meergras, canna palustre’, sp. Salamanca limo ‘lemna’, e un confronto anche col basco limo ‘fango’ (REW 5058 lImus ‘fango’). Anche in latino abbiamo significati botanici per lImus «1° fango, melma; 2° lichene, alburno. Da Plauto. Panromanzo. [...] Cfr. a. a. ted. leIm ‘fango’ e, con s iniziale, isl. slim, a. a. ted. slIm ‘fango’ e senza dubbio gr. leimwvn ‘prato umido’, lei~max (stesso significato), livmnh ‘palude’» (Ernout-Meillet s.v. lImus).48 Ulteriori confronti in Pokorny, che pone una radice *lei- ‘viscido’: lat. lImus ‘fango’ (< *loimos), a. a. ted. leim ‘argilla’, ted. Lehm id., anglosass. lAm id., a. a. ted., anglosass., a. isl. lIm ‘colla, calce’ (IEW 662). 47 48 Per Traina, Paludi, p. 65, lAma ‘stagno, palude’ è di origine celtica. Per Traina, Paludi, p. 65 lImus ‘fango’ è di origine celtica. — 201 — Come abbiamo visto, Ernout-Meillet collegano lImus al gr. livmnh, che «è il termine più vicino al lat. palus. Affine a leimOn [leimwvn] (‘prato umido’) e a limEn [limhvn] (‘porto’), nei poemi omerici designa il mare, concepito come un grande lago. La sua accezione generica, pur matenendo la sfumatura di ‘acqua ferma’, indica i mari interni, i laghi e ogni specchio d’acqua circondato da terra [...] è il lagopalude del paesaggio greco e micrasiatico».49 Chantraine osserva che leimwvn ‘prato umido’, lei~max ‘prato’, limhvn ‘porto, rada’, livmnh ‘acqua stagnante, lago, stagno’ «distinto da e{loÀ ‘palude’ [...] in poesia può dirsi del mare (Omero, tragici) [...] presentano visibilmente nella radice e nel suffisso un gioco di alternanze antico. Ma non si scorge un’etimologia chiara. Si parte dalla nozione di umidità, falda d’acqua stagnante (ammessa da E. Benveniste, Origines 123). Si evoca allora lat. lImus “fango”, e con s iniziale isl. slim, a. a. ted. slIm» (Chantraine s.v. leimwvn). Pokorny pone una radice *lÿei- ‘piegare’, da cui lett. leja ‘valle, bassopiano’ e con suff. m: probabilmente gr. leimwvn ‘prato’, limhvn ‘porto’, livmnh ‘lago, palude’; cimr. llwyf ‘olmo’ (< *lei-mA); lat. lImus ‘obliquo’, lImes ‘traversa, bordo, linea di confine tra due campi’ (IEW 309). I dialetti italiani ci permettono di inserire in questo gruppo anche il lat. lImes ‘confine’, che ha continuazioni semanticamente assai interessanti: valsass. límeda ‘bordo del campo’, posch. zlímat id., valcanobb. lünda id., piem. lümi ‘siepe che delimita un campo’, valses. limbju e lümmju ‘spazio erboso tra due campi’, canav. lümi id., piem. lümié ‘terrapieno che funge da confine tra due campi’ (REW 5048, Salvioni-Faré 5048). Le parole latine senza etimologia lImen ‘soglia’ e lImes ‘strada che corre lungo un fondo, confine’, connesse tra loro, e tradizionalmente connesse a lImus ‘obliquo’,50 potrebbero essere collegate al tipo limo ‘fango, palude, terra umida’.51 Infatti Giusto Traina segnala, per il mondo classico, «il problema ideologico della palude intesa come luogo di frontiera»:52 fra natura domesticata e natura selvaggia, fra civilizzati e barbari, fra il mondo conosciuto e l’ignoto. Traina dedica l’ultimo paragrafo della sua monografia a “La palude come frontiera del mondo”;53 leggiamone qualche passo da dove emerge il senso di confine attribuito al fango e alla palude: «Nel proemio alla Vita di Teseo, Plutarco (Thes. 1. 1) esordisce cosí: “Nelle loro opere geografiche, o Sossio Senecione, gli storici relegano ciò che sfugge alla loro conoscenza alle estremità delle carte, e in alcune postillano cose come ‘al di là, sabbie aride e fiere’, o ‘oscuro fango’ (pElos), o ‘freddo scitico’ o ‘mare gelato’”. Ciò serviva a paragonare i confini geografici con i confini della storia [...] Gli spazi di frontiera come il mare glaciale, le sabbie del deserto o il fango della palude, segnavano i confini del mondo. La palude come confine ricorre in effetti in vari contesti, come in quello delle esplorazioni di Germanico, o a proposito della ricerca delle sorgenti del Nilo, o ancora in racconti come quello della fondazione di Vienne. Plutarco spiega ancor piú chiaramente l’uso che si faceva di queste tradizioni: il fango (pElos), che segnava il confine tra reale e immaginario, era razionalisticamente inteso come la prova dei limiti dei geografi, come un hic sunt leones di comodo. Un procedimento analogo veniva fatto per i popoli palustri come gli sciti o i massageti, dove la palude era piú un topos che una realtà acquisita dalla conoscenza geografica. Ugualmente, la descrizione dei popoli del Nord nei racconti storici militari (da Cesare a Tacito, e oltre) presentano la palude come la frontiera fra l’ecumene e la vita civile da una parte, e il mondo barbarico dall’altra. [...] In una concezione classicistica dello spazio e del tempo, la palude è descritta come terra incognita, e l’immagine del popolo palustre prodotta dall’etnografia assume forma generalizzata. Il paesaggio dei barbari diventa per esteso il paesaggio barbaro: chi abita la foresta o la palude è quindi un potenziale o effettivo nemico dell’ordine. Briganti silvestri o palustri (Caes. Gall. 6.5.7; Iuv. 1.3.306), o partigiani (I., BI 1.315; AI 14.432) erano accomunati dalla scelta di fare anachOrEsis in zone marginali [...] Fiumi, foreste e paludi indicano la frontiera, reale o immaginaria, del mondo greco-romano (Ov. Pont. 3.4.107; Claud. rapt. Pros. 3.303-306). [...] La civiltà si identifica con il territorio popolato e coltivato. Salvo eccezioni ove si può celebrare retoricamente un paesaggio reale (la Cizico di Aristide), la palude è correntemente indicata come un ostacolo alla civiltà, e implicitamente come frontiera sia interna che esterna all’oikoumenE. [...] La palude è dunque doppia frontiera, in quanto si oppone all’ecumene sia all’interno che all’esterno, ostacolando l’avanzata della civiltà cittadina e agricola».54 8. Il gruppo di “valle” 8.1. Il tipo “valle” In italiano55 valle ha due significati distinti: ‘depressione delimitata da due pendici montuose’, ma anche ‘depressione paludosa’: – infatti il DEI ha due lemmi per valle, il secondo nel senso di ‘laguna d’acqua salmastra, nella regione di Ravenna e di Comacchio’;56 il DEI la dichiara voce settentrionale e fornisce questi confronti: «lat. medioev. vallis zona di palude che serve per la pesca (a. 1098, a Venezia: in piscaria que vocatur valle maiore), valle in palude (a. 1306, a Ravenna: de cuius valle... capietur piscis; a. 1327, a Modena), ecc.; cfr. venez. vale, bologn. aval, ecc.»; Traina, Paludi, p. 56. Cfr. Ernout-Meillet s.v. lImes, che si mostrano perplessi. Al § 6.1. abbiamo visto che Chantraine mette in relazione pevlagoÀ ‘mare’ (probabilmente < *‘palude’) con plavgioÀ ‘obliquo’. 51 Forse va con questo gruppo anche la parola senza etimologia limbus ‘nastro che serve da orlo a una stoffa’. 52 Traina, Paludi, p. 51. 53 Traina, Paludi, pp. 129-132. Traina, Paludi, pp. 129-131. Come abbiamo visto al § 4. 56 Definizione restrittiva, sia per l’esclusione dell’acqua dolce, che per la delimitazione geografica: si pensi alle Grandi Valli Veronesi. — 202 — — 203 — 49 50 54 55 – valle «nel basso Veron., rodig. ecc. è sinon. di ‘campagna piana, dove è lento il deflusso delle acque’» (Olivieri s.v. valle); – buranello valle ‘grande bacino d’acqua ben delimitato all’interno della laguna, adibito alla pesca o all’allevamento del pesce’; valìna ‘parte di fondo lagunare pescoso che emerge con la secca’, velma ‘parte di fondo lagunare che emerge con la secca’;57 forse véi o véli ‘alghe di laguna’. Sono numerosi i continuatori italiani e romanzi di lat. uallis nel senso di ‘ruscello, torrente’ e ‘palude’: lomb. valega ‘valletta, torrente’ (< lat. uallicula ‘valletta’), posch. val ‘ruscello’, bol. aval ‘palude’, abruzz. vallon+e ‘ruscello della valle’, sudfr. vala(t), valon ‘ruscello’, pg. valleiro ‘canale’ (REW 9133, 9134). Una ulteriore conferma di valle ‘palude’ si ha in un derivato di lat. palUs: comel. palú ‘parte più fonda della valle’ (REW 6183), cioè ‘fondovalle’, l’area normalmente soggetta all’impaludamento del torrente alpino (cfr. § 3). I romani dovevano sentire una qualche connessione tra la radice uel- e il significato di ‘palude’, se «Servio riporta la paretimologia Velia < helos 58 (in Verg. Aen. 6.359): “Velia, poi, è così detta a causa delle paludi che la circondano, che i greci chiamano helE ”».59 Non è chiara l’origine di lat. uallis ‘valle’; la consonante interna geminata potrebbe venire da *wal-s-;60 in tal caso avremmo un ampliamento in s della radice *)el-, *)elp- ‘capello, lana’, anche ‘erba, spiga, bosco’, che ha per noi interessanti esempi di ampliamento in dentale: a.a. ted., a. sass. wald ‘bosco’, anglosass. weald id., a. isl. vöollr ‘prato’; secondo Lewy e Holthausen Wald < *(s))altus del lat. saltus; altri pongono Wald insieme al got. wilFeis ‘selvaggio’, a. isl. villr ‘selvaggio, folle’, ags. wilde, a. sass., a.a. ted. wildi ‘selvaggio, incolto’, cimr. gwyllt ‘selvaggio, pazzo, svelto’, corn. guyls ‘selvaggio, incolto’; lit. váltis ‘spiga d’avena’, a. pruss, wolti ‘spiga’, serbo vl0at id. (IEW 1139). 8.2. Il tipo “vadum” – In latino uada sono i ‘bassifondi paludosi’ e uadOsus significa ‘paludoso’.61 Ernout-Meillet s.v. uadum ‘guado, bassofondo’, aggiungono: «Sinonimo poetico di undae, maria, e.g. Vg. Ae. 5, 158, ... longa sulcant uada salsa carina». Anche questo termine condivide la polisemia mare-palude già vista più volte. 57 DEI s.v. melma ritiene ven. velma variante di it. melma «dal long. *mëlm sabbia fina (cfr. il got. malma, m., sabbia)». Può darsi, ma la coincidenza semantica tra valìna e velma le rende difficilmente separabili. 58 Gr. e{loÀ ‘palude’ (cfr. § 9.2.). 59 Traina, Paludi, p. 71. 60 Così come uallus ‘palo’ < *walso- secondo Ernout-Meillet (s.v. uallum). 61 Cfr. Traina, Paludi, p. 63. — 204 — Si noti inoltre: comasco vo ‘spazio tra due campi’ (REW 9120a);62 corso guadu ‘torrente’, ver. vaio ‘borro, valloncello’ (Salvioni-Faré 9120a);63 «In carte mediev. venete, vadum indica talora ‘maceratoio per il lino’» (Olivieri s.v. guado); a. isl. va9, anglosass. wæd ‘acqua, lago’ < *)adhom ‘guado’ (IEW 1109). – – – – 8.3. Il tipo “lustrum” Lat. lustrum è affine a lacuna ‘cavità ove si raccoglie l’acqua’, «può indicare ‘stagno’ o ‘bacino pescoso’, ma si riferisce a contesti palustri».64 È attestato in Paolo Diacono, epitome di Festo 107, 2: «lustra significant lacunas lutosas, quae sunt in siluis aprorum cubilia» (Ernout-Meillet s.v. lustrum ‘covo’, che commentano: «Senza dubbio da *lut-trom o da *lu-strom, come mOnstrum?. Cfr. lutum»). Lat. lutum ‘fango, argilla’ si può confrontare con gr. lu~ma ‘sporcizia, fango’, gr. om. luvqron ‘sangue misto a polvere’, alb. tosco lum, ler, alb. ghego lüm ‘fango’; a. irl. loth ‘fango’, cimr. lludedic ‘fangoso’; lit. lutýnas ‘palude, pozza argillosa’, lit. liÒunas ‘palude’ (Ernout-Meillet s.v. lutum; Chantraine s.v. lu~ma; IEW 681, che pone una radice *leu-, *le·up- : *lÇu- ‘sporcizia, insudiciarsi’, *lu-to- ‘fango’). In latino abbiamo anche un enigmatico lUtum «‘guado, pianta che serve a tingere in giallo, da cui: colore giallo’. Senza etimologia chiara» (Ernout-Meillet s.v. lUtum). Qui porrei anche il latino delle glosse alluvies, eluvies ‘acqua stagnante, palude’.65 Si tratta di forme collegate a lauAre ‘lavare’, per cui «fuori dell’italico, non ci sono corrispondenti che per la radice. [...] Il greco ha delle forme verbali oscure: louvw, leloumevnoÀ, ecc. L’armeno ha loganam ‘io mi bagno’, che richiama lat. lauAre. Il germanico offre sostantivi come a. isl. lau9r ‘lisciva’, laug ‘bagno caldo’; a.a. ted. louga ‘lisciva’. Non si riesce a porre nessuna forma indeuropea precisa; ma la parentela tra tutte queste parole è certa» (Ernout-Meillet s.v. lauO). Pokorny pone la radice *lou-, *lo)p- ‘lavare’ (IEW 692), che è una variante apofonica della radice *leu- posta per lustrum e lutum. 62 63 64 65 Cfr. il tipo “limo” al § 7.2. Cfr. il tipo “valle” al § 8.1. Traina, Paludi, p. 64. Traina, Paludi, p. 64. — 205 — 9. Gli omonimi vegetali – 9.1. Il lettore avrà notato i numerosi ononimi vegetali dei termini che abbiamo studiato, a cominciare da palù. Li elenco qui di seguito: – – – – – – – – – – tipo “mare”: lat. mare ‘mare’, a. ingl. mor ‘palude’ e forse lat. mArum, gr. ma~ron ‘erba gatta’ (§ 5.1.). tipo “marisco”: lat. marisca ‘terra fangosa’ e lat. mariscus ‘giunco’, gr. marivskoÀ id., ecc. (§ 5.2.); tipo “palude”: ven. palù significa sia ‘palude’ che ‘carice (erba palustre)’ (§ 2), inoltre abbiamo osset. farwe ‘ontano’, a. a. ted. felawa ‘salice’ (§ 6.1.); tipo “padule”: it. padule ‘palude’ e tosc. padulina ‘cìpero (ciperus rotundus)’, rum. p1dure ‘bosco’, alb. pyll id. (§ 6.2.); tipo “bola”: lit. balà m. ‘palude’ e f. ‘anemone bianco’, polacco dial. biel ‘bosco paludoso’; forse buranello lòpe ‘insieme di vegetali (giunchi, canne, radici) misto a terra’, con metatesi (§ 6.3.a); tipo “belsa”: lat. med. belisa ‘luogo incolto, luogo circondato da paludi’ e ‘giusquiamo’ (§ 6.3.b); tipo “limo”: lat. lImus ‘fango’ e ‘lichene, alburno’; pg. limo ‘Meergras, canna palustre’, sp. Salamanca limo ‘lemna’, cimr. llwyf ‘olmo’ (§ 7.2.); tipo “valle”: it. valle ‘depressione paludosa’ e a.a. ted., a. sass. wald ‘bosco’, anglosass. weald id., lit. váltis ‘spiga d’avena’, a. pruss, wolti ‘spiga’, serbo vl»at id.; forse buranello véi o véli ‘alghe di laguna’ (§ 8.1.); tipo “lustrum”: lat. lutum ‘fango’ e forse lUtum ‘guado, pianta che serve a tingere in giallo’ (§ 8.3.). 9.2. A questi vanno aggiunti altri omonimi vegetali, che si trovano nei sinonimi di ‘palude’ che non abbiamo considerato: – gr. e{loÀ ‘acqua stagnante, palude, acquitrino’66 e ‘giunco palustre’ (nei Settanta: Is. 35.7); nei lessici (Esichio, Suda, Etimologicum Magnum) indica un ‘luogo ricco di alberi’ quindi è usato «in un’accezione che non comprende solo la descrizione dell’acqua, ma anche della vegetazione che forma l’habitat palustre». I lessici tardi instaurano «un’analogia con hylE (= sylva)».67 – À «nonostante l’accezione di boschetto, in Egitto e per alcuni lessici gr. drumov equivale a helos»; esiste una «palude Drymos nel Fayyum. Ad ogni modo, il glossema helE = ho drymos si ha nelle glosse omeriche di Apione».68 ti~ϕoÀ «sinonimo di helos utilizzato in contesti poetici (A.R., Lyc.). I lessici lo indicano come ‘luogo molto umido’».69 Accanto a ti~ϕoÀ ‘luogo paludoso, palude’ abbiamo tivϕuon ‘scilla d’autunno’ (Chantraine s.v. ti~ϕoÀ) e tivϕh ‘spelta, Triticum monococcum’ (Chantraine s.v. tivϕh). 10. Un’aria di famiglia 10.1. Le radici storiche Per i gruppi lessicali “mare”, “palude”, “lama” e “valle” abbiamo individuato le seguenti radici, che elenco per gruppo e per tipo: (a) gruppo di “mare”: – tipo “mare” (§ 5.1.): *mar, *mor, *man; – tipo “marisco” (§ 5.2.): *mar + suffisso -isk-; (b) gruppo di “palude”: – tipo “palude” (§ 6.1.): *pal, *pel, con ampliamento labiovelare w; – tipo “padule” (§ 6.2.): *pad, * mad (forse *bod), con ampliamento labiovelare w; – tipo “bola” (§ 6.3.): *pal, *pan, *bal, *bel, *bol (forse *mol, *lop)70, con ampliamento dentale s, t, n; (c) gruppo di “lama”: – tipo “lama” (§ 7.1.): *lam; – tipo “limo” (§ 7.2.): *leim, *loim, *lim; (d) gruppo di “valle”: – tipo “valle” (§ 8.1.): *wal, *wel, con ampliamento dentale s, t; – tipo “vadum” (§ 8.2.): *wadh; – tipo “lustrum” (§ 8.3.): *law, *lew, *low, *lu, con ampliamento dentale t. Queste radici hanno un’aria di famiglia, che sembra confermare le affinità semantiche viste nei paragrafi precedenti. Tuttavia non è agevole precisare, con gli strumenti della linguistica ortodossa, in cosa consista questa familiarità. Ho limitato la mia indagine all’ambito indeuropeo, ma le parole studiate travalicano l’indeuropeistica, come dimostrano i confronti extraindeuropei da un lato, la diffusione nella toponomastica dall’altro. 66 «Strabone, per indicare le lagune e risorgive della Venetia, usa helE (5.4.1. e passim)» (Traina, Paludi, p. 55). 67 Traina, Paludi, pp. 54-55; e{loÀ ‘bassifondi, palude, prato umido’ «antico tema in -s che corrisponde esattamente a scr. sáras- n., con sarasiya- che corrisponde a e{leioÀ, i.-e. *selos. Ma non sembra possibile, malgrado le glosse d’Esichio e Suida, evocare il greco u{lh o lat. sylva» (Chantraine s.v. e{loÀ). Cfr. la paretimologia serviana Velia < e{loÀ (§ 8.1.). Traina, Paludi, p. 58. Traina, Paludi, p. 57. 70 Per *lop < *pol si tratterebbe di metatesi (interversione nella terminologia di Silvestri, Emblemi sostratistici mediterranei). — 206 — — 207 — 68 69 Abbiamo precisi riscontri con lingue non indeuropee: – per il tipo “mare”, i vasti confronti nostratici proposti da Alinei (§ 5.1.) col proto-afro-asiatico, il proto-cartvelico, il dravidico, il proto-altaico; – per i tipi “padule” (§ 6.2.) e “limo” (§ 7.2.), i paralleli nel basco, che non è necessariamente detto siano imprestiti; – per il tipo “lama” (§ 7.1.), Pokorny propone confronti ugro-finnici, che anche in questo caso non è detto siano semplici imprestiti. Sicuramente, facendo una ricerca specifica per tutti i tipi, e non per il solo tipo “mare”, per cui disponiamo dei dati di Alinei, si troverebbe molto di più. Anche la ricchezza di riscontri nella toponomastica sembra andare nella stessa direzione e suggerire che ci troviamo di fronte a tipiche parole di sostrato, preindeuropee o comunque collegate a strati linguistici non indeuropei. I toponimi che abbiamo visto ai praragrafi precedenti sono i seguenti: – tipo “mare” (§ 5.1.): Mar di Marmara; gr. Mareotis, Mareia, limnE Maros; it. Terramara; – tipo “palude” (§ 6.1.): it. Palù; – tipo “padule” (§ 6.2.): it. Padulacchia, Paullo, Pavùllo; lat. Patavium ‘Padova’, Patena o Patina, Padua, Padus ‘Po’; forse ligure (?) Bodincus ‘Po’; – tipo “bola” (§ 6.3): a. pruss. *balo in toponimi; trace Di-baltum; ligure Duria Bautica; ven.-illir. (?) mare Balticum; lat. PantAnus, Pandosia, Bandusia; slavo Balaton (§ 6.2.); – tipo “lama” (§ 7.1.): illir. LavmhtoÀ, Lamato. Anche qui ricerche specifiche avrebbero notevolmente aumentato la consistenza della documentazione toponomastica. 10.2. La ricostruzione preistorica Siamo di fronte a un lessico che potremmo definire “arcaico”, che non si spiega limitandosi al solo ambito indeuropeo. Dobbiamo pertanto integrare le regole della linguistica ricostruttiva indeuropea con altre regole etimologiche che tengano conto della ricostruzione nostratica 71 e di quella che ho chiamato “linguistica paleolitica”,72 regole che permettano da un lato di risalire geneticamente alle fasi linguistiche universali anteriori alle differenziazioni locali, dall’altro di riguadagnare una costellazione lessicale arcaica, un reticolo di forme collegate orizzontalmente attraverso catene di contatti, e non verticalmente per discendenza genealogica. In questa prospettiva possiamo riesaminare le radici elencate al § 10.1. e proporne una tipizzazione. Qualche avvertenza tecnica: uso il normale corsivo per il suono ricostruito in base alle attestazioni storiche, mentre utilizzo, per la ricostruzione preistorica del suono tipizzato, il maiuscoletto e il maiuscolo.73 Ecco il valore convenzionale dei segni impiegati: – *A vocale medio-bassa, che si può colorare variamente a, e, o in base all’apofonia e al gioco delle laringali;74 – *N [= n, r, l] fusione di liquida e nasale, attestata tra l’altro dalla ben nota alternanza indeuropea n / r;75 – *M [= m, b] occlusiva bilabiale sonora, sia nasale che orale;76 – *P [= p, b] occlusiva bilabiale orale, sia sorda che sonora; – *D [= d, dh] occlusiva dentale sonora non aspirata e aspirata; – *D [= d, dh, l, r] occlusiva dentale sonora e liquida; – *T [= t, s] occlusiva e sibilante dentale sorde; – *M [= m, b, p] occlusiva bilabiale, sia nasale che orale; – *N [= n, d, dh, r, l] occlusiva dentale sonora, sia nasale che orale, e liquida; – *N [= n, d, dh, t, l, r, s] dentale: nasale, occlusiva, liquida e sibilante; – *M [= m, b, p, w] labiale: nasale, occlusiva, approssimante.77 (A) gruppo di “mare”: *mAN: – tipo “mare”: *mAN ; – tipo “marisco” (§ 5.2.): *mAr; (B) Gruppo di “palude”: *MAN + w / N: – tipo “palude” (§ 6.1.): *pAl + w; – tipo “padule” (§ 6.2.): *MAd + w; – tipo “bola” (§ 6.3.): *MAN + N; (C) gruppo di “lama”: *l+m (<*m+l):78 – tipo “lama” (§ 7.1.): *lAm; – tipo “limo” (§ 7.2.): *lAim. 71 Si veda quanto dice Umberto Rapallo sulla ricostruzione nostratica: «L’ipotesi merita di essere presa in considerazione, in quanto non solo spiega un gran numero di fatti lessicali, di etimologia altrimenti oscura, ma è sostenuta anche da precise norme, fonologiche e morfologiche, che fanno luce su un’apparente e sconcertante plasticità: la forma biconsonantica della radice ‘nostratica’, l’alternanza delle consonanti radicali su zone contigue di articolazione (specialmente sonore / non-sonore, occlusive / spiranti, enfatiche / non-enfatiche), il fenomeno degli ‘allargamenti’ della radice (suffissi, infissi, prefissi)» (Rapallo, La ricerca in linguistica, p. 197). 72 Cfr. Sanga, Questioni di glottogonia; Sanga, L’appaesamento linguistico; Sanga, Scrivere tessere tracciare. Il tondo indica una tipizzazzione di grado più elevato rispetto al corsivo. Per l’ambito indeuropeo cfr. Watkins, Il proto-indoeuropeo. 75 Cfr. Benveniste, Origines; Martinet, L’Indoeuropeo, pp. 173-175; Szemerényi, Introduzione pp. 208-209. 76 «È possibile, ma non dimostrabile, che il pie. *m riflettesse una più antica fusione di *b e *m» (Watkins, Il proto-indoeuropeo, p. 53). 77 Domenico Silvestri, nell’analisi etimologica del tipo “mela”, parla di una «protoforma “indomediterranea” con labiale iniziale M/B/W» (Silvestri, Emblemi sostratistici mediterranei). 78 Stessa metatesi che appare più sotto in *lAw < *wAl (vedi nota seguente). La vocalizzazione di +m in latino sviluppa un elemento palatale: *+m > em (cfr. Cfr. Pisani, Glottologia; Pisani, Introduzione; Szemerényi, Introduzione; Watkins, Il proto-indoeuropeo, p. 61). — 208 — — 209 — 73 74 (D) gruppo di “valle”: *wAD + T: – tipo “valle” (§ 8.1.): *wAl + T; – tipo “vadum” (§ 8.2.): *waD; – tipo “lustrum” (§ 8.3.): *lAw (<*wAl) 79 + t. Le quattro radici *mAN “mare”, *MAN “palude”, *l+m (< *m+l) “lama”, *wAD “valle” sono da considerarsi sintesi di una costellazione di rapporti lessicali, e ipotesi genetiche più che genealogiche.80 Continuano a mantenere un’aria di famiglia, sia sotto il profilo fonetico, che sotto quello semantico. La forma comune dovrebbe essere *MAN, composta cioè da una consonante labiale m/b/p/w + una vocale medio-bassa a/e/o + una dentale occlusiva, nasale o liquida d/dh/n/r/l, semplice o con ampliamenti diversi secondo i tipi, in labiovelare w o in dentale n/d/dh/t/l/r/s, quindi *MAN + w / N. Il significato comune dovrebbe essere ‘palude, impaludamento’, stante il valore di ‘palude’ che ha originariamente “mare”, e il valore di ‘impaludamento’ che ha originariamente “valle”, magari con una sfumatura di ‘acqua ferma’ per “mare”, “palude”, “lama” (che forse non a caso utilizzano un suono momentaneo come l’occlusiva bilabiale),81 rispetto ad ‘acqua che scorre all’interno della palude’ per “valle” (dove è utilizzato invece un suono continuo come l’approssimante labiale).82 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Mario Alinei, Origini delle lingue d’Europa. Vol. I La Teoria della Continuità. Bologna, il Mulino, 1996. Mario Alinei, Origini delle lingue d’Europa. Vol. II Continuità dal Mesolitico all’età del Ferro nelle principali aree etnolinguistiche. Bologna, il Mulino, 2000. 79 Per *lAw < *wAl la metatesi passa probabilmente attraverso un grado zero *w+l > *lu / *lAw (in alternanza apofonica). 80 Col termine “genealogico” intendo riferirmi alla derivazione storica di una lingua da un’altra; mentre col termine “genetico” intendo riferirmi a processi di corrispondenza e di derivazione fonetica basati su regole universali storicamente verificate: ad es. it. mano < lat. manus è una derivazione (e corrispondenza) genealogica, mentre la corrispondenza tra le negazioni gr. nE e tibetano ne non è né casuale né genealogica, ma genetica, come pure genetica è la derivazione gr. nE < gr. mE, in quanto che abbiamo a che fare con la realizzazione di universali fonetici, che si possono (non debbono!) attivare nel corso dell’evoluzione di ogni lingua (cfr. Sanga, L’appaesamento linguistico; l’esempio citato è al § 16.2.). 81 Si tenga presente che l’occlusiva nasale (m), che geneticamente sta a monte dell’occlusiva bilabiale orale (b, p), è ancora indistinta, avendo una realizzazione mista che la rende contemporaneamente momentanea (per l’occlusione orale) e continua (per il flusso dell’aria attraverso la cavità nasale). L’indistinzione e la coalescenza degli opposti sono una caratteristica degli stati arcaici, su cui sarebbe troppo lungo soffermarsi (rinvio a Sanga, L’appaesamento linguistico; Sanga, Introduction). 82 Una rivalutazione della componente fonosimbolica è operata da Brent Berlin, Ethnobiological Classification; Berlin, Tapir and Squirrel. — 210 — Émile Benveniste, Origines de la formation des noms en indo-européen. Paris, Maissonneuve, 1935. Brent Berlin, Ethnobiological Classification. Principles of Categorization of Plants and Animals in Traditional Societies. Princeton University Press, 1992. 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Volendo avvicinarsi al tratto ‘caratteristico’, anzi ‘caratterizzante’ della fauna ittica nel Veneto e affrontare il problema del suo utilizzo alimentare, con i riflessi che ciò comporta dal punto di vista dialettologico anche dal punto di vista storico, si è obbligati a fissare l’attenzione su un certo numero di sottoinsiemi ittici che si manifestano attraverso una pluralità di forme lessicali, spiegabili non solo attraverso parametri nomenclatòri ma classificatori e tassonomici. Tali sottoinsiemi includono necessariamente – il ‘branzino’ o Dicentrarchus labrax L.2 a Venezia, – gli ‘storioni’ nel Po (Accipenser sp.), – le ‘pássare’ o altri pleuronettidi alle foci del Sile, del Brenta ecc.,3 – il bisato o anguilla (Anguilla anguilla L.) a Comacchio e nelle valli venete, – l’allevamento di vari crostacei in laguna, tradizionalmente a Chioggia e da qui introdotto anche a Burano. I paragrafi 1.0, 1.1, 2.0 sono di J.B. Trumper, 2.1, 2.2 di M.T. Vigolo. La cosiddetta ‘spigola’ veniva allevata già dai tempi antichi: l’allevamento era ben noto ai Romani quali Varrone [De Re Rustica III. 3. 9: “Non Philippus, cum ad Ummidium hospitem Casini deuertisset et ei e tuo flumine lupum piscem formosum adposuisset atque ille gustasset et expuisset, dixit: ‘peream, ni piscem putaui esse’? Quanto detto suppone l’allevamento in fiume di questo pesce], addirittura in Tevere, cfr. Plinio N.H. X.LIV [169] “...eadem aquatilium genera aliubi atque aliubi meliora, sicut lupi pisces in Tiberi amne inter duos pontes” . Per il riferimento alla bontà delle spigole romane cfr. Orazio Sat. II.2.31, Macrobio Sat. III. 16 ecc. Ovviamente qui il Dicentrachus labrax L. comprende anche il meno comune Dicentrachus punctatus (Bloch). 3 Il nome tardo, post-medioevale, è dato in Giovio, De Romanis piscibus libellus XXV “.... passeres, sic hodie nuncupati a Romanis”, citato in Ineichen, BALM 1960-61: 102. Evidentemente, derivati volgari del nome ‘passer’ erano più diffusi nel ’400-’500 di quanto siano ora, infatti sembra adesso limitato al veneto dialettale e popolare. Non vi è menzione del suo allevamento, ma a Venezia non 1 2 — 215 — Tali ‘aquatilia’ sono stati soggetti di allevamento plurisecolare, d’intenso sfruttamento commerciale ed alimentare nel Veneto, dalla laguna alle valli, nei fiumi ed alle loro foci. In questo saggio focalizzeremo l’attenzione sulla ‘spigola’ o branzino e sugli storioni. Nel primo caso, cioè quello di branzino, va notato che la biotassonimia veneta del Dicentrarchus labrax L., il cui allevamento è diffuso da secoli, si presenta abbastanza ricca, diremmo iperdifferenziata, conseguenza generale del diffuso utilizzo alimentare. Nel Veneto il termine non marcato risulta: bransín, quelli marcati: (1) adulto, grosso: bocalón; (2) immaturo, piccolo: bajòco (forma lagunare: bagiòco) = baícolo (ovunque) = variòlo (forma lagunare), che potremmo schematizzare come nella fig. 1. FIGURA 1 bransin 1 GENERICO SPECIFICO (1)bocalon 2 (2)bransin (3)varolo (4)baicolo 1-4sonofasidicrescita,dalpiùadulto(epiù grosso)alpiùimmaturo(epiùpiccolo). I pescatori di canale e di fiume della Terraferma fanno distinzione tra bransín de mare e bransín, ma trattasi sempre di Dicentrarchus labrax L., talvolta di Dicentrarchus punctatus (Bloch), con la sola distinzione di habitat. Anche le varietà che vivono nelle acque interne si dividono in bransín, termine non marcato, rispetto a quelli marcati: bocalón (adulto, grosso) ≈ baícolo (piccolo, immaturo). Questo sistema di denominazione presenta una sua profondità storica, ad esempio nel ’500 si ha brancin, varolo [varuoli ed. Sanudo p. 172] e baicolo [vaiccolo ed. Sanudo p. 64], che sono presenti come lessicalizzazioni usuali nel Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetæ, nel Bando dei Cinque Savi alla Mercanzia del 17 settembre 1578. Varuol è onnipresente nell’opera di Calmo, specialmente in Le bizzarre, faconde et ingegnose rime pescatorie (Venezia 1563). Folena, BALM 1963-64, ne dà una ricca documentazione sia per gli usi culinari che per la nomenclatura; ad esempio, agli inizi del ’500 vi sono in C. di Messisbugo, Banchetti, compositioni di vivande et apparechio generale, Ferrara, i ‘varuoli’ nella cena offerta da Ippolito d’Este al fratello Ercole Duca di Chartres (op. cit. p. 75); in una cena del 20.5.1529 sono elencati “varolo in sale, varuoli alla tedesca”, nel libro di Giovio, De Romanis piscibus, tradotto in volgare da C. Zancaruolo, Libro di Mons. Paolo Giovio de’ pesci romani, tradotto in volgare, Venezia 1560: “...il Lupo anticamente fu quel pesce, che i Romani hoggi chiamano Spigola, i Vinitiani Varuolo, i Toscani Ragno, gli Spagnuoli Lupo, et i Genovesi Lupaccio” (Folena p. 81), e nel famoso libro di storia naturale di I. Salviani, Aquatilium Animalium Historiæ, Roma 1554-58 si elencano di seguito: Lupus (Labrax) spigola Roma, ragno Toscana, varolo Veneto, lovazzo Liguria, Francia lubin, Spagna lupo ecc. (Folena op. cit. p. 112). Nel Trattato della natura de’ cibi e del bere di B. Pisanelli del 1583 si danno i nomi (Folena cit. p. 71): “La spigola si chiama da’ Greci labrax e licos, in Toscana ragno, in Venezia varolo, in Genova lovazzo, in Napoli spinola...”. Folena p. 87 afferma d’altronde che dal Nomenclator di Gesner (1560) si sapeva, per quanto riguarda la spigola (araneus), “...che il termine branzino oggi diffusissimo nell’Adriatico sett. e nella Liguria non si era ancora affermato (e non compare in nessuna fonte cinquecentesca, mentre è attestato nel ’700 in Gaspare Gozzi nella forma brancino)”. A Venezia, comunque, sappiamo che il termine brançin/ brancin è usuale da Sanudo in poi. Nel ’300 vi è già menzione dei ‘varuoli’, cfr. Cecchetti 1855. Lo stesso Cecchetti riporta un documento veneziano del Doge Sebastiano Zianni del 1173 in cui, nell’elenco dei pesci per uso alimentare a Venezia, viene citata la forma ancora più antica ‘vairolo’ (annotato ‘brancino giovane’ da Cecchetti), da cui si deduce che il lemma è attestabile dal 1100 come vairolo / varolo e dal periodo 15001700 come brançin o brancin. Ciò sembra confermato da M. Brusegan 1992 che riporta come terminologia storica: Bransin = Branzin: Dicentrarchus labrax = Labrax lupus; Baicolo: giovani o da semina (Dicentrarchus labrax); Vairolo = Varolo = Varuol = Varollo giovani di Dicentrarchus labrax, documentazione che vale dal ’500 in poi. Storicamente possiamo concludere dunque che (1) varolo, vairolo esiste come denominazione del giovane branzino d’allevamento almeno dal 1100 in poi, (2) il generico bransin esiste dal periodo 1500-1700,4 ma non sembra essere documentato precedentemente, almeno allo stadio attuale della ricerca, (3) baícolo, nella forma citata da Sanudo vaiccoli (v. ed. Caracciolo Aricò p. 64), esiste chiaramente dal ’500 in poi. Gli altri termini trattati sopra (bajòco/ bagiòco, bocalón) sembrano non aver documentazione storica. sembra affatto di recente introduzione. Prova ne sarebbe il riferimento agli “auredellas, barbuncellos, pesserinos et gozedellos” (traduciamo: orate, triglie, passere e gobi) di un antico registro chioggiotto del 1331 citato in Cecchetti 1885: 41. 4 Folena 1963-64: 87 sosteneva che il termine ‘branzino’ (= ven. bransín) “non si era ancora affermato” nelle fonti ittionimiche documentarie fino al ’700 ed era comparso per la prima volta nel ’700, nel veneziano G. Gozzi, nella forma brancino, come s’è già detto. Comunque, la mancata documentazione, nei testi spogliati fino ad oggi, non implica necessariamente l’inesistenza della voce dialettale bransín. Non vi è, secondo noi, soltanto la ‘latinità sommersa’ ma anche la ‘dialettalità sommersa’, come pure altri aspetti che non sempre vengono documentati nelle culture, non per ciò sono necessariamente assenti. — 216 — — 217 — 1.1. Per quanto riguarda stricto sensu la lessicografia dialettale, la documentazione precisa inizia con la voce brancin (= bransín) di Boerio 1856: Brancìn “T; de’ Pesc. detto da Plinio Lupo. Pesce di mare, eccellente, benchè comunissimo, ch’è una specie di Persico chiamato da Linn. Perca punctata. Quando è piccolo, cioè del primo anno, è detto da’ Pescatori Baìcolo, ed anche Sbregalùre e Variolo, per aver molte macchie sparse come le hanno i vaiuolosi”. Per quanto riguarda la voce varólo, si ha Variòlo “T. de’ Pesc. chiamasi il Brancino quando è giovane. A Trieste dicesi Vanìn”; Sbregalùse [sic] “T. de’ Pesc. V. Brancìn”. Baícolo viene definito in modo sorprendente come segue: Baìcolo, Baicolèto “Varietà della specie del Cefalo, V. Cievolo. Ed anche del Brancino.” Bajòco o bagiòco, invece, viene riferito soltanto alle vecchie monete, cioè “Baiocco, Moneta romana di rame, del valore di due soldi veneti”. ricorda il cefalo giovane”), offrendo anche ipotesi etimologiche, ma non trattano la voce varólo, il varòlo è soltanto il “vaiolo”, il che fa pensare alle “variòle” di Ninni (ut sup.) oppure la sua voce (Ninni I. 115) “Varole delle ostreghe - Quelle macchie oscure isolate e per lo più rotondeggianti che si trovano talvolta nel lato interno della conchiglia delle ostriche”, senza che gli autori in questione menzionino mai questo noto naturalista veneto dell’Ottocento. L’etimo proposto per bransín, italiano regionale ‘branzino’, ricalca pedissequamente l’ipotesi del DEI, che a sua volta ha ripreso la vecchia proposta di Meyer-Lübke, più precisamente DEI I. 590 “branzino m. ittiol.; spigola o luccioperca, lat. sc. labrax lupus; v. veneta (bransìn); cfr. ven. branzo branchie e tarant. vranza cefalo, dal lat. tardo (e medioev.) branchia, brancia ‘branchia’”; REW 1271a.“ branchia (griech.) “Kiemen”. Venez., triest. (> it.) branzino”. Anche nel caso di baícolo Turato-Durante 19895 non fanno altro che richiamare la spiegazione del DEI, riuscendo, come sempre, a non nominarlo: DEI vol. 1: “(1) baìcoli ittiol. termine veneziano per indicare i giovani pesci della spigola, lat. labrax lupus; baìcolo biscotto veneziano che ricorda, per la forma, i piccolissmi cefali chiamati ‘baìcoli’...”. Ninni, in Giunte e correzioni al dizionario del dialetto veneziano Venezia 1890, vol. I, p. 13 registra “Baìcolo - Dassi questo nome unicamente ai giovani Labrax lupus volg. “Bransino”, sino alle 3 o 4 oncie di peso. Deriva forse dalla somiglianza di forma che hanno i labraci d’anno col noto biscottino veneziano”. È veramente la vecchia questione se venga prima l’uovo o la gallina. A nostro avviso sembrerebbe prioritario il pesce (natura), secondario il biscotto (manufatto), a meno che non si dimostrino filologicamente scambi di tipi culturali seriori che provino il contrario. La voce “bransin[o]” appare unicamente nello stesso contesto di baícolo. Per varólo ecc. cfr. Ninni I. 250 “Variòlo - Dicesi così al giovine brancino, ma è più conosciuto sotto il nome di “baìcolo”. Il nome di “variòlo” deriva da “variòle” che sono quei segni che il vaiolo lascia sulla pelle: si paragonano ad essi quelle macchiuzze di cui è cosperso il brancino nella prima età.” Poi baìcoli e branzin sono menzionati nella poesia 230 citata in Ninni III. 166-167 con le chiose “Baicoli = Labrace o Branzino”. I dizionari moderni che trattano lessico ed usi lagunari non danno, comunque, maggiore soddisfazione, si veda ad esempio Deanovic 1964 che trattando l’istrioto, genus proximum del veneto e fortemente influenzato nel suo lessico dallo stesso, dà (p. 396, voce 541) “el branséin - la spigola (Morone labrax)”, oppure Naccari-Boscolo 1982 con la loro elencazione chioggiotta: (1) Brancin “spigola, branzino lat. dicentrarchus labrax”; (2) Variòlo 2 “branzino, spigola, pesce lupo lat. dicentrarchus labrax”; (3) Baìcolo “spigola lat. dicentrarchus labrax”. Anche qui bagiòco non sembra conosciuto nel senso di baícolo, cfr. bagiòco “antica moneta di rame da due soldi”; “stupido”; e bàgia “beffa”. I tipi bocalón ecc. sono estremamente generici in tutta la lessicografia veneta: acquisiscono, invece, concretezza se inseriti in contesti o settori specifici, ciò che succede di continuo nell’organizzazione del lessico della vita quotidiana. Turato- Durante 19895 forniscono i lemmi bransín (“ Bransín nasello, pesce lupo. Dal greco ”branchia” = branchia, avendo questo pesce il preopercolo fornito di spine rivolte in avanti”), baícolo (“ Baícolo cefalo giovane (pesce); biscotto caratteristico di Venezia, la cui forma Ciò che ci lascia perplessi a proposito di questa ipotesi etimologica è l’insieme di due fattori: (1) il greco bravgcion pl. bravgcia ‘branchie’ [mod. spavracna, comunque] è termine dotto, in genere tardivo, nel romanzo occidentale, popolare soltanto nei dialetti meridionali d’Italia,5 cfr. napol. gráncð (< *vráncð < tardolat. branch3a < bravgcia pl.), ma non in tutti, ad es. il calabrese gárge o gárgi f. pl. (< gárgia) deriva da tutt’altra base [REW 3685 *garg-]; (2) il veneziano e veneto conoscono un altro termine per ‘branchie’, attestato anche storicamente. Trumper 1999: 539-540, trattando complessivamente il concetto di ‘branchie’ nell’indoeuropeo occidentale, accomuna sotto l’etichetta “gills” sia il veneto baíse che sguánse. Si dovrebbe, in senso più tecnico, distinguere baíse f. pl. ‘branchie’ [= ‘filamenti’, cfr. anche Naccari-Boscolo 1982 ‘tessuto ventricolare’, cioè i tessuti filamentosi del cuore] da sguánse ‘opercoli’ [che coprono le branchie]. La distinzione non è evidente in Boerio 1856, lo è, invece, in Ninni I. 101 (originale del 1890) quando si precisa “Sguancia - che si dice anche “recia”, è l’opercolo dei pesci”, oppure al vol. I. 229, nella definizione di “Rècia” usata di pesce (sguánsa = récia). Come si può facilmente notare, la prima voce deriva da ‘bava’ (REW 853 *baba: qui inteso come ‘fili’, ‘filamenti’), la seconda sembra un incrocio tra REW 9055 5ncInus (> ven. ansín) e REW 4673 (ma è ancora valido come etimo?), di significato uguale [‘uncino’ si adatta bene all’opercolo e al preopercolo della spigola dotati di spine, ma non a quello di tutti i pesci], e nessuna delle due ha a che — 218 — — 219 — 5 Vi è una presenza storica di derivati di ßravgcia nel sud della Francia e nell’antico francese, cfr. FEW I. 498 ‘branchia kiemen’. Afr. brange. Nfr. branchies, npr. branco (x branca) rappresentano esiti dotti, anche se ‘contaminati’. vedere etimologicamente con ‘branchia, -e’. Il DEI I. 590 chiamava in causa forme venete e veneziane evidentemente non intese, visto che già il Boerio recitava “Branzo, s.m. (colla z aspra) Voce ant. de’ pescatori, Branca o Chele, I piedi e le forbici de’ granchi o delle grancevole”, parola allora antiquata che nulla aveva a che fare con le ‘branchie’. In secondo luogo si richiamava in causa una voce tarantina (pugliese) ‘vranza’ cefalo, mal definita, in quanto Vránzð d’órð (in alcuni dialetti Sgárzð d’órð) nei dialetti pugliesi (tarantini), corrispondente all’alto ionio calabrolucano vránzðnð (Trebisacce), al medio ionio calabrese vránzulu (Cariati, Cirò Marina, Crotone, fino a Catanzaro Lido), con variante crotonese fránzulu,6 indica uno specifico membro del genere Mugil, vale a dire Mugil auratus (Risso), definito ‘frangia d’oro’ per la striscia gialla sugli opercoli e nella zona circostante. Vránzulu/ Fránzulu/ Vránzð/ Vránzðnð richiamano ‘frangia’, dal medio fr. ‘frange’, accettata in testi italiani del Trecento (v. DELI, DEI frangia: volgarizzazioni toscane di S. Giovanni ‘Grisostomo’ ecc.), già nell’antico francese come derivato del lat. medioevale frimbia per fimbria, per cui il problema non è da porre in termini di incerti esiti di branch3a < bravgcia, ma in quelli dell’origine ultima del lat. frimbia/ fimbria, voce antica quanto gli scritti ciceroniani e varroniani.7 Siamo obbligati, dunque, a cercare altrove una lontana origine di bransín (> branzino). 6 Rohlfs NDDC è un po’ più vicino alla verità quando scrive “bránzulu (MCrotone) m. pesce, sorta di cefalo o muggine [tar. vránzplp, lecc. ránzulu id., corruz. di orifrangio]”. È importante la ‘frangia d’oro’ piuttosto che l’orifrangio. La sonorizzazione di /f/ > [v] > /b/ non è correttamente individuata, come neppure la reazione a questo fenomeno, cioè [v] < /f/, ergo [v] > /f/, con rifonematizzazione, fenomeno una volta tipico della maggior parte della Calabria settentrionale. Il fenomeno è di più difficile spiegazione nel pugliese e nel salentino; comunque, in questi dialetti vi è un’ iperreazione generalizzata alla lenizione romanza delle sonore tramite la loro desonorizzazione, per cui /b, d, g, v, {/ > /p, t, k, f, &/ ecc., come processo che depaupera la stessa lenizione o piuttosto i contesti in cui essa può operare. 7 Fimbria è estremamente comune in Cicerone e Plinio (N.H.); Varrone (De Lingua latina V. 13) cerca addirittura associazioni lessico-semantiche ed etimologiche. Petronio usa anch’egli la forma fimbriæ come ‘orli, fregi’ in Satir. XXXII “... circaque oneratas ueste ceruices laticlauiam immiserat mappam fimbriis hinc atque illinc pendentibus”, mentre Quintiliano (Instit. Orat. VII. 3. xxxii) riferisce l’uso di fimbriatus ‘orlato’ ecc. Festo riferisce le associazioni e l’etimologia (Lindsay 80, 4-7) registrate da Varrone. LEW I. 498 vorrebbe associare fimbria, forma classica, sia a fIbra che a fIlum, derivando tutt’e tre da *gwhins-rA / gwhIs-lo- (v. IEW II. 489 *gwhei-). Non mancherebbe una certa coerenza semantica come ‘fili che pendono’. Comunque, suggeriamo come punto di partenza IEW II. 440 *gher- [*GER-] che presenta sia suffissazione con formante -N- in germanico [cfr. la voce granus,-i in Isidoro, Origines XIX. 23.7 associata con i Goti: “ut uidemus cirros Germanorum, granos et cinnibar Gotorum, stigmata Brittonum...”] e slavo, ma con -N- D- in celtico, testimoniato non solo nell’ant. e medio irland. [Sanas Cormaic 728: “Grend.i. grUaid-finn.i. find ngrUaide”; Annála Uladh a. 809, 7 p. 264 “at:cessa guib co ngrennaibh/ oc techt do cheallaibh Uladh” -si sono visti ‘bècchi barbuti’ (riferimenti paraetimologici ad Ulster) uscire dalle chiese di Ulster] e nell’ant. e medio cimr. [Canu Taliesin ed. Williams V.13 = J.G. Evans Taliesin 59.16-17 “A grann gwyarllet am waet gwyr gonodet” - con la guancia / la barba insanguinata, macchiata dal sangue dei guerrieri] ecc. I testi appartengono ad un arco di tempo che va dal 900 al 1200. Ma grannus appare nelle glosse più antiche (Whatmough 1970: 899), e abbiamo il titolo Grannus applicato ad Apollo (Apollo ‘barbuto’ =‘adulto’), e ciò non solo in Dione Cassio (LXXVII. 15.6 oJ Apovllwn oJ GravnnoÀ) e nelle iscrizioni (APOLLINI GRANNO in CIL III. 5588, 5861, 5871, 5873, 5874, 5876, 5881 ecc.: si veda Holder I. 20372039 Gr1nno-s e I. 166 Apollo Grannus). Lo sviluppo che dà conto delle antiche, medioevali e — 220 — Tradizionalmente il nome della spigola deriva in latino e greco non dagli ‘opercoli’ o ‘branchie’, bensì dalla nota voracità del pesce, cfr. per il gr. lavbrax Senocrate fr. IX/ XII [cfr. Senocrate, De Alimentis ex Fluviatilibus kg´, kÀ´, l´, Ideler I. 123: lavbrax, - lavbrakoÀ], Aristotele, Hist. An. (489b26, 534a9, 537a28, 543a3/b4/b11, 570b21, 591a11/b18, 601b30), Aristofane, Equites 361, Ateneo, Dipnosofisti VII. 302e,8 Dipnosofisti VII. 327c,9 id. 311,10 Eliano, Historia Animalium I. 30, IX. 7, X. 2, Oppiano Alieutica (passim, ma più particolarmente: I. 114, 119/589, II. 128-140, III. 121/128/184)), Galeno VI. 714 ecc. Esiste anche il diminutivo labravkion, lauravkion negli autori tardogreci, cfr. Anonymus Medicus (Simeone Seth?), De Alimentis sez. Peri; laurakivwn (Ideler II. 279). La corretta etimologia di lavbrax viene data in Oppiano, Alieutica II. 130 “lavbraka, sfetevrhsin ejpikleva labrosuvnhsin”. Comunque, una fonte più antica aveva già intuito l’origine del nome, cioè Icesio riportato in Ateneo, Dipnosofisti 310f (“@IkevsioÀ dev fhsin o{ti oiJ lavbrakeÀ eu[coloi eijsi kai; ouj poluvtrofoi, ...wjnomavsqh d!oJ ijcqu;À para; th~n labrovthta”). Lupus in latino non si configura come metafora, bensì fa parte del ‘continuum naturale’ in cui sono inclusi cognitivamente, ergo anche linguisticamente, animali, uomini, pesci, uccelli, piante ecc.; è la lessicalizzazione di questo stesso tratto di ‘voracità’. Per il nome lupus negli autori latini si veda Appendice 1. Per la voracità come giustificazione ‘etimologica’ del nome cfr. Isidoro, Etymologiæ XII.6.5 “Ex similitudine terrestrium: ... Ex moribus lupi, quod inproba uoracitate alios persequantur. A colore: ......; et us terrestrium: ut canes in mari a terrenis canibus nuncupati, quod mordeant; et uarii a uarietate, quos uulgo tructas uocant”. Isidoro etimologizza correttamente il nome lupus dato alla spigola, lungo le linee profilate in Oppiano per questo tratto forse non solo caratteristico ma anche definitòrio.11 moderne forme celtiche è *gh[e]r[e]-n-dh-o [*GR-N-D-O] > goidelico *grendo-/ brittonico *grandoecc. Supponendo uno sviluppo simile nell’italico, nel latino in particolare, si ipotizza una struttura originale *gh[e]r-[e]n-dh-riA, con significato ‘spiche/ barbe/ peli’ > ‘frangia’, che doveva dare come esito un proto-ital. *hrinbriA > lat. *FRIMBRIA, donde, per dissimilazione, sia la forma registrata negli autori classici fimbria che la forma *frimbia ipotizzata come etimo dell’esito ant. fr. ‘frange’, dissimilazioni identiche ma in ordine diverso. Piuttosto della soluzione del LEW ipotizziamo un comune sviluppo italo-celtico, morfologicamente differenziato da quello germanico-slavo, anche se partito dalla stessa base. 8 Ateneo cita la Meliboia d’Erifo: “tau'ta ga;r oiJ pevnhteÀ oujk e[conteÀ ajgoravsai / uJpogavstrion quvnnakoÀ oujde; kravnion / lavbrakoÀ oujde; govggron oujde; shpivaÀ, a[À oujde; mavkaraÀ uJperora'n oijmai qeouvÀ” - i pesci che i poveri non possono comprare sono la pancia del tonno, la testa di un branzino, grongo e seppia. 9 Egli cita il Matrimonio di Eba di Epicarmo: “ajovneÀ favgroi te kai; lavbrakeÀ” [gli ultimi due tipi di pesce sono i pagelli e le spigole]. 10 Ateneo cita qui un frammento di Aristofane “lavbrac oJ pavntwn ijcquvwn sofwvtatoÀ” [la spigola è la più saggia dei pesci]. 11 V. ibid. XII.6.24 “Lupum, ut dictum est, auiditas appellauit, piscem in captura ingeniosum: denique rete circumdatus fertur arenas arare cauda, atque ita conditus transire rete”, che ricalca il noto passo di Ovidio (Alieutica 23-24). — 221 — È in genere anomalo che un pesce prenda la sua denominazione dalla forma degli ‘opercoli’. La spigola, come altri pesci quali la trota e il cavedano, nonché gli squali, prendono, invece, i nomi antichi e tradizionali dalla propria voracità. I Dicentrarchus labrax L., Dicentrarchus punctatus (Bloch) non fanno eccezione. Sarebbe, dunque, semanticamente più appropriato che la denominazione derivasse da qualche tema simile, relativo al tratto distintivo ‘voracità’, difatti il nome veneto per l’adulto ‘grosso’, bocalón, è coerente con questa premessa. ‘Lupo’ rappresenta, in quanto simbolo della voracità, lo stesso tratto ‘vorace’, come componente definitòria della spigola, coprendo così, nella lessicalizzazione quasi tutte le lingue del Mediterraneo, dall’antichità fino ad oggi, come dimostra Cortelazzo 1977, invadendo anche lo slavo meridionale nella forma croata smúdut ‘dentato’ e l’albanese lavrak e labrik, manifesti grecismi (< lavbrax, lavbricoÀ rispettivamente: cfr. Trumper 1999: 534). Di conseguenza, non è tanto la famiglia lessicale ‘lupo’ [provenzale, catalano, romeno, nordafricano], ‘lupino’ [castigliano in parte, asturiano, parzialmente catalano, dalmato, croato], ‘lupaccio’ [provenzale in parte, ligure, sardo, in parte castigliano] che va inquadrata, come fa Cortelazzo 1977, quanto il tratto della ‘voracità’, che accomuna il ‘lupo’ con le varie realizzazioni dell’epiteto ‘vorace’, quali l’ittionimo greco, albanese, in parte slavo meridionale, turco meridionale, o anche dell’epiteto ‘mordace’ delle lingue semitiche. Gran parte dell’Italia resta fuori da questo schema con la denominazione spìgola/ spìnola, evidente richiamo delle ‘spine’ dell’opercolo, della pelle spinosa e rugosa dello spazio interorbitale, della prima pinna dorsale spinosa; fanno eccezione ragno della Toscana e bransín del Veneto. Si suppone che ‘ragno’ si riferisca all’epiteto ‘che punge’ = ‘che morde’, che riporta di nuovo all’epiteto ‘mordace’ dell’arabo e delle lingue semitiche in genere intorno al Mediterraneo come altra faccia della ‘voracità’, mentre bransín > it. branzino rimane enigmatico. Nelle lingue celtiche abbiamo, da un lato, cimr. draenog (singolativo draenogyn, pl. draenogiaid), bretone drene[u]c, ambedue ovvi riferimenti alle ‘spine’, perché al draenog/ drene[u]c in mare o fiume [Dicentrarchus sp., Perca sp.] corrisponde il draenog/ drene[u]c in terra, cioè il ‘riccio’, nonché l’irlandese e il gaelico cas-chlúb, di nuovo un richiamo a riccioli o spine (cas e clob-).14 Mentre è difficile datare il termine goidelico, il cimr. draenog appare in letteratura come ittionimo verso il 1300,15 il bret. drenec è registrato nel tardo medio bretone (testi del Quattro-Cinquecento), cfr. Ernault p. 197, e nell’Ottocento troviamo in Rolland III. 182-183 le forme bretoni drènek, dreinneguet. Lo slavo, eccettuato il croato discusso sopra, risponde in genere con termini quali russo okun; |’okun´| Perca fluviatilis L., Dicentrarchus labrax L., ucraino okun; ókun´, bielorusso vókun´, bulg. okun okún,16 ceco okoun ecc., che alcuni vorrebbero portare alla voce oko ‘occhio’, mentre altri,- e con questa ipotesi concordiamo, - riportano l’ittionimo alla base IEW II. 18 *ak-2 [*HAK-/ *HOK-] ‘acuto’, ‘spinoso’.17 12 De Vries BAARS “vgl. mhd., osaks. BARS, genœmd naar de stekelige vinnen en vernant met borstel” ... “De grondbeteknis is ‘puntig, stekelig‘ ...”; Kluge BARSCH “eine Nebenform ist ahd. bersih, mhd. bersich, alem. berschi u. ä. (*barsiha-) und aschw. ag(h)borre, ndn. aborre (*ag- ‘spitzig’ und *burzOn). Zugrunde liegt ig. *bhres-/ *bhares- ‘Spitze’ ..., also *bhrs-o- ‘der mit Stacheln Versehene (nach der stacheligen Rückenflosse dieser Fische)’ ...”. 13 L’ovvio etimo è IEW II. 109 *bhares-/ *bhores- ‘Spitze, Borste’ > der. *bhar[e]s-ti. È qui che va anche l’a. a. ted. bersich = Barsch, nonché forme scandinave per designare lo stesso pesce, incrociate, comunque, con la base IEW II. 18 sgg. *ak-/ *ok- ‘scharf’, cioè sved. ant. agh-borre ecc. (v. n. precedente). 14 I termini cimrici e bretoni sono riconducibili a draen ‘spina’ < IEW II. 258 *dheregh-, con formante -no-, cioè *dh[e]regh-no- come il greco trevcnoÀ, mentre la variante gr. tevrcnoÀ suppone un esito di *dher[e]gh-no- (per la seconda variante cfr. Massimo 502, Esichio T. 565 “tevrcnea : futa; neva. h[ ejntavfia” ecc.). L’irl. cas [> cas-chlúd] 1. ‘riccioluto’, 2. ‘intrecciato’, 3. ‘piegato’, 4. ‘nodoso’ < medio irland. casaim ‘piegare, flettere’ viene riportato da MacBain a IEW 635 *kwas-iO- ‘Flechtwerk, geflochtener Korb’ (cfr. il significato del lat. quasillum)> *kwas-t-. L’ipotesi resta ancora sub judice. Clobæ ‘punta’, ‘oggetto appuntito’ sembra riconducibile, assieme a cló ‘chiodo’ e il cimrico clo id., all’i. e. IEW 604 * klEu-., mentre l’apparentemente affine clobhadh ‘pinze’ ? un tardo nordicismo (Vendryès C-Appendice Clobae rispetto al gaelico scozzese Clobhae, Clobhadh. Cas in Vendryès C-44 viene riportato alla base IEW 586 *KES- ’schneiden’. Il significato base sarebbe, dunque, ‘appuntito’ o ‘spinoso’. Per quanto riguarda clobæ, il primo riferimento conosciuto è quello della versione del Fled Bricrend contenuta in Irische Texte ii1. 174, 18 (“Clobæ argaid illaim Conchobar atcoimnaic frisin n-uaitne ...” ecc.), che corrisponde ad un uso di cló ‘chiodo’ nella versione fornita nel Lebor na hUidre 8273 (“Benaid a cló n-argit ro boí ina láim frisin n-úaitni ...” ecc.), per cui cfr. anche Irische Texte i. 261, 13-14 [= Fled Bricrend § 21]. La derivazione da una base antico-norvegese, suggerita in MacBain 1896, è fuorviante. Ó Baoill 1994 nota una confusione tra Dicentrarchus sp. e Labrus sp. in alcuni dialetti gaelici (si veda la discussione di cregag uisge, gregach ecc.), per un termine che, a primo acchito, pare un prestito dal cimrico gwrach, -an Labrus sp. Una simile indeterminatezza è inspiegabile a chi conosce i due generi ittici. 15 La prima citazione che si conosca come ‘persico’ è dell’inizio del 1300 nel Meddygon Myddveu (: “Iachaf pyscawt awedwr yw draenogyeit, a brithyllyeit” - Ecco i pesci più salubri dell’acqua dolce sono i persici e le trote salmonate). Ai tempi del poeta Lewys Glyn Cothi draenoc è già stabilizzato nel lessico ittico (cfr. Red Book Poetry 1409, 21, Johnston 1995: 292 [poesia 130, 21-22]). Il lemma nel senso di ‘riccio’ (terrestre e marino) è ben conosciuto già nei testi del Duecento, ad es. Red Book of Hergest ii. 150 (Ystorya Brenhined y Brytanyeit) ecc. Si noti che il ‘persico’ e la ‘spigola’ sono da sempre equiparati nella cultura popolare nordeuropea. La prima definizione precisa come ‘spigola’, Dicentrarchus sp., è di William Salesbury, nel 1547: “draenoc pysc, a base”, ammesso che con ba[r]se l’ingl. intendesse ‘spigola’ e non l’insieme ‘spigola’ + ‘persico’: dal Medio Evo in qua vi è equiparazione in inglese ‘black-ba[r]s’ = ‘perch’ ‘persico’. Il secondo termine (‘perch’) è un ovvio francesismo. 16 Cortelazzo 1977: 460, seguendo V. Vinja in Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia 25-26 del 1968, parla di una variante bulgara mórski v1lk (morski v;lk) che ci sembra piuttosto calco dal rumeno lup de mare che autentico sviluppo slavo. 17 Si ringrazia H. Kunert per delucidazioni e discussioni. Mentre Preobra>enskii 1959. 1. 645 insiste sullo sviluppo dalla base oko ‘occhio’ (‘occhiata’ecc.), Vasner II, 262 sembra accettare l’ipotesi di una derivazione della base per ‘acuto’, ‘spina’ come origine remota. — 222 — — 223 — Distogliamo momentaneamente la nostra attenzione dal Mediterraneo, dove l’Italia sembra fare eccezione nell’assetto generale, per quanto riguarda il nome della spigola, e concentriamoci, invece, sul Nord europeo. Le attuali forme delle lingue germaniche, storicamente attestate, ad es. ingl. bass, basse (medio ingl., inglese del ’500 barse), il neerl. baars e il ted. Barsch, lemmi che coprono sia Dicentrarchus sp. che Perca fluviatilis L., derivano, come asseriscono concordemente Onions nell’OED, De Vries e Kluge,12 dall’i.e. *bhrs-t-i < *bhares-, con sicuro riferimento a ‘setole’ o ‘spine’.13 Andrebbero inserite a questo punto anche le lingue baltiche, con il lituano ašeryjs, lett. asers ‘Barsch’.18 Si ha, dunque, una partizione di massima tra l’Europa settentrionale compatta nel denominare le specie di Dicentrarchus e di Perca in termini della ‘spinosità’ dell’opercolo, della pelle interorbitale e della prima pinna dorsale, una grande area linguistica che va dalle lingue celtiche a quelle germaniche, dalle lingue baltiche a quelle slave, e, per contro, l’Europa meridionale, mediterranea, che denomina tali pesci in termini della loro ‘voracità’. Nell’Europa settentrionale la Perca fluviatilis L. (‘persico trota’) prende in genere lo stesso nome della spigola, infatti Perca sp. e Dicentrarchus sp. appartengono alla stessa famiglia dei Percidi, per cui le basi BA[R]S- in germanico, DRAEN- in celtico (‘spina’), OK- in slavo (‘acuto’, ‘aguzzo’) sono estensive. Già la lessicalizzazione di Perca fluviatilis L. in italiano risulta essere un longobardismo (DEI vol. IV: 2865 “pèrsico2, (pésce___) m., a. 1828, ittiol.; pesce delle perche, dei fiumi della Padana ......; v. sett., cfr. ven. pese pèrsego, dal longob. *parsik (cfr. a. a. ted. bersih, ted. Bersich e Barsch) ... ”), per cui non susciterebbe meraviglia trovare una possibile base germanica per Dicentrarchus sp., forse la stessa *bars-ih- rimorfologizzata come *bars-in- nel suo adattamento dal germanico al romanzo.19 Una soluzione simile avrebbe più senso come etimologia organica di una derivazione da (1) ‘opercolo’ = ‘branchia’ oppure da (2) deverbale da ‘brancare’ (prendere in mano; artigliare). ecc.], usato sia per il salmone che per la trota (Glossario di O’Clery: “earc.i. bradán” ecc.), ma anche per qualsiasi animale dalla pelle maculata, anche bovini.20 Nel medio cimrico erch/ erchlas/ erchliw id., usato non solo per il baio (cavallo)21 ma anche come epiteto usuale dei salmonidi piccoli che scendono a mare (Llywarch ap Llywelyn nel periodo 1160-1180 nel suo ‘Arwyrein Rodri Vab Ywein’ in Anwyl 91a16-17 = MA2 203a17 = Hendregadredd 104a39-40: “Y elyf ueirch canneid/ Yn erchlyfyn yn erchliw glei&&yeid” - mandrie di cavalli splendenti, piccoli grassi salmoni variegati),22 irl. / gael. brecc > breac [come ittionimo ‘trota’ nel Glossario di Dineen, negli Annali],23 cimr. brith ‘maculato’ > cimr. brithyll ‘trota salmonata’ presente già con questo significato ittico preciso nel Meddygon Myddveu del 1200.24 Anche il medio bretone del Quattro-Cinquecento [il Catholicon ecc.] possiede la stesso esito, ma ora riferito allo sgombro, cfr. Ernault “Brezell maquereau C, breisel pl. breisili Pel., bresell pl. bresily, brisilly Gr., brézel m. Gon. ...” ecc. Il nome post-classico ‘varius’ come equivalente di ‘trOcta’ è presente in Ambrogio, cfr. Exameron 5. 3 [7] “Alii oua generant, ut uarii maiores, quos uocant troctas, et aquis fouenda conmittunt”, riferimento ripetuto in Isidoro, Etymologiæ XII. vi. 6, che riconduce il nome al colore variegato (“A colore: ut umbræ, quia colore umbræ sunt; et auratæ, quia in capite auri colorem habent; et uarii a uarietate, quos uulgo tructas uocant”). V1r3us per trOcta, trUcta potrebbe sembrare un calco dei termini delle lingue celtiche, ad es. l’ant. irl. orc ‘maculato’ come nome del salmone (Sanas Cormaic 1018 “Orc nomen do bradAn, unde dixit cend Lomnæ drUith Iarna bEimen de: ‘Orc brec bronnfind brUchtas do magar [v. l. magur] fo muirib ...” ecc.), medio irl. erc = earc ‘macchiato’ [< *perk, cfr. gr. perknovÀ, lat. p2rca 18 Le lingue scandinave rispondono con una composizione di *ak- e *bhrs-[ti-], cfr. ant. sved. ag[h]borre ecc., ‘acuto’ + ‘spina’, che rafforza l’idea base. 19 L’unica possibile fonte di contaminatio sarebbe un altro ittionimo di origine germanica, cioè a. a. ted. brahsa, brahsma, latino tardomedioevale del periodo 1200-1400 braximus, brasumius, bresmia (Du Cange I. 738-742: potrebbe essere importante l’associazione con il persico, cfr. “vivaria ... bresmiis et perchiis faciat instaurari” I. 742 col. B) > m. a. ted. brachsem > ted. Brachsen, Brassen. Da una forma congenere francone ha origine non solo il neerland. brasem ma anche l’ant. fr. brèsme > fr. brème, donde, tramite l’ant. normanno, l’ingl. bream. Comunque, il pesce di riferimento qui è la Brama Raji (Bloch), che non può avere influenzato il nome del Dicentrarchus sp. Difatti, il Brama Raji è conosciuto in dialetto veneto o come Ociada bastarda o come Nòdola, quest’ultimo nome attestato dal Sette - Ottocento (< alauda, con metatesi). Preferiamo dunque pensare ad una rimorfologizzazione dello stesso germanismo in termini della morfologia romanza. 20 Si vedano anche Irische Texte iii1. 247. 111, Acallamh na Senórach [Irische Texte iv1. 13] r. 452 “gaír graifni ocus gáir erca” = Libro di Leinster 206a37). 21 Verso il 1200 troviamo l’epiteto per i cavalli, nei Mabinogi per gli stalloni [2, 3-4: “ar uarch erchlas fawr”] e per i cavalli da corsa nel Canu Aneirin (lxxviii) 962 [“y ar orwyd erchlas...”]. Chi voglia approfondire la questione della diffusione di erch, erchlas, erchliw, erchlyfn nell’ultimo periodo dell’antico cimrico (Libro di Aneirin) e nel medio cimrico troverà il tema ampiamente trattato nel GPC ad loc. 22 I lemmi celtici derivano tutti dal tema indo-europeo IEW 820 *perk-/ *prek- ‘maculato; macchiato; striato’. Nell’irlandese la base ERC ‘macchiato; striato’ ricorre da solo nell’Auraicept 5701 (si veda anche la voce del Glossario di O’Clery), come ‘trota’ o ‘salmone’ nei glossari (O’Clery, RC ii. 326, RC xix. 353); nel cimrico ERCH ‘macchiato; striato; ceciato’ ricorre nel Canu Aneirin e nelle poesie di Gogynfeirdd quali Gwalchmai e Cynddelw verso il 1100. 23 La conoscenza di questo ittionimo nel medio irlandese è fornita da una fonte insospettabile del Duecento, cioè Giraldus Cambrensis ( = Gerallt Cymro, oppure ‘Gerardo il gallese’, figlio di barone normanno, De Barry, e di principessa gallese, Nest di Gwynedd, non un ‘dotto inglese’ come qualche italiano ha scritto di recente, non capendo il riferimento etnico di ‘Cambrensis’), cfr. la sua Topographia Hibernica I. X “Primos Glassanos, secundos Catos, tertios uero Bricios uocant”, in cui l’ultimo termine è evidente riferimento del prelato gallese al pl. metafonetico bric[c] dell’irlandese antico brecc (> mod. breac). 24 Va notato che le voci celtiche non sono soltanto registrate nell’ant./ medio irland. e nell’ant./ medio cimr. ecc., non più antiche del 700 d. C., ma trovano facili ed evidenti corrispondenze nell’onomastica gallica delle iscrizioni: per le testimonianze cfr. Holder I. 516 (Brecc-ius), I. 530 (Briccius), I. 531 (Bricius) ecc., che ci conducono ad un periodo anteriore. La stragrande maggioranza degli studiosi riconducono l’ant. irl. mrecht/ m. irl. brecht, ant./ m. cimr. brith a IEW II. 733 *mer-k-, *mr-k[< mer-2 ‘flimmern’, con deriva semantica ‘vor den Augen flimmern’ > ‘sich verdunkeln’ > ‘bunt, buntscheckig’]. Brecc/ brych sono riportati, invece, a IEW II. 141 *bher-k-, *bhrEk- ‘glänzen’. Riteniamo semanticamente corretto ricondurre a. a. ted. brahsma > ted. Brachsen, Brassen a questa base ma non le nostre voci celtiche, che preferiamo ricollegare con mrecht/ brith a IEW II. 733. Il problema andrebbe approfondito. — 224 — — 225 — Vi è certamente un’equivalenza semantica tra. trwvkthÀ e lavbrax, come etimi ‘vorace’ = ‘divoratore’ con lavbroÀ = trwvkthÀ in alcuni autori classici greci, per cui gli epiteti di un particolare pesce potrebbero facilmente applicarsi all’altro. D’altronde, il significato preciso di varius, secondo Isidoro, Etymologiæ XII.i.48, 50, 52 [“reliquus uarius color uel cinereus deterrimus”; vs. guttatus: “Guttatus, albus nigris interuenientibus punctis”; “Varius, quod uias habeat colorum impa- rium”] sembra essere ‘maculato con diverse sfumature dello stesso colore’, sempre, comunque, sul pallido (“cinereus”), e si oppone a guttatus ‘maculato con macchie di diversi colori vivaci’. Data la presenza di macchie di diverse sfumature dello stesso colore negli esemplari piccoli ed immaturi di Dicentrarchus labrax (L.), ed in tutti gli esemplari di Dicentrarchus punctatus (Bloch), il nome è evidentemente adatto alle caratteristiche di questi pesci. Potrebbero sorgere problemi riguardo l’etimologia di v1r3us all’interno del latino e dell’italico, non tanto gli esiti romanzi, che nel veneto sono assai diffusi, ad es. pad.-vic. sbaróle, svaróle = orbaróle ‘fosfeni’ [= macchie], o varédo, varéso, sguarédo [in ___] ‘in maturazione’, varesare, varedare, sguaredare ‘maturarsi’ [della frutta, con cambiamento di colore, di colore variegato: cfr. le considerazioni avanzate in Trumper-Vigolo 1995: 81].25 Pokorny suggerisce di riportare l’aggettivo latino alla sua base IEW II. 1108 *wA-2 ‘auseinander biegen, drehen’,26 ipotesi accettata da Walde e Hoffman in LEW II. 734, che, rifiutando possibili origini sia in badius che in un prestito greco aijovloÀ, avanzano l’idea di una derivazione del tipo *wa- > *wa-ro- > *wa-r-i-o- parallela a *wa- > *wa-to- > *wa-t-i-o.27 Non rifiutiamo neppure un possibile rapporto con il lontano etimo di v1rus,28 forse anche *waro- nei termini postulati, che ritroviamo negli scrittori medici, ad es. Celso, Marcello Empirico [De Medicamentis VIII. 192: “Nouem grana hordei sumes et de singulis uarum punges” nel senso di ‘orzaiolo dell’occhio], oppure Chirone, in cui si riferisce ai piedi [Mulomedicina VII. vii, ed. Oder 189, 20 “uarum pedem feret et interiorem ungulam præmittet”]. Anche questo resta un problema ancora da approfondire. Rimane altresì il problema di baícolo, poi di bagiòco. Nel primo caso sarebbe possibile ipotizzare un particolare sviluppo di badius, aggettivo di colore, cioè *badi- + - 3c5lus > *badIc5lus. Potrebbe non essere connesso con l’aggettivo cromatico gallo-latino b1d3us il fitonimo baditis ‘ninfea’ di Marcello Empirico, De Medicamentis XXXIII. 63 (“Herba est, quæ Græce nymphæa, Latine claua Herculis, Gallice baditis appellatur”), dato che non si conosce la quantità della vocale ‘a’. Se fosse veramente questione di *bAdItis, allora Whatmough 1970: 436437 avrebbe ragione a riportare la voce all’ant. irland. báidim (cfr. anche medio cimr. boddi, bawdd ecc.: Pokorny conduce tali esiti al tema IEW 465 *gwadh-, mentre Holder I. 325/ III. 788 aveva già anticipato Whatmough), vista anche la coerenza semantica (‘immergere’ attribuito ad una pianta che vive nell’acqua).29 Per quanto riguarda il latino abbiamo le seguenti testimonianze dell’aggettivo: 25 Questa famiglia lessicale è conosciuta alla lessicologia tradizionale veneta, cfr. Boerio: Varezàr “Vaiolare; Vaiare o Invaiare, ed anche Saracinare o Farsi ghezzo, dicesi dell’Uva ed anche delle Ulive e di altre frutta quando prendono il color nero e cominciare a maturare...”. Ultimamente Turato-Durante: Varesare “nereggiare; incominciare a maturare (dell’uva, delle olive)”, *in varéso “in via di sviluppo”. 26 Egli continua “ob hierher varius ‘mannigfaltig, wechselnd, verschieden, bunt’, variO, -Are ‘mannigfach machen, bunt sein’?”. 27 *wa-to- è supposto dall’esito v1tax reperito in Lucilio, Sat. frm. 800 “ut si progeniem antiquam, qua est Maximus Quintus, / [uacax] qua uaricosus Vatax”, ed in Nonio, 25.12 “uatax et uaricosus, pedibus uitiosis”, *wa-t-i-o dall’esito v1tius che troviamo già in Varrone, De Lingua Latina IX [5]. 10 “si quis puerorum per delicias pedes mala ponere atque imitari uatias cœperit, hos corrigi oportere si conceda[n]t, contra si quis in consuetudine ambulandi iam factus sit uatia aut conpernis, si eum corrigi non conceda[n]t.” 28 V1rus / v1rulus ha noti esiti nei dialetti meridionali: nel calabro-lucano arcaico (Albidona, Cerchiara ecc.) abbiamo várplp / várlp (f.) per (1) le larve di ditteri, in especie di Œstrus ovis, (2) i tumori della pelle di bovini ed ovini causati da tali larve, (3) tumori della pelle degli animali (generico), nei dialetti calabresi transizionali (Mormanno: várula). Con gli stessi significati si ha, nel calabrese settentrionale in forma maschile, várulu in alcuni dialetti della Valle del Crati, della Valle del Savuto (Paterno/ Dipignano vpvruwu, Domanico várulu), pure nei dialetti della Sila, ma in forma femminile, come nei dialetti arcaici (S. Giovanni in Fiore: váruda), di nuovo in forma maschile nei dialetti ionici (S. Morello, Scala Cœli: várulu, várudu), sempre con i significati indicati. Il lat. v1rus, v1rulus, va forse ricondotto allo IEW I. 1151 *wer-2 e connesso tramite un deriv. in *wer-bh- con l’ant. bretone goerp, guerp gl. stigmate [lepræ] (Loth, cfr. anche RC viii. 493, 497, Stokes: Transactions of the Philological Society 1885-1887, p. 567 n° 96, dove guerp è giustamente connesso con l’irl. ferb, erratamente con il cimr. gwarth) e il medio bret. guerbl (Ernault “Guerbl, caple, l. glans, Cb (bubon) ...”), l’ant. irl. ferb “vescica della pelle” (Sanas Cormaic 584: “Ferb.i. bolg doc[h]uirethar in duine for a grUadaibh Iar n-áir nO Iar ngúbreith”). lI germanico, come il baltico, conosce soltanto esiti con formanti -t- o -gh-, cfr. ags. wearte > ingl. wart, a. a. ted. warah, ags. wearh > wearh + nægel > ingl. warnel ecc. Il cimr. gwerbl (Davies, Dictionarium Duplex, 1632) costituisce un prestito dal bretone: Davies stesso scrive “Gwerbl, Arm. Glans”. Cfr. anche Wiliam Llyn ca. 1500 gwerbl nel suo Geirlyfr, mentre il tardo cimr. gwarbl ‘castagna; nocciolo della castagna’, apparentemente non attestato prima dell’inizio del Settecento, piuttosto che un prestito dall’inglese warble (sic GPC!), potrebbe costituire il continuatore cimrico della stessa base. L’ingl. warble non è attestato prima del 1585 (OED), cioè più di 50-60 anni dopo la prima apparsa di gwerbl nel cimrico, voce che già ha una lunga storia nel bretone, e ‘warble[s]’ è ritenuto di ‘origini oscure’. Sembra più probabile che la malattia bovina ‘warble[s]’ in inglese costituisca prestito dal cimr. gwerbl/ gwarbl e dal bret. gwerbl (< goerp). Più lontane e problematiche appaiono le associazioni di varus con il lat. verruca, medio irland. farr (glossari di O’Cleary e Davoren), ant. e medio cimr. gwarr (cfr. Liber Landavensis p. 173: “Fini& mafurn diguarr alt rudlan dour”: la sezione del ms. in questione è del ca. 1160). 29 Le obiezioni sollevate in Alessio a questo riguardo non sembrano giustificate, anzi poco rilevanti, cfr. G. Alessio, Lexicon Etymologicum p. 38 “Baditis ‘Seerose, ninfea’ gallico sec. Marc. Emp. XXXIII, 63 -di struttura greca come argitIs (< ajrgivtiÀ): Nymphæa lutea per il colore, cfr. bodio- badio- ‘giallo’ [inverosimile un rapporto con l’irl. baid-).”; Lex. Etim. pp. 49-50 “*Bodius, cfr. irl. buide, > lig. ant. bozu ’immaturo’, come badius > valsug. bazo ‘fieno mezzo secco’, sic., calabr. vazzu “voce non indigena”, rispetto allo sp. bazo ‘scuro’: badio-/ bodio- del sostrato ligure vs. osco-lat. onom. Badius (sostrato siculo-sicano, contra tirrenico Fadius). Cfr. anche Padus/ Bodincus ‘profondo, cupo’ (fundo carens, a[bussoÀ), (pre)gr. baquvÀ. Di fonetica osca basus: rufus, niger (CGL V. 170, 28).” J. D’André 1985: 32 baditis Marcello Med. 33 dice, se ha ragione Alessio LE p. 38 ad attribuire il tipo alla base badius ‘rouge brun’ [ir. buide], che si tratterà di Nuphar luteum. Dato che è ignota la quantità della prima vocale di baditis, rimane ancora sub judice tutta la questione della derivazione corretta del fitonimo. Cfr. Trumper 2002: 417-418 per ulteriori dettagli. — 226 — — 227 — Varrone, Saturæ Menippeæ LX.360.80,1: “equi colore dispares item nati hic badius, iste giluus, ille murinus”; Grattius, Cynegeticon 536-537 “Venanti melius pugnat color: optime nigra / Crura illi badiosque legunt et (...)”; Chirone, Mulomedicina IX.960 [ed. Oder 287, 8] “nam certa nomina coloris hæc erunt primus albus, secundus rufens, tertius badeos, quartus murteus, quintus niger, sextus [canus], septimus ceruinus, octauus gilu[u]s”; Isidoro, Origines XII.1. 48-49: “Color hic præcipue spectandus: badius, aureus, roseus, myrteus, ceruinus, giluus, glaucus, scutulatus, canus, candidus, albus, guttatus, niger. Sequenti autem ordine, varius ex nigro badioque distinctus ... ”. Oltre il 700 d. C. abbiamo la seguente documentazione medioevale: Anon. [Ugo di Folieto?] De bestiis et aliis rebus III. XXIII “(De equo, et ejus natura): Motus autem equi in auribus intelligitur uirtus in membris trementibus; color est hic precipue exspectandus, badius, aureus, roseus, myrteus, ceruinus, giluus, glaucus, scutulatus, canus, candidus, albus, guttatus, niger, sequenti autem ordine uarius ex nigro bagioque distinctus, reliquus autem uarius color, ut cinereus deterrimus est. Badium autem siue, ut uulgo dicunt, bajum et bajadum antiqui quasi uadium dicebant, eo quod ejus coloris equi inter cætera animalia fortius uadant. ”[Migne P.L. CLXXVII col. 92C]. Si veda anche CGL II.27, 60 [Glossæ Latino-Græcæ]: Badius celidonaiÖoc.30 Per quanto riguarda la diffusione romanza dei succedanei di badius, abbiamo la testimonianza dell’antico provenzale, cfr. Occ. Ant. nel Donatz Proensals v. 1897 “bathz subrufus” [v.l. bathtz], nonché delle varietà iberoromanze, come in Corominas vol. I. 550 “BAZO 1 ‘moreno tirando a amarillo’, probablemente del lat. BADIUS ‘rojizo’1. 1a doc.: princ. S. XIV. Gr. Cong. de Ultr., JRuiz. También port. baço ‘moreno pálido’.” [Schuchardt aveva proposto opAcus > *opAc2us]. “No hay, en cambio, dificultad fonética en admitir BADIUS, con M.P. ...”. Anche se il riferimento a CGL V, 170. 28 non è pertinente, è ancora rilevante il commento di Corominas: “El significado exacto del lat. badius no es fácil de precisar. Consta que se aplicaba a caballos. Forcellini define ‘rojizo brillante’. El cast. bayo significa ‘blanco amarillanto’, pero el fr. bai es más bien ‘rojo tirando a moreno’...”. Per l’area francese cfr. FEW I. 202 “badius kastanienbraun. Afr. baille ‘de couleur baie (de la robe du cheval) ”, aprov. bai id. + ‘blond’... ‘de couleur rouge brun’... ecc. In lt. wurde BADIUS nur mit bezug auf die farbe der pferde gebraucht, und diese spezielle bed. ist bis ins Mittelalter, ja teilweise, wie die belege zeigen, bis heute geblieben. Das wort ist auch sp. pg. sard. It. baio scheint fr. lehnwort zu sein.” Esiti di questo tema hanno pure una certa diffusione nell’area italiana, non solo in Toscana, ad es. nel DEI “bazzòtto agg., m. 1605; semicotto, detto specialm. delle uova; cfr. ferrar. bazòt id.; lat. badius di color ‘baio’...”, oppure “bazzèo XV sec., colore verdognolo; v. senese, propr. del colore della frutta immatura (cfr. verdèa): dal lat. badius ‘bruno’ continuato anche dal sic. e calabr. vazzu ‘tra acerbo e maturo’ (di frutta), valsug. bazo ‘fieno mezzo secco’ ......” e bado (fieno), veneto centrale basòto riferito a uova (v. Turato-Durante: Basòto “riferito a uovo: né sodo né crudo, semicotto; persona depressa; persona mediocre”), veneziano (Boerio: Bazòto “Bazzotto, Fra duro e tenero, e dicesi comunemente delle uova”, 2. mediocre, mezzano, 3. mezzo cotto [> fig. brillo]). Non mancano derivati neanche al sud, nel calabrese, ad es., váyyu ≈ gáyyu ‘immaturo’/‘quasi-maturo’ di frutto o di cereali (cfr. Trumper - Maddalon - Scola, in stampa). Nei commenti etimologici si fa riferimento sempre, non solo alla diffusione del lat. badius nel tardo greco (v. Esichio B. 35 “*+bavdioÀ: ... uiJovÀ”. Sudas B.22 “Bavdioc : uJivoc. ‚hmaivnei de; kai; $ippou croiavn”, citazioni che sembrano testimoniare un incrocio tra baiovÀ e bavdioÀ), ma anche alla natura tecnica del termine legato all’allevamento del cavallo (colore ‘baio’), nonché alla probabile connessione con l’ant. irland. buide ‘giallo’. Si vedano ad esempio i commenti di Walde-Hoffmann nel LEW I. 92 (badius -a -um ‘kastanienbraun’), che citano Varrone in riferimento agli equini (v. sopra), collegando poi il termine con l’ant. irl. buide ‘gelb’, gallico Bodiocasses, relando la base con basus, cfr. anche LEW I. 98-99 basus, che cita CGL V. 170, 23 e riferisce la soluzione di MeyerLübke (“nach Meyer-Lübke ... einem einheimischen Wort der Pyrenäenhalbinsel.”). In un tentativo di risolvere l’origine di questa voce enigmatica, assieme ai suoi esiti romanzi multipli e polisemici, anche se sempre con riferimento cromatico, Pfister nel LEI IV. 38, 1993: 317-338 divide la base in due entrate: *baddius ‘rosso bruno’/ ‘color della carne mezzo cotta’, che egli distingue da badius/ *baius ‘rosso bruno’/ ‘color della carne mezzo cotta’/ ‘moneta’. Una prima considerazione potrebbe essere che nella deriva tardolatina, supposta dai dialetti gallo-italici e veneti, badius diventa automaticamente *baddius, mentre *bajus (*bagjus), invece, è supposto per i dialetti dell’Italia Meridionale. Non sembra dunque strettamente necessario dividere lo stesso lemma del latino volgare in due temi per sviluppi così tardivi. Il riferimento cromatico di buide nell’ant. irland./ buidhe nel medio irland. sembra ‘giallo’, talvolta ‘verde-giallo’, cfr. le Glosse di Prisciano 14a10 “hoc flauum. buidhe”, Irish Glosses 883 “buidi no donna cœrea pruna”, Cod. Palatinus Vaticanus 830: 136.14 “mís buidhi” [di agosto come mese in cui le piante s’ingialliscono], Sanas Cormaic 1091 “..., co mmbI a caisi buidi a mullach amail sAil duine tria assa”, ‘Book of Rights’ 120. 11 galar buidhe epatite, itterizia, Annála Uladh a. 563 aggiunta interlineare “[Is alaind feras a lluadh / gabair Baetain for in sluagh; /] fo:la Baetan fuilt buidhe, / bera[i]d a eren fuiri” [sembrò cosa buona a Baetán dai capelli gialli, [il suo destriero] porterà il suo peso].31 Vi è tutta una serie di derivati che sembrano accennare al color giallo, buidecán = buidén (1) ‘tuorlo’, (2) primula, (3) noto uccello Emberiza citrinella L. (nella forma medio-irl. buidhean), ‘giallo’ come proprietà astratta in buidecht o buidetu (cfr. Sanas Cormaic 1101 “Romna Ais.i. lIas 7 buideta”), buiderad ‘margherite’ (Libro di Lecan), buidgen Taraxacum sp., il verbo buidid ‘ingiallire’ (Sanas Cormaic 1059 “... buidithir ór rind a fiaclæ”), ecc. Qualche volta, comunque, il riferimento è addirittura al color viola, cfr. Glosse di Prisciano 61b10 “in chorcuir buide” (= porpora, viola), come se interferito con basc ‘rosso’. 30 In alcuni dialetti calabresi si presenta váyyu per ‘colore del grano che sta maturando’. Come commenta Whatmough 1970: 437, la lettura CGL V. 170, 28 [Excerpta ex Libro Glossarum]: Basus rufus niger. (700-900 d.C.) sembra errata: si tratterà forse di barus, ulteriore corruzione di bur[r]us, sempre secondo Whatmough. 31 Con poca variazione questi versi vengono ripetuti negli Annali di Tigernach, cfr. RC xvii. 143: “Is alaind feras in lluadh / gabair Baetáin riasin sluagh, / fó la baetán fuilt buidhi / béraid a heren fuirri.” — 228 — — 229 — Il colore in oggetto pare riferirsi più che altro alle sfumature inerenti al cambio, alla maturazione di piante, nella direzione verde > giallo, dorato > rosso, qualora applicato a piante, al rosso-bruno, qualora il referente sia equino, al giallo qualora si tratti di ornitonimo. Nella storia delle lingue, va sottolineato, vi è connessione tra ‘verde’ e ‘rosso’ come i colori della brillantezza, della lucentezza, mentre ‘giallo’ è in rapporto con la maturazione. Mentre Pokorny (IEW II. 92) associa lat. *bad-i-, celtico *bod-i- in un unico tema (“badios ‘gelb, braun’ [nur lat. und ir.; vielleicht aus einer, allenfalls nicht idg., Sprache - Alteuropas”), Holder I. 457-458 aveva prima ricondotto questi esiti a *b4d-io- < IEW II. 465 *gwadh- ‘eintauchen’. Se la base deve avere una valenza ‘lucente; brillante’ che si oppone ad ‘opaco’, per poter generare, da un lato, ant. irl. buide ‘verde-giallo’, ‘giallo’, ma anche ‘viola’, dall’altro basc 32 ‘vermiglio’, ‘rosso’, ‘scarlatto’, ambedue le basi *b4d- e gwAdh- sono poco soddiasfacenti. Più coerente, dal punto di vista della ‘lucentezza’, della ‘brillantezza’, è il tema IEW II. 104-105 *bhA-, *bhO-, bhð- ‘glänzen’, ‘leuchten’ (I. E. rivisto *BAH-: fonte di gr. ϕw'À, irl. bán ‘bianco’, basc ‘rosso’, forme indiane e tocariche, probabilmente anche di forme germaniche, cioè *bhas-i > got. weinabasi, a. a. ted. beri > ted. Beere ecc.). In questo caso si suppone uno sviluppo *BA(H)-DJO- (> *bod-jó- > buide > buidhe). Tali considerazioni ci sembrano sufficienti per la soluzione del lat. badius, dell’irl. ant. buide, mentre la diffusione nel romanzo richiede maggiore attenzione. Data la cancellazione storica della stragrande maggioranza dei casi storici di -t-/ -d- nel veneto una deriva *bAdi-3c[c] 5lus > *badIcc5lu(m) > baícolo non è affatto né impossibile né improbabile. Sembra esclusa la contaminatio con l’ittionimo greco baiwvn, perché una -j- = -jj- intervocalica avrebbe dovuto generare, tramite l’affricata storica /dz/, l’esito rustico ‘bad-’ con |'|, l’urbano ‘bas-’ con |z|, esattamente il caso del valsuganotto bado ecc., aggettivo usato per il fieno.33 Nel caso dell’aggettivo agricolo centro-veneto ‘bado’, sarebbe dunque ammessa fonologicamente una contaminatio con il gr. BaiovÀ, ´HbaiovÀ, Baiwvn, che, comunque, non è affatto suffragata da una corrispondente coerenza semantica. Questa coerenza non mancherebbe nel caso di baícolo,34 che come deri- vato da una forma *badi-+ 3c5lus / - 3cc5lus, con precoce cancellazione della -d-, non avrebbe, comunque, bisogno di un richiamo simile. La proposta, tuttavia, resta sub judice. Si è accennato alla presenza in laguna dell’allotropo bajòco/ bagiòco per baícolo, forma che richiede molta riflessione. Non crediamo, innanzitutto, che un simile ittionimo possa derivare dal nome della moneta, per ‘piccolezza’ e ‘rotondità’, come vogliono alcuni. A proposito del famoso ‘baiocco’ moneta, spicciolo, il DEI 32 Anche se basc è voce antica (Sanas Cormaic 132 “Basc dano cach nderg ...” ecc.), le ricorrenze sono perlopiù limitate ai glossari (O’Dav. “basc.i. derg”, O’Clery “basc, dearg”). Stokes e poi Macbain lo riferivano al lat. bacca; non vi è alcun motivo, invece, per non associarlo al tema *bhA- come sopra. 33 Per gli esiti veneti cfr. -i-, i- > d/ z (dágola/ z-, daduno, dóta [BL], doale [jugale -ia], dóo, dóba, dóvene, dugo, durare, dugno, onom. Zulian, pèdo, madègo, vedòto [veius] vs. majo, Giácomo, esattamente come -di-, di- > d/ z nella stragrande maggioranza (bado, dago/ zago, dóso, dosana, galdèga/ ganzèga, mèdo, órdo, podólo/ pozólo, raza/ rasa, con verbi -edare/ -esare, vs. giórno, bagio, passégio); gi-/ ge- sembrano dare esiti d/ z, cfr. Giorgio > dordo, arrugia > roda (roza). [totale 26 casi contro 5, cioè una proporzione 5:1]. È evidente, dunque, che i pochi casi veneti di gi-/-gi- rappresentano prestiti esterni. Lo sviluppo storico è: Dialetti Settentrionali: VL (-)dj-, (-)gj-, (-)j- > ddj / jj > /ddz/ > /ð/ o /z/ veneto, /d{/ o /{ / lombardo. 34 In quanto nome di pesce, esattamente come baiwvn. Per la discussione etimologica di quest’ultimo ittionimo cfr. Chantraine DELG I. 158 “baiovÀ: “petit, sans importance”, le mot est attesté chez Parm., Democr., Solon, surtout chez le tragiques, Ar., parfois en prose tardive (Phld.). Dérivé: baiwvn, -ovnoÀ m. petit poisson sans valeur : tous les textes sont chez Ath. 288 a = Epich. 64 ... L’identification avec le blevnnoÀ, non mentionné chez Thompson, Fishes, s.n., vient du lexique de Cyrille et de l’E.M. 192, 52. Et.: Pas d’etymologie.” Hj. Frisk [GEW I. 210] da “ baiovÀ ‘klein, gering’ (ion., poet.); Hom. hjbaiovÀ; s.d. - Davon baiwvn, -ovnoÀ m. N. eines kleinen Fisches = blevnioÀ (Epich.) ...; ... - Unerklart.” Per l’ittionimo cfr. anche Ateneo (Dipnosofisti VII) 288a che giustapone, identificandoli come lo stesso referente, blevnnoÀ e baiwvn. Del blennio egli dice “ ejsti; de; kwbiw'/ th;n ijdevan paraplhvsioÀ. EpivcarmoÀ d’ ejn $HbaÀ gavmw BAIONAS tina;À ijcqu;À kale'i ejn touvtoiÀ. a\ge; de; trivglaÀ te kuϕa;À kajcarivstouÀ baiovnaÀ. kai; par’ Attikoi'À de; paroimiva ejsti “mhv moi baiw;n kako;À ijcquvÀ”.[E molto simile di vista al gobbio. Epicarmo, nelle Nozze di Ebe, chiama BAIONAS alcuni pesci in questi versi: ‘[Portò] così cefali che si distorcevano e blennidi schifosi’. E tra gli Atenesi vi è il proverbio: ‘Non blennidi per me: è un pesce cattivo’]. Non sembra che possa provenire da IEW. II. 463 *gua-, *guem- (> gr. ßaivnw) ‘venire’, bensi da IEW. II. 467-469 *guei-3 ‘vivere, venire a vivere, venire in esistenza’ [cfr. il verbo omerico bevomai evidenziato in Iliade 16. 852]. Baiwvn e baiovÀ sono dunque riconducibili al concetto di ‘neo-vivente’ = ‘piccolo’ [< IEW. II. 467-469 *guei-3]. Una simile derivazione copre tutti i riferimenti alla ‘piccolezza’ contenuti in baiovÀ sia in testi classici che post-classici, cfr. Omero, Iliade 2. 379-380 [manco per poco], Iliade 14. 141 [non c’è il più piccolo senno], Eschilo, Persiani 448-449 “baiva, duvsormoÀ nausivn [corr. per ms. nhusivn], h}n [o]ϕilovcoroÀ / Pa;n ejmbateuvei, pontivaÀ ajkth'À e{pei.” [piccolo luogo di ancoraggio], Eschilo, Persiani 1023 “baiav g’ wJÀ ajpo; pollw'n” [da molti pochi residui]. Eschilo, Agamemnone 1574-1576 “ktevanwn te mevroÀ / baiovn ejcouvsh pa'n ajpovcrh moi / manivaÀ melavqrwn / ajllhloϕovnouÀ ajϕelouvshi /” [piccola parte delle ricchezze]. Cfr. anche Aniano (poeta minore VI sec. a. C., in Anth. Lyr. ed. Hiller-Crusius, Teubner, XV. Ananius, Fr. 3): “Ei[ tiÀ kaqeivrxai crusovn ejn dovmoiÀ pollo;n // kai; su'ka baiav kai; duv’ h} trei'À ajnqrwvpouÀ” ‘pochi [piccoli?] fichi’, Sofocle, Fr. 39 (L. Campbell, Sophocles. The Plays and Fragments, Olms 19692, vol. II): “e[speisa baia;À kuvlikoÀ w{ste deuvtera.” [calice piccolo]. Sofocle, Aiace 160-161 “meta; ga;r megavlwn baio;À a[rist’ a]n kai; mevgaÀ ojrqoi'q’ uJpo; mikrotevrwn” [al di la di quello grande vi è il male piccolo...], Aiace 292 (mi risponde con poche parole: baiav n. pl.). Si vedano, inoltre, Sofocle, Edipo Re 750-751 “Povteron ejcwvrei baiovÀ, h] pollou;À e[cwn …” (È uscito da solo o con molte guardie del corpo …), Sofocle, Trachini? 44-45 “crovnon ga;r ojuci; baiovn…” (per un tempo non breve), Sofocle, Filottete 286-287 [povero, piccolo tetto]; id. 845-846 [una risposta breve breve]. Per un elenco completo di contesti di Sofocle cfr. F. Ellendi, Lexicon Sophocleum, Olms 19652: baiovÀ: (1) exiguus = ojlivgoÀ [Ph. 286], [Captiv. fr. 49] [schol. ad OR 750]; (2) Transfertur inde ad res in sensum non cadentes [Ph. 845ch.], [Ai. 292]; Breve significat tempus: Tr. 44; Tr. 335; OC 397; (3) Proxima traslatio est de humilibus et spernendis. De homine [Ai. 160an.], [Ph. 274], [OR 750]. Vi è molta discussione sui significati, basata sui commenti in Esichio, Et. Magn., Sudas, senza soluzione etimologica. Cfr. anche Epigrammi da Cizico Ant.Pal. III.14, 1-2, Dionisio Perigeta (st., II sec. d. C.): kata; baiovn ‘a poco a poco’. Ancora piu significativo, dal nostro punto di vista, è il riferimento ai tonni giovani in Oppiano, Halieutica IV. 513-514 (dei tonni piccoli): “xei'non aJlo;À speuvdousi meta; plovon, ojud’ ejqevlousi / mivmnein e[nq’ ejgevnonto kai; hjbaiaiv per ejou'sai” [pur piccoli non voglion restare dove sono nati]. I nostri esiti dovevano sembrare assai enigmatici nel periodo post-classico, visto che formavano parte dell’apparato critico dei commenti di molti grammatici greci (Erodiano, Peri; Paqw'n 14 [Grammatici Greci III. 2: 171], Peri OrqograϕivaÀ [Grammatici Greci III. 2: 423]) e dei lessicografi fino a molto tardi, cfr. Etymologicum Magnum 192, 48; 192, 52; 193, 6; 417, 15-30; 583, 42, il Lexicon di Zonaras [I. 371, 18-21; I. 376, 12; I. 970, 10; I. 971, 5-17] e il Sudas (H. 15), come anche i glossari citati in I. Bekker, Anecdota Græca II. 524, 2-6. — 230 — — 231 — così commenta: “baiòcco XV sec., moneta d’argento e poi di rame ... moneta di poco valore; uomo dappoco. Forse l’antica moneta merovingica colla scritta Baiocas. civitas (gall. Bodiócasses), oggi Bayeux; bàio XIII sec. di colore rosso bruno; dal fr. e prov. bai dal lat. badius.” Dal punto di vista della regolare deriva fonologica, una forma di partenza badjo- non potrebbe dare come esito veneto usuale altro che rustico *bado-/ urbano e lagunare *bazo-, se non si postulasse un’origine molto dotta e recente, il che non sembra assolutamente il caso. Sarebbe come supporre che, per il suo lessico marino,Venezia avesse avuto, lungo i secoli, necessità di attingere a prestiti esterni. L’unica forma di base adatta ad una deriva che produca esito finale bajo-/ bagio- sarebbe *balio- [> volg. *baljo- > *bal -, con successivi sviluppi ben conosciuti], base che manca al latino in questa forma, ma non ad altre lingue indo-europee. Con esito poco ellenico si ha anche il gr. BaliovÀ nel senso di ‘macchiettato’, ‘maculato’, che rimanderebbe alla stessa caratteristica cromatica usata per definire il Dicentrarchus e gli altri pesci di cui abbiamo trattato in precedenza. Come proposte etimologiche ed estensioni semantiche in antico abbiamo le seguenti notizie in Chantraine, cioè DELG I. 160 “baliovÀ: “tacheté, moucheté” en parlant d’animaux (E., Call. fr. 110, 53, AP); adj. ancien qui a fourni, avec déplacement d’accent, le nom du cheval d’Achille BaliovÀ. Du façon artificielle Opp. C. 2, 314 et d’autres poètes tardifs emploient le mot au sens de “rapide” (par analogie avec ajrgovÀ). Peut-on rattacher à ce terme la glose d’Hsch ...... Et. Douteuse. La finale peut être -ióoÀ, cf. poliovÀ et d’autres noms de couleur. En raison de l’initiale b- on a supposé un emprunt phrygien selon Solmsen, KZ 34, 1897, 72 sqq.; illyrien selon Pokorny 118, et surtout C. de Simone, IF 67, 1962, 45-46. L’hypothèse d’un emprunt a une langue où le bh- i.-e. est représenté par b- permettrait d’évoquer le terme parallèle proprement grec ϕaliovÀ (Call.), cf. Solmsen l.c.” Se di prestito in greco si tratta, allora un simile prestito deve per forza essere molto antico, data la presenza dell’aggettivo per due volte nei testi omerici, cioè prestito databile almeno al 7-8° secolo a. C., o almeno al 5° secolo a. C., visti i due riferimenti sicuri in Euripide, commentati dagli scoliasti.35 Dal I-II secolo d. C. in poi l’uso dell’aggettivo diventa riminiscenza letteraria che si rifà ad auctores quali Omero ed Euripide, come nella citazione a memoria dell’Ippolito 218 di Euripide da parte di Plutarco (Moralia. Quomodo Adulator ab Amico Internoscatur, 52B-C: “Qhratikou' de; kai; kunhgetikou' labovmenoÀ mononou; ta; th'À FaivdraÀ ajnabow'n e{petai pròÀ qew'n e[ramai kusi; qwu?xai / baliai'À ejlavϕoiÀ ejgcrimptovnoiÀ” [a caccia di cervi maculati]), nel fragm. XXXI De Venatione con parole molto simili (Dübner p. 47 “o{pou dokw' moi kai; aujto;À ejk nevaÀ au\qiÀ ajrch'À par! hJlikivan ejmpaqevsteroÀ gegonevnai kai; pavqein w{sper hJ Eujripivdou Faivdra, kusi; qwu?xai / balivaiÀ ejlavfoiÀ ejgcriptovmenoÀ”), in cui è evidente la citazione di Euripide. La cosa continua poi negli scrittori naturalisti, in quelli che scrivono dell’arte militare, dato che la voce è diventata epiteto di cavallo da guerra,36 per finire con tutti i lessicografi della tradizione tarda.37 Nel tardo (medio) greco la voce è estremamente vitale, meritando un commento abbastanza lungo sia nel Glossario Greco del Du Cange, cioè “Bavlan, ita Barbari Equum appellabant, quem Græci ϕavlion, ait Procopius lib. I de Bello Gothico, cap. 18. a quo sic describitur, ubi de Belisarij Equo ...... De voce verò FaliovÀ, Hesychius: ϕaliovn, lamprovn. Phavorinus: ϕaliovn, to; leukovn, ejx ou| kai; ta; ϕavlara... Hadrianus Iunius lib. 4. Animadv. cap. 11. existimat Vahalim fluvium appellatum ab arena, qua tingitur, subrusso colore, quem Valum, inquit, vocant, quo nomine Equum, quo Belisarius invectus fuisse legitur apud Procopium, subrussi coloris designabant Gothi.”, che nell’Appendice: “BaliovÀ, Fulvus, Cervinus color. Michaël Psellus in Hist. MS. in Michaële Duca: Vide a BalovÀ.” I commentatori (cfr. Chantraine, ut sup.) pensano, tutti, a qualche prestito frigio nel greco in un periodo abbastanza antico, diffuso poi non solo come baliovÀ, aggettivo di colore, ma anche con estensione nella fitonimia, a giudicare dai fitonimi greci bavlariÀ (Ps. Diosc. IV. 98 RV), bavllariÀ (Esichio B. 162 bavllariÀ: botavnh trivϕulloÀ), ballavria (Ps. Dioscoride III. 100 RV), ballavrion ecc. Anche la tarda lessicografia si interessa di tali fitonimi, cfr. Du Cange, Glossario Greco: “BavllariÀ, Muscus marinus, apud Interpolat. Dioscor. cap. 681. Ballavrion, Lychnis coronaria, Ballaria, c. 520. Vide Ruellium.” Carnoy li commenta come prestiti da qualche lingua balcanica, esterna ai dialetti greci, non il frigio come per Chantraine, ma addirittura il tracio, cfr. DENGP 1959:46 “ballaris = bavllariÀ Ps. 35 Omero, Iliade 16. 148-149 “tw'/ de; kai; Aujtomevdwn u{page zugo;n wjkevaÀ i{ppouÀ / Xavnqon kai; Balivon, tw; a{ma pnoih'si petevsqhn,” [nomi dei cavalli: giallo e maculato]. Omero, Iliade 19. 399-400 “smerdalevon d’ i{ppoisin ejkevkleto patro;À ejoi'o: / “Xavnqe te kai; Balive, thlekluta; tevkna PodavrghÀ.” [nomi dei cavalli,,ut sup.]. Per i passi d’Euripide cfr. Ecuba 90-91 “e\idon ga;r balia;n e[laφon luvkon a{imoni cala'/ sφazomevnan, ap’ emw'n gonavtwn spasqei'san ajnoivktwÀ”, Ippolito 216-218 “i{na qhroϕovnoi / steivbousi kuvneÀ / baliai'À ejlavϕoiÀ ejgcrimptovmenai” [facendo la caccia a cervi maculati]. Per i commenti tardivi degli scoliasti cfr. E. Schwarz, Scholia in Euripidem, Berlino 1887 vol. I. 21 (sch. in Ecuba 90): +balivan: gravϕetai kai; baliav kai; baliva. Diaϕevrei de; baliva me;n ga;r levgetai hJ tacei'sa para; to; livan baivnein, baliav de; hJ katavstiktoÀ kai ϕolidwtovÀ. [dal Cod. Vaticano 909: A]. 36 Procopio di Cesarea, De Bello Gothico I [= De Bellis V]. XVIII, 6 “o}À dh; o{lon me;n to; sw'ma ϕaio;À h\n, to; mevtwpon de; a{pan ejk keφalh'À mevcri ejÀ rJi'naÀ leuko;À mavlista. tou'ton $EllhneÀ me;n ϕaliovn, bavrbaroi de; bavlan kalou'si.” (a proposito del cavallo di Belisario). E comunque riferito come epiteto a pesci in Oppiano Alieutica II. 434 Toivh kai; balih'sin ijoulivsi tevtroϕen a[th / a]n stovma (labridi maculati). 37 Esichio B. 143 “balivan: katavstikton, poikivlon [Krh'teÀ] tacuv. ejlaϕrovn [phrovn, bavlion]” (rif. ad Euripide Ecuba 90 e sch.), B. 156 “baliva: ojϕqalmiva kai; ton; bavlion phrovn, Krh'teÀ;”. Etymologicum Magnum 186, 26-27 BavlioÀ: [Onoma tou' i{ppou tou' AcillevwÀ. Shmaivnei de; kai; to;n poikivlon. EujripivdhÀ Balivan e[laϕon ϕhsivn. }H φavlioÀ ti;À w}n, oJ leukomevtwpoÀ, kai; oJ leukovÀ. EM 186, 29, 32 Balivai: AiJ tacei'ai ... Zonaras, Lexicon (ed. Tittmann) I. 372, 27 “Baliva e[laϕoÀ katavstiktoÀ” [locum ex Euip. Hecuba v. 90 ad quem respicit glossa...]. Zonaras id. I. 375, 9 “ Balivon. poikivlon.” Sudas B. 82 “ Balivan: thn; e[laφon th;n katavstikton.” (rif. ad Eurip. Ecuba 90); B. 84 “Balivon: i{ppoÀ.” (rif. ad Et. Magn. 186, 27). — 232 — — 233 — Diosc. III. 100 Lychnis githago équivalent dialectal (thrace?) de phalaris (voy. ce mot) et dérivé de bhel- ‘briller’ ...”, ibid. “balivÀ = balis Plinio XXV.14, Ps. Diosc. IV.150 RV (= sivkuÀ a[grioÀ) Col. ‘vert clair’ < bhel- ‘être clair’: “... s’est dit de la pastèque sauvage (sivkuÀ a[grioÀ) dont la couleur est d’un vert clair (ind.-eur. bhel “être clair”) (pél. b pour bh) (voy. phalaris, ballaris, zacynthis)”. D’André p. 33 balis suggerisce soltanto la derivazione dal verbo bavllw (“... peut-être bavllw ... plante dont le fruit projette son jus et ses graines”). Vista la diffusione della voce nel greco, anche in epoca abbastanza antica, è difficile ipotizzare un germanismo, difatti esiti germanici della base IEW II. 118-120 *bhel-1 ‘glänzend, weiß’ hanno in genere un diverso sviluppo semantico, come in. ags. bævl, aisl. bAl (> neoingl. bale: discussione dell’etimologia e dei significati germanici in Holthausen 1974’, voce bævl) ‘fiamma; fuoco’, anche se troviamo in Ennodio la voce: Bala, -anis (Carmina 2. 136) ‘cavallo bianco’, di solito considerato germanismo (longobardismo?). Se il significato è ‘bianco’ o ‘maculato’, piuttosto che ‘fiamma’, allora la semantica è quella di altre lingue indo-europee e non del germanico. Comunque, Lendinara 2002: 223 sgg. asserisce che non può essere del celtico, visto che “celt. *belo- ‘luminoso’, ‘bianco’ si può ricostiruire soltanto attraverso toponimi e antroponimi”, e concorda con Pokorny 1959, in base ad Ennodio, Carmina 2. 136, e a Procopio, De Bello Gotico 1. 18. 6, che la base bal- è da ricondurre al germanico e che terminologia celtica quale cimr. ‘ceffyl bàl’ (sic: credo l’errore grafico sia imputabile a Skeat) sia un prestito dall’inglese (quale?), nonostante Onions nell’OED, voci BALL, BALD (< medio ingl. balled), commenti “prob. Celtic”. Comunque, in Italia vi erano state prese di posizione a favore della germanicità della base bal- e contro una pretesa celticità, come Bertoni 1914: 10-11,38 anche se a p. 11 egli conclude “Tuttavia, è più probabile che il vocabolo sia d’origine celtica (cfr. brett. bal; a. franc. baille; franc. cheval baillet)” a proposito del titolo ennodiano “De equo badeo et balane”. Di simile avviso è Bolelli, ASNP 1942: 154, nota 6 (“Per l’aggettivo *balios (906; 24) ‘macchiato di bianco’ (detto di cavalli) mancano punti di riferimento nel celtico”), mentre vi è una spiegazione più complessa in Bolelli ID XVII (1941) voce 24 p. 144, che considera prima il bretone bal, baill come prestiti dall’antico francese baille, baillet, questi ultimi, a loro volta, incroci tra il lat. badius e il gotico bala (Ennodio), con una critica alla presa di posizione di Von Wagner che derivava tout court le voci francesi dal germanico. D’accordo con la posizione di Von Wartburg (FEW 1. 217 ecc.) si trova Hubschmid 1991: 37 nota 14 (“L’a. fr. baille adj., sinonimo di got. bala, pare essere di origine germanica…”), anche se la morfologia della voce francese rimaneva ancora proble- matica per ambedue gli studiosi.39 La soluzione del problema richiede un breve studio di alcune voci rilevanti del celtico insulare e delle loro basi galliche, nonché un breve sguardo alla datazione relativa della comparsa di alcuni lemmi germanici connessi. In primo luogo diamo uno sguardo d’insieme alle voci germaniche congeneri di esiti di *bal-, *bl- (< *bhH-lo- < *bheH-) in albanese, baltico, slavo, indiano, e forse celtico, ed alle date della prima comparsa di alcune di esse nello stesso germanico. In quest’ultimo caso l’ags. bævl (> ing. bale-fire = bonfire), ags. blAc (> ing. bleak), blævge (>ing. blay, blea), blævce (> ing. bleach), blæse (> ing. blaze), ant. alto ted. bleih (> ted. bleich), ant. alto ted. belihha (> ted. Belche), bleihha (> ted. Blei, Blei[h]e), blas (> ted. Blaß), hanno tutti una considerevole profondità temporale, sono tutti esiti della base i.e. estesa *bheH- ‘illuminare’ > *bh[e]H-lo-, bh[e]H-l-[e]ko-, bh[e]H-l-[e]go-, con congeneri nell’antico indiano, balto-slavo e addirittura nell’albanese, parentela discussa in Lendinara 2002, che riprende un lungo studio di parallelismi i.e. da Meyer 1891: 24-25, in vari lavori di Jokl, in Tagliavini 1943: 90, Çabej Etim. II. 134-135, ultimamente in Huld 1984: 40, Orel 1998: 14-16, anche se quest’ultimo voleva attribuire alcuni sviluppi albanesi del tema, quali balash, balosh, allo slavo, Demiraj 1997: 87 sgg. in maniera più corretta. Si è anche ipotizzato che il romeno b1lan fosse stato di provenienza germanica antica, ipotesi già confutata da Puòcariu per motivi di deriva fonologica (1943, vol. 1. 339: “So b1lan “lichtblond, hellhaarig”, das die Form *b1rân haben müßte, mit dem Wandel von intervokalischem l zu r und von án zu ân, wenn es, wie R. Loewe, gelaubt hat, in alter Zeit aus dem Germanischem entlehnt worden wäre” ), che preferisce considerare esiti quali b1l e b1lan come prestiti slavi (vol. 1: 247). Rosetti II. 76 rifiuta l’ipotesi di una simile origine in termini ancora più forti (“Dup1 încercarea lui R. Loewe, din 1903, de a esplica termenii dr. b1lan …… prin germanic1, cercetarea a fost reluat1 peste dou1zeci de ani de C. Diculescu, G. Giuglea, S. Puòcariu òi E. Gamillscheg, f1r1 s1 putem afirma c1 s-a ajuns la rezultate sigure în acest domeniu”). Si veda la lunga discussione, con ampia bibliografia, in Rosetti II. 76-80. Anche se la presenza nell’antico alto tedesco e nell’anglosassone di esiti della base *bH-lo- è appurata, l’unico derivato con corrispondenze gotiche sicure è (uf)blEsan (cfr. ingl. Blaze, ted. blasen), mentre altre voci sono ipotizzate, ad es. *blagks, *blas (Holthausen 1934: 15-16). La situazione cambia radicalmente, comunque, nel caso dell’inglese bald < medio-ing. balled[e] e l’ornitonimo bald-coot (> coot), attestato soltanto dal 1300-1400, praticamente contemporaneamente con la 38 “Notevole è una voce particolare applicata a una specie di cavallo, con una stella bianca sulla fronte, la quale compare nel racconto della guerra sassone di Clotario, come è dato dal così detto “Liber Historiæ Francorum”. Bertoaldo grida al re franco, a mo’ d’ingiuria: bale giumente! Questo bale ha fatto pensare a un got. Balan, cavallo con una macchia bianca sulla fronte.” 39 Hubschmid 1991 deriva esiti per Populus nigra L. in vari dialetti romanzi da una base gallica *b1l-isia = Billy TLG 25 *b2l-isia, ad es. Allier b1liz, Mons belisse, adducendo sotto questa base anche l’alsaziano belle e l’asturiano bela, nonché (dalla variante *bel-isa) ant. prov. belsa, spagn. belesa, beleno ‘giusquiamo’ ecc. La proposta sembra ragionevole e accettabile per i primi esiti per Populus sp., mentre gli esiti con significati ‘giusquiamo’ sembrano riportabili al nome divino B2lenos (divino ‘Lupo’, bianco per la livrea invernale), con dedica popolare antica alla stessa divinità celtica, ma di questo problema ho discusso altrove. Senza soluzione restano, comunque, le forme franco-germaniche belle e l’asturiano bela (< *belo- ?). — 234 — — 235 — comparsa del cimr. ceffyl bal ‘cavallo con la fronte bianca’ nel ms. Llansteffan 164 alla fine del Trecento. Decidere se il cimr. bal anteceda il medio ing. balled o, viceversa, se l’ing. antedati il cimrico, è veramente una questione di gallina e uovo. Il bretone baill, comunque, sembra derivare dall’ant. fr. baille, baillet (cheval baillet). L’errore è di non considerare l’opposizione a tre laterali nel cimrico e la sua origine storica: nel caso in questione abbiamo ‘bal’ (con fronte bianca) /baL/ = [}bal?] ~ ‘bâl’ (sommità [nevosa]) /bal/ = [}ba?l] ~ ‘ball’ (1. base di ‘ballog’ macchiato, 2. peste bubbonica, 3. peste, morte) /baÂ/ = [}ba?Â], che ritroviamo nelle triadi ‘tal’ (alto)/ ‘dal’ (prendere) ~ ‘tâl’ (1.pagamento, 2. fronte) ~ ‘dall’ (cieco) /taL, daL ~ tal ~ daÂ/, ‘hel’ (allotropo di hela ‘cacciare’) ~ ‘hêl’ (sano e salvo)~ ‘hell’ (femminile di ‘hyll’ brutto)/heL ~ hel ~ heÂ/, ‘bol’ (pancia, var. bola) ~ ‘bôl’ (catinella) ~ ‘boll’ (aperto) /boL ~ bol ~ boÂ/, ‘dol’ (pupazza) ~ ‘dôl’ (marcita) ~ ‘doll’ (forma femminile di ‘twll’ rotto, bucato) /doL ~ dol ~ doÂ/, ‘col’ (1. spiga, 2. allotropo di ‘colyn’ pungiglione) ~ ‘côl’ (grembo) ~ ‘coll’ (1. perdita, 2. nocciolo) /koL ~ kol ~ koÂ/, ‘cyl, cul’ (fornace) ~ ‘cul’ (stretto) ~ ‘cyll’ (noccioli; perde) /k®L ~ k®l ~ k®Â/, ‘cwl’ (decimare, di bestie) ~ ‘cw¤l’ (offesa) ~ ‘cwll’ (ventre) /kuL ~ kul ~ kuÂ/, insieme a qualche triade subminima, ad es. ‘lol’ (stupidità) ~ ‘nôl’ (indietro) ~ ‘oll’ (tutto), ‘holl’ (completo) /loL ~ nol ~ [h]oÂ/ ecc. L’opposizione è marginale, come quella /ts ~ dz/ dell’italiano (razza ‘specie’ ~ razza ‘pesce’), ma pur sempre opposizione. Il fonema /L/ che abbrevia significativamente la vocale tonica precedente deriva o dal nesso storico /lg/ (< ‘lg’ protoceltico e gallico), conservato come tale nel bretone e nell’antico e medio cornico, ad es. ‘dal’ = br. ‘dalc’h’, ‘hel’ = ant. cornico ‘helhiat’ (Campanile 1974: 62), ‘bol’ = br. ‘bolc’h’/ ‘belc’h’, oppure dal gruppo antico o medio inglese composto di vocale breve + /l/, ad es. ‘tal’ (medio ingl. ‘tall’ ), ‘dol’ (medio ingl. ‘doll’), ‘cul, cyl’ (medio ingl. ‘kiln’), ‘dwl’ (medio ingl. ‘dull’, Parry 1923: 157), rispetto a casi che derivano da vocale lunga + /l/, come ‘bôl’ (medio ingl.’bowl’, cfr. Parry 1923: 175) in opposizione con ‘bol’ (< *bolg- < *b5lgA). Nel caso di ‘bal’ (macchiato in fronte) la derivazione potrebbe essere triplice, vale a dire (1) da una base proto-britannica *balg-, (2) prestito dall’ingl. ‘ball, bald’, (3) prestito interceltico, cioè una tarda integrazione dell’irl. ‘ball’ (macchia ecc.). La prima soluzione sembra esclusa, mentre non esistono sufficienti motivazioni di natura linguistica per scegliere tra le soluzioni (2) e (3), dilemma non intravisto né da Pokorny 1959 né da Lendinara 2002. Tuttavia, Parry 1923 non fa alcun accenno a ‘bal’ come probabile prestito inglese, forse per motivi di ordine cronologico, che investigheremo ora. Vi sono esiti celtici 40 del tema indo-europeo *bhel-1 con il significato di ‘maculato’, come ad esempio l’ant. irl. ball DIL “ball (e) ‘spot, mark, blemish’, con esempi dalla Vita Tripartita di S. Patrizio, dal Táin Bó Cúalgne (Windisch 1905: 205) “bratt ballabrecc uani impi” [un vestito di stoffa maculata: lettura “bratt balla brec40 I fitonimi derivati da questa base andrebbero trattati in altra sede. — 236 — cuani impi” del Libro di Leinster 7735], dal Togail Bruidne Dá Derga, ed. Stokes 1901: 15, 11-12 [§ 2] “Tibri ainíusa ceachtar a da gruad, co n-amlud indtibsen do ballaib bithchorcra co ndeirgi fola laig” [una fossetta deliziosa nelle sue due guance, con delle macchie sempre viola con il <colore> rosso che ha il sangue d’un vitellino], ed. Knott 19753: 37 “do ballaib bithchorcra” id., Ériu iv.220 § 28 “…ac ní fuil/ ball ar an flaith romferguigh” [non vi è macchia sul signore che mi ha dato fastidio], dal Félire per Ottobre 4 (“in ballgel Baluíne”: non ‘da membra splendenti’, come voleva Stokes, ma meglio ‘coperto di lentiggini chiare’) ecc. Questo è anche epiteto del salmone come pesce con macchie viola e rossastre (Togail na Tebe 3520 “ba bradanaib becca ballbreca”, “bradán ballc[h]orca” nel Magh Léna 498, oppure “Eochaid scandail. i. Ballderg” del Libro di Leinster 322e36, epiteto di Eochaid il “Lentigginoso” ecc.). Interessante è pure l’associazione con brecc ‘maculato’, nonché il derivato ballach ‘maculato; con macchie tonde’, come nella versione di Stowe del Táin Bó Cúalgne (ed. O’ Rahilly, 19782: 200-201 “brat ballach breac uaine impi”), Irische Texte iv1. 2738 (Acallamh p. 77 “7 ro ba lis ballach breicderg”), Annali dei Quattro Maestri iii. 584, 7 (“do mharbhadh la Corbmac mballach”: Cormac il Lentigginoso), balldae, ugualmente ‘maculato, lentigginoso’, ballaigaid ‘maculare’ e così via, e per l’irlandese moderno cfr. le voci ball ‘macchia’, ‘lentiggine’, ball súghaidh ‘macchia morale’, ball dóráin/ ball seirce ‘neo’, ball odhar ‘voglia’ ecc., gli aggettivi ballóg, ballach del Foclóir di Dinneen (19454). Quest’ultimo viene usato come sostantivato per indicare i labridi più vistosi (‘maculati’), come in Ó Baoill 1994: 176-177 ballach = Labrus berggylta ecc., variante donegalese ballan, manxese bollan [registrato come l’ittionimo bollán nello Zoilomastix di Philip O’ Sullivan del 1625], donde l’inglese settentrionale ‘bollan’ (= ‘wrasse’) . Vi è perfetta corrispondenza, in questi ultimi casi, con l’aggettivo ballog ‘maculato, lentigginoso’ del medio cimrico ballauc (Canu Aneirin 1251 41), che Ifor Williams considerava possibile prestito dall’irlandese, vista la rarità dell’aggettivo e la mancata presenza della base ball- nel cimrico. Comunque, è garantita nello stesso cimrico la presenza di un aggettivo derivato ballasar ‘azzurro, blu scuro; macchiato di azzurro’, da ball- + llasar, che difficilmente può dipendere dalla voce araba, a sua volta prestito dal persiano, che fornisce ‘azzurro’ a tutte le lingue europee moderne, per un numero di motivi, nonostante il GPC dica frettolosamente “bnth. o ryw ff. sy’n tarddu yn y pen draw o’r Pers. lAzhward ‘lapis lazuli, lliw glas’; anodd gwybod beth oedd ffynhonell uniongyrchol y bnth. i’r Gym.; cf. Arab. (al-) lazward, Llad. C. lazur, lazurius, lazulum …”. Infatti le difficoltà sono multiple: l’unica via diretta per un prestito persiano o arabo in celtico sarebbe tramite l’antico 41 Cfr. Canu Aneirin CIII: 1250-1252 “ig cin uaran edeiuinieit / bal,lauc tal gellauc cat / tridid engiriaul / erlinaut gaur” “Nel tumulto, saggi dalla fronte lentigginosa, ostili, seguirono il grido di guerra nella battaglia violenta (che durava) da tre giorni”: ‘gellauc’ non sembra essere qui ‘magazzino’, dato il contesto guerriero, nonostante i commenti di I. Williams, ma potrebbe essere cattiva lettura di ‘gelynauc’ < gelyn. — 237 — francese, ma sappiamo che in Italia la prima comparsa del tardolatino ‘lazurus’ è in un testo veneziano del 1270 (DELI azzurro), mentre verso il 1100 si trova ‘lazur’ in testi giudeo-francesi, nel latino medioevale della Francia ‘azurium’ in un testo del 1080 (cfr. Le Robert, vol. 1. 155B). Si conclude che l’arabo ‘lazward’ era relativamente sconosciuto in Europa prima del 1050. L’aggettivo cimrico ballasar data soltanto dal periodo 1300-1340, nei testi a disposizione, ad es. Elucidarium 94, 2728 (“abyrrion ewined balla&&ar…”, con unghie corte e brillanti), oppure nelle poesie di Iolo Goch (Red Book Poetry 1408, 2-3 = IGE 4. 9-10 “ewin balla&&arn arna6/ a modr6y eur ym dra6” – con unghie splendenti e un anello d’oro indosso), ma la base llasar, (a parte l’uso nei Gogynfeirdd del 1150 quali Cynddelw e Bleddyn Fardd, oppure nel testo sia latino che cimrico delle Leggi di Hywel Dda (nell’ultimo caso si veda Wiliam 1960: §141, 11-12, ed. del ms. Cotton Titus Dii, testo del ca. 1200 ma l’originale è molto più antico: “Tarian, viii. k’; o byd kalchllassar neu eurgalch, pedeyr ar ugeynt” - uno scudo 8 cent., ma se è di smalto o d’oro, 24), sembra relata sia al cimr. llachar, d’ugual significato, che all’irl. lassair, anzi sembrerebbe llas<s>ar un prestito dall’ant. irl. las<s>air. Il corrispondente llachar è già reperibile nei testi del 1100, quali il Libro Nero di Carmarthen 1. 4-6 (“Oed lla/char kyulauar kyula/uan …”), oppure il Canu Taliesin 76, 21-22 “Ardyrch ev, waladr, lu cadr, llachar,/ ac 6yneb vydin broyd ynial”), o nelle poesie di un Gogynfardd di seconda generazione (il famoso Gwalchmai, figlio di Meilyr, ca. 1100), sempre comunque dopo il 1080. Più tardi ancora sono alcuni esempi del Libro di Taliesin rimasti nell’edizione di Skene, cioè ii. 179, 4 (pseudo-Taliesin: “Croes crist yn glaer. lluryc llachar rac pop aelat”), e l’aggettivo derivato ‘llacharde’ in ii. 113, 4 (pseudo-Taliesin: “A lladin g6yr llacharte”). Vista, tuttavia, la derivazione di tali lemmi dalla base i.e. IEW 652-653 *lð[i]p- (> celt. *lap-s-ar- > irl. lassar-, cimr. llachar, irl. lassar- > cimr. llas<s>ar), cosa argomentata anche in Lewis-Pedersen 1937: 19, il derivato di gran lunga maggiore antichità è l’irl. lassair, che oltre ad esser presente nel Félire (Aprile 18: “Laisrén lassar búadach, / abb Lethglinne lígach”- Laisrén, fiamma vittoriosa, dolce abbate di Leighlin), Togail Bruidne Dá Derga (§128), Amra Choluimb Chille (RC xx. 168 §28, 22-23), Ériu iv. 102 § 46 (“lastais a súili serba” uno sguardo di fuoco dai suoi occhi amari), Lebor na hUidre 8812, ecc., tutti testi antichi ma con interpolazioni medio-irlandesi, si trova anche nei glossari e negli inni antichi. In altre parole, è presente in Milano 40c1 (commentario allo Ps. 17: ut in fine præcedentis fumi plena inflammatio consequeretur airis gnáth lassar hitiarmoracht diad – perché la fiamma è usuale dopo il fumo), Milano 40c2 (Ps. 17: airni fubthad fil is indlassar – perché non è tormento ch’è nella fiamma), Milano 40c5 (Ps. 17: quod igni est familiare.i. richsea dudenum iarlassair máir – si creano carboni vivi dopo una grande fiamma), commentari che datano dal periodo 850-860 d. C.[Thesaurus i. xiv-xv], e nell’Inno di Fiacc (Thesaurus Palaeohibernicus ii. 318.4) r. 48 “lassais in muine i mbAi. Assin tein adgladastar” (il roveto in cui vi era la fiamma, da lì, dal fuoco, parlò), testo del periodo 750-790 d. C. — 238 — [Thesaurus Palaeohibernicus ii. xxxvii]. Se ‘lassair’ è di gran lunga più antico di qualsiasi prestito orientale, allora ‘ballassar’ nel medio cimrico è difficilmente definibile come prestito da simili fonti, anzi è esito diretto dalla base i.e. IEW 652-653. Sembra così ritrovabile la base ball- del cimrico, probabile prestito dall’irl. ball < *bænó- < *bH-l-no-. La cosa che più sorprende è che la deriva *bænó- > ball è tipicamente britannica e gallica. Il processo dei prestiti sembrerebbe britannico > goidelico > britannico, senza dover supporre nulla di germanico interposto o interponibile. Con maggiore difficoltà trova sistemazione la voce cimrica bal ‘macchia; lentiggine’, che, vista la sua fonologia, sembrerebbe un prestito antico dall’irlandese. Nonostante il GPC additi un’origine di bal1 soltanto in testi del tardo Quattrocento (i mss. di Llansteffan) in poi, derivati di *bhH-lo- sembrano esistere, ad es. bâl ‘sommità (nevosa)’ [v. voce GPC], con addirittura un derivato irlandese in *bhH-l-1r-, cioè balair ‘capo clan’ (chi sta di fronte), come in Cath Muighe Tuireadh 85-86 (“Lughaidh Lámfhada mac Eithne Imdheirge inguine Balair BhailebhEimnighe”). Manca, comunque, nel celtico insulare, un esito di *bhH-l-iúo-, mentre quelli di *bhH-lo- e *bhH-lno- sono ben rappresentati. Nelle iscrizioni galliche DAG 32, nei commenti sulle forme di Ennodio e di Procopio ecc., si ribadisce la presenza nel celtico storico sia di *balo- che di *balúo- (“It is certain that Keltic had a form bal(i)o- “white” independently of the cognate Germanic bala, cf. Bertoldi RC 48, 1931, 291…”), con un’accurata investigazione della documentazione in DAG 50, 87, 158, 182, 205, 224, 237, 239, mentre Ellis Evans 1957: 147-148 *bal-, *ball- ribadisce lo stesso concetto (“As stressed by Whatmough [Lg. 25, 1949, 289, DAG 1 s. v. bala], Celtic certainly had a form bal(i)o- ‘white’ …”, cfr. pure nota 8 ibid. “Note also MlW ballauc ‘freckled, speckled’, CAn l. 1251 [see note ad loc.] beside MlIr. ballach ‘spotted, bossed’ … and see Loth RC 46, 1929, 145 f.”). Si potrebbe, dunque, tranquillamente concludere che il celtico insulare conosce esiti di *bhH-lo- e *bhH-l-no-, mentre il celtico storico precedente conosce esiti residui di *bhH-l-úo-, per cui la provenienza del fr. baille, baillet ecc. non è inequivocamente prestito dal germanico ma potrebbe provenire da antica fonte celtica, visto anche che l’ingl. ball, bald (< balled), termini inglesi assai tardi,42 potrebbero essere prestiti dal celtico. Non esiste modo per venire a capo del dilemma. Dall’altra parte, il bret. bail /bal/ sembrerebbe un francesismo, mentre il cimr. bal /baL/ sembra goidelismo del tardo Medioevo. In più, data la diffusione degli esiti e il loro significato nel celtico, si potrebbe ipotizzare che il gr. baliovÀ sia stato un galatismo (celtico orientale) del greco, più che frigio o tracio o da qualche elemento più oscuro, meno controllabile. Qui credo siano da ricercare tutti gli esiti romanzi di una forma latina volgare *balio- |baljo-|, compreso il nostro ba[g]iòc[c]o. 42 Si ricordi che bald coot (> coot) è del Trecento, mentre la voce originale anglosassone per ‘folaga’, nel Glossario di Épinal-Erfurt, è ‘dop-ænid’ (anitra tuffatrice): si veda Sauer 1999: 149 per i commenti del caso. — 239 — 2. 0 Acipenseridi. Per quanto riguarda l’etnoclassificazione veneta degli Acipenseridi o ‘storioni’, ciò che emerge dalle fonti storiche: Boerio 1856, Ninni 1890, nonché dalle poche indicazioni moderne, può essere schematizzato come nella figura 2. Il livello ‘intermedio’ sembra coperto da sturión, mentre cópese e ágheno sono dei generici. Se vi è bisogno di una estensione lessicale per coprire nuove e rare specie, come ad es. l’Acipenser ruthenus raramente visto nel Mediterraneo, si modifica la base lessicale sturión, come già accennato in Ninni 1890 (I. 40), tramite aggettivi, vale a dire come sturión forèsto o sturión bastardo. Il termine storico per le uova trattate è caviáro ‘caviale’, che non necessita di commenti (si vedano le osservazioni del DEI e del DELI, voce ‘caviale’). FIGURA 2 sturion, stirion Acipenser Naccarii Acipenser huso sturión sturióndisarmà /sturiónbianco cópese ádeno, ágheno (piccoli) ádeno, ágheno (‘porcelletta’) [SturiónforèstoperAcipenserruthenusèpiùteorico chereale:v.NinniI.40] Il termine più arcaico latino per questo genere ittico sembrerebbe acupenser, documentato presso Lucilio [Sat. Frm. 1238 Terzaghi: “O Publi, o gurges Galloni, es homo miser, inquit. / cenasti in uita numquam bene, cum omnia in ista / consumis squilla atque acupensere cum decimano”], brano ricuperato da Cicerone, De finibus bonorum et malorum II. VIII.43 La variante acipenser diventa poi quella più usuale tra gli scrittori successivi, già in un periodo abbastanza antico (Plauto, Bacaria Frm., Cornelio Nepote Frm. 27), ed è usuale in Orazio, Sat. II. 2. 47, Plinio N. H. IX. 27, 60, che attribuisce la stessa variante ad Ovidio nella N. H. XXXII. XI (“Peculiaris, autem, maris acipenser ...”). La si ritrova in Apicio, De Re Coquinaria VI. III, fino a Macrobio (Sat. III. 16.1, 4-5, 7, 9) ed a Girolamo, Epistola XLV. 5 (“Tu attaginem ructas, et de comeso acipensere gloriaris ... ” ecc.). Troviamo nei vari autori serie di contaminazioni lessicali, che producono nuove forme, incroci con acc3p2re che generano accipenser, presente già nei codici di Macrobio come varia lectio per acipenser, in periodo classico già variabile in Cicerone (Tusc. III. XVIII; Frm. 4), tra gli autori cristiani in Ambrogio, Exaemeron V. 79. 1 (“Tibi suos fructus terra producit; tibi scaros et accipenseres, et omnes fetus suos generant aquæ.”), talvolta nella forma accipensis (CGL III. 186, 50). Le forme che originano già dalla base -pens- senza ‘r’ hanno una certa diffusione, cfr. l’ultimo esempio, poi acipensis in Marziale (Epigr. XIII. 91) o aquipensis dei glossari (CGL III. 318, 5; III. 513, 6). È evidente, in questo caso l’influenza di aqua che, incrociata con la nostra base, produce a sua volta aquipenser, ad es. Paolo ex Festo “Aquipenser genus piscis” (ed. Lindsay 20, 26), nonché aquipensis/ aquippensis dei glossari. Troviamo, cioè, una serie di varianti che ci porta popolarmente lontani dalla base originale acu- ‘ago; acuto; a punta’, immagine lessicalizzata in base alla morfologia del pesce (naso e rostro). La base latina passa, sempre con primo elemento ac[c]i-, nei tardi autori greci, ad es. ajkkiphvsioÀ in Ateneo (Dipnosofisti VII) 294f (due citazioni commentate poi in Thompson 1947: 7-8), ajkkiphvsin (accusativo) in CGL III. 186, 50 accipisin, accipiens]. Anche se il termine latino è arcaico, voce apparentemente autoctona, e passa addirittura nel tardo greco, ci sono alcuni autori latini, antichi e di grande autorità, che non sembrano conoscere la voce acupenser / acipenser, ma usano di preferenza la voce greca per questo genere ittico, cioè e[lloy, sia in forma el[l]ops, - come già ab antiquo in Ennio Frm. Delikatessen in Warmington (ed. LOEB) “Surrenti tu elopem fac emas, glaucumque apud Cumas”[Warmington: ajpo; KuvmhÀ], citato in Apuleio, Apologia XXXIX, Ovidio, Alieutica 27, 96 (il noto passo “Et pretiosus elops nostris incognitis undis” ecc.), che fa pensare ad uno storione visto solo nel Mar Pontico o altrove,44 - che in quella apparentemente più ‘dotta’ ma meno fedele all’originale greco, cioè helops in Lucilio (Sat., Frm. 836), Varrone (Sat. Menipp. Frm. 549) ecc.,45 fino alla forma helops della De Orthographia di Cassiodoro (P. L. LXX col. 1264B). I greci usavano diversi nomi per questo genere, ad es. ajntakai'oÀ,46 trattato in Thompson 1947: 16-17, forse ejtelivÀ (Aristotele Hist. Animal. 567 a 19-20: “wjo- 43 Cfr. anche Cicerone, De finibus bonorum ... II. XXVIII “Qui enim uoluptatem ipsam contemnunt, iis licet dicere se acupenserem mænæ non anteponere” per un’ulteriore ricorrenza della stessa variante arcaica.. 44 Cfr. anche Plinio N. H. IX. 60 che parla dell’acipenser “Quidam eum elopem uocant”, nonché la forma tardiva data da Polemio Silvio (Mommsen, MGM Auctores Ant. IX vol. I: 544, 15 elops). 45 Anche Varrone in loc. parla del valore del pesce “nec multinummus piscis, ex salo captus,/ helops neque ostrea illa magna capta”, brano citato in Aulo Gellio, Notti Attiche VI. 16. 5. Cfr. anche Varrone, De Re Rustica III. II. VI, Ovidio (Metamorf. XII. 334), Plinio (N. H. XXXII. XI in cui cita Ovidio, Alieutica: “Helopem dicit [sc. Ovidius] esse nostris incognitum undis”), Quintiliano (Istit. Orat. V. 10. XXI), Columella VIII. 16, Stazio (Tebaide XII. 736), Festo secondo Paolo (ed. Lindsay 474, 20). 46 Viene usato anche in Ateneo, Dipnosofisti 118d-119a per ‘caviale’, mentre si trova in 132a per ‘fetta’ preparata di storione, “ajntakaivou mikrovn”, che fa pensare allo storione salato, conservato in strisce. — 240 — — 241 — tokou'si de; pavnteÀ o{ te lepidwtoiv, oi|on lavbrax kestreu;À kevfaloÀ ejtelivÀ”), di difficile identificazione,47 e il nostro e{lloy, discusso in Thompson op. cit. pp. 62-63, poi latinizzato ed usato con grande frequenza dagli autori latini. Gli antichi stessi cercarono di etimologizzare quest’ultimo come attributo e{lloy ‘muto’, cfr. le osservazioni sui ‘pesci muti’ già in Sofocle, Aiace 1297, più tardi in Ateneo, Dipnosofisti 277c (non solo un riferimento a “tou;À ijcqu'À eJllouvÀ”, come riflesso ormai letterario, ma anche il tentativo di etimologizzare implicito in “... dia; tiv oi{ ijcquveÀ uJpo; tw'n poihtw'n e[llopeÀ kalou'ntai kai; o{À: h{toi dia; to; a[fwnoi ei\nai...”).48 Comunque, la voce greca, anche se usata da autori classici latini con la stessa frequenza di acupenser / acipenser, non conosce affatto continuatori nel romanzo. Il cópese del veneto deriverà, dunque, in modo diciamo più o meno diretto dalla forma arcaica ac5p2 [n]se[r] che, pur sostituito negli autori classici da acipenser e varianti, doveva continuare nel latino popolare regionale, come sappiamo anche dalla sua documentazione tarda come acopiensier (sic) in Polemio Silvio (Mommsen, MGM Auctores Ant. IX vol. I: 544, 7-8 “acopiensier”). Resta, comunque, problematica la presenza della -p- intervocalica nel veneto attuale cópese, che dovrebbe derivare da antica geminata -pp-. Sarebbe, dunque, stato atteso, invece, un esito *cóbese. Il risultato che registriamo effettivamente, cópese, sembrerebbe partire da un incrocio acupenser X accipensis (CGL III. 186), che avrebbe prodotto una forma volgare *accúppensis, *accúppense(m). Il problema rimane! L’origine stessa di acupenser non può essere egizia, come pensava Thompson,49 bensì indo-europea, essendo il primo elemento da identificare nella base latina acu- ‘acuto; appuntito’, come ipotizzato in LEW I. 9, da ricondurre a IEW II. 18-20 *ak-2 [*ak-u- > lat. acus -Us ‘Nadel; Fischname’], mentre il secondo elemento è di più difficle soluzione, da 47 V. Thompson 1947: 67, anche se nel passo aristotelico il pesce ejtelivÀ fa parte dei noti ‘squamosi’ lepidwtoiv, comunque sempre assieme a pesci quali “lavbrax kestreu;À kevϕaloÀ” che, per altri versi, non condividono assolutamente nulla con lo storione. Hj. Frisk GEW I. 508, comunque, ricollega l’ittionimo ejtelivÀ / e[teliÀ all’hapax latino attilus ed a forme baltiche, cfr. op. cit. “Eine allgemeine Ähnlichkeit zeigt lat. attilus ‘ein störähnlicher großer Fisch in Po’ (Plin. rom.; auch *atillus), wohl gallisches, evt. ligurisches Wort. Ferner liegt der baltischer Name des Steinbutts, lett. ãte, alit. atìs, lit. õtas; Lit. bei W.-Hofmann s. attilus, Pok. 70.” 48 Come ora sappiamo, l’etimologia più probabile è *ejn - lopoÀ, si tratterà cioe di un derivato da lopovÀ ‘squama’, per cui si veda Frisk GEW I. 500. Lo storione è, dunque, il pesce ‘squamoso’ per eccellenza, essendo noto per le sue squame ossee a forma di scudo. A parte il passo in cui Ateneo (282e) cita Dorione, passo in cui il riferimento non può essere allo storione, in alcuni altri brani il riferimento preciso è dubbio (Epicarmo), in altri ancora e[llwy si riferisce sicuramente allo storione. Nonostante l’ipotesi abbastanza convincente di Frisk, cfr. Battisti BALM 2-3, 1960-61: 84 (n° 139 helops -opis, elops < gr. e[llwy, affiancato a e[llopoÀ ‘squamoso’), Battisti riteneva che Ateneo avesse già individuato la “derivazione etimologica”. Comunque sia, Battisti era d’accordo con Frisk ed altri che si trattasse dell’epiteto ‘squamoso’, del tutto appropriato nel caso dello storione. 49 Op. cit. p. 7 “I believe acipenser to be identical with cipen-pennu, the Egyptian name of the same fish. The word sturgeon, Germ. Stör, Russ. osëtr, is related to OPr. esketres, a sturgeon, Lith. ersketris, a whale.” Comunque, anche Alessio, Ichtyonymata p. 53, ricusa senza motivazione una possibile origine indoeuropea di acupEnser, cfr. ibid. nota 42 “I tentativi di dare di questa voce (con le varianti aci-, aqui-, ecc.) — 242 — connettere forse come -pens- con la base proto-germanica *fasOn- > a. a. ted. fasa > ted. Faser, anglosass. fæs ecc., ipotesi ancora sub judice. L’elemento ádeno / ágheno, ovvia origine dell’italiano regionale ladano, è di difficile soluzione. Mentre la forma dialettale più antica ‘adelo’ potrebbe essere sì esito della forma pliniana attestata att3lus, cfr. Plinio N. H. IX. XV “ ... silurus in Nilo, isox in Rheno, attilus in Pado”, tramite una possibile variante *at3lus, la derivazione di ádeno richiederebbe, non solo lo scempiamento -tt- > -t- (con successiva lenizione in -d-) della forma nota, ma anche un cambiamento arbitrario -t- ... -lin -t- ...-n- senza un contesto fonetico-fonologico che lo giustifichi. Scartata l’ipotesi ottocentesca dell’origine nel nome venetico-latino del fiume Atesis ‘Adige’50 e accertata la difficoltà fonologica di una derivazione att3lus > ádeno, restano due ipotesi da sondare sull’origine dell’ittionimo, vale a dire (1) l’origine da un antico etruschismo (aqene), (2) un celtismo continentale. La voce pokorniana IEW II. 70 *ati-, *ateli-, *atelo- sembra addirittura creata per poter raggruppare lat. att3lus, gr. ejtelivÀ (< *ajtelivÀ per assimilazione?) e il baltico atìs, õtas ‘Steinbutt’ ecc., mentre Holder I. 275 (“attilus m. eine störart, j. oberital. adello. Plinius n.h. 9, 44 ...”) non cerca nemmeno di giustificare la scelta di un possibile celtismo, anzi si accontenta di elencare lemmi, come più tardi Pokorny, come se la soluzione di particolari problemi consistesse nella pura elencazione di forme. Holder III. 735 (Nachträge) aggiunge la citazione da Pietro arcivescovo di Ravenna (a. 943 d. C.) della forma latina volgare adalus (“Storionem aut adalum ... De storione aut adalus ...”), antedatando le testimonianze, a cui associa delle forme pseudo-latine quattrocentesche ‘adelus’, ‘adalus’, mascheranti forme italiane dialettali. In base a queste si sente autorizzato a ricostruire delle forme del tipo *att-illo-s ecc.,51 ribadendo le vecchie associazioni cui faceva appello Thurneysen nell’Ottocento, vale a dire gr. ejtelivÀ, lit. atis, otis (sic Holder) e così via. Frisk GEW I. 580 ricollega in modo analogo tutte le forme latine, greche, baltiche in gioco, ripetendo l’attribuzione “wohl gallisches, un’etimologia indoeuropea sono praticamente falliti (LEW. I, p. 9).” Quest’ultimo, tuttavia, non azzarda alcuna ipotesi su un possibile prestito egizio, forse perché avrebbe preferito qualche nebulosa ‘mediterranea’ pre-indoeuropea, che riteniamo una categoria non falsificabile, ergo non scientifica. Il problema è risolto se si parte da una forma di base *acupeser di cui la forma pliniana acupenser rappresenta forse un’ipercorrezione o, almeno, un tentativo di ‘urbanizzare’ romanamente una forma ritenuta plebea e rustica. In questo caso l’esito romanzo continua la forma del nominativo latino. La forma russa già duecentesca osetr; ‘storione’ sarà probabilmente frutto di un incrocio con ostr; ‘acuto’ dell’antico slavo ecclesiastio, come ragiona Wade 19992. 50 Alessio, Ichtyonymata p. 53, accettava ancora quest’ipotesi, forse per motivi ideologici, in quanto riteneva un buon numero di ittionimi ‘teoricamente’ e necessariamente riconducibile ad idronimi, ipotesi di partenza per molta sua prassi etimologica sui nomi dei pesci. 51 Forse sarebbe più corretto riportare la forma asteriscata. È comunque notevole che adalus non sia assolutamente generabile, in termini storici, - sempre che la fonologia non sia frutto d’opinione, - dall’unica forma attilus attestata in Plinio, e neanche le forme venete realmente e odiernamente dialettali ádeno, ágheno. Comunque, ad onor del vero, Giovanni Alessio asteriscava sempre alcune forme mai documentate quali *atilus [Ichtyonymata p. 53], diversamente da altri. — 243 — evt. ligurisches Wort” (v. nota 42). Per quanto riguarda la prima ipotesi si possono confrontare le varie forme lessicali latine chiosate “sakrales Gefäß” da WaldeHofmann, cioè att1nus di Nigidio (Nonio 40), at2na in Festo (Lindsay 18), CGL II. 22, 25, la grecizzazione dello stesso nei lessicografi tardogreci, cfr. Esichio: “a[ttana: ta; thvgana, kai; plakou'À d! ejp! aujtw'n skeuazovmenoÀ”, il diminutivo atan5uium in Festo (Paolo ex Festo, Lindsay 17, 9-10: “Atanuuium est poculi fictilis genus quo in sacrificiis utebantur sacerdotes Romani”), atan5lus in CGL II. 22, 47. La forma *atalla menzionata in LEW I. 77-78 potrebbe rappresentare la riduzione con assimilazione di una struttura *at1n’la < *at1n5la, ricostruibile dall’at1n5lus dei glossari. Il LEW riconduce questi esiti latini ad una base lessicale etrusca aqene: “etruskisch (vgl. aqene nach Torp ‘Schale’), worauf auch der Wechsel von -t- und -th-”. Variazioni tra -tt- e -t- potrebbero essere facilmente riconducibili ad un’intermediario greco con -q-. Semanticamente il continuo confronto tra un contenitore o urna fatta di osso, ‘a squame’, e le squame ossee a scudo dello storione non sarebbe innaturale, per cui resta l’eventuale possibilità, anche se discutibile, di un etruschismo antico del latino usato in un processo gestaltico per nominare un pesce molto particolare. Dall’altro lato, vi è la possibilità meno remota che si tratti di un celtismo, ipotesi ripetuta a più riprese da Holder a Walde e Hofmann e da loro a Pokorny, fino a Frisk ed altri. Per giustificare un’ipotesi simile sarebbe forse necessario aprire una discussione sulla partonomia animale nelle lingue celtiche, cosa non fatta dagli studiosi menzionati. Come ben si sa, la base *pet-no- dà esiti irl. éun ‘uccello’ (ant. én), mediocimr. edn ‘uccellino’, che appare quasi sempre nel singolativo ednan,52 donde medio e mod. cimrico ednog (singol. ednogyn pl. ednogiaid) ‘insetto alato’,53 mentre il derivato del tipo *p[e]t-an-o o *p[e]t-an-jo- sembra caratterizzare soltanto il britannico (cimrico e bretone, con ampia attestazione). Mentre il cimrico dal 1500 in poi continua soltanto adein > adain,54 di cui la /j/ finale si manifesta soltanto nei derivati (> adeiniog ecc., con struttura sottostante |ADAN-J-|), una forma ant. cimr. atan, mediocimr. adan, con i significati (1) ala, (2) pinna di pesce, (3) artiglio, (4) braccio, è ben attestato, accanto all’allotropo atam, adaf, già ab antiquo. Insieme a questo, troviamo la forma aggettivale ant. atanoc (glosse), mediocimr. adeiniawg, con allineamento ad adein, nel significato (1) alato, (2) rapido, celere,55 per cui cfr. le cosiddette forme dell’ant. bretone in Loth, Vocabulaire Vieux-Breton, attanoc gl. musca uolitans, pl. atanocion gl. al[l]igeris, Stokes (Old-Breton Glosses 34), Glosse di Berna Georg. III. 148 musca uolitans. i. attanoc. i. clehurin, Lambert 1986 (ms. Berna 167) pp. 120-121, n° 41-42 multa musca uolitans .i. attanoc .i. clehurin 56 presenti in glossari che sembrano piuttosto dell’ant. cimrico. Difatti Falileyev 2000: 12 nella sua discussione di forme antiche discute la glossa ‘hi hataned’ di un passo ovidiano (Loth, VVB 151) tra le glosse dell’antico cimrico, anche se la forma più usuale, in senso statistico, è atar, sg. eterinn.57 Confronti come esemplificazione della forma base ATAN / ADAN, Canu Aneirin XVII. 165-166 “Aer adan glaer / kenyn keuit [l. keuid = cywydd] aer”, XXIV. 277-278 “Arwr y dwy ysgwyd adan e dalvrith. / ac eil tith orwydan”,58 le poesie del bardo Cynddelw del ca. 1120, Hendregadredd 34b6 (cfr. Anwyl 39a14 “A dyran atan ataw yd awn” [il volo 52 Per l’uso più frequente del singolativo cfr. verso il 1150 nel primo mediocimrico i versi del bardo Gwalchmai 9. 107 = Hendregadredd 9a2 (cfr. Anwyl 31b42) “carafy yr ednan ae [v.l. a] llaryan llei&” (amo l’uccellino con la sua voce melliflua), id. 9. 115 = Hendregadredd 9a10 (cfr. Anwyl 32a3) “die&&ic yd gan ednan arnaw” (il canto dell’uccellino che non si consuma mai) ecc. La forma base è poco rappresentata nei testi che restano, il singolativo del tutto usuale. Tuttavia, vi è un caso di etn nell’antico cimrico del nono secolo, cioè nelle Glosse di Oxford, Stokes 1860-1861, dove troviamo tra le glosse di Eutichio la 6b, Stokes p. 253, “aspicio auspex. etncoilhaam”. Reperiamo la stessa voce in antico bretone, ad esempio tra le Glosse di Orléans, Stokes 1885-1887, dove si registra nel Levitico xvii, 3 “Si uenatione aut aucupio (.i. eid[n]guin[ot]) cæperis feram aut auem”. Qui Stokes ed altri commentatori interpretano eidguin del ms. come eidn (= edn-) + guinot (< vEnAtio), integrazione semanticamente molto appropriata. 53 Anche se il cimrico moderno possiede trychfil ‘insetto’, ovvio calco trych- ‘segmentare, affettare, tagliare’ + mil ‘animale’ del lat. insectum, a sua volta calco pliniano del gr. e[ntomon, l’uso parlato e popolare non conosce una forma per ‘unique beginner’ o ‘forma di vita’, ma soltanto l’uso di due ‘intermedi’, in senso berliniano, cioe pryf ‘insetto non alato’ [da non glossare ‘verme’] rispetto a ednog ‘insetto alato’, ambedue le categorie caratterizzate dalla dimensione ‘piccolezza’. Si veda il contributo di M. Maddalon in questo volume. 54 Il primo riferimento letterario sembra quello dell’inizio del dodicesimo secolo nel Libro Nero di Carmarthen 82. 13 (foglio XLIb = edizione di Jarman 26. 19) “Dyrcheuid bran y hadein” (il corvo alzò la sua ala), e, più o meno nello stesso periodo (forse in origine prima), Taliesin 44.2 “Godeg vrych dyrvir - ys hir i hadein” [qui decisamente ‘ala’ dell’uccello]. Nel ca. 1150 lo troviamo nelle poesie dei Gogynfeirdd, cfr. il bardo Cynddelw, Hendregadredd 33a2 (cfr. Anwyl 38a16) “Ac edrywan gwan gwayw yw yn adain” [qui sono le ‘ali’ dell‘esercito: sia ‘ali’ dei volatili che ‘pinne’ di pesci possono servire come punto di partenza per la metonimia], Hendregadredd 33a20 (cfr. Anwyl 38a34 “Gwelais eu hadaw heb eu hadain” [il poeta vede volare l’esercito ‘senza ali’: segue poi riferimento al ‘signore della guerra’ a piedi, che cammina con i piedi degli uccelli ‘Y dan draed adar gwyr gwanar’]), Hendregadredd 36a30 (cfr. Anwyl 40a41-42 “Uch gwayw ryn yn rudaw adain / Uch gwaed gwynt golau hynt gwylain”), tutti e tre chiari riferimenti alle ‘ali’ dell’esercito o all’orda confrontate con uccelli. Il senso di ‘pinna di pesce’ venne esplicitato in W. Salesbury “adein pyscodyn” (1547: cfr. anche gli altri riferimenti nel Geiriadur Prifysgol Cymru). 55 Per quest’estensione semantica di ‘rapido, celere’, cfr. il bardo Rhys Goch Eryri (ca. 1300) IGE 319 (335) “Adeiniawg oediawg ydyn’...”, il bardo Gruffudd ap Maredudd (ca. 1320), Anwyl 189a89 “A chyrdd adeiniawg a cherdd dannau / Uch y neuadd deg a chynneddfau” (e moltitudini che giravano con celerità alla musica di strumenti ...). Paleograficamente è più corretta la versione trovata nel Poetry in the Red Book of Hergest 1204, 33-34 “Achyrd adeinyavc a cherd danneu. ywch y neuad dec achyneueu” [con errata trascrizione dell’ultimo elemento da parte dello scrivano medioevale: Anwyl correggeva con giusta coerenza semantica ma forse con cattiva filologia]. 56 Si accetta la proposta di Lambert di correggere la lettura del ms. in: multa musca uolitans .i. attanoc, asilus .i. clehurin. 57 Cfr. glosse del 820 d. C. nel Liber de Mensuris et Ponderibus, ms. Bodleiano Auct. F. 4. 32: si vedano I. Williams, Bulletin of the Board of Celtic Studies VII, 1935 p. 382, Falileyev 2000: 12, 56 per discussione. 58 52 Il passo è veramente di difficile interpretazione: chiosiamo “un eroe da due scudi, anche il suo stesso ‘braccio’ uno scudo macchiato, e lui ancora come un cavallino al trotto”. Attendiamo i commenti su una tale interpretazione. Tutti i commentatori (filologi) accordano, comunque, sulla lettura tith = tuth. — 244 — — 245 — di ali agili]),59 o nella poesia di Cynddelw 1. 21 dedicata a Madog ap Maredudd (Anwyl 42b14 “Eirioes y perthaist parth ae atan” [‘Veramente hai spaccato l’esercito e le sue ali’: metonimia]), come anche negli Annales Cambriæ, codice A del 1150 (ed. ab Ithel, p. 158, 13: “Ac yna wedy kyffroi eu hadaned yd ymladayssant a chastell Aber Yst6yth …” – e dopo avere alzato le ‘ali’ attaccarono il castello di Aberystwyth …).60 Di questa forma vi è l’allotropo ATAM/ ADAF cfr. Canu Aneirin XL. 436-438, XCVIII. 1186-1187 adam ‘artiglio’ nel Canu Llywarch Hen XI. 42 “Eryr Penngwern penngarn llwyt / Aruchel y adaf/ Eidic am gic a garaf”,61 nelle poesie del bardo Cynddelw 21.191 (Marwnad Cadwallan, cfr. anche Anwyl 48b57 “Nyd gwaclaw adaw adaf rutyon” [Gli artigli colorati di rosso non volano ‘a mani vuote’, ma pieni di preda di battaglia]), Hendregadredd 42a13 (poesia a Hywel ap Owain, cfr. pure Anwyl 77a48-49 “Bwrw lwrw lid anwar / Bwyd adar ae adaf” [Ha colpito con ira feroce con il suo randello, i suoi artigli hanno dato da mangiare agli uccelli, cioè alle cornacchie]), mentre si ha il significato di ‘braccio’ in Hendregaredd 9b2, quello di ‘ala’ nel Canu Aneirin CIII. 1245 “Llithyessit adar adaam” (Gli uccelli avevano ripiegato le loro ali), nella poesia ad Owain di Llywelyn Fardd 2. 54-55 (Hendregadredd 88a55 = Anwyl 136a49-50 “Eryres ormes trachwres trechaf / Eryueis dy win oth wen adaf diwed” [il punto bianco dell’ala: l’esercito è un’ ‘orda di aquile’]), forse in Cynddelw 24.57 (Marwnad Ririd Uleit, cfr. Anwyl 56a42 “Paraud oe adaf kyn noe adaw”) ecc., sempre del periodo 11301180. Sembra evidente l’allotropia già presente nella struttura remota da cui derivano questi esiti, cioè *P[E]T-AN-O- e *P[E]T-AM-O-, con allotropia nell’ant. cimrico ATAN ≈ ATAM: della coppia soltanto il primo elemento diventa poi produttivo con formante in -J-, cioè *P[E]T-AN-[J]O- > protobritannico *ADAN-[J-] > cimr. |ADAN-J-| > mod. adain, (adanedd >) adenydd, adeiniog ecc. L’equivalenza semantica ‘ala’ (uccello) = ‘pinna’ (pesce) è presente in tutte le epoche in cui gli esiti sono attestati.62 Si ricostruisce tradizionalmente, dunque, una proto-forma |ATAN-| (cfr. Holder 1896. I. 251, il commento di Whatmough 1970: 717 alla glossa tolemaica a[tan, a[qan : pterwtovn, per cui si veda Geografia II. 3. 13, VIII. 3. 9 per il toponimo britannico glossato Pterwtovn, reso latinamente poi come Pinnatis, brit. Athan), che darà la forma astratta britannica seriore |ADAN-|, sviluppata anche come |ADAN-J-|. La proto-forma celtica sarà poi riconducibile ad una forma antecedente *<P>ATANO- (Stokes-Bezzenberger 1894: 27), sviluppo particolare celtico della base indo-europea *P[E]T- ‘volare’. In base a quanto concluso riguardo al celtico insulare, è possibile ipotizzare una forma celtica continentale *atano- con lo stesso significato del protobritannico *|ATAN-| ‘ala’ = ‘pinna’. In quel caso lo storione del Po’ poteva esser rappresentato dal modello di ‘quello con le pinne’, ‘il pinnuto’, cioè ‘il pesce’ per eccellenza. Che ‘il pesce’, ‘l’animale con pinne’, ‘l’acquatico’, diventi il pesce più grande, tipico delle acque di un particolare paese, è un fatto ben conosciuto nella storia delle lingue, forse anche grazie al tratto caratterizzante dell’utilità alimentare. Al ted. Lachs, anglosass. leax ‘trota’, corrisponde il tocarico laks- ‘pesce’, nella tradizione celtica non solo si effettuano etimologie, o pseudo-etimologie, tra ‘pesce’ ed ‘acqua’, come nel caso della supposta origine di íasg in Sanas Cormaic 736 (“Ãasc.i.ind-esce.i.uisce ...”), o quella dell’ant. irl. scatán ‘aringa’ ibid. 1194 (“ScatAn. i. scuit inn ena.i. genaid Ind uisci”), ma si danno anche casi in cui i derivati di ‘acqua’ diventano effettivamente non soltanto il ‘pesce’, come ‘forma di vita’, ma anche ‘trota’ o ‘salmone’, come generici. Questo è il caso irlandese di éicne, cfr. il Glossario di O’Clery (medio irlandese) “éigne.i.bradan”,63 oppure la modificazione fír ‘vero, genuino’ + íasc ‘pesce’ > medio irl. fíríasg ‘salmone’. 59 La forma corrisponde perfettamente, dal punto di vista formale, ad un ant. bret. atan- (1) ‘uccello piccolo’, (2) ‘insetto alato’ (= cimr. ednog), medio bret. adan ‘uccello X’, cfr. Ernault Adan, pl. adan~et, adan~het “certain oiseau assez semblable au hibou” ecc. 60 Il pl. adaned, adanedd ‘ali’/ ‘pinne’ di adan è comune dal 1300 in poi, cfr. Breudwyt Ronatbwy [Richards) 14. 17-18 “ac na digawn yr vn onadunt kychwynnv y hadaned un gwryt y wrth y dayar ...”, id. 14. 28 “eu hadaned”, Culhwch ac Olwen (Bromwich-Evans) 1083-1084 “mal adaned aryant oed y wrych oll” (le sue setole, tutte, erano come pinne/ ali d’argento - epiteto del cinghiale). 61 Cfr. con la versione di J. G. Evans (Poetry of the Red Book of Hergest 1046.3) “Eryr penngvern penngarn llvyt . aruchel y adaf; eidic amgic agaraf” (l’aquila di Pengwern innalza il suo artiglio, desideroso della carne amata dal bardo, cioè desideroso della carne del suo re ucciso in battaglia). Cfr. anche Llywarch Hen I. 6(b) per lo stesso significato.. 62 In molti testi vi è perfetta equivalenza tra adan, adein ed asgell, noto prestito latino nel celtico britannico (ASGELL < AXILLA REW 842): il GPC elenca i significati 1. ala, 2. penna, 3. usi vari metaforici, 4. = adain pysgodyn ‘pinna di pesce’. La voce è già reperibile nel Llywarch Hen I. 30 “Dichonat ysteuyll o esgyll ysgydawr” (lo scuotersi di ali), I. 46 “Esgyll gwawr oed waewawr Dwc” (lance che volano come le ali dell’aurora), e vi è la stessa immagine in Taliesin 42. 13 “Glesynt escyll gwawr”. Cfr. anche Canu Taliesin X. 6 “escyll g[w]awr gwaywawr llifeit” [rilettura critica dalla parte di I. Williams di quanto pubblicato da J. G. Evans, Taliesin 67.21 come “Estill gawr a gwaew lliveid”], Libro Nero di Carmarthern 82.14 “Dyrch/euid bran yha&gell” [La cornacchia alzò la sua ala/ il suo artiglio] = 82. 13 “Dyrcheuid bran yhadein”. Il primo passo in cui è esplicito il riferimento alle pinne dei pesci si trova nella prima traduzione volgare della Bibbia del 1588, Levitico 11, 9 “pôb peth yr hwn y mae iddo ascell, a chenn” [lessicalizzazione mantenuta nella versione moderna, cfr. mod. Lev. 11,9 “pob un gydag esgyll neu gen”, tutte le creature che posseggono pinne e/ o squame]. Già nel primo medio cimrico si trova anche asgellwrych, sia per lo ‘scuotersi delle penne’, che per la schiuma del mare, con doppio riferimento ad aria e ad acqua, come nei Red Book Mabinogi 156, 158 [= ceginwrych dei Mabinogi, ed. Williams 55, 11], Brut y Brenhinedd IX. 7 (890), più tardi nel Breuddwyd Rhonabwy 15. 4-5, 17. 20 (del ca. 1350). Comunque, a metà del Trecento, riscontriamo la completa sostituzione di adan con asgell nelle poesie sulla natura di Dafydd ap Gwilym, ben sei volte su sei (20. 28; 25. 60; 114. 8, 42; 122. 18; 123.5). Tanto vale sia per ‘ala’ che per ‘pinna’, a prova della completa equivalenza tra i significati. 63 Crediamo che ÉICNE/ ÉIGNE sia connesso etimologicamente con il tema celtico EN ’acqua’, già presente in testi arcaici quali Togail Bruidne Dá Derga RC xxii. 61 (§ 64), Fástini Airt meic Cuind (Lebor na hUidre 119b21 = r. 9937), nei Dindsenchas (Libro di Leinster 26057), nel glossario Sanas Cormaic 524, 525, 530, 1290 ecc. Altri derivati quali ENECH (= ANACH) sono comuni nel medio irlandese (Acallamh na Senórach, Irische Texte iv1. 2415-2416, Annali dei Quattro Maestri v. 1416), come anche ENGLA(I)S ‘siero’ (Sanas Cormaic 524, Betha Colmáin Maic Lúacháin 104. 1, Irish Maundeville § 218 ecc.), derivato, presente addirittura nell’antico irlandese del 713-720 d. C. nella Vita Columbæ (Codice A di Sciaffusa), detta di Adamnán, Thesaurus Palaeohibernicus ii. 277, 43 “aquam cessat amaram exinanire hinin glas...”, se è corretta la lettura di Stokes come hinn-inglas, in — 246 — — 247 — Analogamente, nelle lingue celtiche, si ha l’estensione da ‘uova di pesce’ a ‘neonati’ > ‘esemplare immaturo di pesce X’ [Engraulis, Sarda, Merlangus ecc.] > ‘pesce Y’ [Y = PICCOLO, compreso il genus Anguilla anguilla L. nel bretone, Gasteroteus aculeatus nel cimrico] negli sviluppi di IEW 889 *SEH -LO- > irl. síol [síol éisg], cimr. sil, noto allotropo di hil [‘seme’ di pianta e di umani], > irl. sílóg [gaelico sìolag], cimr. silod [singolativo silodyn], silcyn ecc.,64 con larga diffusione per prestito nel germanico, nel balto-slavo, e dal germanico nel francese settentrionale [sil + germ. hering > célérin]: per ampia discussione cfr. Poli 1975, Trumper-Chiodo 1999, Trumper 2002. Un caso del genere potrebbe benissimo spiegare un ittionimo problematico del tardo greco, una nota parola per lo ‘storione’ che troviamo come u{ska = u{sca = i{ska nei lavori dello Pseudo-Erodiano (Peri; parwnuvmwn 3. 2. 849 ecc.) prima, di Simeone Seth poi, cfr. Anonymus Medicus oe´ Peri; ijcquvwn, sez. Peri; tw'n ktapovdwn (di probabile attribuzione a Seth), ed. Ideler II. 281, 3-6 “Plh;n th'À u{skaÀ, quvnnaÀ. oujc e{teron th' crhvsei th' kaq’ hJma'À. eijsi; de; pavnta kakovcuma kai; peristwmatikav. tariceuvontaÀ de; h[goun pavssontaÀ dei' ejsqivein” [per grandezza da elencare insieme ai tonni], nonché degli anonimi scoliasti bizantini dell’Alieutica di Oppiano, cfr. Scholia in Oppiano Alieutica 1. 129 (“LepravdeÀ ojstrwvdeiÀ, ojstreiwvdeiÀ, tracei'ai, diescismevnai pevtrai ejrjrJupwmevnai. a}À eijÀ skivrjrJiÀ kalouvmenai lepidwtaiv, u{skaÀ, suvaina. h} wJÀ i[skai, h] suavkion, h] koirivlla. basilivskoi. skirivdia”), ibid. 1. 372. 3 (“u{ainaÀ. u{skaÀ, ajnti; tou' aiJ u{ai, dio; kai; mishtaiv”), più tardi in Suda (u{ska), nel Ptocoprodromo (“...u{ska, i{cquÀ o}À koinw'À u{ska ojnomavzetai...”), in fine in Teodoro Ptocoprodromo 65 (nel Duecento) e addirittura commentata nel Glossario greco del Du Cange, cfr. “$çska, Suidæ, ojyavrion, id est Pi&cis. Sturjonem apud Symeonem Sethi de Aliment. interpretatur Martinus Bogdanus: oJ ijcqu;À oJ koinw'À $çska ojnomazovmenh...... Certè ab hac notione non abludit Michael Psellus de facultat. Aliment. MS. oiJ ijcquveÀ koinw'À u{skaÀ ojnomazovmenoi …”. Da questa fonte del mediogreco la voce viene registrata anche nel Thesaurus di Stephan, più modernamente in Dimitrakos 1933, vol. IX, che fa riferimento agli scoliasti, cfr. “u{ska ...... 2) scovl. ei\doÀ ti ijcquvoÀ: Skol. !Opp. @Al. 1, 372 ...” ecc. Il riferimento al concetto di ‘pesce porco’ (u{aina ecc.) 66 potrebbe far pensare al nome veneto più antico dello storione, cioè porceleta (sic nei testi), ora obsoleto,67 che, comunque, richiederebbe una forma u{kh -a. Questo potrebbe spiegare un’apparente anomalia in Ateneo, cioè, mentre in genere il pesce u{ska è collegato alla famiglia degli Sparidi, il confronto in Dipnosofisti 295b è con glau'koÀ, ‘piccoli squali’ ecc. Si ha addirittura il riferimento ad un ‘pesce sacro’ in Callimaco (Dipnosofisti 327b “qeo;À de; oiJ iJero;À u{khÀ”), ciò farebbe pensare più ad un pesce dalle dimensioni e dalla ‘sacralità’ dello storione. In altre parole, alcuni riferimenti già del 200-300 d.C. potrebbero rappresentare una possibile contaminatio tra u{kh -a e u{ska -h. Per un esito greco u{ska = i[ska X u{dwr un confronto con l’irlandese íasg è salutare: ipotizziamo di trovarci di fronte ad una forma galatica nel greco, un esito more celtico della nota base i. e. per ‘pesce’ con cancellazione dell’ostruente bilabiale sorda, che ci presenta di nuovo l’equazione ‘pesce’ = ‘pesce X di dimensione grande’ (= ‘storione’), presente già nell’irlandese (= ‘salmone’), con un’ulteriore complicazione introdotta dalla contaminatio con u{dwr, cfr. a proposito anche l’irl. éicne, éigne e i commenti relativi di cui sopra. E così il cerchio si chiuderebbe con la scoperta del lemma celtico orientale ‘pesce’. La nostra ipotesi resta comunque, come tale, sub judice, da sottomettere alla valutazione degli studiosi. Un raffronto simile potrebbe essere ravvisato anche per i dialetti qui discussi, ma e contrario: nei dialetti altoveneti infatti il diminutivo di ‘pesce’, con cambiamento di genere diventa il ‘pesce piccolo’ per eccellenza, cioè pesséta = scardola nei dialetti della Sinistra Piave, pissína in quelli rodigini. Per rafforzare l’ipotesi di una probabile estensione ALA = PINNA = PENNA > ‘PINNATO’ = prototipo di ‘PESCE’, troviamo che nella maggior parte delle lingue indoeuropee d’Europa vi è un’equivalenza linguistica e forse cognitiva ALA = PINNA, con poche eccezioni quali l’italiano, che dal punto di vista etimologico portano l’associazione a PENNA = PINNA. Ad un estremo il greco usa ptevrux ALA = PINNA (per dettagli si veda Appendice 2). Dall’altro, si ha nel celtico il cimrico adain, dial. adan (probabile continuatore del mediocimr. adan, ant. cimr. atan), = ALA = PINNA, e per l’inclusività nel parlato si vedano i commenti in FynesClinton I. voce ADAN, l’irl. iteóg, gaelico ite, iteach < medioirl. ettech < ant. irl. eit[t]e, ette, dalla stessa base i.e. *pet- e con lo stesso significato inclusivo.68 Come cui in-glas = englas. ÉICNE nel senso di ’salmone’ è pur presente in testi assai antichi, ad es. nel Táin Bó Fraích (9 ricorrenze), nell’Imrum Curaig Mael Duin (7 ricorrenze), nel Lebor na hUidre ecc. Il termine di partenza EN è la voce gallica ANAM = PALUDEM del Glossarium Endlicherii (Whatmough 1970: 546 Glosse anam, paludem, Glossæ Endlicherii 613. 9, Billy 1993 ana “marais”). J. Vendryès in RC xlvi. 412-413 suggeriva una derivazione da IEW 789 *PANK- ‘gonfiare’ (> *PANKNO-), mentre qui preferiamo seguire Stokes, Dottin e Pokorny, proponendo IEW 807.2 *PEN‘acqua; palude; melma’ > *PEN-KO- > *PEN-K-NO- / *PEN-K-N-IO- per spiegare ÉIGNE, la base semplice *PEN- per spiegare gli altri sviluppi. Secondo questa ipotesi il tipo lessicale (‘salmone’) deriverebbe da ‘acquatico’. 64 Questo tipo di deriva semantica è assai antico perché lo si ritrova già nelle glosse del manoscritto parigino BN Lat. 10289 (antico bretone dell’800 - 900 d. C.) selli con il significato esteso ad ‘anguilla’, cfr. Lambert 1982: 188, A´ 33b19 ”selli. gl. ang<u>illa” (115.13). 65 Cfr. Versi del Grammatico Teodoro Ptocoprodromo, ed. Romano p. 366 v. 95 “kai; mh; qwrh's tou;À baqrakouvÀ, ta;À u{skaÀ, ta; yhssiva”, che forse era meglio tradurre ‘e non sbirciare le rane pescatrici, gli storioni e le sogliole’. Qui non si tratta di ‘rane’ bensi di pesci (rane pescatrici). 66 La discussione verte sulle associazioni tra u{ska e u{kh, tra quest’ultimo e u{aina. u{kh e u{aina derivano evidentemente da u{À ‘scrofa’ ecc., e non sulla referenza precisa di u{aina, tutt’altra cosa. Per la discussione v. Thompson 1947: 272-273, Battisti BALM 2-3, 1960-61: p. 84 (n° 142 hyena) e sulla forma ‘eena’ di Polemio Silvio (Mommsen p. 544, 14). 67 Comunque, Messedaglia 1940-42: 17, n° 4 cita, per i piccoli degli storioni, la lessicalizzazione porcellette ancora valida per l’inizio del Novecento. La diffusione da lui menzionata in Lombardia e a Roma è evidentemente dovuta all’espansione del lessico ittico veneto. 68 Per i problemi derivazionali si vedano Thurneysen §78 che sembra proporre *pet-[o]nt-, mentre la proposta di Macbain 1896: 198 di ite < ette < *ettiâ < *pet-tiâ non sembra accettabile. Si noti che, mentre — 248 — — 249 — il greco conosceva e conosce un continuum partonimico UCCELLO [ptevrux ‘ala’] ≈ PESCE [ptevrux ‘pinna’] ≈ PIANTA [pterivÀ ma anche ptevrux, pteruvgion per tipi di ‘felce’69], anche il celtico sembra aver conosciuto e conoscere ancora questo stesso continuum UCCELLO [cimr. adan, adain, irl. ette > ite, ete ‘ala’ < *PET-AN-, *PET-ONT-] ≈ PESCE [cimr. adan, adain, irl. eithre ‘pinna’ < *PET-AN-, *PETER-] ≈ PIANTA [ammesso che il cimr. rhedyn ‘felce’, generico, e i suoi congeneri celtici, derivino da *PRÁTI-S, a sua volta da *P[E]T-RI- con metatesi]. Le lingue del Mediterraneo quali l’albanese conoscono l’equivalenza ‘ala’ = ‘pinna’, ma in questo caso secondo Meyer 1891: 326, ipotesi ripresa in Haarmann 1972: 142 (voce 444), pendë o pëndë è prestito dal latino (pinna). Nel neolatino stesso, proseguendo in direzione ovest -> est si ha uno schema in cui la maggior parte delle lingue e dei dialetti conosce l’equivalenza ‘ala’ = ‘pinna’, pochi quella di ‘ala’ = ‘penna’, come nella tab. 1. TABELLA 1 Francese Veneziano aileron = ala nageoire Toscano pinna Napoletano-Campano scéllð Pugliese scèddð Calabrese pinna aile plume ala péna ala pénna scéllð pénnð scèddð pènnð scilla pinna REW 304 (Ala < *ag-s-lA); REW 6610a. REW 304; REW 6514. REW 6514; REW 842 REW 304. (ax3lla < *ag-s-3llA); REW 6514. REW 842 REW 6514; (ax3lla < REW 842. *ag-s-3llA); REW 6514. Romeno aripioar1 = înot1toare arip1 pan1 pl. pene REW 309a X REW 304 + -eola; REW 309a; REW 6514. Per una discussione, pur non molto sviluppata, dell’estensione ‘naturale’ degli esiti di AXILLA come ‘pinna’ si veda LEI III fasc. 32: 2698-2699, da cui emerge che il la forma base britannica adan parte da una forma *pet-en-o- (Morris Jones §62 (2), §63: cfr. anche il pl. più arcaico adanedd < *pet-en-íjas), quella irlandese si muove da *pet-[o]nt-, la forma medioirl. eithre, eithrech da *pet-erio-. All’interno del celtico rimangono ancora dei problemi residui da risolvere. Comunque, una forma della bassa latinità *atanus dipenderà con buona probabilità da una forma continentale *atanos esito del tipo *pet-en-o-, congenere formalmente identico di quello postulato per il celtico britannico. 69 A parte l’etimologia di pterivÀ stessa, prova indiretta, l’estensione alla pianta (felce) della voce ptevrux (ala) e già usuale in Dioscoride III. 134 “a[splhnoÀ: oiJ de skolopevndrion, oiJ de; hJmiovnion, oiJ de; splhvnion, oiJ de; ptevruga kalou'si ...”. Questo uso caratterizza anche Oribasio, Collectiones Medicæ XI A, 70 “ #Acplhnoc (oiJ de; ckolopevndrion, oiJ d’ hJmiovnion, oiJ de; ptevruga) e[cei ϕuvlla ckolopevndrh tw/' qhrivw/ o{moia ...”, nonche Pseudo-Dioscoride (III. 134 RV “skolopevndrion: oiJ de; a[splhnon, oJi de; splhvnion, oiJ de; hJmiovnion, oiJ de; ptevruga ...” ecc.), donde il suo impiego come crudo grecismo nel Dioscoride latino, cfr. III. PM”/: “Asplenon aut scolopendrion aut []imionion aut splenion aut [t]eriga uocant, folia habet scolopendrie uenenose similia ...”. Alcuni attribuiscono l’estensione alla morfologia di tali piante, v. Carnoy 1959: 227 “à cause de la forme des feuilles des fougères”, che mette a confronto la forma greca con il sanscr. parna, il germ. Farn / fern e le forme celtiche. — 250 — significato copre l’area toscana meridionale, campana, dauno-appenninica ed apula, e viene così commentato “Il significato ‘ala degli uccelli; pinna dei pesci’ si conserva come voce indigena nell’Italia merid. e si estende al nord fino alla nota linea Ancona-Colli Albani”. Per il napoletano cfr. anche l’estensione rimarcata in Andrioli, voce scélla. Tuttavia, la ‘conservazione’ di scélla / scìlla come ‘ala degli uccelli’ è diffusa a sud quasi fino a Reggio Calabria, mentre il significato di ‘pinna dei pesci’ sembra fermarsi ad una linea Campania (Tirreno) - Puglia (basso Adriatico). Il tipo lessicale rom. arip1 viene ricondotto ad ALáPA in REW 310 (ripresa in Rosetti I. 144, con attenzione al suffisso diminutivo -ior, ioar1 < -24lus -a), Lexicon Etymologicum 1976: 11 insieme con forme toscane e corse, cui si aggiungono da Rohlfs NDDC álapa (S. Giovanni in Fiore [l. ádapa], Malito [CS]), álipa (Belsito [l. áwipa] [CS], Nocera Terinese [CZ]) ‘paletta della ruota motrice del molino’. Dagli appunti ottocenteschi di V. Padula aggiungiamo ádapa = padummèlla ‘paletta della ruota del molino’ nell’acrese dell’Ottocento. Vi è, dunque, una compattezza tra toscano (+ corso), nord-calabrese e romeno, per quanto riguarda la conservazione di questa rara voce latina, anche se i significati si differenziano lievemente. Comunque, è da sottolineare che, anche in altre lingue, vi è coesione ed equivalenza tra (1) ‘ala dell’uccello’, (2) ‘pinna del pesce’, (3) ‘ala dell’aratro’, (4) ‘pala della ruota del molino’, cui alcune culture aggiungono pure (5) ‘razzo della ruota’, per cui non suscita meraviglia che derivati di ALAPA si estendano tra (1), (2) e (4).70 Dal punto di vista latino, LEW I. 26 pone come enigmatica l’origine di Alapa, forse etrusca (? “dunkles Fremdwort; etruskisch”), mentre è evidente a tutti i commentatori la commistione, forse contaminatio, di Ála (< *ags-lA). In conclusione, è del tutto naturale che ‘ala’ comprenda anche ‘pinna’ per solidarietà tra microcosmi, e non si tratta di un fenomeno limitato e marginale di una piccola sezione del romanzo. Uccelli, pesci, animali e uomini sono solo le parti di questo continuum. Sui rapporti di solidarietà tra gli uccelli ed i pesci è importante quanto detto in Foucault, p. 166 “Si les oiseaux, fait remarquer Benoît de Maillet, ont des ailes comme les poissons ont des nageoires, c’est qu’ils ont été, à l’époque du grand reflux des eaux premières, des daraudes asséchées ou des dauphins passés pour toujours à une patrie aérienne ...... Mais le mode d’action de l’air, de l’eau, du climat, de la terre sur les animaux n’est pas celui d’un milieu sur une fonction et sur les organes dans lesquels elle s’accomplit; les éléments extérieurs n’interviennent qu’à titre d’occasion pour faire apparaître un caractère.” Al di sopra dei microcosmi vi è il macrocosmo degli esseri in cui le ‘parti del corpo’, le partonimie, servono da archetipi, hanno una funzione archetipica nella cognizione, nell’identificazione (v. Foucault, id., p. 147, n. 3 ecc.). 70 L’uso medioevale conosce un’ulteriore estensione, cioè alle ‘fibbie ornamentali per chiudere gli Evangelari’ come altra istanza di ‘appendici’, cfr. Du Cange lat. I. 157C-158C Alapa. — 251 — 2.1. Il nome ‘storione’, veneziano sturión, var. chioggiotta stirión, non è certo latino, appare infatti, le prime volte, in documenti latini dell’Europa settentrionale da poco prima dell’ 800 d. C., ad es. sturio, -ones nelle Consuetudines et jura Ecclesiæ de regula di Riccardo abbate floriacense,71 negli Acta S. Ludgeri di Altfridus II. 5,72 nella Vita di S. Anselmo scritta da Eadmer di Canterbury, III. 24 (“alludens dixit ei Anselmus: Sturio unus en? tibi defertur, et animus tuus de deliciarum inopia queritur?”), nell’Epitaphium Adalheidæ di Odilo V di Cluny cap. 3 (“deferens in nauicula piscem qui uocatur sturio...”), nelle Constitutiones monastiche di Guiglielmo Hirsaugense I. VIII (Cap. De signis piscis: “Pro signo sturionis generali, signo præmisso hæc adde ...”), nell’anonima Continuatio I. XII. xiii. 6 scritta verso il 1107 (“Frequentissime magnæ portiones sturionum, tempore quoque lampredæ in usu sunt, inter tres una...”), nella Vita S. Odilonis di Jotsald II. VIII (“... fluuius ex improviso reddit piscem magnitudine enormem, uocabulo sturionem...”) ecc. In latino il termine è, dunque, databile dopo il 700 d. C., e consiste di un evidente prestito dal germanico, cfr. LEW II. 610 “germ. Lw., vgl. mhd. störe, stüre, ahd. as. stur[i]o, mndl. store, störe, nndl. steur, ags. styr[i]a, an. styrja; vl. verwandt mit apr. esketres, lit. eršk2tras, russ. osëtr “Stör”...... Einheimische Störarten sind acipEnser oben I. 9, attilus I. 78.” Resta, comunque, da appurare l’etimologia del germanico ‘storione’, attestato nell’a. a. ted. stur(i)o > m. a. ted. stür(e), stör(e) > ted. Stör, anglosass. styria, ant. nordico styrja. Kluge, voce Stör1, elenca tutte le forme germaniche attestate e propone una lontana somiglianza con le forme balto-slave, ipotizzando infine un prestito extraindoeuropeo da lingua sconosciuta (“Ähnlich sind russ. osëtr, lit. erške~tas ‘Stör’; Entlehnung aus einer unbekannten Sprache?”). De Vries 1961 respinge invece questa ipotesi di prestito esterno, non ritenendo probabile quella di un possibile collegamento con le forme balto-slave, v. voce styrja (p. 557): “Andere vermuten verwandtschaft mit apr. esketres, lit. eršk2tra, russ. osëtr ‘stör’; wenig wahrscheinlich”. Avanziamo qui l’ipotesi che si tratti di sviluppo del tutto coerente e verosimile della base neo- i. e. (IEW 1004-1010) *STAH- con formante -R-, cioè *stau-ro-, *stðu-ro-, *steu-ro- ‘solido’, ‘corpo fisso’, come tratto ‘caratterizzante’ che, da un lato, genera una serie di voci per ‘palo’ e ‘timone’ [gr. staurovÀ, ant. isl. staurr, norveg. styr-ja ‘lange Stange’ rispetto all’a. a. ted. stiura > ted. Steur(ruder), anglosass. stEor > steer], dall’altro voci per ‘vitello; bovino piccolo’ [got. stiur, a. a. ted. stior > ted. Stier, anglosass. stEor > ingl. steer]. L’applicazione di parole per ‘varietà piccola o giovane di animale grosso’ nel continuum antico tra animale e pesce, tra pesce ed uccello, funziona alquanto bene nel caso dello storione; non soltanto per quanto riguarda la denominazione come ‘porcelletta’, testé discussa, ma anche nella lessicalizzazione calabrese dello stesso pesce, cfr. Diamante, Scalea (CS) cavállð, Cirò Marina (KR) e Cariati (CS) cavaddúzzu, Gioia Tauro cavallúzzu, Bagnara cavajúzzu, Bianco e Bovalino (RC) cavagliúcciu/ cavagliúzzu ecc. ‘storione’.73 Si chiude così il continuum pesce - animale (mammifero) in un cerchio ‘storione’ = ‘bovino piccolo’ > ‘suino piccolo’ > ‘equino piccolo’, che va dal Nordeuropa al Mediterraneo, un continuum che crea la storia dei propri elementi e delle conseguenti lessicalizzazioni; di nuovo, come dice Foucault op. cit. p. 167 “... la nature n’a une histoire que dans la mesure où elle est susceptible du continu”. Per quanto riguarda la differenza tra i due esiti germanici, si suppone l’esito con vocalismo pieno in un caso, cioè quello del protogermanico occidentale *steur-az > a. a. ted. stior, anglosass. stEor per i bovini; nell’altro, per gli acipenseridi, si pone l’esito del cosiddetto vocalismo zero, con formante -jOn-, vale a dire protogermanico occidentale/ settentrionale *st[e]ur-jEn- (con riduzione eu > u) > ant. nord. styrja, anglosass. styria, a. a. ted. stur[i]o > stüre, störe > Stör. Da questa stessa forma ricostruita proviene lo sturio della bassa latinità. 2.2. Moróna e schinal. Dell’importazione dello storione a Venezia e della sua esportazione nelle principali città europee ha discusso con particolare conoscenza delle fonti documentarie L. Messedaglia 1941-42 e 1943-44. A Venezia la calle del Sturión a Rialto ne testimonia l’uso e sicuramente l’importanza che ha avuto nella storia alimentare della città, ma i nomi con i quali veniva importato lo storione almeno fino al XVII sec., erano schenàl e morona, indicanti rispettivamente il dorso e il ventre dello storione. Schenàl e moróna sono oggi disusati, ma ampiamente attestati almeno a partire dal 1500 (nelle lettere del Calmo), il primo di origine neolatina, si riferisce al dorso dello storione, che veniva essicato in modo da ottenere dei filamenti, venduti poi in fasci,74 il secondo designa) la parte della pancia dello storione, conservata in salamoia, proveniente dal Levante (specie dal mar Nero) e portata dai Veneziani in Italia. L’etimo di moróna è di origine discussa. Nel primo caso si tratta della parte “spinale” dello storione, che, volgarmente è diventata “schienale”, per una sorta di equivalenza tra la “spina” che è dorsale come la “schiena”.75 Sulla preparazione 71 P.L. CXXXVI col. 1305A “Item si extraneus portauerit sturionem, denarium habebit clauiger; et si ibidem fractus fuerit sturio nerbilium et budellum clauiger, nec minus habebit denarium”, ibid. col. 1305B “De sturione et salmone primo captis in Beta, medietatem piscatores habunt”, col. 1307 A-B “sturiones” ecc. 72 “... juxta fluuium Lade petiit illius loci piscatores, qui ei pisces afferre solebant, ut aliquem sturionem comprehensum afferrent”, ibid. “... intrauit in illorum rete piscis miræ magnitudinis quem sturionem uocant...”. Le voci calabresi per lo storione provengono dalle ricerche sul campo di JBT con pescatori calabresi. Lo schienale, descritto ne Le Lettere del Calmo era merce di magro d’oltremare, secca e dura, formata da certe aste piuttosto lunghe, raccolta in fasci per la esportazione (Messedaglia 1941-42: 7) 75 Sempre il Messedaglia 1941-42, pp. 6-7 corregge la falsa identificazione dello schienale con il tedesco Stockfisch come ha fatto il Meyer Lübke (REW 7994) riprendendo H. Schuchardt (ZRPh 1902, XXVI, 585-586), ma l’errore è giustificabile per il fatto che lo schienale così come è descritto dal Calmo “merce di magro d’oltremare secca e dura, formata da certe aste piuttosto lunghe, raccolte in fasci per la esportazione: una merce che aveva qualche somiglianza esteriore con il merluzzo essicato, lo Stockfisch dei tedeschi. E non c’è nulla di strano che senza andare tanto per il sottile, la voce Stockfisch sia stata adoperata per tradurre la voce schenal o schinal dei veneti. Già il Mussafia 1873, 102 elenca le voci schenal e schinal nell’accezione di Stockfisch. — 252 — — 253 — 73 74 dello ‘schienale’ ancora il Messedaglia 1941-42, p. 24 scrive: “I mercanti italiani chiamarono in Levante schienali (schenali, schinali in veneto) le lunghe strisce che sapevano e vedevano staccate dal dorso o schiena di certi storioni per essere poi sottoposte a speciale confezione, che le rendeva commerciabili”. Gli schienali si vendono a fascio, e dassene 20 per uno fascio. Il nome sarebbe stato dato dunque dagli stessi mercanti italiani che lo importavano (p. 47). Degli usi culinari della moróna e delle varie, ricette di cucina relative, ne parla esaurientemente il Messedaglia 1941-42 attingendo a diverse fonti che riguardano la gastronomia veneziana a partire dalle Lettere del Calmo, del XVI sec., che abbondano di notizie sull’argomento. Sull’etimologia il Messedaglia, cit. scrive che “Morun è dappertutto, in Romania il nome dello storione (Acipenser huso o Huso huso), e morina, morinassi (non che mersine) lo chiamano i Turchi” (p. 44). Nell’Etimologijski Rjeµnik Hrvatskoga Ili Srpskoga Jezika s.v. mùrina lo Skok ne dà ampie attestazioni non solo in rumeno: moru#n, ma in molte lingue slave, in neogreco mouvrouna, in turco muruna, da cui l’italiano morona “carne di storione del Levante in salamoia portato soprattutto dai veneziani in Italia”. Uno studio di D.J. Georgacas (Ichtyological terms for the sturgeon and etymology of the international terms botargo, caviar and congeners, Atene 1978 pp. 139-141) chiarisce che il termine morona è in greco e nelle lingue balcaniche un prestito dal rumeno morun e la forma greca mouvrouna avrebbe interferito con il sinonimo stouriovni per la terminazione in -ovni escludendo qualsiasi rapporto con muvraina designante la Muraena helena, come da alcuni era stato proposto. Che moróna si riferisca alle carni dello storione e non di altri pesci è una conclusione a cui sono giunti indipendentemente Georgacas, cit. e Messedaglia 1943-44, p. 125, quest’ultimo esclude le attribuzioni fatte da altre fonti come il Du Cange V (1885) 522 che identifica la morona con il tonno (conservato) : “Celum crudum wjmotavricoÀ edulium ex thynni piscis carne salita, quod Veneti Moronam appellant. Italis Morona thynnum sonat”, o il Mussafia 1873, 80 che parla di “delfino salato e fatto a fette”, riportando la citazione dal Dizionario veneziano e padovano settecentesco di Patriarchi. Non è facile poi stabilire se sia accostabile allo spagnolo marión, ant. maron (Acipenser Sturio) di cui si è occupato Corominas (Diccionario crìtico etimológico de la lengua castellana, III, p. 268), senza chiarire l’etimologia. Altre proposte interpretative ci vengono da Lavagnini 1993 nel Dizionario del greco moderno, dove mouvrouna è considerata derivazione semidotta dal lat. mediev. morrhua per gadus morrhua (merluzzo). In ogni caso l’assegnazione del termine ad un unico referente rimane problematica perché di frequente gli scambi di nomi rivelano somiglianze non tanto tra gli oggetti, quanto piuttosto tra le tecniche di conservazione (essicazione, salatura, salamoia, affumicatura). Basta per questo vedere il Rolland, XI, pp. 221-228 sotto la voce Morrhua vulgaris ed osservare sia i continuatori diretti in francese: morue, sia la lunga serie di sinonimi diversificati a seconda che il pesce sia fresco o secco e salato oppure sia giovane o maturo. La morue — 254 — viene chiamata anche nel francese antico bachalao, italiano merluzzo, spagnolo bacallao; la giovane morue fresca è nel francese ant. (1510 circa) moruhon (m.), secca e salata è lo stockfish (letteralmente pesce bastone, perché diventa dura come un bastone), corrispondente all’italiano ‘stoccafisso’. In ogni caso l’etimo del veneziano moróna rimane ancora sub judice. Riferimenti e breve bibliografia AA.VV., Dictionary of the Irish Language, versione ‘Compact’, Accademia Irlandese, Dublino 1990 [DIL]. AA.VV., Geiriadur Prifysgol Cymru, UWP, Cardiff 2003 [GPC]. Adler, A., (a c. di), Suidæ Lexicon, 4 voll., Lexicographi Græci 11-15, Teubner, Stuttgart 1971. Alessio, G., Ichtyonymata, Bollettino dell’Atlante Linguistico Mediterraneo (BALM) 8-9, 1966-67 [43-58]. Alessio, G., Lexicon Etymologicum, Napoli 1976. André, J., Notes de Lexicographie Botanique Grecque, Champion, Parigi 1958. André, J., Noms de Plantes et Noms d’Animaux en Latin, Latomus XX11, Fac. 4, 1963 [649-663]. André, J., Les Noms de Plantes dans la Rome Antique, Paris 1985. André, J. (a c. di), Apicius, De Re Coquinaria, “Les Belles Lettres”, Parigi 19872. 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An e murena fit lupus aut merula?”, IX. 65 [113] “Item in piscibus dissimilis muræna lupo, his soleæ, hæc murænæ et mustelæ...”; De Re Rustica III. 3. 9 “Non Philippus, cum ad Ummidium hospitem Casini deuertisset et ei e tuo flumine lupum piscem formosum adposuisset atque ille gustasset et expuisset, dixit: ‘peream, ni piscem putaui esse’?”.76 Ovidio, Alieutica 23-24 “Clausus rete lupus, quamuis inmitis et acer, / dimotis cauda submissus sidit harenis”, id. 39-42 “lupus acri concitus ira / discursu fertur uario fluctusque ferentes / prosequitur quassatque caput, dum uulnere sæuus / laxato cadat hamus ...”, id. 112 “rapidique lupi”; Columella VIII.16 (parla prima di allevamenti di mugil, squalus, muræna, lupus) “Inde Velinus, inde etiam Sabatinus, item Volsiniensis et Ciminius lupos auratosque procreauerunt, ac si qua sunt alia piscium genera dulcis aquæ tolerantia”.... “appositumque e uicino flumine lupum degustasset”,77 id. VIII.17 l’allevamento della spigola in vivaio: “greges inertis mugilis et rapacis lupi”, passo in cui Columella nomina uarios non i piccoli della trota (v. sotto) bensì i piccoli della spigola come ‘maculati’ anch’essi: “...tum etiam sine macula - nam sunt et uarii - lupos includamus”. Wellmann, M. (a c. di), Dioscorides, De Materia Medica I-V ecc. (3 voll.), Berlino 1958. Whatmough, J., The Dialects of Ancient Gaul, HUP, Cambridge Mass. 1970. — 264 — Questo è un chiarissimo riferimento all’allevamento. È chiaro il riferimento sia alla tolleranza, da parte della spigola, all’acqua dolce e non solo all’acqua salata, che all’allevamento della stessa. 76 77 — 265 — Plinio N.H. IX.XVI [24] “Prægelidam hiemem omnes sentiunt, sed maxime qui lapidem in capite habere existimantur, ut lupi, chromis, sciæna, pagri”, N.H. IX. XVII. 28 [61] “Postea præcipuam auctoritatem fuisse lupo et asellis Nepos Cornelius et Laberius poeta minorum tradidere. Luporum laudatissimi qui appellantur lanati a candore mollitiaque carnis. Asellorum duo genera, callari[æ] minores et bac[c]hi, qui non nisi in alto capiuntur, ideo prælati prioribus. At in lupis in amne capti præferuntur”, N.H. IX.LI [162] “Piscium lupus et trichias bis anno pariunt” [trichias = θριvσσα Alausa sp. ?], N.H. IX. LXII [185] “Mugil et lupus mutuo odio flagrant”, X.VIII “Simile quiddam lupi ad Mæotim paludem faciunt: nam nisi partem a piscantibus suam accipere, expansa eorum retia lacerant”, N.H. X.LXX in un elenco di pesci allevati “mugil, lupus, salpa, chromis...”. Addirittura in Naturalis Historia XXXII (“lupum rete circumdatum harenas arare cauda atque ita condi ...”) si fa riferimento ai passi dell’Alieutica di Ovidio.78 Cfr. infine Giovenale V.104, Apicio, De Re Coquinaria IV. 32 Patina de pisce lupo, Macrobio Sat. II.12 / III.16-7. I concetti di ‘cuore’1 John B. Trumper Appendice 2, ALA = PINNA nel greco. PtevrugaÀ = ale = pinne in Aristotele, Partes Anim. 695 b 1-5: “ou[te ga;r skevlh ou[te cei'raÀ ou[te ptevrugaÀ e[cousin ...”), mentre in contesti più ‘tecnici’ si tende ad usare il diminutivo pteruvgion pl. pteruvgia come in Aristotele, Partes Anim. 685 b 15-16 oppure 695 b 20-25 (20-21 “ejpei; d’e[naimav ejsti kata; th;n oujsivan, dia; me;n to; neustikav ei\nai pteruvgia e[cei, dia; de; to; mh; pezeuvein, oujk e[cei povdaÀ: ...” ecc.), come nel tardogreco Simeone Seth (Anonymus Medicus, De Alimentis, Ideler II. 259, 35 “plh;n tw'n pterigivwn ...”, parlando poi delle ali di ϕavssai, kivssai, kivclai, kovssiϕoi ecc.), mentre pochi autori seriori usano un altro derivato di ptevron ‘ala’ > ptevrwma ‘pinna’, come Eliano, Natura Anim. XVI. 12 (“... to; de; ptevrwma bragcivou ekatevrou phvcewn to; eu[roÀ kai; eJptav: ...” ecc.), con riflessi nel mediogreco (Esichio P. 4207/ 4208, 4211, Etym. Magnum 694, 17-27, cfr. la sottoparte “ H ptevrux hJ sa;rx h|À ejkfuvetai ta; pterav. Ptevrux de;, to; pteruvgion di’ ou| pevtontai” ecc., Sudas P. 3019 et sim.), Du Cange gr. pterouvga = pteruvga (Appendice) = pterovn, e che sopravvive nel greco mod. ptevrouga = ϕtevrouga ‘pinna’, con esiti anche nel calabro-greco. Esempi in EWUG sono ptevrux > bovese asterivga, aqterivga, diminutivo otrantino aϕterouvlli, bovese [a]sterouvlla, con esito ‘u’ > ‘ou’, come nella variante mediogreca pterouvga. 0. Controllando le voci per ‘cuore’ nei migliori dizionari delle maggiori lingue europee, ad es. ‘cuore’ nel Gran Battaglia, ‘cœur’ nel Gran Robert, ‘corazón’ nel Corominas, ‘heart’ nell’OED, ‘Herz’ nel Duden ecc., ci si rende conto che vi è a primo sguardo una bipartizione tra usi inequivocabilmente concreti, quali ‘organo cuore’ in senso anatomico, organi contigui al cuore (‘coratella’ come organi interni degli animali, di poco valore dal punto di vista dell’alimentazione umana, cfr. anche toscano ‘corata’, calabrese ‘curata’, usi per ‘petto’, ‘gabbia toracica’ ecc., persino per ‘stomaco’) ed oggetti a forma di cuore o con incise rappresentazioni convenzionali di tali oggetti (‘cuore’ come seme delle carte da gioco), ed usi che in genere vengono definiti ‘metaforici’. In questi ultimi si può facilmente distinguere tra ‘cuore’ come ‘centro, mezzo, punto mediano’, che sembrerebbe uso più concreto, anche se comprende usi non solo come (1) ‘centro, punto centrale’ (‘il cuore dell’inverno’, ‘the heart of winter’ = ‘the dead of winter’, the heart of town’, ‘the heart of old Edinburgh’, ‘le cœur de l’hiver, le cœur de la ville’, ecc.), (2) ‘midollo di pianta’, ma anche come (3) ‘punto vitale, essenza’ (‘il cuore del problema’ = ‘il nocciolo del problema’, ‘the heart of the matter’, ‘le cœur du problème’ = ‘le nœud du problème’), ed altri significati che partono da un concetto base di ‘locazione, sede’ di una proprietà X. In quest’ultimo senso troviamo ‘cuore’ come (a) sede dell’animo, dello spirito, sede dell’anima stessa e della vita, (b) sede degli affetti, dei sentimenti, degli umori e dei desideri [‘avere a cuore una cosa, una cosa sta a cuore’, ‘the dictates of one’s heart’], (c) sede della mente e dell’intelligenza (‘le 78 Comunque, non tutti i riferimenti classici al lupus sembrano indicare la spigola, cfr. Plinio, N.H. XXXI.xliv (i pesci usati per fare il garum) “Apuam nostri, aphyen Græci uocant, quoniam is pisciculus e pluuia nascatur. Foroiulienses piscem ex quo faciunt lupum appellant”: più che un riferimento alla spigola, pare un riferimento ai piccoli delle acciughe come nel gr. lukóstoma [> tarant. quèstpmp, con calco nel calabr. ionico vucch’i lupp]. Rappresenta forse un calco dal greco? 1 Non accludo alcun riferimento bibliografico, dato che tali riferimenti sarebbero troppo numerosi e pesanti per un breve contributo esemplificativo come l’attuale. — 266 — — 267 — cœur me l’a dit’), perciò della stessa memoria, donde, etimologicamente, ‘ricordarsi, ricordare, scordare’ (‘apprendre par cœur’, ‘to learn by heart’), ed anche della coscienza (‘my heart tells me not to do it’), (d) sede di proprietà morali e militari (cuore >/ = coraggio, cœur >/ = courage, ‘hearts of oak’ ecc.). Dal punto di vista moderno, i concetti di ‘memoria’ e ‘coscienza’ sembrano quelli più lontani dagli altri, anzi destinati ad eclissarsi nel linguaggio attuale, anche se, come vedremo, tale concetto risulta centrale dal punto di vista storico. Più restrittivo semanticamente, dal punto di vista di questa larga gamma estensiva di significati, risulta il tedesco ‘Herz’, nel quale si registrano tutti gli usi concreti (1. ‘Hohlorgan’, 2. ‘äußere Herzgegend’ [petto ecc.], 3. ‘Kartenspiel’, nonché 4. ‘Innerste, Inwendigste einer Sach’), ma non tutti i cosiddetti usi metaforici estesi, cioè si verificano i casi (a) [‘Herz = Seele’], (b) [‘Herz = Zentrum des Gefühls’ ecc.], ma solo in piccola parte (c) e (d), in genere senza l’estensione presente nelle altre lingue discusse. Volendo schematizzare un tale insieme di significati, potremmo ‘ordinarli’ nella forma di un albero relazionale come in figura 1, senza, ovviamente, le implicazioni gerarchiche di un dendrogramma lulliano (similalgebrico), così care a Leibnitz alla nascita delle scienze in Europa, ma ricordandoci piuttosto che hierarchia est gradus, id est relatio (Tommaso Aquino). Quando spostiamo indietro nel tempo questa configurazione notiamo essenzialmente due cose: (1) i problemi posti dalla possibile proiezione storica indo-europea, (2) un rafforzamento semantico del significato intermedio come ‘punto centrale’ sia all’interno delle estensioni ‘concrete’ di cuore ‘organo’, che nelle estensioni dette metaforiche del significato di ‘cuore’ come ‘mente’, che già pone il cuore al ‘centro’ del lessico della riflessione e del pensiero, con ripercussioni anche mediche, almeno nella storia pre-moderna della medicina. Alcune lingue indo-europee sviluppano il significato di ‘punto centrale’ a scapito di quello di ‘cuore’ organo, per cui viene da riflettere che forse il significato originale di una possibile base indoeuropea *K’ER- (Pokorny, Indogermanisches Etymologisches Wörterbuch I. 579 sgg., lo registra come *K’ERED-, *KERD-, *K’ÂRD-, *K’RED- ‘cuore’) non si riferisce al cuore anatomico bensì ad un virtuale ‘punto centrale, nucleo vitale’, in primis del corpo umano, ma, comunque, di qualsiasi essere vivente sia animale che vegetale, poi per estensione al ‘centro’ virtuale di qualsiasi oggetto o conformazione fisica o geofisica. Non siamo lontani dal continuum degli esseri che suppone un legame intimo ‘uomo’ – ‘albero’, che non è affatto metafora. Per quanto riguarda il significato primitivo, tale ipotesi sembra confermata dalle lingue slave in cui dalla base *K’RD- (< *K’ERD-) si generano direttamente le voci per ‘centro, mezzo’, quali russo sredav, dialettale seredav, oppure sloveno sréda ecc. ‘centro; mezzo’, mentre, come dice Scholz, in Slavische Etymologie, la parola per ‘cuore’ si costruisce storicamente tramite la ‘diminutivizzazione’ della base, cioè da una forma ricostruita *K’RD-KO- si giunge all’antico slavo ecclesiastico/ antico russo s;rdce, donde russo serdce, bielorusso/ ucraino serce, bulgaro s;rce, serbo e macedone srce, sloveno srcé, polacco serce ecc. (Scholz p. 18 “Diminutiv-suffix –ko von einem urslav. *s;rd; auf das akslv. milosr;d; “barmherzig”...” ecc.). Il cuore è un ‘qualcosa’ che sta al centro vitale, può essere lo stesso ‘centro vitale’. Si ha una simile situazione nelle lingue celtiche, in cui, anche se il significato dell’ant. irl. cride, mod. croidhe, è sia ‘cuore’ che ‘centro’, nel celtico britannico sia il cimrico del Galles che il bretone danno come esiti di una forma primaria indo-europea K’[E]RD-YOrispettivamente craidd e kreiz ‘centro; essenza; midollo’ ecc. e non ‘cuore’. Per ‘cuore’ come organo anatomico queste ultime lingue presentano calon[n]/ kalounn, che anziché derivare dal latino cal[i]dUmen (cfr. ant. franc. chaudun, ted. Kaldaune), come voleva Pedersen, Vergleichende Keltische Grammatik 1. 147, ipotesi ripetuta in Campanile, Profilo Etimologico del Cornico Antico, voce colon, glossa di cor (anche se di difficilissima derivazione fonologica: 1. -l’d- darebbe –llt- > -ll-, come cal(i)dAriu(m) > callawr > callor, 2. –Umen dell’indo-europeo dà ant. –uv > -u, ed anche in termini di prestiti latini sarebbe difficile ipotizzare una deriva –Umen > w -onn), richiede formalmente una base celtica *kalwond-/ kolwond-, ergo connessa con il cimr. coludd ‘viscere’ e colwedd ‘petto’ (anche ‘cuore’), tutte da riconnettere forse con la base proposta in Pokorny op. cit. 1. 435 per ‘viscere; intestini’, anche se incrociata con altro elemento (*ghel[-u]-ond- x *ker- ?, oppure *galonn x craidd > calonn). Coludd è voce comunissima nei testi medioevali (nei Gogynfeirdd da Cynddelw in poi, nei trattati di medicina quali il Meddygon Myddfai ecc.), mentre colwedd ‘cuore’ è ormai parola rara già nei testi del 1100 e del Duecento, cfr. Canu Aneirin 221-3 “Eveis y win a med a mordei/ Can yueis disgynneis rann fin. Fawt ut/ nyt didrachywed colwed drut” (Bevvi il suo vino, il suo idromele e il suo (palazzo?)./ Perché ho bevuto sono disceso oltre confine. (È) il destino di un signore./ Il — 268 — — 269 — ORGANO ANATOMICO ORGANO [CONCRETO] organo anatomico organi contigui a forma di organo PUNTO CENTRALE [CONCRETO, ±ASTRATTO] centro, punto mediano punto vitale midollo (pianta) SEDE, LOCAZIONE [ASTRATTO] sede di animo, anima, vita sede di affetti, sentimenti sede di proprietà morali e militari mente (a) (b) (c) intelligenza, coscienza, memoria Fig. 1 cuore di un temerario non fa del male). Commentatori hanno sempre associato queste due voci con il gr. colavdeÀ, covlikeÀ (P. Chantraine, Dictionnaire Étymologique de la Langue Grecque p. 1267 < IE *ghol-nd-) e con congeneri slavi (russo 'eludok: T. Wade, Russian Etymological Dictionary p. 57 lo riporta alla stessa base del gr. colavdeÀ, pur menzionando che alcuni lo riconducono anche alla voce slava per ‘ghianda’, cfr. russo 'ëlud;, come prima A. G. Preobra>enskij, ~timologiheskij Slovar; Russkogo Qzyka, 1. 226-7 opponeva l’ipotesi di Fick e d’altri sulla stessa genesi del greco colavdeÀ a quella storica di Meillet ad un’origine comune con la voce slava per ghianda, 'ëlud;). Anche questa deriva, con continuo scambio tra ‘cuore’, ‘stomaco’, ‘intestino’ e ‘centro’ (i dizionari dell’estinto cornico davano sia colon pl. colonnow ‘cuore’ ed altri significati affini, che colon pl. colonyow ‘viscere’, che sono poi la stessa voce, cfr. J. Morton Nance, Cornish Dictionary p. 17), mostra la probabilità di uno sviluppo semantico ‘centro vitale’ > cuore, stomaco, intestino, cioè i principali organi del ‘tronco’ umano, ‘centro’ del corpo. Nelle lingue indo-iraniche la situazione è altrettanto complicata, perché, mentre il sanscrito hrvd- ed avest. zprpd- ‘cuore’ mostrano l’interferenza di qualche altra forma che inizia con consonante sonora, i verbi significanti ‘credere, fidarsi’ ecc. presentano un più regolare esito da *K’RED-, cioè .rad-dhA e srAð- rispettivamente. Vi è stata una lunga discussione sulla corretta derivazione di queste voci, come anche del lat. crEd2re (it. credere, fran. croire), celtico *kred-d- > ant. irl. cretim, cimr. credu ecc., insieme al sanscrito .rad-dhA-, ma il punto di vista scientifico più informato dell’ultimo decennio insiste su una qualche relazione tra ‘cuore’ e questi verbi per ‘pensare’, ‘credere’, ‘fidarsi’. Tutto quanto detto mette in evidenza: (1) un’accezione storico-semantica primaria: ‘centro vitale’ ed una secondaria: ‘cuore’, connessa con ‘centro’ di riflessione e di pensiero umano, cioè più come ‘centro pensante’ che come ‘pompa vitale del sangue’, ‘motore della circolazione sanguigna’; (2) la maggiore correttezza di un’ ipotizzabile base *K’ER-. Questo secondo punto emerge sia dal greco arcaico khÖr, che ha alcuni dei sensi di kardiva, che dall’ittita KI-IR (genitivo KAR-DI-YAŠ) ‘cuore’, K(A)-RAT- ‘centro; punto centrale, interno; interiore’ [K(A)RATAN DAI‘porre all’interno’ ecc.]. Un’ipotesi simile era stata raffinata da Gamkrelidze e Ivanov nel loro famoso Indo-European and Indo-Europeans, che trattava (I. 160 sgg.) -D- come formante di basi di genere neutro per oggetti (“a root extension for neuter stems”). In altre parole, la generazione formale della nostra base per ‘centro vitale’ sarebbe come in fig. 2. — 270 — *K’ER- ‘centro vitale’ *K’ÂR# Greco 1; Baltico 1; Ittita 1 *K’ER-D- ‘oggetto centro’ *K’RD- *K’RD-KOSlavo; Baltico 2 *K’RD-YOCeltico *K’ERDLingue germaniche *K’RDGreco 2; Latino; Ittita 2; Indo-Iranico Fig. 2 Se la visione della deriva storica che sottostà al primo punto è essenzialmente corretta, allora il nucleo storico semantico di questa base, in termini di un modello metonimico, può esser rappresentato schematicamente come nella figura 3. CENTRO SEDE O LOCAZIONE ORGANO - 1 Fig. 3 1. Il significato di ‘punto centrale d’un corpo’, ‘punto vitale’, è evidenziato molto bene negli scritti greci di medicina, in cui le malattie che riguardano l’organo kardiva sono essenzialmente bruciore e mal di stomaco, nausea e vomito, sofferenza degli intestini con diarrea, talvolta anoressia, quasi mai riguardano il cuore da solo, ma soltanto come parte di un complesso fisico che comprende cuore, stomaco, pancia, intestini. Ciò è rilevabile da uno sguardo complessivo agli scritti di Galeno (2° sec. d.C.), in particolare i significati deducibili dai contesti di voci quali kardiakovÀ , kardialgiva, kardialgevw (= raro kardiavw degli antichi, ad es. nell’Alexipharmaca di Nicandro), kardiwgmovÀ , verbo derivato kardiwvttein = kardiwvssein, con particolare attenzione — 271 — ai contesti relativi nell’edizione di Kühn dell’Omnia Opera di Galeno (20 voll.). kardiakovÀ viene usato per indicare uno sofferente di bruciore di stomaco, cattiva digestione, nausea, dispepsia et sim., e per tali malattie o sofferenze in 9 casi (7.601,15; 7.602,8; 7.607,8; 8.302,11; 8.338,15; 8.368,8; 8.480,15; 9.178,6-7; 11.605,3-4), ambiguamente per malattie che riguardano il complesso di organi cuore + stomaco + pancia + intestini in 7 casi (7.137, 9; 8.473,3; 9.19,4-5; 9.19,10; 9.20,2; 14.273,15; 17/II.541,2), soltanto in due casi si riferisce inequivocabilmente a sofferenti di malattia cardiaca (8.304,7; 15.775,10), vale a dire nell’11% dei casi registrati. kardialgiva si riferisce a problemi di stomaco, nausea e digestione in 12 casi (3.356,14 sgg.; 7.128,1-2; 7.135,18-136,1; 8.343,8; 9.577,14; 9.614,5; 13.121,12-16; 17/I.745,13; 17/I.859,1; 17/II.745,13; 18/I.285,17; 18/II.286,10 sgg.), a male degli intestini con diarrea in 4 casi (16.792,12; 16.793,16; 16.794,4; 16.801,2), ambiguamente a qualcosa che afflige cuore, stomaco, pancia, intestini ecc. insieme, senza potere individuare un organo specifico, ben 4 volte (7.58,4; 7.271, 2-5; 10.82, 8; 16.743, 5), mai ad un problema medico che riguarda unicamente il cuore, mentre il verbo associato, kardialgevw, concerne una patologia dello stomaco e della digestione in 3 casi (6.604, 10: qui esplicitamente l’organo che soffre è indicato come to; stovma thÖÀ gastro;À, o} dh; kai; kardivan ojnomavzonsi, con kardiva chiosata ‘bocca dello stomaco’; 17/I.272, 11-12; 17/II.746, 1), degli intestini [con o senza diarrea] in 4 (10.544, 10; 15.559, 3; 15.566, 5; 16.793, 8), si riferisce ambiguamente a dolori che concernono tutti gli organi di cui sopra, in modo complessivo, 2 volte (18/II.299, 10; 18/II.310, 9), mai a crisi unicamente cardiache. Con kardiwgmovÀ si intende malattia dello stomaco, con nausea, vomito ed eccesso di bile in ben 18 casi (2.185,4; 8.21, 6-7; 8.204, 5; 9.759, 5-6; 9.764, 9; 11.157, 2; 15.905,14; 16.572, 6; 16.572, 10; 17/I.155, 4; 17/I. 155, 8; 17/II.396, 9; 17/II.676, 14; 17/II.745, 11 sgg.; 18/II.284, 8; 18/II.286, 5; 18/II.286, 10 sgg.; 18/II.291, 11), 2 casi di mal di pancia, dolori intestinali (17/II.746, 2-3; 17/II.746, 9), un caso di anoressia (17/II.677,1), due casi ambigui in cui è impossibile individuare un unico particolare organo che soffre (9.753, 14; 9.754, 13-14), mai problemi cardiaci da soli. Negli Scholia in Hippocratem et Galenum (ed. Diez) Stefano di Atene già commentava kardiwgmovÀ come malattia della digestione, della bile e della bocca dello stomaco (1.338, 19 kardiwgmo;À dev estin hJ touÖ stovmatoÀ thÖÀ gastro;À ojduvnh te kai; dhÖxiÀ. kardi;an ga;r ejkavloun oiJ palaioi; to; stovma thÖÀ gastro;À, wJÀ a]n eijÀ sumpavqeian a[gon th;n kardivan), ma, conscio a suoi tempi del significato molto ‘locale’ come organo cardiaco, egli esplica il senso come un rapporto per sympathiam. Il relativo verbo kardiwvttein o kardiwvssein si riferisce esclusivamente a mal di stomaco, a nausea, a vomito e ad effetti simili (6.604, 14-15; 13.121, 15-16; 13.171, 9-12; 17/II.745, 11 in cui si esplicita il significato di kardiva come ‘bocca dello stomaco’, cioè to; stovma thÖÀ gastro;À oiJ palaioiÖ kardivan wjnovmazon; 17.745, 14). In un periodo molto precedente a Galeno, Nicandro aveva già fatto l’equiparazione kardiva = stovma thÖÀ gastrovÀ (Alexipharmaca 20-23). Non solo Galeno ma anche altri autori medici del mondo antico presentavano in un quadro completo il concetto base di ‘centro vitale’ che poteva rappresentare di volta in volta sia i vari organi quali cuore, stomaco, pancia, interiora, che l’insieme di tutti questi organi, e che come ‘centro vitale’ poteva indicare anche la ‘mente’ umana, ergo il centro dell’intelligenza e dei sensi. Troviamo questi stessi presupposti, per quanto riguarda il senso medico di kardiakovÀ, in Plutarco, Quæstiones Conviviales III. 5 (il vino sta al brucior di stomaco come il fuoco alla neve), Dioscoride, De Materia Medica 1.112.3, 2.132.2, 4.37, Euporista 2.28.1, Oribasio, Ecloga 37 (indigestione, dispepsia, anoressia), fino agli autori anche tardi quali la Geoponica di Cassiano Basso (12.28.2), Paolo di Niceta, De Re Medica 56, 57.18, 67.19, Vezio Valente, Anthologiæ 112.32, 127.10.31, gli Hippiatrica Græca (Berolinensia 29, 33, 129.34), come anche l’associazione tra kardiva e l’apoplessia, cioè la perdita dei sensi e della ‘mente’, che troviamo in Oribasio, Collectiones 8.24.13 (ejp’ ajpoplhvktwn kardiakwn). Simili considerazioni vanno fatte per ricorrenze nelle opere mediche di kardiwgmovÀ, ad es. Dioscoride, De Materia Medica 1.7.4, Oribasio, Collectiones 7.26.153, ecc. In latino i derivati quali cor, cordis e successivi derivati non hanno nulla a che vedere con il concetto del ‘cuore’ come organo anatomico, bensì con ‘cuore’ come sede della mente; tal è il senso della famosa citazione enniana tria corda habere [possedere tre menti, vivere tre culture distinte], Framm. Varia 8-9 (< Gellio, Noctes Atticæ XVII. 17). Ciò spiega il senso di cordatus ‘assennato, saggio, sensato’ che troviamo già dai tempi di Ennio (cordatus homo catus, un uomo sensato ed acuto, Framm. Annali 326), senso usuale della voce latina, che reperiamo poi in tutti gli autori latini seriori. Più tardi, nel latino cristiano, molti secoli dopo, incontriamo derivati quali cordax = cordatus in Claudiano Mamerto, De statu animæ: Cordax quippe iudex rite uictum censet, quod pro sui imbecillitate par uictis est, come avverbio derivato cordacitus nelle lettere di Sidonio Apollinare (in modo sensato). Come termine medico reperiamo soltanto un calco formale preciso del greco kardiakovÀ in cardiacus, che indicava malattia dello stomaco, della digestione, con effetti quali nausea, vomito ecc., talvolta come malattia intestinale con diarrea, cfr. al riguardo Varrone, De Vita Populi Romani 4. 147, Orazio, Sermones II. 3, Seneca, Epistolæ ad Lucilium II. 11. 3, Giovenale, Saturæ 1.5. 32 (con scholia) e dovunque nella Naturalis Historia di Plinio ecc. È interessante notare in quest’ultimo autore che vi sono 7 ricorrenze che si riferiscono ad ammalati di dispepsia et sim., 4 che in modo ambiguo indicano malattie che potrebbero coinvolgere cuore, stomaco ed altro, cioè un insieme di organi centrali. Ovviamente la voce si reperisce in autori medici con lo stesso significato, ad es. Celso, De Medicina 3.19.1, Vegezio, De Mulomedicina 3.4: Cardiacus autem fit, quoties sanguinis illa corruptio stomachi uel thoracis impleuerit uenas, cerebrumque percusserit, cor etiam pestiferi humoris labe constrinxerit, Dioscoride Latino 2.116, 4.34 ecc. Nel quinto secolo dopo Cristo, comunque, Cassio Felice, De Medicina 63, cominciava forse a distinguere una — 272 — — 273 — malattia del cuore vero e proprio (Est autem cardiaca passio distensio membranæ cordis), idea da lui non approfondita. Il tema sembrerebbe sviluppato poi da Celio Aureliano, nello stesso periodo, nella sua opera De acutis morbis, 2. 34 in cui discute il senso di ‘cuore’ presso gli antichi come (a) cuore organo centrale, (b) ‘membrana’ intorno al cuore, forse lo stesso concetto di gabbia toracica, (c) estensione fino alle viscere (alii diaphragma, hoc est membranam, quæ a uisceribus discernit intestina: Alii stomachum: alii pulmonem, atque iecur), concludendo che forse si dovrebbe usare cardiacus soltanto per ‘sofferente di cardiopatia’ (ideo cardiaca dicatur passio, quòd ex cordis ueniat causa, ecc.). Nel 2.35 si torna alla discussione delle malattie gastriche, sempre con il senso più tradizionale di cardiacus. Nella continuazione di questo stesso capitolo sembra apparire, comunque, la sensazione ‘clinica’ del medico che dolori epigastrici e gastrici non si possono distinguere da dolori riferiti a tutta l’area perigastrica ed anche a vere e proprie patologie cardiologiche quando dice Vocatur autem secundum aliquos quædam passio etiam cardimona, quam Græci Cardiogmon uocauerunt. Hanc necessario sequitur dolor oris uentris, quem plurimi idiotæ cordis dolorem uocauerunt. Generaliter autem cardiaca passio est solutionis, atque una acutarum et uehementium passionum, sed aliquando hinc miscentur quædam stricturæ accidentia, ut tensio, uel tumor partium mediarum, quæ non speciali concursu, ac significatione sunt cardiacis ascribendi. Qui cardimona sembra la sua resa individuale del greco tecnico kardiwgmovÀ. È possibile che ci troviamo agli albori di una nuova sensibilità riguardo al vero ruolo del cuore come organo a sé e non più come generico ‘centro’ dell’essere Uomo. Comunque, continuatori volgari neolatini di cardiacus (<kardiakovÀ) non sono registrati nel Romanisches Etymologisches Wörterbuch di W. Meyer-Lübke, soltanto i successori dotti della medicina post-medioevale che conosciamo (cardiaco, cardiologia, cardiologico, tutta la sequenza che da kardiva deriva), mentre G. Rohlfs, nel suo Etymologisches Wörterbuch der unteritalienischen Gräzität, credeva di trovare nel calabrese cardacìa (m’ha ppigliata a cardacìa, tìegnu na cardacìa ecc., per malumore, indisposizione) un derivato siffatto. Ritengo poco probabile questa derivazione, perché una sequenza latina -di-, -de- seguita da vocale dovrebbe, a rigor di processo fonologico, darci un’affricata di tipo -z- o, in calabrese, addirittura più normalmente -j-, come in hordeum > calabrese ùoriju (più meridionalmente òrgiu). Sembra più plausibile che in calabrese si abbia a che fare con un esito di quell’aggettivo cordax, cordAcem, che troviamo nel latino cristiano (= cordAtus), corredato ora dai significati della parola medica tecnica latina card31cus, che formalmente non possiede eredi romanzi, e rafforzato dalla voce kardialgiva dei medici greci. In altre parole, si ipotizza una forma base *cordAcIa < cordax, -Acem, per spiegare l’esito romanzo di cui sopra. In fondo, è da notare che anche i derivati romanzi del latino c4r danno, come il calabrese còri (J. B. Trumper, Vocabolario Calabro 1. 427 sgg.), una gamma di — 274 — significati che abbracciano concetti quali: 1. cuore come organo, 2. viscere, intestini, 3. coratella, 4. affetto, 5. animo, desiderio, 6. centro, 7. midollo di piante varie (generale), mentre in altri tipi di romanzo questo significato di ‘parte centrale’ o ‘midollo’ delle piante viene espresso da derivati del latino anima, ad es. il veneto centrale armèla = ànema (= mególa: cfr. J.B. Trumper, M.T. Vigolo, Il Veneto Centrale, Problemi di classificazione dialettale e di fitonimia, p. 77). Comunque, la ‘parte centrale’ di altre piante (brassicacee, per esempio) si chiama córe secondo lo stesso principio di prima. Ciò ci riporta alla definizione reperibile nel Medio Evo nel Du Cange, Glossarium Mediæ et Infimæ Latinitatis, vol. 2, col. 558, “Cor, Medium cujusvis rei ......”. Però, la voce va riportata ancora più indietro, all’antichità greco-latina, fino agli allievi stessi di Aristotele, cioè alla Historia Plantarum di Teofrasto, quando dice (HP 1. 2. 5-6) “ #Alla d’ h[dh e{tera twÖn ejntovÀ, a} kaq’ eJanta; mevn ejstin ajnwvnuma, dia; de; th;n oJmoiovthta ajpeikavzetai toiÖÀ twÖn zwvwn morivoiÀ. e[consi ga;r w{sper i\naÀ: ………..e[ti de; flevbaÀ. ……….e[ti xuvlon kai; savrx. ……….mhvtra de; to; metaxu; touÖ xuvlou, trivton ajpo; touÖ floiouÖ oi|on ejn toiÖÀ ojstoiÖÀ muelovÀ. kavlouÖsi dev tineÀ touÖto kardivan, oiJ d’ ejnteriwvnhn: e[nioi de; to; ejnto;À thÖÀ mhvtraÀ aujthÖÀ kardivan, oiJ de; muelovn ” (Ma vi sono altre [caratteristiche] interne, che di loro natura sono senza nomi, per la somiglianza che possiedono con le parti di animali. Perché hanno come fibre ………. E di nuovo hanno vene ….. Di nuovo hanno legno e carne ………. La parte centrale è in mezzo al legno, terza secondo l’ordine dalla corteccia, che è [come sta] il midollo alle ossa. Ma alcuni chiamano questa il ‘cuore’, la parte più interna, mentre alcuni ancora chiamano ‘cuore’ ciò che è all’interno di questa parte centrale, [distinguendo] loro il midollo [da questo]”). Sarebbe pure da notare, insieme all’equivalenza parziale teofrastiana mhvtra (parte centrale, < mhvthr ‘madre’, ‘matrice’, ‘grembo’, ‘utero’) = kardiva, simile estensione fatta per la parte riproduttiva delle cucurbitacee nei dialetti veneti, cioè mare = marara = marìgola, rispetto alla polpa interna (pantasso ecc.: Trumper, Vigolo, op. cit. p. 115). Tutto ciò avviene non per analogiam, come dicono molti commentatori, bensì come rapporti usuali all’interno del continuum uomo - animale - pianta, la cui sottoparte è un microcomplesso Uomo – Albero (Pianta), evidente anche dall’etimologia stessa del latino tr5ncus (Meyer-Lübke op. cit., REW 8956), vale a dire dalla base indo-europea (Pokorny, op. cit. 1. 214 sgg.) *D[E]RU-[I]N-[I]K-OS, esito morfologicamente parallelo all’aggettivo greco druvinoÀ (< *D[E]RU-IN-OS), cosa non intuita nel Lateinisches Etymologisches Wörterbuch di A. Walde e J. B. Hofmann (2. 710-11). Il ‘tronco’ umano è dunque riflesso dell’Uomo-Albero. Il continuum può, comunque, funzionare in ambedue le direzioni, come dimostra l’attuale calabrese pede = àrvuru, àrvulu (ped’ i cerasa, ped’i piru, ped’i milu ecc. nel calabrese settentrionale), che si riscontra poi nel calabro-greco medioevale del famoso Inventario del Metropolita di Reggio Calabria (Brevbion, del ca. 950-1000), in cui il diminutivo podivon di pouÖÀ rende il concetto di ‘arbusto’ o ‘vite’. — 275 —